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Friday, May 28, 2010

Pausa di primavera

Me ne vado in giro per "modelli scandinavi"... Ci si ritrova qui tra qualche giorno.

Thursday, May 27, 2010

Colpe di sistema

In un commento apparso sul sito Libertiamo, con molta onestà intellettuale Giuliano Cazzola, deputato del Pdl e vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera, riconosce che, ad un esame «attento e disincantato», il «principale limite» della manovra è «una prudenza forse eccessiva». Gli altri Paesi europei, osserva, preparano «manovre più pesanti di parecchi miliardi e di più lunga prospettiva della nostra, nonostante i loro saldi di finanza pubblica siano assai migliori di quelli italiani. Di questo argomento - aggiunge Cazzola - ci serviamo per contrastare le accuse che ci rivolge l'opposizione, sapendo che essa non ci chiederà mai una maggiore severità, perché, ancora una volta, preferirà dare libero sfogo alla subcultura della protesta piuttosto che alimentare i primi vagiti di una prassi di governo».

Ma anche Cazzola ravvisa un problema di mancanza di ambizioni nella manovra e «in coscienza» pone al governo e alla maggioranza questa domanda: «Perché invece di puntare, in un tempo più lungo al pareggio di bilancio, ci accontentiamo di un deficit appena sotto il 3% tra due anni? Il fatto - è la sua risposta - è che noi siamo il Paese delle mezze misure. Non perché non sappiamo agire meglio, ma perché non possiamo fare altro: il sistema Italia non ce lo consente. Quando un governo - è la sua riflessione - tenta di risanare la situazione (soprattutto se è un esecutivo di centrodestra) deve mettere in conto un'ostilità ancor più determinata e preconcetta di quella di cui è normalmente oggetto. Gli interessi colpiti si rivoltano come ricci porcospini. E trovano ovunque sostenitori».

Cazzola cita l'esempio dei tagli ai trasferimenti agli enti locali, sottolineando come nessuno ricordi che «la spesa locale è aumentata dell'80% in un decennio, a fronte di un incremento del 38% di quella centrale», e che «quando si parla di sprechi ci si riferisce di solito a quelli delle amministrazioni statali, come se i Comuni, le Province e le Regioni fossero dei preclari esempi di civiche virtù e dei grandi fornitori di qualificati servizi ai cittadini». Si poteva tagliare di più, quindi, intervenire più in profondità nella struttura della spesa, ma il «sistema Italia» non lo avrebbe consentito. Giulio Tremonti «ha fatto il possibile» e «lo ha fatto nel migliore dei modi. Non è colpa del ministro dell'Economia (Dio ce lo conservi!) - conclude Cazzola - se alla classe dirigente del Paese manca una "visione" condivisa (dubito anche dell'esistenza di più "visioni") del futuro e del possibile ruolo dell'Italia».

E' condivisibile l'analisi di Cazzola, ma a chi è al governo e ha avuto i voti della maggioranza dei cittadini spetta il dovere di provarci, anche contro "il sistema", ha il dovere di continuare a coltivare ambizioni alte come l'abbattimento, e non solo il contenimento, del debito, e il taglio delle tasse, oltre al premio di consolazione di non aumentarle. Siamo ad un tema che più volte abbiamo discusso su questo blog: il centrodestra si accontenta di gestire l'esistente senza dissanguare ancor di più il Paese, guida la macchina Italia più prudentemente, mentre i governi di centrosinistra accelerano. Ma in fondo alla strada c'è il declino e nessuno riesce a invertire la rotta.

Un altro commento, quello di Oscar Giannino di ieri sera, prende di mira le «classi dirigenti», avvertendo che sono tali «non sono solo quelle politiche», ma anche «accademia e cultura, sindacato e professioni, banche e imprese, alta amministrazione e magistrati». Con le importanti eccezioni di Confindustria, banche, Cisl e Uil, nota una «inconsapevolezza diffusa» del fatto che «da qualche mese siamo entrati in un nuovo capitolo della grande crisi che ci accompagna dall'estate 2007», quello della «sostenibilità dei debiti pubblici», che ha «indotto Berlusconi e Tremonti a metter mano alla manovra correttiva».

Negli ultimi tre mesi i mercati hanno segnalato con forza che la prospettiva degli attuali debiti pubblici nei Paesi industrializzati è «insostenibile». «E' la consapevolezza di questo mondo nuovo - osserva Giannino - che scopre il bluff di sistemi sociali minati dal troppo debito accollato anche per via della crisi alle spalle delle prossime generazioni, ciò che molti stentano ancora a capire, continuando a ragionare come se tutto il mondo avanzato continuasse a vivere nel mondo di ieri. E' questa l'unica, grande, nuova e profonda consapevolezza che tutte le classi dirigenti dovrebbero condividere. Ed è esclusivamente alla luce di tale consapevolezza, che vanno commisurati i tre criteri fondamentali della manovra correttiva».

Riguardo il primo, Giannino nota che i tagli al deficit e alla spesa sono minori di quelli di Francia e Spagna e più o meno equivalenti a quelli tedeschi (anche se non siamo la Germania), ma sottolinea che le categorie che protestano ce l'hanno con i tagli che le riguardano, mentre «una classe dirigente consapevole» dovrebbe protestare contro i rinvii degli aumenti ai dipendenti pubblici o la sospensione delle prossime finestre previdenziali, misure che «non mettono ancora mano strutturalmente alle determinanti delle maggiori voci di spesa pubblica, quella per il welfare al 24% del Pil, quella previdenziale al 16%, quella in retribuzioni pubbliche all'11%». E anche lui come Cazzola ricorda che «nel decennio alle nostre spalle la spesa corrente centrale è cresciuta del 38%, quella locale di quasi l'80%», per cui le resistenze dei politici locali appaiono «desolanti».

Sul secondo criterio, quello delle entrate, Giannino giudica le misure anti-evasione «durissime» (con l'obiettivo di passare dagli oltre 9 miliardi concretamente recuperati nel 2009 - rispetto ai 6,4 di due anni prima sotto il centrosinistra - a 11 miliardi nel 2011, a 24 nel 2012), osserva che tra i 100 euro (Prodi-Visco) e i 5 mila euro (Berlusconi-Tremonti) come soglia per la tracciabilità c'è una bella differenza, ma obietta giustamente che senza meno tasse non è certo un bel vedere e che la tassa anti-Caltagirone è un «orrore». Ma soprattutto, Giannino ricorda qualcosa cui ci associamo, e cioè che «maggioranza e governo hanno un contratto con gli italiani: le tasse su lavoro e impresa devono scendere, e di parecchio, di qui a tre anni. Ed è per questo che occorre tagliare tanta altra spesa pubblica in più». Infine, il terzo criterio, la «credibilità». Le misure, avverte Giannino, per convincere i mercati dovranno essere attuate senza tentennamenti: «Siamo solo all'inizio di una lunga revisione del modello europeo, l'area del mondo che per via del suo Stato cresce meno».

Wednesday, May 26, 2010

Sano rigore, ma senza ambizioni

Molte cose buone nella manovra correttiva varata ieri - alcune sia pure simboliche o poco più (come i tagli agli emolumenti di politici, partiti, magistrati e supermanager), ma autentiche sconosciute nel nostro Paese - e due critiche sostanziali. La prima, la mancanza di coraggio nei tagli. Nella situazione in cui è il nostro Paese, qualsiasi taglio alla spesa pubblica, a prescindere, è cosa buona e giusta, e spesso molto "costosa" politicamente. Tanti piccoli tagli (stretta su enti locali, ministeri, pubblico impiego, invalidità, farmaci, e a grande richiesta soppressione di enti inutili e 10 mini-province) che producono nell'insieme un taglio significativo del deficit (1,6% in due anni), ma non risolutivo. Nel senso che un governo di centrodestra dovrebbe nutrire l'ambizione dell'abbattimento del debito pubblico, almeno di programmarlo, e non del mero contenimento. Per questo, serve intervenire in profondità nei pilastri della spesa, riformandoli radicalmente. Mi riferisco a sanità e pensioni, apparati dello Stato, privatizzazioni.

La riforma Brunetta, per esempio, come abbiamo già osservato, è finalizzata a far funzionare meglio le amministrazioni pubbliche, ed è certo importante e auspicabile introdurre un buon meccanismo di incentivi-disincentivi, ma non mira al dimagrimento dell'apparato statale in termini quantitativi e qualitativi. E' una responsabile impostazione "statalista", di chi crede nei servizi statali e cerca di farli funzionare. All'Italia servirebbe invece, in una qualche misura, uno "smantellamento".

Adesso possiamo ripetere quanto ci apparve chiaro fin dall'inizio: non aver approfittato della crisi per fare le riforme più "costose" politicamente, sostenendo che non si potevano fare proprio a causa della crisi, è stato un errore. Perché ora la crisi del debito ci ha presi in contropiede e nell'urgenza non si sono potute mettere in campo, ammesso che avessero voluto, riforme strutturali che non erano state preparate. Ma nel valutare con occhio critico la manovra tremontiana bisogna sempre tener conto delle direzioni in cui hanno spinto e spingono le forze politiche, interne alla stessa maggioranza o dell'opposizione. Insomma, le alternative politiche concrete (non quelle auspicabili), hic et nunc, a Tremonti. Guardiamoci in faccia: tranne qualche volenteroso blog liberale, chi davvero vuole tagli alla spesa più coraggiosi, e traumatici, di quelli di Tremonti? E quanti, invece, tra i suoi critici, sarebbero pronti a gridare alla "macelleria sociale"?

Al ministro va riconosciuto infatti il merito di aver resistito alle tentazioni interne e alle pressioni esterne, ieri di quanti avrebbero voluto che si rispondesse alla crisi con cospicue misure di stimolo, che gli altri Paesi si sono potuti permettere - sia pure con effetti dubbi - ma che ci avrebbero condannati al destino della Grecia; oggi di chi cerca di salvare il proprio orticello dalla scure della manovra. Ormai note le reiterate richieste di Bersani - addirittura fino a ieri - per «soldi freschi» da mettere in un «vero pacchetto di stimolo». Ma le spinte dall'interno del governo e della maggioranza non sono di segno molto diverso. Come emerge dai resoconti passati, così come di questi giorni, le tensioni e i contrasti con Tremonti sono originati da tentativi di limitare e ammorbidire i tagli, non da richieste di intervenire più in profondità sulla spesa. Fa eccezione Berlusconi, che ha chiesto al ministro di rendere possibile il taglio delle tasse.

Se agisce piuttosto bene sul fronte del deficit, il principale difetto della manovra - e siamo alla seconda critica, e alla seconda mancata ambizione - è sul versante della crescita. Non può sfuggire la fiscalità di vantaggio per il Sud prevista almeno come possibilità - a quanto pare di capire sarà concessa a discrezione delle regioni interessate, che potranno ridurre o azzerare una tassa sostitutiva dell'Irap - ma la manovra interviene sul numeratore del rapporto deficit-Pil, non sul denominatore. Ed è il denominatore la chiave di volta, la bacchetta magica. Quel Pil che non riuscendo più a farlo crescere, qualcuno vorrebbe liquidare come indicatore antiquato. Peccato che i nostri creditori guardino innanzitutto alla nostra capacità di creare ricchezza con i soldi che ci prestano. Se da un lato la situazione dei conti pubblici e la crisi non consentono di ridurre le tasse, dall'altro è anche vero che riducendo le tasse si può rilanciare la crescita, che a sua volta, in modo più indiretto ma persino più efficace, può aiutare la finanza pubblica.

Il problema però è capire come crescere e questo non è affatto scontato. Parlare di crescita è facile, tutti ne parlano, ma bisogna distinguere tra chi propone cosa. Bisogna fare attenzione, perché in Italia coloro che battono sul tasto della crescita si dividono in due tipologie: nella maggioranza dei casi purtroppo il partito della crescita nasconde un partito della spesa, cioè di chi è convinto che una politica per la crescita sia quella dei pacchetti di "stimoli". Soldi che vengono da tagli alla spesa o da nuove entrate per alimentare altra spesa. Questa è redistribuzione, nella migliore delle ipotesi una politica per la crescita dirigista e altamente inefficiente. E non manca chi usa lo slogan delle "riforme strutturali" a vanvera, perché di moda, ma poi sarebbe il primo a parlare di "macelleria sociale" nel caso in cui certe riforme si facessero per davvero.

Il giudizio sulla manovra dipende molto quindi da cosa si deciderà di fare con i 24 miliardi di euro incassati. Se saranno quasi interamente utilizzati per ridurre la spesa e il deficit, bene; se saranno in parte utilizzati per la crescita, ma producendo la solita spesa di "stimolo", male; se saranno investiti almeno in parte in una riforma fiscale anche graduale, o nella riduzione del cuneo fiscale, allora benissimo, perché è il modo "sano" per crescere.

Ultimo appunto, la conversione che Tremonti ha imposto al governo e persino a Berlusconi sulla tracciabilità, un tabù cui eravamo affezionati: tra la soglia dei 5 mila euro e i 500 o i 100 euro di Visco c'è (ancora) una grande differenza, ma diciamo che questo governo fa un ulteriore passetto verso quello «Stato di polizia tributaria» che giustamente si rimproverava alla coppia Prodi-Visco di volere. Personalmente, ho una visione opposta sul problema dell'evasione e dell'economia sommersa. Considerando l'enorme spesa pubblica, e dunque l'incredibile quantità di sprechi e inefficienze, c'è da dubitare che ogni singolo cent recuperato vada a miglior causa (sia in termini morali che di efficienza economica) rispetto a quella cui lo avrebbe destinato l'evasore, sia che lo impiegasse per l'acquisto di un nuovo yacht, sia per mandare avanti la sua azienda (con annessi lavoratori).

Rimane un espediente demagogico, quello della lotta all'evasione, ma evasione e sommerso oggi rendono possibile impresa e lavoro laddove con i costi imposti dallo Stato non sarebbero possibili. Sono in realtà spesso, soprattutto al Sud, una costosa ma forse indispensabile forma di ammortizzatori sociali. E visto l'elevato livello di tassazione, l'impressione è che più si incrudelisce la lotta, più nel medio-lungo termine avrà un effetto depressivo.

Monday, May 24, 2010

Contro l'elogio del processo mediatico

Nel suo intervento di domenica scorsa sul Corriere Piero Ostellino mette bene in luce le autentiche aberrazioni che si leggono e si sentono in questi giorni contro il ddl intercettazioni, ricordando che «i processi, in uno Stato di diritto, si fanno in tribunale, non sui giornali, alcuni dei quali inclini, per ragioni editoriali o politiche, a fare strame della civiltà del diritto». Il ddl è criticabile per molti aspetti, infatti, ma sembra che più di qualcuno si sia fatto prendere la mano, arrivando addirittura a teorizzare un presunto diritto a imbastire processi mediatici, impedendo i quali, scrive Fiorenza Sarzanini, «si lede il diritto fondamentale degli indagati di difendersi anche davanti all'opinione pubblica».

Ecco fino a che punto siamo arrivati, all'impudenza di chiamare diritto un linciaggio. Capisco che la Sarzanini vede messa in pericolo una carriera da "buca delle lettere" delle Procure, ma informare il pubblico sull'andamento di un'indagine è cosa ben diversa dal pubblicare gli atti, coperti o meno da segreto, prima della conclusione delle indagini preliminari. Ancora peggio se si tratta di intercettazioni telefoniche, che per loro natura si prestano ad un gioco di taglia e cuci in grado di far apparire un farabutto anche il più puro tra di noi.

Personalmente, ritengo che contro la fuga di notizie bisognerebbe usare la mano pesante nei confronti dei magistrati e non dei giornalisti. Per esempio, sollevandoli automaticamente da un'inchiesta i cui atti coperti da segreto finiscano sui giornali. Sarebbe la punizione più temuta, ma purtroppo richiederebbe modifiche della Costituzione e si griderebbe subito all'attentato contro l'autonomia e l'indipendenza della magistratura.

Non sono comunque ammissibili i veri e propri elogi del processo mediatico che si leggono in questi giorni sul Corriere e su la Repubblica. Il punto è la pubblicazione di atti e intercettazioni già durante le indagini preliminari, a volte prim'ancora che un tale sia iscritto nel registro degli indagati. In una fase dell'azione giudiziaria, cioè, in cui l'unica versione è quella dell'accusa, di cui i giornali si fanno megafoni, anziché sottoporla a vaglio critico. Ricordiamo, infatti, che non esistono solo i Balducci, i Bertolaso, o gli Scajola, ma anche gli Stasi. Possibile che ai giornalisti non venga il sospetto di rendersi strumento di alcuni magistrati (se non complici di vere e proprie manovre politiche), anziché di informare correttamente i cittadini? Facendo trapelare aspetti suggestivi e pruriginosi quei pm montano la stampa, e di conseguenza l'opinione pubblica, contro i loro indagati, spesso per puntellare mediaticamente quadri probatori lacunosi e mettere sotto la pressione della piazza il giudice che dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno.

Osserva Luca Ricolfi, su La Stampa:
«I giornalisti parlano come se oggi vigesse un regime di libertà di informazione, in cui i cittadini - grazie all'onestà intellettuale e al coraggio dei giornalisti - sono correttamente informati, in cui un'opinione pubblica avvertita e consapevole è in grado di esercitare il controllo democratico sul comportamento di eletti e amministratori, come spesso si sente ripetere. Ma non è così, i cittadini italiani vivono in un sistema dei media inquinato dalla faziosità e dalla leggerezza, spesso poco o mal documentato, comunque lontanissimo dagli standard degli altri Paesi democratici. E a proposito di intercettazioni: non è strano che negli altri Paesi se ne pubblichino così poche, nonostante il diritto dell'opinione pubblica di sapere sia assai più tutelato che in Italia? Non sarà che la democrazia è compromessa innanzitutto dal fatto che, sia pure con le dovute eccezioni... i nostri giornalisti indagano poco e si schierano troppo?»
E come fa notare anche Giuliano Ferrara, su Il Foglio...
«Chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla, che sono l'oggetto della contesa, che sono il succo dei pezzi e delle paginate pubblicate in italiano dai nostri giornali, e poi sceneggiate con doppiatori, nel modo più suggestivo e drammatico possibile, nelle trasmissioni televisive più sporcificanti del mondo. Mai. E perché? Perché altrove non si intercetta? Perché altrove non si delinque o non si indaga? No, Semplicemente per questo: perché altrove, anche dove esistono mafie e criminalità organizzate, anche dove accadono fenomeni di lobbying e di corruzione politica, non si usa pubblicare lenzuolate di intercettazioni come materiale per l'intorbidimento delle acque, per la grande sputtanopoli che tutto confonde in un generico e demagogico disprezzo per la vita privata delle persone pubbliche».
Lo scetticismo di Ferrara sul «destino» del ddl è anche il nostro, perché...
«Non c'è in Italia una ovvia caratura culturale di rispetto dei diritti della persona, sbattiamo la gente in galera per farla confessare, abbiamo le prigioni piene dì piccola gente in attesa di giudizio e ne siamo fieri, abbiamo liquidato in modo truffaldino una classe dirigente che aveva fatto la Costituzione e la Repubblica, e ora ci ritroviamo con il solito andazzo corruttivo e una pletora di magistrati politicizzati con la fregola del potere. Siamo un paese impazzito».

Friday, May 21, 2010

Una legge che (purtroppo) non servirà

Ad un'anomalia tutta italiana, quella delle intercettazioni fuori misura, e più in generale di una magistratura tecnicamente irresponsabile, si risponde all'italiana, con una legge, il ddl al cui esame sta procedendo la Commissione Giustizia del Senato, inevitabilmente anomala. Una legge che per quanto uscirà ammorbidita, il governo pagherà a caro prezzo (le accuse di censura) e che, è la mia personale previsione, non servirà a molto. Magistrati e giornalisti troveranno mille modi per aggirarla, modi su cui però non mi interessa dilungarmi.

Due sono i problemi: il numero abnorme delle intercettazioni e il loro utilizzo "a strascico"; la pubblicazione di atti e intercettazioni coperti da segreto istruttorio. Il paradosso, come sempre, è che le leggi per impedire tutto ciò già ci sono. Ma nel primo caso i magistrati le aggirano, con l'aiuto dei "colleghi" giudici; nel secondo, stranamente, nonostante la tanto difesa obbligatorietà dell'azione penale, non si è mai avuta notizia di un'indagine su una fuga di notizie.

Il ddl irrigidisce i limiti temporali, sfiorando l'irragionevolezza; inasprisce le sanzioni, ai limiti del liberticida; colpisce a valle (giornalisti ed editori) anziché a monte (le Procure), perché a monte sono più potenti. Ma certo, è pesante la disinformazione, la mistificazione di chi si straccia le vesti. Nei paragoni con l'estero, per esempio. Non so - davvero non lo so - se negli altri Paesi europei o negli Stati Uniti sia usuale la pubblicazione sui giornali di atti e intercettazioni telefoniche già durante le indagini preliminari, a volte prim'ancora che un tale sia iscritto nel registro degli indagati. E non so, se capita, cosa succeda ai giornalisti. Ma di questo stiamo parlando, di questo il ddl si occupa: della violazione del segreto istruttorio, quando ancora l'unica versione è quella dell'accusa, e non della pubblicazione degli atti processuali. Su questo evitiamo di fare confusione. Forse in America e altrove i giornalisti non sono comunque punibili, ma i responsabili della fuga di notizie?

Ma questo ddl non va, non può andare, al nocciolo del problema: nessuna legge può funzionare se chi è chiamato ad applicarla bara. E' la storia di questi 16 anni in cui Berlusconi ha cercato di arginare l'attivismo politico delle procure e il barbaro circuito mediatico-giudiziario: leggi ad hoc invece di una grande riforma di sistema dell'ordinamento giudiziario, perché il cancro è lì. In parte per colpa sua, perché ha comprensibilmente guardato al "primum vivere", cioè a difendersi dalle inchieste; ma in gran parte anche per colpa di tutti quei poteri che ogni qual volta si parla di certe riforme (separazione delle carriere, Csm, obbligatorità dell'azione penale, e via dicendo) si oppongono con tutta la loro forza ciascuno con i propri strumenti: magistratura, Consulta, Quirinale, opposizione, giornali, alcuni settori della stessa maggioranza.

Personalmente ritengo deprecabili la pubblicazione delle intercettazioni e i processi mediatici, ma mi sforzo di considerare la libertà di stampa un valore da tutelare in modo preminente, a costo di ingoiare qualche rospo e rimanere schifati. Il punto vero è l'irresponsabilità di cui godono in Italia i magistrati. E' lì la radice di ogni problema, dalla politicizzazione a tutto il resto, intercettazioni comprese. Se fossimo dotati di un sistema in cui chi sbaglia, paga in prima persona; se alla terza inchiesta che fallisci, vai a casa con disonore; se al terzo abuso, vai casa e ti becchi una denuncia penale e civile, allora forse non vedremmo più tanti magistrati ansiosi di dare in pasto ai media l'inchiesta del secolo, che puntualmente dopo qualche mese si sgonfia, ma che importa, tanto il risultato politico l'ha raggiunto... Loro non rischiano nulla, neanche un rimbrotto, e se gli va bene vincono una carriera politica.

Anche la carcerazione preventiva, poco se ne parla ma è un vero scandalo. La legge è chiarissima. Eppure, guardate come la applicano i magistrati. Scaglia, in carcere da tre mesi senza alcuno dei tre elementi che giustificano la carcerazione preventiva (lui stesso è tornato dall'estero, si è dimesso da tutto e le perquisizioni che dovevano fare, a questo punto, dovrebbero averle fatte). Oppure, l'architetto Zampolini, scarcerato perché ha iniziato a collaborare, è la candida ammissione della procura. La carcerazione preventiva come una tortura per estorcere la collaborazione dell'indagato, se non la confessione (vedi l'arresto di Stasi). La verità è che queste custodie cautelari si giustificano in un solo modo: i magistrati non hanno elementi e sperano che a fornirglieli siano gli indagati stessi. Di fronte a questi abusi, quando le legge è inequivocabile, c'è solo lo strumento disciplinare. Ma il Csm? E' una presa per il culo. E' un sindacato, niente di più. E non si è mai visto, giustamente, un sindacato che punisce i suoi iscritti.

E intanto c'è qualcuno che pensa che il garantismo è "di sinistra" e le manette sono "di destra", e auspica che le cose tornino al più presto al loro posto. Purtroppo, per ora (almeno finché ci sarà Berlusconi) la sinistra resta giustizialista, mentre il rischio è che la destra (ri)diventi "manettara". Basta legge il Giornale e Libero in questi giorni, le uscite "legalitarie" dei "finiani" e dello stesso Fini, quello che sperava nella "bomba" Spatuzza.

Wednesday, May 19, 2010

Gli arrampicatori di specchi

Chissà che la crisi del debito nell'Eurozona non ci darà finalmente quella spinta per fare quello che da tempo avremmo dovuto fare. D'altronde, è sempre stato così per l'Italia: prendere decisioni politicamente scomode sull'onda di un'emergenza e dietro l'alibi del "ce lo impone l'Europa". Meglio che niente. Soprattutto se il ministro Tremonti darà davvero seguito a frasi come «è ora di ridurre effettivamente il peso della mano pubblica», «una correzione non solo dei conti, ma del sistema», «non aumenteremo le tasse».

Fa piacere poi sentirgli dire qualcosa in cui abbiamo sempre creduto, e cioè che i «margini di taglio della spesa pubblica sono tanto ampi da poter intervenire senza creare effetti distorsivi», e che «l'area della spesa pubblica è talmente ampia che può essere ridotta senza produrre un effetto recessivo». Per la prima volta viene espresso così chiaramente a livelli politicamente così elevati un concetto semplice: così enorme è la spesa pubblica, circa la metà in rapporto al Pil, che è del tutto folle far credere - come è stato fatto credere in passato - che non ci siano margini per tagli incisivi e strutturali pur senza toccare il rassicurante totem del welfare che siamo abituati a conoscere. Aspettiamoci nelle prossime settimane dagli stessi giornali, commentatori e politici, che fanno degli allarmi sui conti pubblici e della denuncia dei privilegi della casta i loro cavalli di battaglia, arrivare le grida di dolore per una supposta "macelleria sociale". Ma tra lo status quo e la cosiddetta "macelleria sociale" - cioè prima di arrivare a ripensare totalmente (come qui si auspica) il ruolo dello Stato nell'erogazione dei servizi pubblici - c'è una vastissima prateria di sprechi e inefficienze su cui intervenire.

Nel frattempo, registriamo che dopo i due editoriali consecutivi di Ostellino e Panebianco, il Corriere della Sera corre ai ripari e aggiusta la rotta, con l'editoriale di oggi affidato a Maurizio Ferrera, da cui sembra di capire che il mercato «che non fa paura» è sostanzialmente un mercato incatenato da un super-Stato europeo. Ma la mente di questa operazione è Mario Monti. Siccome il mercato è «impopolare», è l'argomento al centro del suo rapporto, bisogna «ricostruire il consenso» per «l'Europa del mercato».

Come fare? Con una tale acrobazia logica che sa di imbroglio intellettuale: da una parte si sostiene di voler promuovere più «concorrenza», dall'altra in concreto la si nega laddove fa comodo ed è politicamente scorretta. Una spruzzatina di concorrenza, dunque, con severe norme Antitrust da applicare alle multinazionali (ancora meglio se americane). Mentre sarebbe «sleale» la concorrenza dell'"idraulico polacco" e «sregolata» quella fiscale tra gli Stati. Il disegno che si leva all'orizzonte è piuttosto inquietante: per conquistare il consenso dei cittadini europei all'integrazione Ue, li si dovrebbe allettare conservando, e anzi elevando a livello europeo, le rigidità del mercato del lavoro e dei servizi, e delle relazioni industriali, nei singoli stati nazionali, e addirittura armonizzando i regimi fiscali. Ovviamente omologando verso l'alto i livelli di tassazione, in modo che gli stati che amano imporre tasse alte ai propri cittadini e alle proprie imprese non debbano più preoccuparsi della concorrenza fiscale degli stati che invece con tasse più contenute cercano di attrarre capitali e investimenti, esercitando indirettamente un indispensabile ruolo di freno all'ingordigia fiscale dei primi.

Addirittura Ferrera azzarda di suo un sistema europeo di welfare, citando Lord Beveridge, «l'architetto del welfare state moderno», proprio nel momento in cui quel modello si rivela sempre meno sostenibile, alla base della crisi del debito e della crisi di non-crescita in cui si dibatte l'Europa. Di fronte a un'Europa di questo tipo, sempre più simile ad un Leviatano, diciamo no.

Tuesday, May 18, 2010

Che fiasco il tuo engagement, caro Obama!

16:33 - Con straordinario - e sospetto - tempismo, Hillary Clinton ha appena annunciato alla Commissione Affari esteri del Senato Usa che è pronta una «forte» bozza di risoluzione per imporre nuove sanzioni all'Iran, che c'è l'accordo di Russia e Cina e che nelle prossime ore sarà fatta circolare al Palazzo di vetro. Un annuncio piuttosto impegnativo. Vedremo presto quanto c'è davvero di definito o se si tratta di un'accelerazione imposta dall'accordo annunciato ieri da Iran, Brasile e Turchia, cioè se il successo diplomatico di Teheran ha in qualche modo costretto Washington a scoprire le proprie carte nel tentativo di imbastire una reazione, soprattutto per "impegnare" Mosca e Pechino, che solo poche ore fa si erano affrettate ad accogliere positivamente l'annuncio turco-brasiliano...

14:10 - Un successo pieno di Ahmadinejad e un umiliante fallimento per Obama. Questo, in termini politici, il significato dell'accordo sul nucleare iraniano siglato ieri da Teheran con Turchia e Brasile. Il presidente iraniano con un colpo solo rompe l'isolamento; praticamente scongiura l'approvazione di nuove sanzioni Onu; e scavalca la già vantaggiosa proposta dell'Aiea. Determinante il ruolo di Turchia e Brasile, i "non allineati" dei nostri giorni di cui l'Occidente - America in testa - mostra di non comprendere ancora peso e ruolo.

Washington è spiazzata, balbetta. Dopo tutti gli sforzi per indurre Russia e Cina a prendere in considerazione l'ipotesi di nuove sanzioni, ancora tutte da definire, e dopo tutti i rospi ingoiati da Teheran a dispetto della "mano tesa", si vede scavalcata da Turchia e Brasile, di cui non si può certo fidare nella gestione dell'uranio iraniano come di Francia e Russia, e messa all'angolo da Teheran. E in ogni caso, se si vorrà ancora far arrivare l'uranio iraniano in Francia o in Russia, a questo punto bisognerà concedere qualcosa in più agli iraniani. L'effetto dell'accordo di ieri sarà di rallentare ancor di più, se non arrestare del tutto, il già lento processo di definizione di nuove sanzioni. Insomma, la strategia iraniana di prendere tempo ottiene un grande risultato, forse decisivo nella sua corsa all'atomica.

Un «fiasco» per l'amministrazione Obama. Il Wall Street Journal definisce senza mezzi termini l'accordo annunciato ieri da Iran, Brasile e Turchia per il trasferimento e l'arricchimento all'estero dell'uranio iraniano. Il «colpaccio» di Teheran «rende istantaneamente irrilevanti 16 mesi di diplomazia obamiana» e «forse assesta il colpo di grazia agli incerti sforzi dell'Occidente per impedire all'Iran di dotarsi di una bomba atomica». «Pieno merito per questa debacle va all'amministrazione Obama e alla sua sventurata strategia diplomatica», secondo il quotidiano, che ricorda la proposta originaria del trasferimento dell'uranio iraniano per l'arricchimento all'estero, avanzata lo scorso ottobre dal gruppo 5+1 tramite l'Aiea, ma rifiutata da Teheran. Ma il presidente Obama «non considera delle risposte i "no" dei regimi canaglia e così ha mantenuto l'offerta sul tavolo».

E mentre alla fine gli Stati Uniti sembravano essersi decisi a percorrere la strada delle sanzioni, gli iraniani hanno deciso di accettare l'accordo alle proprie condizioni con lo «scudo diplomatico» di brasiliani e turchi. La «beffa» è che proprio Washington aveva «incoraggiato» la diplomazia del presidente brasiliano Lula come «passo per favorire un consenso unanime sulle nuove sanzioni Onu». Lula ha invece «usato l'apertura Usa per la propria soluzione diplomatica. Nella sua prima mano di poker diplomatico con un'alta posta in gioco - conclude il WSJ - il segretario di Stato Hillary Clinton sta lasciando il tavolo a mani vuote».

«Invece che mettere l'Iran in un angolo questa primavera, Ahmadinejad ci ha messo Obama». L'«imbarazzo» della Casa Bianca, sottolinea il WSJ, è evidente e ha cercato di mettere in luce le differenze tra l'accordo annunciato ieri e quello proposto lo scorso autunno. «Ma avendo giocato un ruolo così di primo piano» nei negoziati di allora, osserva il WSJ, gli Stati Uniti «non possono dissociarsi così facilmente da qualcosa che appare ampiamente in linea con quella cornice». In base all'accordo di ieri l'Iran «trasferirà in Turchia 1.200 chili di uranio a basso arricchimento entro un mese, e non più tardi di un anno dopo riceverà 120 chili arricchiti da qualche parte all'estero». Ma nel frattempo, in questi sette mesi, fa notare ancora il WSJ, l'Iran «ha portato le sue attività di arricchimento ad una marcia superiore». Si stima che il suo stock complessivo di uranio leggermente arricchito sia «salito a 2.300 chili dai 1.500 dello scorso autunno e il suo dichiarato obiettivo di arricchimento dal 3,5 al 20%».

«Se l'Occidente accetta questo accordo - avverte il WSJ - all'Iran sarebbe permesso di continuare ad arricchire uranio in violazione delle precedenti risoluzioni dell'Onu e il trasferimento di 1.200 chili lascerà l'Iran con una quantità di uranio a basso arricchimento ancora sufficiente per fabbricare una bomba, e una volta che l'uranio è arricchito al 20% sarà tecnicamente più facile raggiungere i livelli di arricchimento necessari per la bomba». La scorsa settimana, riporta il quotidiano Usa, diplomatici presso l'Aiea hanno riferito che l'Iran «ha accresciuto il numero di centrifughe che sta utilizzando per arricchire l'uranio». Secondo le stime delle intelligence occidentali, «continua ad acquistare componenti chiave per le bombe». Secondo la Cia, l'anno scorso Teheran avrebbe addirittura «triplicato le sue scorte di uranio» e si sarebbe avvicinata «all'auto-sufficienza nella produzione di missili nucleari».

L'accordo di ieri quasi certamente rende la via delle Nazioni Unite un «vicolo cieco». «Dopo 16 mesi di mano tesa e dopo aver ridotto al minimo l'appoggio all'opposizione democratica in Iran - conclude il Wall Street Journal - Obama ora ha di fronte un Iran più vicino alla bomba e meno isolato diplomaticamente rispetto a quando il presidente Bush lasciò l'incarico». Israele, aggiunge il giornale, «dovrà considerare seriamente le sue opzioni militari». Un esito di cui bisogna ringraziare il «doppio gioco diplomatico» del premier turco Erdogan e del presidente brasiliano Lula, ma soprattutto il presidente Usa, «la cui diplomazia è riuscita principalmente a persuadere gli stati canaglia del mondo che non ha la determinazione per fermare le loro ambizioni distruttive».

Critico anche il commento dell'editorialista Bret Stephens: nonostante il gioco che sta giocando Teheran non sia molto più complicato di una «partita a dama», «il guaio è che ci stanno battendo». L'accordo originario, ricorda, avrebbe impegnato l'Iran a trasferire all'estero 1.200 chili di uranio arricchito al 3,5% perché fosse arricchito al 20%, così da poter essere impiegato in un piccolo reattore di ricerca di Teheran. Con questo accordo l'Occidente avrebbe acquistato un anno di tempo prima che l'Iran potesse produrre i 1.900 chili di uranio a basso arricchimento da cui ottenere 20 chili ad elevato arricchimento per la produzione di una bomba. Un'offerta troppo vantaggiosa per essere rifiutata, visto che l'Iran avrebbe potuto nel frattempo continuare ad arricchire uranio in violazione delle risoluzioni Onu, ottenere una scorta significativa di uranio arricchito al 20%, con il quale produrre una bomba nell'arco di settimane piuttosto che di mesi, ed evitare ulteriori sanzioni.

Ma l'Iran ha respinto questa proposta, perché, secondo Stephens, «ha imparato che l'Occidente - e in particolare l'amministrazione Obama - non chiude mai la porta, per quanto stretto possa apparire lo spiraglio diplomatico, e non esige mai un prezzo a fronte di comportamenti sbagliati». «Quello che una volta era considerato un comportamento "deviante" da parte di Teheran - incitare alla cancellazione di Israele dalla carta geografica; arricchire uranio in violazione delle risoluzioni Onu; diventare una potenza nucleare - è visto in modo crescente come qualcosa di normale, o comprensibile, o inevitabile».

«In qualsiasi modo l'amministrazione Usa reagisca all'accordo di ieri - osserva l'editorialista del WSJ - l'Iran si è garantito che il Consiglio di Sicurezza, in cui attualmente siedono anche Turchia e Brasile, non approverà nuove sanzioni. Quelle sanzioni che non sarebbero state particolarmente efficaci, ma come minino avrebbero isolato l'Iran e generato un consenso globale» contro il suo programma nucleare. «Ora sembra che i sostenitori dell'"engagement" nell'amministrazione Obama falliranno laddove gli unilateralisti nell'amministrazione Bush riuscirono per tre volte». E sarà dura per gli Stati Uniti, riflette Stephens, spiegare come mai non ha più senso un accordo che non hanno mai ritirato dal tavolo. «La risposta, ovviamente, è che quell'accordo non ha mai avuto molto senso, ma ne ha ancor meno oggi che l'Iran ha arricchito diverse centinaia di chili di uranio in più e lo sta arricchendo ad una velocità di 78 chili al mese, molto maggiore di quanto fosse in grado l'anno scorso».

In una recente analisi per il Nonproliferation Policy Education Center, Gregory Jones osserva che «l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio a basso arricchimento da processare in modo da renderlo utilizzabile per scopi militari verso la fine di luglio e quindi potrebbe produrre quell'uranio altamente arricchito di cui ha bisogno per metà novembre». «Con l'ipocrita trionfo della diplomazia di ieri, in realtà ogni speranza di un esito diplomatico è svanita. E sul suo più decisivo test di politica estera, l'amministrazione Obama ha perso il controllo del corso degli eventi. O l'Iran - conclude Stephens - diventerà una potenza nucleare, o sarà fermato da un'azione militare. O una guerra, dunque, o una fase di proliferazione nucleare in Medio Oriente. L'amministazione si illude di poter contenere tutto questo - le ambizioni iraniane, le insicurezze arabe, la preoccupazione di Israele per la propria esistenza - attraverso una diplomazia più astuta. Ma i precedenti non ispirano molta fiducia».

Il socialismo è morto, inutile accanirsi

Se il libero mercato, e i liberali, non se la passano bene è per lo più per "diffamazione" globale. Il socialismo, invece, è proprio morto e sepolto. E qui ce ne siamo accorti da un pezzo. Oggi sul Corriere Panebianco raccoglie il testimone lasciato ieri da Ostellino e prosegue il ragionamento: se la crisi dell'Eurozona non porterà ad uno smantellamento degli «estesi e costosi sistemi pubblici di welfare», tuttavia «un ridimensionamento sensibile, unito a una forte razionalizzazione delle spese, dei sistemi di welfare, sembra inevitabile nel corso degli anni a venire». Una «vittima illustre» di questo processo, osserva Panebianco, è «il socialismo, in tutte le sue diverse sfumature e varianti».
«Il socialismo europeo è stato innanzitutto e soprattutto uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione... in nome di un principio di uguaglianza. Ma se tutto questo diventa economicamente insostenibile, se persino il carattere universale delle prestazioni di welfare rischia di essere messo in discussione a causa della scarsità delle risorse e della conseguente necessità di scegliere i soggetti a cui continuare a erogare le prestazioni e i soggetti da escludere, il socialismo finisce per perdere gran parte della sua ragione sociale. I conservatori sono sicuramente molto più attrezzati, per cultura politica e insediamenti elettorali, a governare in una fase storica che si annuncia assai lunga e che potremmo definire di welfare austerity».
Alla «crisi dei socialismi meridionali, greco, spagnolo, portoghese» fa da contraltare in Italia lo scarso appeal delle «proposte di espansione della spesa del maggior partito di opposizione», il Pd. I sacrifici che imporranno i governi, prevede Panebianco, provocheranno «forte disagio sociale e forti proteste» e «i partiti socialisti, naturalmente, le cavalcheranno», ma saranno premiati solo se gli elettori saranno così imprudenti da pensare solo ai vantaggi di breve termine. Il New Labour britannico aveva tentato di riscrivere la propria «ragione sociale», ma tranne una prima fase in cui ha saputo assicurare una crescita economica formidabile, nei 13 anni di governo è finito per tornare al «socialismo della spesa» e per logorarsi. In Italia, è meglio che il Pd non s'illuda: il suo è sì un problema di leadership, di vecchie facce, ma è innanzitutto di contenuti. Prima di preoccuparsi di come si dicono le cose e di chi le dice, ci si dovrebbe preoccupare di cosa si va a dire.

Monday, May 17, 2010

Oltre i privilegi, oltre gli sprechi

La crisi del debito è allo stesso tempo crisi di non-crescita e crisi dello Stato sociale europeo

Stupisce chi si stupisce per la continua discesa dell'Euro: la crisi del debito ha messo in luce (poiché ne è la conseguenza) le difficoltà di crescita dei Paesi che fanno parte della moneta unica (e non solo quelli del Sud) e con un piano da 1 trilione non si può, al di là degli escamotage formali, far finta di non aver generato inflazione. Più moneta in circolo, è ovvio che valga di meno. Se non altro, al di là delle battute demagogiche contro gli speculatori, che servono ai politici per nascondere le proprie gravi responsabilità nella gestione finanziaria degli Stati, sembra che i governi europei abbiano compreso la causa e la natura della crisi e siano decisi a intervenire con cospicui piani di tagli alla spesa pubblica. Tuttavia, c'è modo e modo di tagliare. E da come si apprestano a farlo non sembra affatto che venga messo in discussione ciò che da anni, da ben prima della crisi economica, si sta rivelando sia la causa diretta del debito crescente, sia un ostacolo indiretto alla crescita: il modello di welfare europeo, il più costoso del pianeta, che non è più sostenibile così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

Bisogna tagliare, e anche l'Italia comincia a pensarci sul serio. Si parla di 25 miliardi in due anni. Sono tanti, forse ne servirebbero di più. Se è vero - come è vero - che un taglio del 5% degli stipendi dei parlamentari e degli alti dirigenti pubblici (gli «alti papaveri») sarebbe una «briciola», allora Rizzo e Stella, sarcastici su Calderoli il «tagliatore», dovranno riconoscere che altrettanto demagogica è la loro inchiesta sui costi della casta. «Briciole» sarebbero i risparmi derivanti dalla proposta Calderoli, così come «briciole» sono i costi della casta da loro denunciati nel "mare magnum" della spesa pubblica. Come scrissi già all'epoca dell'uscita del loro libro, infatti, per quanto quei costi siano emblematici di una vasta realtà di spreco e di privilegi certamente da abbattere, restano poco rilevanti se inseriti negli ordini di grandezza della spesa pubblica.

Occorre dunque distinguere le due questioni: da una parte gli eccessivi privilegi della politica, dall'altra il tema dell'eccessiva spesa pubblica. Non è tagliando i costi della casta che si risolve il problema della spesa, ma ha comunque un significato simbolico che la classe politica faccia per prima uno sforzo (aggiungerei un taglio del 5% ai "rimborsi" elettorali ai partiti). In questo senso va intesa la proposta di Calderoli, identica a quella di Cameron in Gran Bretagna: nessuno dei due si illude che basti questo a risolvere il problema del deficit. «Il costo globale del ceto politico, anche inteso nella sua accezione più ampia (incluse le consulenze) - ricorda Luca Ricolfi su La Stampa - non supera i 4 miliardi di euro all'anno, il che significa che un taglio del 5% frutterebbe 200 milioni di euro... in 2 anni circa 0,5 miliardi di euro, ossia il 2%» dei 25 miliardi che servirebbero. La proposta Calderoli, come osserva giustamente Ricolfi, «dovrebbe essere sostenuta e semmai rafforzata, ma non per il suo impatto sui conti pubblici», bensì «per il suo significato simbolico, come un (minimo) segnale di serietà che la classe politica lancia al Paese».

«I veri costi della politica non sono quelli diretti, ossia l'ammontare degli stipendi della casta, ma i suoi costi indiretti, ossia lo spreco di risorse pubbliche che corruzione e malgoverno infliggono ogni anno al Paese», quella «incapacità di spendere oculatamente il denaro pubblico» che Ricolfi calcola in «80 miliardi». Abbiamo dunque i privilegi da tagliare; abbiamo gli sprechi da tagliare. Ma tutto questo non basta, e a ben vedere non è neanche fattibile, se prima non si mette in discussione qualcos'altro, che sta alla base ed è il presupposto sia dei privilegi che degli sprechi. La crisi del debito è allo stesso tempo crisi di non-crescita e crisi dello Stato sociale.

L'unico a sollevare il tema è Piero Ostellino, sul Corriere della Sera:
«Da tempo, le poche voci liberali che ancora compaiono sui giornali dicevano ciò che adesso scrive il Washington Post: "L'eccezione europea, il modello sociale più generoso del pianeta, ha i giorni contati". Ma nessuno ha dato loro retta e capito i prodromi della crisi dell'Euro. Eppure, essa è l'epifenomeno della crisi dello Stato sociale moderno. Se ciò che dà (col welfare) è più di quanto potrebbe, c'è squilibrio di bilancio che porta alla crisi finanziaria; se ciò che toglie (con le tasse) è più di quanto dovrebbe, la crescita del Paese si arresta. Lo Stato sociale moderno è oggetto di statolatria... L'alibi "sociale" ha giustificato l'ipertrofia e l'autoreferenzialità burocratiche dello Stato moderno, il quale produce "plusvalore politico" per chi ne detiene il potere con l'eccesso di spesa pubblica e di tassazione».
Nonostante l'esplosione della crisi del debito, anziché mettere in discussione lo Stato sociale, riducendo quindi le sue dimensioni, i governi preferiscono «divorare i loro cittadini per sopravvivere». Ed ecco, dunque, che lo Stato sociale mostra il suo vero volto tirannico, in nome di un malinteso senso di giustizia minaccia libertà e democrazia:
«I rappresentanti del popolo non esercitano il potere in nome, e al servizio, del popolo, ma è il popolo a essere al loro servizio al solo scopo di far funzionare la macchina pubblica dalla quale essi, quale ne sia il colore, hanno una "rendita politica"... In una società corporativa, il potere politico fa da mediatore fra le corporazioni in conflitto e, in una condizione di recessione economica, distribuisce le scarse risorse disponibili non secondo criteri di giustizia, ma in funzione della propria perpetuazione. A uscirne massacrati sono il singolo individuo, non protetto da una qualche corporazione, e le aziende che operano sul mercato. Le riforme si allontanano. I media, invece di guardare dentro la macchina dello Stato moderno e denunciarne costi e pericoli - in definitiva, invece di fare il loro mestiere hanno taciuto e ancora tacciono; vuoi per conformismo, vuoi per riflesso degli interessi extra editoriali dei loro editori, finendo col farsi dettare l'agenda dagli stessi responsabili della crisi».

Friday, May 14, 2010

Generazione Italia continua a far danni (a Fini)

Prima la gaffe sull'interventismo del presidente della Camera che dovrebbe essere accettabile in ragione del ruolo che ha la Speaker della Camera Nancy Pelosi negli Stati Uniti (notoriamente il "controcanto" di Obama ed espressione della minoranza del partito...); oggi Generazione Italia ci delizia con nuovi paralleli-autogol, non facendo certo un favore a Gianfranco Fini. A prescindere dal merito della lettera di Bondi oggi a Il Foglio, sono le pietre di paragone che utilizza Bocchino nella sua replica a destare serie perplessità. Personalmente ritengo più che ammissibile lavorare ad «un'altra destra» dall'interno del Pdl (e quella che auspico è infinitamente più lontana da quella di oggi rispetto a quanto lo sia l'idea di destra che coltivano i 'finiani'), anche se Bocchino ci fa sapere che «non è così, o meglio non è proprio così».

Ci ricorda le due diversissime idee di destra che si fronteggiavano nel Gop negli anni '60, nei Tories negli anni '70, e in tempi più recenti in Francia tra Chirac e la "rupture" di Sarkozy. Duelli che «hanno creato grandi discussioni interne ai rispettivi partiti». Certamente grandi e laceranti confronti. Potrei sbagliarmi, ma non mi risulta che qualcuno nel Gop, o la Thatcher, o Sarkozy, abbiano dato vita ad un movimento nel loro partito aprendo sedi in tutto il Paese, istituendo un comitato nazionale e responsabili regionali propri, né abbiano minacciato di costituire propri gruppi parlamentari. Né che abbiano assunto cariche istituzionali da dove impallinare tutti i giorni la politica del governo sostenuto dal loro partito. E se qualcuno proprio non ne può più, sfida il partito in campo aperto candidandosi da indipendente, per dimostrare che gli elettori di centrodestra sono con lui e non con la "linea ufficiale".

Più insistono con questo genere di paragoni, più si danno torto da soli. Tra Hillary Clinton e Obama si sono svolte «primarie sanguinosissime», ma la Clinton è entrata al governo, non si è appollaiata su una comoda carica onorifica per sparare a zero un giorno sì e l'altro pure sul presidente, vagheggiando di «un'altra sinistra», nonostante tutti sappiano benissimo quanto la separi da Obama.

Nelle democrazie mature e bipartitiche (quelle citate da Bocchino) le guerre di successione alla leadership nei grandi partiti, i laceranti confronti su quale idea di destra o di sinistra debba prevalere, si aprono dopo le sconfitte elettorali. Quando si governa, il partito quasi scompare, esistono solo gli eletti. Alle diverse visioni nessuno rinuncia, ma rimangono quasi sotto-traccia. Il dibattito non manca di certo, e ciascuno continua a perseguire l'idea di destra che ritiene, ma nessuno si permette di scommettere sulle "bombe" giudiziarie alla Spatuzza, o di tentare la via del logoramento, autolesionista per tutti.

Thursday, May 13, 2010

Chi tira la carretta e chi si fa tirare

Cinque regioni tirano la carretta in questo Paese, tutte le altre arrancano, si fanno tirare. E' quanto emerge dall'ennesima analisi della Cgia di Mestre. Solo cinque regioni infatti presentano "residui fiscali" attivi, cioè danno molto di più alle amministrazioni pubbliche - con imposte, tasse e contributi - di quanto ricevono sotto forma di trasferimenti e di servizi pubblici. Solo Lombardia, Veneto e Piemonte contribuiscono per oltre 50 miliardi di euro. La Lombardia risulta da sola in credito di 42,574 miliardi, il Veneto di 6,882 miliardi e il Piemonte di 1,219 miliardi. Contribuiscono in larga misura anche Emilia Romagna (+5,587 miliardi) e Lazio (+8,720 miliardi), grazie soprattutto a Roma.

A guadagnarci non sono solo le regioni del Sud, ma anche quelle a Statuto speciale del Nord. Se la Toscana presenta un deficit del residuo fiscale di 776 milioni e la Liguria di 3,304 miliardi, non sono da meno realtà a Statuto speciale come Trentino Alto Adige (-2,177 miliardi), Friuli Venezia Giulia (-2,104 miliardi) e Valle d'Aosta (-617 milioni). Il divario sale drasticamente in alcune Regioni del Sud, capitanate dalla Sicilia - dove il residuo fiscale è pari a -21,713 miliardi - seguita da Campania (-17,290 miliardi) e Puglia (-13,668 miliardi). La Lombardia da sola "mantiene" Sicilia e Campania.

Ma il dato più sorprendente è che negli ultimi anni, dal 2002 al 2007, nonostante le lagnanze meridionaliste, il flusso da Nord a Sud è addirittura aumentato. In Lombardia, ad esempio, l'attivo è aumentato del 47 per cento, in Piemonte del 33 per cento e in Veneto del 32 per cento. I cittadini di queste tre regioni probabilmente se ne sono accorti, mentre a Roma e nel Centrosud del Paese l'opinione prevalente è che non si faccia abbastanza per il Sud, che qualche "cattivone" abbia chiuso i rubinetti. Sarebbe ora, ma non è così. Per il Sud non si fa certamente abbastanza in termini di politiche, ma si va molto oltre la decenza in finanziamenti.

Proprio stamattina il governo ha giustamente negato l'utilizzo dei fondi per le aree sottoutilizzate (Fas) a Lazio, Campania, Molise e Calabria. Quei fondi devono servire per programmi di sviluppo regionale, e non per coprire il deficit del settore sanitario. Dunque, niente Fas senza piani di rientro adeguati e prima del raggiungimento degli obiettivi previsti. Naturalmente i governatori piangono, e qualcuno (il molisano Iorio e il campano Caldoro) sostiene che il governo gli avrebbe chiesto di alzare le tasse, mentre Scopelliti ha evocato il «rischio» di nuovi tributi. Non ci provate, la scelta di ripianare il deficit sanitario con più tasse è solo vostra. Al governo interessa che ci siano i piani di rientro e che siano rispettati. Se con tagli agli sprechi e alla spesa, o con nuove tasse, è una scelta politica che spetta ai governatori.

Wednesday, May 12, 2010

Quanto durerà? E chi ci rimetterà?

David Cameron è il primo conservatore a rientrare a Downing Street dopo 13 anni di Labour. Obiettivo raggiunto, dunque? Quasi. Non si può certo dire che si sia aperto un nuovo ciclo, almeno per i Tories. Eppure, l'aspettativa alimentata da Cameron era proprio quella: sarebbe stato per i Tories ciò che Blair è stato per il Labour. Diciamo che ha ancora buone carte da giocare, ma che per il momento l'inizio del nuovo ciclo è rimandato da un incidente di percorso. Sono sempre stato convinto che Cameron, in quanto vincitore delle elezioni, non poteva sottrarsi alla sfida del governo, sia pure in coalizione, e quindi ben venga l'accordo con i lib-dem, ma a che prezzo... (qui i punti-chiave)

Adesso le domande sono: quanto durerà? E chi ci rimetterà? Innanzitutto, c'è da chiedersi come mai ieri, dopo le dimissioni di Brown, sembrava essersi riaperta la prospettiva di un accordo Lib-Lab? E come mai si è così velocemente richiusa? Non è da escludere neanche un intervento indiretto della Regina, che potrebbe aver fatto trapelare la propria impazienza e la propria contrarietà rispetto ad una coalizione degli sconfitti. Ma forse è una speculazione troppo italian-style. Più probabile che da una parte Clegg non abbia potuto fare a meno di mostrare ai suoi di averci provato anche con i laburisti, anche solo per strappare qualche strapuntino in più ai Tories; e che dall'altra, tolto di mezzo Brown, nessun leader emergente tra i laburisti avrebbe avuto interesse a "bruciarsi" in una impopolare e numericamente fragile coalizione di sconfitti.

Quanto durerà, dunque, e chi ci rimetterà? Ovvio che Cameron e Clegg mostrino ottimismo, garantendo addirittura cinque anni di governo «forte e stabile», mosso dai principi di «libertà, equità e responsabilità». C'è stata una breve esperienza di governo di coalizione dopo il secondo Dopoguerra in Gran Bretagna. Un accordo Lib-Lab che ha retto solo un anno, dal 1977 al 1978, ricorda Philip Johnston sul Telegraph, che si è concluso con una profonda spaccatura all'interno dei Liberal. Da una parte, i lib-dem se vogliono dimostrare di essere un partito credibile, maturo, "di governo", e quindi se vogliono "vendere" ai cittadini una riforma elettorale proporzionale, devono dimostrare nei fatti che un governo di coalizione non produce instabilità. Almeno per questo dovrebbero essere motivati.

Con un sistema proporzionale, osserva Johnston, il «mercato delle vacche che abbiamo visto (o non visto perché nascosto) nei giorni scorsi diventerà la regola dopo ogni elezione. Invece di un chiaro risultato, seguito da un governo che realizza il programma per il quale è stato eletto, gli accordi saranno fatti dietro le quinte; politiche amate verranno accantonate e quelle denunciate durante la campagna elettorale adottate». E il governo «potrebbe divenire meno dominante perché le decisioni chiave tenderebbero ad essere prese in incontri ristretti tra i leader di partito».

Convincere gli elettori che i governi di coalizione non portino a tutto questo sarà dura, ma molto dipenderà da questa esperienza di governo. Se fallisce, i Tories portanno comunque presentarsi agli elettori chiedendo la maggioranza assoluta e scaricando sui lib-dem la responsabilità di scelte sbagliate o impopolari, e delle promesse non mantenute; i lib-dem (nonostante in questa fase Clegg si sia dimostrato forse più abile di Cameron, strappando il massimo delle concessioni) si saranno sporcati le mani, scontentando parecchi loro elettori "di sinistra", non riuscendo nemmeno a dimostrare la fattibilità e la stabilità dei governi di coalizione.

Se, quindi, per i Tories l'esperienza dovesse farsi troppo costosa, ecco che potrebbero chiamare nuove elezioni. Forse nel frattempo il Labour sarà resuscitato, guidato da un nuovo leader giovane e fresco, e potrà sfruttare a proprio vantaggio i fallimenti del governo Lib-Con, ma di certo sarebbero i lib-dem a pagare il prezzo più alto, come prevede Simon Heffer, anche lui sul Telegraph, che ricorda come i liberali si siano già spaccati nel 1886 sull'Irlanda, nel 1918 e anche sul finire degli anni '80, quando diventarono liberal-democratici. «Ora sono per lo più di sinistra» e quando si tornerà al voto verranno «sanzionati» duramente dal loro elettorato, a vantaggio di laburisti e verdi, secondo Heffer: «E la riforma elettorale? Ci crederemo quando la vedremo». D'altra parte, non è certo avvertita come priorità nell'opinione pubblica, soprattutto in tempi di crisi, e sarebbe costoso per i lib-dem rompere su di essa.

Oltre al referendum sulla riforma elettorale in senso proporzionale, un'altra minaccia alla tenuta del premierato britannico contenuta nel programma di governo Lib-Con è la durata fissa della legislatura, per cui il premier non potrebbe più chiedere alla Regina di sciogliere il Parlamento e convocare elezioni generali, ma l'eventuale scioglimento anticipato dovrebbe essere votato dal 55% dei deputati. «Se avessimo già approvato» una riforma del genere, osserva Heffer, «cosa accadrebbe se nessuno avesse la fiducia dei Comuni e non si potessero convocare nuove elezioni per risolvere il problema?».

Il Pil venderà cara la pelle

C'è chi vorrebbe superarlo come indicatore economico, chi più cautamente ammette che «è indispensabile» ma non sufficiente. Ben vengano altri indicatori del «benessere effettivo» di una società, che si aggiungano alla misura meramente quantitativa offerta dal Pil. Sarà un po' rozzo, riduttivo, eccessivamente semplificante, ma come ha dimostrato la recente crisi dell'Eurozona, al dunque è il Pil quello che conta: se fai deficit, se il tuo debito pubblico aumenta, ma non cresci il necessario per poterti indebitare, allora sei nei guai. Stupidamente gli investitori ti prestano il loro denaro solo se dimostri di saperlo utilizzare bene, cioè per produrre ricchezza. Valli a convincere che per quanto inefficiente possa essere il nostro welfare state, nulla vale di più della "serenità" che ci trasmette (?!), o di un bel tramonto e di un inverno mite. D'altronde, per tutto il resto non c'è Mastercard? L'impressione invece è che ancora a lungo i governi dovranno pendere dalle labbra del Pil, pregare giorno e notte per ogni decimale di punto in più.

Per questo è apparso particolarmente intempestivo il convegno sul superamento del Pil organizzato ieri da FareFuturo, a cui ha partecipato il presidente della Camera Fini, proprio nei giorni in cui arriva la "sveglia" dei mercati sui problemi di crescita di alcuni Paesi dell'area Euro. E guarda caso a guardare con sempre maggiore insofferenza al Pil sono i leader o i politici di Paesi dove il welfare e una spesa pubblica elevata appaiono totem intoccabili. Pare proprio che Fini si associ puntualmente al mainstream anti-mercato dei leader di centrodestra europei - tedeschi, francesi e italiani. Fu Tremonti il primo in Italia a rincorrere le suggestioni di Sarkozy-Fitoussi sul Pil, sostenendo che la realtà del nostro Belpaese non fosse «completamente catturata dalle statistiche sul Prodotto interno lordo», colpevoli di ignorare la bellezza, l'ambiente, la storia e il clima italiani. Chissà se Tremonti ripeterebbe quel concetto anche oggi. Di sicuro lo ha fatto proprio Fini, che di Tremonti sembra non condividere solo il modo in cui in questi mesi ha tenuto stretti i cordoni della borsa, soprattutto nei confronti del Sud.

A proposito di Fini, se da una parte rifiuta comprensibilmente d'incontrare gli ambasciatori di "pace" del premier, dall'altro uno dei suoi scudieri, Adolfo Urso, ieri a Ballarò è apparso insolitamente "berlusconiano", allineato. Chissà che la pace, o almeno una tregua, non passi per il Ministero dello Sviluppo economico, lasciato libero da Scajola, di cui Urso è viceministro...

Tuesday, May 11, 2010

Cameron caduto nel doppiogioco di Clegg

18:19 - Cameron verso Downing Street. L'accordo con Nick Clegg sarebbe praticamente cosa fatta e in serata dalle riunioni dei gruppi parlamentari dei due partiti dovrebbe arrivare la definitiva "luce verde". Ma a che prezzo... I Tories infatti avrebbero offerto ai lib-dem un referendum sul sistema di voto. E i lib-dem si sarebbero convinti che con i laburisti non avrebbero avuto i numeri in Parlamento e la forza politica nel Paese per far passare il progetto di riforma elettorale proporzionale, mentre una coalizione con i Tories garantirebbe quanto meno di arrivare effettivamente al referendum sull'Alternative Vote neozelandese. Cameron rischia di passare alla storia come il conservatore che per diventare premier ha affossato il sistema politico-istituzionale più antico (ed efficiente) d'Europa...

12:32 - Cresce il sospetto che l'apertura di Clegg a Cameron poco dopo l'esito del voto fosse strumentale a "svegliare" il Labour. Dopo aver ottenuto la testa di Brown, e aver astutamente temporeggiato con Cameron, infatti, il leader dei lib-dem è pronto a rivolgersi ai reggenti del Labour. Aumentano quindi le quotazioni di un accordo "lib-lab" e, purtroppo, di una riforma elettorale in senso proporzionale che decreterebbe la fine del bipartitismo britannico.

Cameron si è dimostrato ingenuo, ha sbagliato ad aspettare troppo, ad intavolare un dialogo alla pari con il perdente Clegg, a farsi intrappolare nei negoziati fino al ritiro di Brown, che ha rimesso in gioco gli avversari sconfitti, mentre avrebbe dovuto porre il leader lib-dem di fronte ad un aut-aut: prendere o lasciare. Va però ricordato che la Regina già prima delle elezioni aveva fatto capire che non avrebbe avallato un governo di minoranza, che avrebbe conferito l'incarico a chi le avesse assicurato di poter contare su una maggioranza ai Comuni. Dunque, probabilmente Cameron aveva pochi spazi di manovra per tentare (o minacciare) un atto di forza.

Adesso tenta di correre ai ripari (è «l'ora delle decisioni» per i lib-dem, ha intimato stamattina), nel frattempo aprendo ad un referendum sul sistema di voto alternativo (quello neozelandese), che sembra una mossa della disperazione, di sicuro un'ammissione di impotenza. Cameron deve capire in fretta gli errori commessi in campagna elettorale e in questa fase post-elettorale - in due parole, è stato naif e debole - e cambiare registro.

Oggi rischia di non entrare a Downing Street, ma poco male. Non è detto che una "coalizione degli sconfitti" al governo - comunque numericamente fragile in Parlamento e certo non "ratificata" dagli elettori nelle urne - premi laburisti e lib-dem e non aiuti piuttosto a ingrossare i consensi dei Tories. La mia impressione è che a quel punto solo il proporzionale potrebbe salvarli dalla disfatta quando, più prima che poi, si ritornerà alle urne. Anche perché in questi giorni, senza ancora alcuna modifica al sistema elettorale, i cittadini del Regno Unito hanno avuto un assaggio di cosa significano "proporzionale" e "governi di coalizione": al popolo viene di fatto revocato il diritto di scegliere chi li governa, diritto che passa nelle mani dei leader dei partiti, anche se politicamente sconfitti alle elezioni. Ma Cameron rischia anche di non entrarci più, se non muta al più presto atteggiamento, di passare per quello che ha fallito il calcio di rigore decisivo, per un impotente e non per uno "scippato".

Un cattivo modello per l'Europa

«Non incolpate la moneta unica per i fallimenti delle politiche keynesiane», e di leadership «irresponsabili», scriveva ieri il Wall Street Journal, osservando che L'Europa «non sta vivendo una crisi monetaria, ma una crisi del debito provocata da eccessivo indebitamento, eccessivo peso e inefficienze pubbliche e insufficiente crescita economica». Il rischio è che il salvataggio di oggi, inducendo a credere che in circostanze simili l'Ue agirà come «prestatore di ultima istanza», produca ulteriore «azzardo morale» domani, e non maggior rigore. Il messaggio mandato ai creditori e ai governi è che «saranno sempre salvati». Il rischio che la Bce appaia pronta a «monetizzare» i debiti dei Paesi Ue potrebbe spingere gli uni a correre rischi eccessivi, gli altri a non agire come dovrebbero sul deficit.

Fa bene a insistere Carlo Stagnaro, oggi su Il Foglio:
«La radice di tutti i mali non è nel mercato, nella speculazione, nel profitto. La radice dei mali è nelle finanze pubbliche allegre e creative, nello stato spendaccione e irresponsabile. Nella speranza di alcuni governi europei che dei loro disastri si sarebbero fatti carico altri: gli investitori gonzi, i Paesi più solidi, le generazioni future... Non possiamo più considerare la spesa come una variabile indipendente, e se le entrate non bastano, finanziare la differenza in debito. Dobbiamo tagliare il debito... La parola d'ordine per il settore pubblico deve essere: austerità. La parola d'ordine per il settore privato dev'essere: crescita».
L'aumento del deficit è «comprensibile in tempi di crisi - ammette oggi il WSJ - ma i mercati hanno mandato il messaggio che questo livello di spesa è insostenibile». Con le misure assunte, osservava ieri Munchau sul Financial Times, l'Europa ha guadagnato tempo, ma - avverte oggi il WSJ - se la classe politica europea non approfitta di questa apertura per «tornare in forma», la crisi ritornerà. Una crisi, insiste il WSJ, dovuta alla «spesa eccessiva e a politiche che ostacolano la crescita economica». L'argine innalzato ieri ha «solo posticipato la resa dei conti - e ad un prezzo allarmante».

Ma soprattutto, nel commento di ieri il Wall Street Journal coglieva una tendenza particolarmente preoccupante. La crisi di questi giorni rischia infatti di generare un'ulteriore spinta all'idea che l'Unione anche politica dell'Europa coincida con un «super-stato europeo» che abbia il potere di «fissare» una politica economica comune, «armonizzare» i livelli di imposizione fiscale e «facilitare» i trasferimenti dai Paesi ricchi ai poveri, nella sostanza di «imporre il welfare state che ha cacciato l'Europa in questo guaio». E' esattamente, mi viene da pensare, l'errore che ha commesso l'Italia nei confronti del Sud e di cui ancora non riusciamo a liberarci: dirigismo, tasse elevate e uguali dappertutto, assistenzialismo da Nord a Sud. L'Europa si sta pericolosamente avviando verso un modello perdente già sperimentato in Italia, e l'Italia rischia di "esportare" in Europa il suo modello più fallimentare.

E mentre Fini si iscrive tra i più entusiasti sostenitori della proposta di un'agenzia di rating europea, bisogna riconoscere a Tremonti - oggi lo fa Oscar Giannino su Il Messaggero, non certo un "tremontiano" - di aver tenuto stretti i cordoni della borsa, resistendo a pressioni interne ed esterne alla maggioranza.
«Meno male, che sono rimasti stretti. E' questo ciò che il ministro vorrebbe oggi non riconosciuto a lui personalmente, ma che divenisse un riflesso condizionato di tutti i protagonisti della vita italiana in questa difficile fase. Questa volta abbiamo evitato di essere considerati, dai mercati come dagli altri Paesi, come un appestato che poteva diffondere il contagio. Una non disprezzabile novità, in un mondo in cui Stati Uniti, Giappone e Regno Unito dovranno tutti tagliare strutturalmente tra i 12 e i 14 punti di Pil il loro deficit pubblico anno per anno, se vogliono tornare a ristabilizzare il loro debito verso il 65% del Pil entro il 2030. E in cui la media dei Paesi Ocse dovrà farlo di 8 punti di Pil, dice il Fmi. Mentre all'Italia ne basterebbero meno di 5 (...)».

Monday, May 10, 2010

Psicodramma europeo

I veri "untori" e parassiti sono i politici

Il solito vecchio film: la stessa trama, i soliti colpevoli. Gli speculatori, cui si sono aggiunte come guest star le agenzie di rating. Contro questi moderni "untori" si sono scagliati i leader e i media europei in questi giorni definiti «drammatici» per la tenuta dell'Eurozona, nel tentativo di occultare le loro tremende responsabilità, individualmente come capi di Stato e di governo nei loro Paesi e collettivamente come Unione (si fa per dire) europea.

Ci sta che alcune agenzie di rating che hanno fallito nel recente passato, ora con troppo zelo cerchino di recuperare credibilità, provocando forse più allarmismo del dovuto. Ma prendersela con esse per la reazione dei mercati alla situazione debitoria di alcuni Paesi europei, che per altro può essere verificata da chiunque senza alcun particolare "rating", è ridicolo. E particolarmente risibile l'idea di un'agenzia di rating europea, avanzata la scorsa settimana dal commissario Ue ai servizi finanziari, guarda caso un francese, che accusa quelle attuali di essere troppo poche, colluse, e naturalmente troppo "amerikane". Credo (non sono un esperto, quindi chiedo lumi) che nulla vieti l'emergere di nuove agenzie di rating, che sia solo una questione di autorevolezza riconosciuta dai mercati, ma come giustamente fa notare Perotti, sabato sul Sole, quale credibilità potrebbe avere un'agenzia di rating europea - magari con sede a Parigi e Bruxelles e diretta emanazione dei governi europei - nel valutare i titoli di Stato dei Paesi Ue?

Gli speculatori sono stati naturalmente indicati negli investitori e nei media anglosassoni, contro cui qualcuno pensa di mobilitare addirittura i servizi segreti. Occhi puntati in particolare sui fondi Usa e asiatici (e perché non arabi?), in un già visto, già sentito, di complotti "demo-plutocratici" e pericolo "giallo" che sanno di ideologie e razzismi vecchi e nuovi. Insomma, va in scena il solito film. Ma non c'è una spectre all'azione, altro che complotto... Sta accadendo ciò che era ampiamente prevedibile: avete voluto affrontare la crisi economica aumentando deficit e debito? Bene, ora si avvicina il momento di pagare il conto, perché le banconote non crescono sugli alberi. E per onestà i politici, le classi dirigenti dei nostri Paesi, dovrebbero spiegarlo ai cittadini, non agitare l'alibi degli avidi speculatori. Uno dei pochi che timidamente si è defilato, l'altro giorno alla Camera, è il ministro Tremonti, bisogna dargliene atto, che da tempo parla di una crisi che si sposta dai debiti privati ai debiti pubblici e inaspettatamente non si unisce al coro contro gli speculatori, ma ammonisce: «Se c'è la forza di una visione comune per capire che la speculazione è solo una parte del problema, credo che ci siano ragioni per essere fortemente ottimisti».

Se, appunto. Perché il problema è altrove e speriamo che passata la tempesta i leader europei se ne ricordino e non tornino nello stato di beato far niente delle settimane scorse. E' vero che se i governi greci non avessero "barato", probabilmente i mercati avrebbero concesso ulteriore tempo ai Paesi europei prima di suonare la sveglia. Ma parlare di speculazione serve solo ai politici per allontare da sé le proprie responsabilità. Che idea hanno degli investitori? Di gente che regala i propri soldi? Se vi accorgete che un investimento è sempre più rischioso, che è meno certo che uno Stato o un qualsiasi debitore riesca a ripagarvi la somma prestata, che fate, non acquistate titoli più sicuri, o non chiedete più interessi? Il problema sta nel debitore, non nel creditore che cambia investimento e decide di non rifinanziare il suo debitore. Nelle famiglie normali quando si spende più di quanto entra, si tagliano le spese non ci si indebita ancora di più. Perché invece i politici continuano a spendere? Ovvio: per accattivarsi il consenso del proprio elettorato.

Ma il problema non è solo il debito, è anche la crescita: bisogna rimboccarsi le maniche, e non stampare moneta, se vogliamo mantenere i nostri standard di benessere. In questi dieci anni l'Europa non si è quasi preoccupata di promuovere la produttività dei suoi stati membri, costringendoli a realizzare le riforme strutturali che tutti sanno essere indispensabili, ma non è riuscita neanche a far rispettare il Patto di Stabilità, che anzi ultimamente, con la crisi, è stato del tutto travolto. Concentrandosi solo sui saldi di bilancio e non anche sulla crescita, alla fine non è riuscita a mantenere solidi gli uni, né a promuovere l'altra. Non essendo riuscita a far rispettare i parametri di Maastricht attuali, non si vede quale credibilità potrà avere un nuovo patto.

Gli investitori non si accaniscono sulla Grecia e sugli altri soci deboli dell'Ue per chissà quale complotto o avidità, ma perché diffidano della sostenibilità negli anni avvenire di debiti pubblici crescenti. Ma come fa notare oggi anche Giavazzi sul Corriere, se fosse solo questo «i mercati non si preoccuperebbero solo di Grecia, Spagna e Portogallo, ma anche di Gran Bretagna e Stati Uniti, che invece non hanno alcuna difficoltà a finanziarsi». Si tratta certo di deficit e debito troppo elevati, ma per di più accompagnati a bassi tassi di crescita e scarsa competitività. Ed una razionale allocazione delle risorse è buona, non cattiva "speculazione".

Per rendere sostenibili quei debiti occorrono risparmi privati ed esportazioni, su cui per fortuna l'Italia è messa meglio di altri, ma anche tassi di crescita sostenuti, produttività, redditi, su cui purtroppo siamo carenti. E' stato senz'altro un bene che il governo - e bisogna riconoscere questo a Tremonti - abbia affrontato la crisi senza abbandonarsi alle pazze spese come suggeriva l'opposizione (e tra l'altro l'effetto dei pacchetti di stimolo dove sono stati più generosi si è rivelato comunque modesto), ma ora occorrono urgentemente quelle riforme strutturali (fisco, pensioni, mercato del lavoro e ammortizzatori) in grado di alleggerire il cavallo della nostra economia in modo che possa tornare a correre. La sfida dev'essere quella di agganciarci alla Germania. Le misure emergenziali assunte dai leader europei, in collaborazione con gli Usa, possono funzionare, a patto però che si riconosca la vera causa di quanto sta accadendo: non la speculazione, ma debito elevato ed economie poco dinamiche.

Saturday, May 08, 2010

In buona compagnia

Era lecito aspettarsi che dopo l'esito delle elezioni generali britanniche, che hanno dato luogo ad un Hung Parliament e ad una situazione di instabilità politica, si scatenassero sulla stampa e nel mondo politico gli avversari dell'uninominale e del bipartitismo per suonare le campane a morto. Ciascuno desideroso di piegare gli eventi in casa d'altri a sostegno del disegno politico coltivato a casa nostra. In particolare, chi nella maggioranza prende la palla al balzo per convincerci che l'attuale nostro sistema elettorale è il migliore possibile e chi - il commento di Polito oggi ne è un fulgido esempio - suggerisce ai britannici il sistema tedesco, che è nei piani del propri referenti politici: cioè, Massimo D'Alema e Pier Casini.

Su questo blog avete letto un'analisi diversa: il bipartitismo britannico è - almeno per ora - salvo, e vivo e vegeto nei comportamenti dell'elettorato. Il punto infatti non è l'eventuale formazione di un insolito governo di coalizione, esperienza che potrebbe comunque concludersi in breve tempo, né un periodo di instabilità politica, possibile con qualsiasi sistema. Il punto è capire se i lib-dem hanno una forza politica tale da ottenere una riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Secondo me, al momento no.

I laburisti, gli unici disponibili a ragionare su una tale ipotesi, sono usciti troppo sconfitti da queste elezioni. E i lib-dem hanno deluso. Neanche una "coalizione degli sconfitti" (258 seggi più 57, 52% del voto popolare), infatti, raggiungerebbe la maggioranza assoluta dei seggi (326). Decisivo, rispetto alle possibilità di riforma in senso proporzionale, è il flop-Clegg: se infatti avessimo avuto, per esempio, i laburisti al 28% e i lib-dem al 27, quindi anche senza sorpasso, probabilmente ci sarebbero stati i numeri per un governo di coalizione tra i due, legittimato dalla cospicua avanzata dei "gialli". Ma così non è stato. Tra l'altro, come fa notare oggi il ministro della Difesa ombra Liam Fox, sarebbe «strano» se un accordo fosse fatto naufragare sul sistema di voto, che non è certo al centro dell'interesse degli elettori. Sarebbe quindi politicamente costoso per i lib-dem rifiutare l'offerta di Cameron impuntandosi sul proporzionale.

Tornando a noi, fa piacere, andando controcorrente, almeno trovarsi in buona compagnia. Identica, infatti, è l'analisi di Angelo Panebianco, oggi sul Corriere della Sera:
«L'aspettativa di un Parlamento in cui nessun partito avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi si era fatta forte a causa del successo mediatico (che però non si è tradotto in successo elettorale) del "terzo partito", i Lib Dem di Nick Clegg. Diversi politici italiani, e anche qualche commentatore, avevano creduto di trarne la "lezione" secondo cui il bipartitismo britannico sarebbe agonizzante. E' l'abitudine italiana di usare le vicende altrui per sostenere le proprie tesi preferite sulla politica di casa nostra. Adesso che l'aspettativa si è realizzata, che, effettivamente, nessun partito detiene la maggioranza assoluta, è probabile che molti continueranno a sostenere quella tesi. Si sbagliano. È già accaduto altre volte. L'ultima fu nel 1974, quando si formò un gabinetto laburista di minoranza. Pochi mesi dopo la Gran Bretagna tornò alle elezioni, i laburisti conquistarono la maggioranza assoluta dei seggi e si ricostituì la normale dialettica bipartitica. Nulla lascia pensare che le cose non andranno così anche questa volta. Un forte successo di Clegg, forse, avrebbe innescato cambiamenti ma il successo non c'è stato... ha contato soprattutto una ragione tecnica: il sistema elettorale maggioritario rende la vita difficile ai "terzi partiti" che non dispongano di un consenso territorialmente concentrato. Gli elettori sono chiamati a dare un "voto strategico", a orientare il proprio voto al fine di impedire che si assicuri il seggio il candidato del partito da essi più avversato. Il non brillante risultato liberale, a sua volta, salvo sorprese, rende poco credibile la possibilità di una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale (una riforma, quella sì, che decreterebbe la fine del bipartitismo)... Presto o tardi, con nuove elezioni, anche l'attuale incidente di percorso verrà riassorbito...».
Nessun sistema mette al 100% al riparo da crisi e momenti di instabilità, perché essi fanno parte della vita umana, individuale e collettiva, e non sono eliminabili. Ma se l'uninominale e il bipartitismo li riducono al minimo, il proporzionale e il multipartitismo rischiano di produrre due esiti che sono la regola, non l'eccezione: o il consociativismo, o l'ingovernabilità patologica. E stiamo sperimentando in Italia come l'aver adottato un sistema proporzionale con correzione maggioritaria ci abbia solo illusi di aver rafforzato il bipolarismo. Nei due partiti maggiori infatti si agitano ancora spezzoni che ambiscono a recuperare una rendita di posizione.

Così come i lib-dem nel Regno Unito si illudono che passando al proporzionale verrebbe formalizzato un sistema tri-partitico che li vedrebbe sempre al governo, o con i Tories o con il Labour, e unici arbitri del quadro post-voto. In realtà, la stessa complessa entità statuale del Regno Unito dovrebbe suggerire che senza una semplificazione del sistema partitico, passando al proporzionale si andrebbe non verso il sistema tedesco, ma verso una frammentazione estrema, con probabilmente oltre 10 partiti. Gli stessi lib-dem finirebbero ben presto per perdere il loro ruolo di ago della bilancia, funzione che si scomporrebbe a favore di tante altre entità che cercano di far valere la loro rendita di posizione anche minima.

E' falso, inoltre, che l'uninominale «sovrarappresenti» i partiti di maggioranza relativa, come se ciò fosse il prodotto di un intervento artificiale rispetto alla volontà degli elettori. Si può parlare in questo senso di «sovrarappresentazione» in un sistema proporzionale corretto da un premio di maggioranza, com'è il nostro, per cui una quota di rappresentanti viene praticamente eletta dal nulla. L'uninominale è semplicemente la messa in pratica di un'idea diversa della rappresentanza rispetto a quella sottesa al proporzionale.

L'idea alla base di quest'ultimo è che ad eleggere i propri rappresentanti sia il popolo nella sua totalità, inteso come entità monolitica e omogenea (non dal punto di vista delle opinioni politiche, ma come soggetto legittimato ad essere rappresentato), quindi in un certo senso astratta. Viceversa, il collegio uninominale presuppone l'idea che non esiste tale entità umana, ma che esistono in concreto, su un dato territorio nazionale in un preciso momento storico, diverse comunità di persone, di diverse o simili dimensioni, ciascuna delle quali ha diritto ad esprimere un suo rappresentante. Parlare di «sovrarappresentazione» con l'uninominale non ha senso, perché in realtà ha poco senso, in quel sistema, guardare al dato percentuale sul voto popolare, che diventa un'astrazione.

Friday, May 07, 2010

Cameron con il cerino acceso in mano

Lib-dem sul filo del rasoio

Non poteva sottrarsi David Cameron al dovere di tentare di formare un governo di coalizione. Saggiamente Clegg si è sottratto all'abbraccio degli sconfitti, e si è proposto ai vincitori, come aveva promesso in campagna elettorale. Reale disponbilità? Oppure, mossa tattica, tanto per logorare Cameron, per poi finire in braccio al Labour e ottenere il sospirato proporzionale? Difficile dirlo. E' certo però che Cameron non poteva non accettare la sfida, doveva rivendicare una vittoria netta, un recupero di seggi straordinario (+97), e non dare il senso di aver mancato il "change" al governo.

Non si può però nascondere un pizzico di delusione per un Cameron che in poche settimane ha gettato al vento il solido vantaggio (circa 10 punti) del gennaio scorso, che nonostante i 13 anni di Labour, la crisi economica e l'antipatia di Brown, non è riuscito a sfondare. Sorge il sospetto che il suo apporto ai Tories, in quanto personalità nuova, sia stato modesto, se non nullo, se non (diranno i maligni) dannoso... Ne avevamo segnalato il problema squisitamente politico (e strutturale). Vedremo se saprà guadagnarsi maggior fiducia alla prova del suo primo governo.

Anticipando di voler proporre ai lib-dem «una grande, aperta e complessiva offerta» (comprendente, pare, alcuni ministeri), ha posto i suoi paletti in modo sorprendentemente esplicito: nessuna concessione ai lib-dem su Europa, immigrazione, politica estera, ma soprattutto la cosa più importante. Fa capire, infatti, che i lib-dem non otterranno mai dai conservatori ciò che desiderano più di ogni altra cosa, e cioè una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale. Al massimo, si può trattare di ridisegnare i collegi, che serve più che altro ai conservatori. Clegg si accontenterà? Il cerino in mano a Cameron comincia a consumarsi. Ma lo ripeto, tentare è d'obbligo. I Tories hanno vinto, gli inglesi hanno indicato chiaramente loro e si aspettano che provino a governare.

Può sembrare strano, ma nonostante l'Hung Parliament, a mio avviso il bipartitismo britannico per ora è salvo, è vivo e vegeto. Il punto infatti non è la necessità di un insolito governo di coalizione, esperienza che potrebbe comunque concludersi in breve tempo, né un periodo di instabilità politica, possibile con qualsiasi sistema. Il punto è capire se i lib-dem hanno una forza politica tale da ottenere la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Secondo me, al momento no. Nonostante 'pompato' dai media, nonostante la visibilità dei primi dibattiti tv a tre nella storia delle elezioni britanniche, nonostante condizioni politiche ottimali per un outsider (crisi economica e debolezza degli avversari), Clegg è rimasto al palo nei voti popolari e ha perso seggi. Gli elettori nei seggi "contendibili" si sono espressi in senso bipartitico: o Tories, o Labour. Ai loro occhi le politiche lib-dem non sono apparse ancora sufficientemente credibili. Gli stessi elettori laburisti delusi hanno preferito rivotare Labour per le posizioni più "realiste", concrete, "di governo", rispetto ai lib-dem su Europa, immigrazione e politica estera.

Certo, i lib-dem possono sempre tentare una coalizione con il Labour e ottenere un referendum sulla riforma elettorale in senso proporzionale? Ma avrebbero la forza di vincerlo? E se dovessero prima passare di nuovo per le urne? Insomma, per ora l'ipotesi peggiore, di un successo lib-dem tale da porre le basi per il superamento del bipartitismo è scongiurata.

Per conservatori e i lib-dem si apre ora un periodo delicatissimo: dovranno far digerire ai propri elettori un accordo di governo, o sopportare i costi politici di un fallimento e del ritorno alle urne, o entrambe le cose nell'arco di pochi mesi. Ma sono i lib-dem a rischiare di più. Qualsiasi scelta compiono da una posizione evidentemente non di grande consenso popolare - accordarsi con Cameron, allearsi con il Labour, o rimanere da soli - rischiano nei primi due casi di scontentare ampi settori del loro elettorato, nel secondo di risultare irrilevanti, e quindi di rimanere stritolati alle prossime elezioni, se non riescono ad ottenere la riforma elettorale che inseguono. Per questo, il loro gioco potrebbe essere quello di accordarsi con Cameron, così da far riprendere fiato al Labour mentre il governo Tory si logora con la crisi, e tra un anno tornare al voto sperando di convolare a nozze con il Labour e ottenere finalmente il sospirato proporzionale.

Un gioco sul filo del rasoio. Insomma, leggerete di un Clegg sconfitto ma ago della bilancia decisivo. Sì, ma la sua è una posizione fragilissima, qualsiasi mossa rischia di pagarla a caro prezzo. I "terzisti" di casa nostra, che guardano a lui sperando di cogliere un segnale incoraggiante per i loro propositi di smontare il bipolarismo italiano, avranno di che riflettere. La sfida di Cameron sarà invece di non farsi logorare.

Flop-Clegg, Tories avanti ma delusione Cameron

Hung Parliament, ma il bipartitismo è salvo: "terzisti" bastonati. Brown bocciato, prove di dialogo tra Clegg e Cameron, probabile nuovo premier

17:51 - Arrivano i risultati definitivi: i Tories conquistano 307 seggi (+97), i Laburisti 258 (-91) e i Lib-dem 57 (-5). In percentuale sul voto popolare, i Tories salgono al 36,1% (+3,8), i Laburisti scendono al 29% (-6,2) e i Lib-dem rimangono praticamente stabili al 23% (+1). Nessuno dei tre partiti ha la maggioranza assoluta in Parlamento (326 seggi), quindi sono importanti anche i risultati dei partiti minori: 8 seggi ai democratici unionisti nordirlandesi (-1), 6 seggi lo Scottish National Party, 5 lo Sinn Fein, 3 il Plaid Cymru (+1), 3 i socialdemocratici, 1 i Verdi (+1) e 1 l'Alliance Party (+1). Nessun seggio ai partiti di estrema destra, che però complessivamente ottengono il 5% del voto popolare, UK Independence Party 3,1% (+0,9) e British National Party 1,9% (+1,2). Non solo nessun partito ottiene la maggioranza assoluta, ma sarà difficile anche costituire eventuali coalizioni di governo. Ci proveranno conservatori e lib-dem per primi, ma bisognerà vedere se Clegg accetterà i paletti posti da Cameron in modo sorprendentemente esplicito, soprattutto sul no ad una riforma elettorale in senso proporzionale. In caso di fallimento, Cameron proverà la fattibilità di un governo di minoranza con l'appoggio dei partiti minori. Ma sommando i 307 seggi dei Tories, gli 8 degli unionisti, i 6 dello Scottish National Party e i 3 dei gallesi del Plaid Cymru, si arriverebbe al massimo a 324 (sotto di 2). Ai laburisti non basterebbe un'alleanza con i lib-dem, quindi dovrebbero anch'essi tentare di coinvolgere i partiti minori in una coalizione raffazzonata, politicamente fragilissima e senza il sostegno popolare. L'ipotesi di nuove elezioni entro l'anno, o nella prossima primavera, rimane quindi probabile.

15:48 - Cameron apre al governo con i lib-dem anticipando di voler proporre loro «una grande, aperta e complessiva offerta», per affrontare insieme i problemi del Paese e assicurare un governo «forte e stabile»; ammette le differenze, ma sottolinea anche le aree di possibile intesa. Ma fa capire che i lib-dem non otterranno mai dai conservatori ciò che desiderano più di ogni altra cosa, e cioè una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale: «Abbiamo idee diverse - ha ammesso Cameron - ma un punto d'accordo potrebbe essere raggiunto assegnando ad ogni collegio lo stesso numero di elettori nell'ambito dell'attuale sistema first past the post». Ma messa così è una riforma che serve più che altro ai conservatori, per non trovarsi più in futuro in una situazione del genere, mentre i lib-dem sono interessati al proporzionale. Clegg si accontenterà? Il cerino comincia a consumarsi.

15:00 - Brown concede a Cameron e a Clegg una chance per accordarsi, ma in caso di insuccesso è pronto a subentrare e a cercare un'intesa con i lib-dem, offrendo subito in dote un referendum sul sistema elettorale. Più che aprire a Cameron mi sa che Clegg gli ha voluto passare un pericoloso cerino acceso.

11:51 - Saggiamente Clegg si sottrae all'abbraccio degli sconfitti e responsabilmente osserva che deve essere il partito che ha preso più voti e seggi - cioè i Tories - ad avere il diritto di provare a formare un governo, da solo o con altri partiti. Downing Street è più vicina per Cameron, che a questo punto dovrebbe ricevere l'incarico dalla Regina, nonostante i laburisti avessero tentato di richiamare la prassi (che in caso di Parlamento "hung" vorrebbe il premier uscente almeno tentare di proseguire) e coinvolgere subito i lib-dem in un'alleanza. I lib-dem, invece, astutamente si propongono a Cameron. Ma nel campo Tories non mancano resistenze. In ogni caso, difficilmente con il risultato deludente che hanno ottenuto i lib-dem riusciranno a imporre un cambiamento del sistema elettorale in senso proporzionale, escluso dai conservatori.

10:32 - Attualmente, stando agli exit poll (che al momento sembrano avvalorati dall'andamento dell'assegnazione dei seggi), non solo nessuno dei tre partiti ha la maggioranza assoluta in Parlamento (326 seggi), ma non vedo coalizioni possibili. Ai laburisti non basterebbe un'alleanza con i lib-dem, tenteranno quindi una raffazzonata e politicamente fragilissima coalizione, in stile prodiano, cercando l'appoggio della minutaglia di eletti dei partiti minori. Ai conservatori basterebbero i lib-dem, ma è un'alleanza complicata, improbabile, e se si fermano davvero a 306-307 seggi non gli basterebbe l'appoggio degli unionisti nordirlandesi. Non rimane che sperare che con i seggi ancora da assegnare i Tories riescano a superare in modo consistente la quota che gli attribuiscono gli exit poll: 315 seggi per sperare. It's complicated.

Clegg non nasconde la sua «delusione», Cameron, che in poche settimane ha gettato al vento il solido vantaggio (circa 10 punti) del gennaio scorso, si limita a dire che «il governo laburista ha perso il suo mandato a governare». E Brown? Esce sconfitto, ma grazie alla tenuta in Scozia, scongiura gli scenari da incubo della vigilia e non si sbilancia sul futuro governo, anche se lui personalmente sa di essere fuori dai giochi e già si dice «orgoglioso» per le cose fatte in questi 13 anni. Nonostante la sconfitta, i lib-dem cercheranno di fare da ago della bilancia, ma senza troppe pretese.

Uno dei dati sicuramente più sorprendenti di queste elezioni è proprio il flop di Clegg e dei lib-dem. Se grande era e rimane l'incertezza sulle prospettive di Hung Parliament, di una cosa tutti eravamo certi: dell'affermazione lib-dem. Forse non sarebbero riusciti a superare i laburisti, ma comunque si sarebbero avvicinati, raggiungendo il 26-27% e conquistando decine di seggi. Sono invece fermi al 23%, come alle scorse elezioni, e perdono una decina di seggi. Completo fallimento di sondaggisti e media britannici, che ci hanno inculcato il fenomeno Clegg dopo i dibattiti tv. Anch'io ci sono cascato nelle mie previsioni. Ho puntato sul sorpasso 27 a 26, ma almeno, al contrario di altri, avevo capito che insieme i due partiti di sinistra non avrebbero superato di molto il 50% (dovrebbero ottenere insieme il 52% del voto popolare). Ci sono andato molto vicino, invece, per quanto riguarda i conservatori, che dovrebbero attestarsi al 36%, non lontano dal mio 37, ma lontano per la maggioranza assoluta.

Probabilmente, nel creare dal nulla il fenomeno Clegg ha pesato un pregiudizio negativo di sondaggisti e media sia nei confronti dei Tories che del New Labour. Il flop Clegg dimostra ancora una volta che gli elettori non si fanno influenzare in modo banale e superficiale da ciò che sentono in tv o leggono sui giornali. Clegg ha pagato le sue posizioni euro-entusiaste, proprio nel momento del crollo della Grecia, e sull'immigrazione. Adesso sentiremo forse dire che i laburisti hanno tenuto rispetto ai lib-dem grazie all'intervento negli ultimi giorni di Tony Blair, che ha invitato a votare laburista sempre e comunque, al contrario dei molti appelli al voto tattico per i lib-dem in funzione anti-tories.

Sicuramente non ha avuto effetti negativi, ma a mio avviso la sconfitta di Clegg - a prescindere dal ruolo da ago della bilancia che giocheranno i "gialli" - rappresenta una tenuta del bipartitismo e una bocciatura dei lib-dem come possibile forza di governo: agli occhi degli inglesi non sono ancora sufficientemente credibili. Gli stessi elettori laburisti delusi preferiscono votare Labour per le posizioni più "realiste" e concrete rispetto ai lib-dem su Europa, immigrazione e politica estera. E' vero che il Parlamento che uscirà da queste elezioni sarà probabilmente "appeso", ma a vedersela sono sempre i due principali partiti, i lib-dem non avanzano nel voto popolare e arretrano nei seggi, segno che al dunque, nei seggi contendibili, i britannici si sono espressi in senso bipartitico: o Tories, o Labour. Non conosco nel dettaglio le serie storiche del voto, ma la mia impressione è che l'ascesa dei lib-dem nel voto popolare dagli anni '80-'90 si sia arrestata proprio nel momento in cui c'erano tutte le condizioni per una loro affermazione che avrebbe letteralmente smontato il sistema bipartitico britannico.