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Thursday, October 28, 2010

La strategia del binario morto

Sarà pure un "falco", ma bisogna riconoscere che Italo Bocchino è tra i finiani colui che meglio interpreta non solo la linea, ma anche gli umori più profondi del capo. Basta guardare alle uscite degli ultimi mesi: sono quasi sempre apparse azzardate, sopra le righe, a volte è stato ripreso dai moderati (Moffa, Menia, Viespoli, Ronchi), ma poi, quando ha aperto bocca Fini, si sono rivelate quasi sempre in linea.

Adesso Bocchino butta là una previsione che appare subito piuttosto realistica, ma che allo stesso tempo rivela un auspicio e una linea politica: che il Lodo Alfano finirà su un «binario morto». Sono favorevoli al lodo, ripetono ai fliniani, ma stanno facendo e faranno di tutto per farlo finire in un cassetto: non va bene questo, anzi no, quell'altro, distinguo e spossanti trattative, ma l'unico scopo è il «binario morto», dove già è finito il ddl intercettazioni (parte del programma del Pdl).

Ma il concetto di «binario morto» esprime perfettamente una vera e propria strategia dei finiani per questo governo e questa legislatura. Il governo ha il diritto-dovere di governare, sì, e la legislatura deve proseguire, sì, ma accompagnando l'uno e l'altra su un «binario morto». Di logoramento in logoramento l'utopia del governo "del fare" sarà svanita: Fini potrà allora rimproverare al Cav. 16 anni di inconcludenza, a cui lui ha pienamente e deliberatamente contribuito; e il Cav. potrà a sua volta esibire l'alibi dell'alleato infedele. Magra consolazione. Il copione è scritto e ad andarci di mezzo, come al solito, sarà il Paese. Diciamo che se i finiani sono sulla buona strada per realizzare i loro intenti, Berlusconi e il Pdl ci stanno mettendo del loro per aiutarli. Ancora qualche mese così e ci porteranno tutti su un «binario morto».

Porte spalancate

«Ma quale Padania! Ma quale Lega! Sono io, il presidente della Regione Siciliana, che dice a voi del Nord: basta così, la secessione la facciamo noi. La Trinacria se ne va, è prontis­sima ad arrangiarsi da sola».
(Raffaele Lombardo, oggi in un'intervista a il Giornale).
Provocazione? «No, dico sul serio». Pare che Fini sia sfortunato. Lascia il Pdl accusandolo di essersi appiattito sulla Lega, e di non tutelare l'unità d'Italia dagli attacchi e dalle battute bossiane, e senti cosa dice il suo nuovo compagno di viaggio: «L'Unità d'Italia è stata un affare o no per la Sicilia e per il Sud in generale? No... L'unificazione non è stata un affare né per i veneti né per i siciliani né per nessuno». Lombardo celebrerà l'unità solo quando sarà riscritta la sua storia. I bersaglieri? Autori di «genocidi». I Mille? Fecero un favore alla mafia.

La Sicilia se ne va per conto suo? Magari! Spalancate le porte!

Wednesday, October 27, 2010

C'è chi esce (forse) e chi rientra nel tritacarne

Archiviazione stra-annunciata quella della Procura di Roma riguardo l'ipotesi di truffa che oggi veniamo a sapere a carico di Fini e del senatore Pontone. Dunque, non ci sono profili penalmente rilevanti nella vendita della casa a Montecarlo di proprietà dell'ex An, anche se i pm semplicemente rinviano le «doglianze» dalla sede penale a quella civile (penale esclusa solo perché, pare di capire, sui partiti la Costituzione è rimasta inattuata e non si tratta di associazioni riconosciute). Non ho elementi per valutare sotto il profilo strettamente giuridico la decisione della procura, ma è un'archiviazione che certo rafforza ulteriormente il sospetto che la forte connotazione legalitaria, e da baluardo politico della magistratura, assunta da Fini e dal suo movimento - in un crescendo dalla primavera scorsa in poi e ostentata in questi giorni in cui è stata avviata la discussione sul Lodo Alfano e sulla riforma complessiva della giustizia - abbia fruttato. La Procura non ha ritenuto di sentire, neanche come persona informata sui fatti, l'attuale inquilino dell'appartamento, il "cognato" di Fini, che secondo ben più di qualche indiscrezione sarebbe il reale acquirente nascosto dietro due società off shore; non si è affacciata neanche dalle parti di Saint Lucia, il paradiso fiscale dove hanno sede entrambe le società off shore formalmente acquirenti, una dopo l'altra a stretto giro, dell'immobile. E oggi chiede un po' frettolosamente l'archiviazione, nonostante la perizia arrivata da Montecarlo indicasse un valore di mercato nel 2008 tre volte e più superiore a quello effettivo di vendita.

Considerando, poi, che in Italia il segreto istruttorio è un autentico colabrodo, non può che suscitare un certo stupore che in questo caso - a memoria d'uomo l'unico caso di un politico del livello di Fini - il segreto abbia tenuto, persino sull'iscrizione sul registro degli indagati. Interi verbali di interrogatorio, pagine di intercettazioni, persino i file audio, vengono pubblicati sui giornali e sui siti internet, e di Fini non si viene a sapere neanche che è stato formalmente indagato. Siamo contenti per lui, evidentemente oggi l'unico in Italia a godere dei diritti che spetterebbero a qualunque cittadino sotto indagine, persino ai Misseri.

Ammesso e non concesso che la Procura di Roma abbia ben operato, in questa vicenda rimane il caso politico e l'interesse giornalistico. Il sospetto, più che fondato alla luce non di chissà quale dossier, ma di solide notizie emerse in questi mesi, è che Fini abbia "regalato" al cognato una casa che apparteneva al suo ex partito, vendendola a 300 mila euro quando ne valeva ad esser cauti circa 1 milione. Nessuna truffa, forse, ma certo non un comportamento esemplare per un leader politico attualmente terza carica dello Stato.

Berlusconi, intanto, con l'avvicinarsi della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, sta finendo di nuovo nel tritacarne giudiziario. Ma quello che più dovrebbe preoccuparlo è il tritacarne politico. E' ormai evidente che Fini non è interessato (alcuni dei suoi forse sì) a trovare un modus vivendi all'interno della maggioranza, ma solo a procedere di logoramento in logoramento, alzando ogni volta l'asticella. Accettare trattative al ribasso su ogni virgola, subire il ruolo di "terza gamba" di Fli, ha inoltre attizzato malumori che stanno deflagrando nel Pdl: vedendo Fini che riesce a ricattare e a ottenere molto più dall'esterno di quanto si riesca all'interno, molti - individualmente e in gruppo - sono tentati di dar vita a "quarte" e "quinte gambe", e comunque cominciano a ragionare e a far calcoli all'interno di uno schema di dissolvimento del partito e dell'attuale maggioranza.

Se continua così, Berlusconi arriverà spossato alle amministrative e ciò che i suoi elettori non gli perdoneranno è di essersi lasciato governare dagli eventi e dagli avversari, l'aver lasciato il Paese allo sbando per mesi. Se non è in grado di governare e di realizzare le riforme promesse, tanto vale votare. Per come stanno ad oggi le cose, piuttosto che vivacchiare, piuttosto che la palude degli ultimi sei mesi, al premier conviene persino subire il ribaltone.

La cattiva coscienza di chi giudica gli iracheni

Si mobilitano per Saddam e Tarek Aziz come mai si sono mobilitati per il popolo iracheno perseguitato da Saddam e Aziz. Ma non è tutta qui la cattiva coscienza di chi oggi più che voler fermare un boia che sa di non poter fermare, vuole in realtà fare la classica bella figura a costo zero, nelle comodità del proprio salotto. E l'effetto più o meno consapevole è quello di delegittimare presso l'opinione pubblica il nuovo Iraq che così faticosamente e tra mille contraddizioni sta emergendo da quarant'anni di dittatura nazionalsocialista. Letteralmente nazionalsocialista, val la pena di ricordarlo. Per chi ci crede, il giudizio ultimo su Saddam e Aziz lo darà Dio. Qui sulla terra, non c'è giustizia umana più legittimita a giudicare di quella dei tribunali iracheni. Il punto non è essere a favore o contro la pena di morte. Il punto è non giudicare gli iracheni che giudicano i loro carnefici, riconoscere agli iracheni il diritto a giudicare i responsabili delle atrocità commesse contro il loro stesso popolo sotto un regime sterminatore. Un diritto che nei Paesi di molti di coloro che oggi protestano contro la condanna di Aziz è stato esercitato in modo molto, ma molto più brutale.

Chi proprio non può salire sul pulpito della morale e del diritto è chi non ha mai pronunciato una parola critica su un antifascismo fondato sull'assassinio e sull'oltraggio al cadavere del dittatore e sul "sangue dei vinti". Non si vedono sui giornali e in tv altrettante analisi pensose e autocritiche sulla sentenza di morte che alcuni partigiani eseguirono nei confronti di Mussolini e della sua amante (immaginiamo coinvolta molto più di Aziz nei crimini del fascismo...), nonché di migliaia di fascisti senza aver prima accertato in un processo le loro responsabilità dirette. Noi italiani al nostro dittatore nemmeno una parvenza di processo abbiamo concesso, nemmeno il rispetto del suo cadavere, così come non l'abbiamo saputo garantire ai migliaia di "vinti" di cui è stato sparso il sangue nel dopoguerra. E l'Europa che oggi si indigna per Saddam e Aziz è la stessa Europa che mi pare non metta sotto accusa - e giustamente non lo fa - Norimberga come giustizia dei vinti esercitata anche con la pena di morte.

Tarek Aziz ha subìto in questi anni diversi processi per fatti diversi, con verdetti ognuno diverso dall'altro (dall'assoluzione a condanne a 7 e a 14 anni), a dimostrazione di una giustizia forse non perfetta, né completamente distaccata (e come potrebbe esserlo del tutto?), ma le cui sentenze probabilmente non sono già scritte a priori. E mentre si stringerà il cappio al collo di Aziz, di sicuro non verserò lacrime, ma rivedrò negli occhi le vergognose immagini di quando gli fu permesso - al "cristiano" Aziz (!!!) - di insozzare con la sua sacrilega presenza la basilica di San Francesco d'Assisi (in rete non si trovano foto, se non questa di "Life"), con la brutale dittatura di Saddam Hussein ancora al potere. Come allora la Chiesa non avrebbe dovuto accostarsi al "cristiano" Aziz, così oggi la legittima e condivisibile posizione contro la pena di morte non ha alcun bisogno di venire accostata ai peggiori carnefici. Non temete, si può essere contro la pena di morte anche non versando lacrime per Saddam e Aziz.

Professionisti (e dilettanti) dell'odio politico

Ormai ci siamo assuefatti a sentire di politici o sindacalisti minacciati, aggrediti, presi a pugni e fumogeni. La violenza politica - a senso unico, va detto - non sorprende più, non indigna, non solleva le coscienze una volta esperita quella doverosa, rituale e stucchevole pratica dei comunicati di solidarietà, che il più delle volte suonano falsi se non in cattiva fede. Questa volta ad averne fatto le spese è Daniele Capezzone, che paga sì un clima di odio politico generale, ma anche una vera e propria demonizzazione multimediatica personale. E tra quanti oggi offrono la loro solidarietà, dovrebbe fermarsi a riflettere chi via web, televisione o radio (!) in questi mesi ha sparso odio e gettato stereotipi addosso a Capezzone, non preoccupandosi di dipingerlo in ogni occasione come tipo quasi sub-umano. Quello che è accaduto ieri dovrebbe indurli a riflettere, ma non c'è da illudersi troppo.

Tuesday, October 26, 2010

Il caso Chirac, esempio di scudo reiterabile

Fini continua a dimostrare una strumentalità senza pudore, e senza che nessuno lo colga in contraddizione. Ultima della serie la questione della non reiterabilità del lodo, che alla fine sembra abbia imposto con successo, nonostante sia del tutto demenziale. Proprio perché lo scudo giudiziario si riferisce alla carica, e non alla persona che la ricopre in quel momento, sarebbe stato infatti coerente garantirne la reiterabilità. Se la serenità dello svolgimento delle funzioni delle alte cariche è meritevole di tutela dai processi, come più volte ribadito dalla Consulta, lo è sempre e non per un solo mandato. E' un principio che "viaggia" insieme alla carica, non alla persona, anzi una prerogativa della carica stessa. Si può non condividere il principio di una tutela temporanea per le alte cariche dai procedimenti giudiziari, ma non allo stesso tempo essere favorevoli al principio e contraddirlo con la sua non reiterabilità.

Non contento, mentre ribadisce il suo no alla reiterabilità del lodo, chi ti va a pescare Fini come esempio di scudo legato alla funzione e non alla persona? Il caso Chirac, cioè proprio il tipico esempio di scudo reiterato anche per tutta la durata del secondo mandato (consecutivo) dell'ex presidente francese. E in quel caso non fu sospeso un processo avviato (è stato rinviato a giudizio solo nel 2009), ma l'inchiesta che lo riguardava, cioè le stesse indagini.

Secondo il Corriere della Sera di oggi, tra Fini e D'Alema ci sarebbe l'intesa di andare avanti «di logoramento in logoramento», fino alle amministrative del 2011, da cui Berlusconi dovrebbe uscire «azzoppato». Soltanto a quel punto giocherebbero la carta di un governo "modello Dini". Temono però che Berlusconi potrebbe essere «tentato di rovesciare il tavolo» prima, e allora scatterebbe subito il ribaltone.

Ho i miei dubbi però che Napolitano autorizzerebbe operazioni di questo genere. Va ricordato, inoltre, che se è vero che secondo la nostra Costituzione alla caduta di un governo non seguono inevitabilmente elezioni anticipate, è anche vero che mai nella storia repubblicana è seguito un governo "tecnico" (per modo di dire) con il partito di maggioranza relativa all'opposizione. L'unico caso fu quello per cui fu coniato il termine "ribaltone", ma persino allora fu Berlusconi a indicare il nome di Dini. Questa volta dubito che indicherà qualcun altro al suo posto.

Che sia tacita o meno, tuttavia, l'intesa tra Fini e D'Alema sembra esserci, è nei fatti se non nelle intenzioni. L'unica cosa certa è che se Berlusconi arriva alle amministrative del 2011 in questo modo, accettando cioè di farsi logorare, subirà sì una pesante sconfitta, e i disegni dei suoi avversari rischieranno di compiersi. Al premier conviene giocare d'anticipo, non aspettando di cadere da sconfitto dopo le amministrative, ma obbligando il suo avversario "interno" o a ingoiare riforme per lui costose politicamente, o ad assumersi la responsabilità di portare il Paese alle urne.

Monday, October 25, 2010

A carte sempre più scoperte/4

A Fini ormai manca solo l'orecchino alla Vendola

Le fibrillazioni di questi giorni dimostrano, per quanti ancora ne dubitassero, chi lavora alla destabilizzazione. Anzi, chi ormai non può farne a meno. Il ruolo di Fli come "terza gamba" della coalizione è stato di fatto accettato (come si vede, una grave minaccia per l'esistenza stessa del Pdl, dal momento che ora chiunque si chiede se non convenga trattare da fuori la propria "lealtà" al governo); la campagna stampa nei confronti di Fini è se non del tutto cessata, di molto attenuata, proprio come chiedevano i finiani come condizione per intavolare un dialogo; sulla giustizia si sta procedendo con un confronto e non con diktat, di fatto un "patto di consultazione". Insomma, incondizionato riconoscimento della componente finiana, ma proprio nel momento in cui i cosiddetti "pontieri" lavorano per rafforzare la tregua nella maggioranza, ecco che Fini butta benzina sul fuoco con vecchie e nuove provocazioni. Quanti chiedevano a Berlusconi di accettare il suo ruolo dialettico e di arrivare a un compromesso per il prosieguo della legislatura sono stati accontentati, ma emerge sempre con maggiore chiarezza che a Fini non interessa trovare un modus vivendi nella maggioranza, che non si accontenterà di alcun punto d'equilibrio.

Non tanto i suoi, ma è lui a non potersi permettere una normalizzazione. E' costretto a rilanciare in continuazione, a trovare spunti sempre più polemici di logoramento: per mantenersi al centro del dibattito politico; per continuare a far credere alle opposizioni di poter far cadere Berlusconi (assicurando al contempo la propria disponibilità a un governo tecnico per evitare elezioni immediate, e persino ad un'alleanza elettorale di emergenza  «a prescindere dalla provenienza politica»); e per controbilanciare, almeno a parole, gli atti concreti di sostegno al governo cui sono tenuti i suoi gruppi in Parlamento. Non solo, dunque, Fini torna a parlare di governo tecnico (insieme a D'Alema), proprio nel momento in cui nessuno più nella maggioranza parla di elezioni e in cui il governo sta cercando di rilanciare la propria azione (federalismo, giustizia, riforma fiscale). Ora dà l'impressione di volersi rimangiare anche l'impegno sul Lodo Alfano. Nessun impegno verrà onorato con lealtà, l'obiettivo di Fini è sì il prosieguo della legislatura, ma nel logoramento continuo del governo, passando da un veto all'altro. E se la corda si spezza, l'importante è che non si voti subito.

Solo pochi giorni fa i finiani si erano impegnati a votare il lodo nella versione votata in Commissione Affari costituzionali del Senato (e a Mirabello Fini aveva inequivocabilmente assicurato il sostegno di Fli al lodo costituzionale). Impegno che sembra ora messo in forse dalla nuova condizione posta da Fini, che nulla ha a che vedere con l'obiezione - condivisibile nel merito, anche se inopportuna nel metodo - del capo dello Stato. Proprio perché il lodo si riferisce alla carica e non alla persona che la ricopre in quel momento, dev'essere garantita la sua reiterabilità. Se la serenità dello svolgimento delle funzioni delle alte cariche è meritevole di tutela dai processi, come più volte ribadito dalla Consulta, lo è sempre e non per un solo mandato. E' un principio che "viaggia" insieme alla carica, non alla persona, anzi una prerogativa della carica stessa. Si può non condividere il principio di una tutela temporanea per le alte cariche dai procedimenti giudiziari, ma non allo stesso tempo essere favorevoli al principio e contraddirlo con la sua non reiterabilità.

E a mio avviso le ultime dichiarazioni "vendoliane" di Fini sulle rendite finanziarie e su Marchionne sgombrano il campo da ogni dubbio (per chi ne avesse ancora) sulla pura strumentalità delle posizioni di merito che di volta in volta assume. Può vestire con estrema disinvoltura i panni (poco credibili) del liberista e del riformatore, come quelli post-bertinottiani dei tassatori delle "rendite" (leggi risparmi). Qualsiasi occasione e posizione è buona, l'importante è il "controcanto" a Berlusconi e al governo. Paradossale (e patetica) la replica a Marchionne: è vero che «è stato per grandissimo tempo il contribuente italiano, lo Stato, a impedire alla Fiat di affondare», ma il tentativo dell'ad oggi è proprio quello di emanciparsi da tale aiuto, di riuscire a farla sopravvivere in Italia senza sussidi statali. Ma questo è possibile solo aumentando la produttività degli stabilimenti e spronando forze politiche e parti sociali ad assumere decisioni volte ad accrescere la competitività complessiva del sistema (non solo il costo del lavoro, ma anche infrastrutture e giustizia civile all'altezza, burocrazia e tasse più leggere, che competono strettamente alla politica). Ma non capire che lo sforzo di Marchionne, anche in chiave critica nei confronti della politica, è proprio questo, vuol dire o non avere la più vaga idea di quanto sta accadendo, o fare della demagogia in malafede.

Friday, October 22, 2010

Napolitano ricorda male ma ha ragione

Nella sua lettera al presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini, il presidente Napolitano ricorda male quando afferma che il Lodo Alfano da lui stesso promulgato nel 2008, e poi bocciato dalla Consulta, non prevedesse la sospensione dei processi anche per il presidente della Repubblica. La prevedeva. Detto questo, le sue «profonde perplessità» sono fondate. Il problema, infatti, non sarebbe l'estensione in sé anche al capo dello Stato dello scudo per i reati extrafunzionali, prevista anche dal precedente lodo, ma che a deliberare la sospensione dei processi sia il Parlamento a maggioranza, come prevede la nuova versione, questa volta costituzionale, del lodo. Anche il primo Lodo Alfano, la legge ordinaria n. 124 del 23 luglio 2008, promulgata da Napolitano e poi bocciata dalla Consulta, estendeva infatti la sospensione dei processi al capo dello Stato, ma contrariamente all'attuale lodo costituzionale, non prevedeva una deliberazione del Parlamento:
«Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione».
Subordinare, invece, la sospensione dei processi a carico sia del premier sia del capo dello Stato ad una deliberazione parlamentare a maggioranza significa di fatto individuare - erroneamente - per le due cariche una medesima legittimazione. Ma se è giusto ribadire la dipendenza del premier dalla maggioranza parlamentare, così non può essere per il capo dello Stato, che una volta eletto non può subire un potenziale condizionamento di parte, perché ne verrebbe indebolito il suo ruolo di garanzia. Complimenti vivissimi a chi ha scritto quel pastrocchio. Rimango favorevole alla sospensione dei processi anche per il presidente della Repubblica, perché è bene scriverlo esplicitamente sulla Carta anziché affidarsi ad una prassi inaugurata da Scalfaro, ma dev'essere automatica, non sottoposta al voto del Parlamento, come invece è giusto che sia per il premier.

L'ultimo artificio degli idolatri della Costituzione

Di fronte a una legge costituzionale come il nuovo Lodo Alfano non c'è Consulta che tenga. Per questo ai repubblicones, ai guardiani e vari idolatri della Costituzione non resta che una possibilità: che intervenga in qualche modo il presidente Napolitano (ma non so se possa o meno rinviarla alle Camere), ritardandone e complicandone l'approvazione. Si appronta comunque un argomento per pressare ed allarmare il Colle, solo che stavolta il filo da tessere è davvero corto. La tesi è la seguente: poiché non si applica ai ministri, introducendo il Lodo Alfano il premier non è più "primus inter pares", ma "super pares", e attraverso questa innovazione si avvia di fatto «la trasformazione dell'Italia da "Repubblica parlamentare" a "Repubblica presidenziale"», equiparata più o meno ad una tirannia.

La questione era stata sollevata domenica scorsa sul Sole 24 Ore, ripresa in settimana da Giuseppe D'Avanzo e Carlo Galli, e oggi da Massimo Giannini, su la Repubblica. Sarebbe in corso uno «strisciante sovvertimento del nostro ordine costituzionale», è la pulce che si cerca di mettere all'orecchio del capo dello Stato. Il Lodo Alfano, sostiene infatti l'editorialista, «rischia di stravolgere la forma di governo parlamentare, sancita dagli articoli 55-69», di «alterare le prerogative del presidente della Repubblica, fissate dagli articoli 87-91» e di «squilibrare i poteri del governo, disciplinati dagli articoli 92-96». Le nuove norme, denuncia Giannini, «avviano la trasformazione dell'Italia da "Repubblica parlamentare" a "Repubblica presidenziale", attraverso la tappa impropria e intermedia del "premierato elettivo"». Come? Nella seconda versione del lodo, osserva Giannini, «l'esclusione dei ministri dalla copertura processuale, decisa dalla maggioranza il 29 settembre scorso, formalizza e costituzionalizza la "preminenza" del presidente del Consiglio, che lo rende "sovraordinato" rispetto ai suoi ministri (perché eletto dal popolo) e meritevole delle stesse "guarentigie" assegnate al Capo dello Stato». Il premier, dunque, «viene elevato di rango rispetto ai ministri del suo governo (nei cui confronti è "primus" non più "inter", ma "super pares") ed equiparato a tutti gli effetti al presidente della Repubblica», introducendo così a suo avviso «una forma spuria di "dualismo istituzionale" che non ha raffronti in nessun'altra democrazia occidentale, e che altera l'intero meccanismo di formazione e di bilanciamento dei poteri». L'editorialista di Repubblica paventa «l'avvento di un "premierato elettivo"», «l'anticamera - teme - di un presidenzialismo anomalo, in cui convivono e fatalmente confliggono un presidente del Consiglio consacrato dal popolo e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento. E in cui fatalmente, presto o tardi, il primo sostituirà il secondo. O renderà comunque necessario un definitivo e a quel punto forzoso "consolidamento" dei due poteri in uno solo».

Una tesi ardita, anzi campata in aria, perché ci vuole ben altro - purtroppo - per arrivare al presidenzialismo. E' del tutto evidente infatti che di per sé il Lodo Alfano non «stravolge» affatto la forma di governo (articoli 55-69), non si vede come possa «alterare» le prerogative del presidente della Repubblica (articoli 87-91) o aumentare i poteri del governo (articoli 92-96). A ben vedere il Lodo Alfano non introduce una forma di premierato, semmai si può dire che indirettamente conferma un trend in corso da anni, almeno dall'inizio della Seconda Repubblica: il rafforzamento della figura del premier, che già oggi (e non c'è certo bisogno del lodo per accorgersene) non è più "primus inter pares" ma "super pares" rispetto ai suoi ministri. Non siamo però ancora al premierato (bisognerebbe attribuire al premier la facoltà di sciogliere le Camere) e ammesso e non concesso che di premierato si possa parlare, siamo ancor più distanti dal presidenzialismo (bisognerebbe abolire il meccanismo della fiducia parlamentare). Certo, una riforma nell'uno (premierato) o nell'altro senso (presidenzialismo) rimane un esito possibile, ma il Lodo Alfano non lo rende certo inevitabile. E' comico, poi, che proprio chi ha quasi preteso l'esclusione dei ministri dal lodo, adesso si accorga del possibile rafforzamento della figura del premier e quindi la deplori.

Ma nell'articolo la mistificazione agisce in modo più nascosto. Laddove si usano i verbi «stravolgere», «alterare», «squilibrare», si parla di «strisciante sovvertimento» e di «delitto perfetto», e nessuno a fermare il «colpevole», e laddove si fa ricorso esplicito al «complesso del tiranno», si lascia intendere che quella del lodo costituzionale sia un'operazione antidemocratica nel metodo e illegittima, addirittura inconfessabile, nell'obiettivo ultimo: il presidenzialismo. Al contrario, la via è ultra democratica (quella prevista dall'articolo 138 della Costituzione), mentre l'approvazione del lodo non spalancherebbe affatto le porte al presidenzialismo, che comunque è una forma di governo perfettamente democratica. Alla base di queste reazioni scandalizzate c'è in realtà una vera e propria idolatria della Costituzione, che rifiuta di riconoscere ai cittadini italiani - quelli vivi oggi - gli stessi poteri di quelli di sessant'anni fa, quindi anche la possibilità di cambiarla, e - perché no? - stravolgerla la Carta, purché democraticamente.

Thursday, October 21, 2010

Anima forcaiola

La rivolta, attraverso il web, dei simpatizzanti finiani contro il voto di Fli a favore del Lodo Alfano rafforza l'impressione che con le sue manovre Fini abbia più che altro catalizzato le aspettative di forcaioli ex An e dipietristi di destra. Un «antiberlusconismo di destra», lo definisce Flavia Perina. Che sia di destra o di sinistra, di antiberlusconismo si tratta e fa riflettere che la Perina suggerisca di inseguirlo, non curante del deserto politico in cui in 16 anni ha ridotto la sinistra. Invece, il Lodo Alfano costituzionale è un modo civile e onorevole per chiudere, seguendo la via indicata dalla Consulta, la lunga stagione dell'aggressione giudiziaria a Berlusconi. Aggressione, portata avanti spesso con appigli debolissimi, che tra l'altro gli ha assicurato più di un alibi politico e un valido strumento di propaganda.

L'obiezione sulla presunta "retroattività" è un imbroglio dialettico, una mistificazione giornalistica, laddove non sia dettata da pura ignoranza. Dal punto di vista giuridico non ha senso applicare questo concetto ad una mera sospensione del processo che tutela non l'imputato, ma la funzione che si trova a ricoprire. Perché, appunto, di mera sospensione si tratta, per legittimo impedimento. E se si accetta il principio della tutela della funzione, e quindi che possano essere sospesi i processi in corso per la durata del mandato, è ovvio che i fatti cui si riferiscono possano essere anche antecedenti all'entrata in carica, altrimenti la tutela non sarebbe effettiva. Diversa la retroattività prevista nel cosiddetto "processo breve", che cancellerebbe migliaia di processi (i quali tuttavia, ad essere onesti, non verrebbero comunque celebrati).

Intanto, la riforma della giustizia sarebbe pronta e prossima ad approdare in Consiglio dei ministri. Sarà nient'altro che la riforma che il centrodestra ha promesso ai suoi elettori praticamente dalla sua nascita, dal 1994. E vedremo dal comportamento di Fli se sarà confermato o smentito il sospetto dell'alleanza, tacita o meno, tra Fini e le toghe per il mantenimento dello status quo. Sotto sotto, quando era alla guida di An, ha sempre remato contro, in particolare alla separazione delle carriere, e tutto lascia presagire che si metterà di traverso anche questa volta.

Ecco come si taglia per davvero

David Cameron sta cambiando i connotati non solo del welfare britannico, perché è anche lì che si abbatte la scure del governo, ma dell'intera struttura della spesa pubblica. Ecco cosa significa una riforma "strutturale". Ed ecco dimostrato come proprio l'urgenza di una crisi e l'inizio del mandato - al contrario di quanto Tremonti e Sacconi hanno sempre predicato in questi due anni - possono rivelarsi il momento più propizio per operare in profondità sul sistema.

Tagli per 83 miliardi di sterline, circa 94 miliardi di euro, in soli quattro anni e sono quasi tutti tagli lineari: in media avranno il 19% in meno tutti i ministeri del Regno Unito, tranne Difesa, Sanità e Istruzione, che subiscono tagli inferiori, ma comunque tagli, mentre Cultura (-41%) e Giustizia (-24%) contribuiscono in misura molto maggiore. Diversamente da quanto qualche giornale di sinistra vorrebbe far credere, la difesa è tra i pochi settori meno colpiti (-8%), mentre il welfare viene sottoposto a un'intesa cura dimagrante. Circa 7 miliardi di tagli aggiuntivi riguarderanno i pagamenti del welfare (sussidi per l'infanzia, per gli affitti e per la disabilità, saranno concessi secondo regole più restrittive). Previsto anche un innalzamento da 65 a 66 anni entro il 2020 dell'età di pensionamento.

Il piano prevede una riduzione dei dipendenti pubblici di circa 500 mila unità. Ovviamente i licenziamenti saranno solo una minima parte (circa 10 mila, pare di capire), mentre il grosso della riduzione (490 mila) verrà ottenuto non rimpiazzando i dipendenti che man mano andranno in pensione. Una cura da cavallo di cui avrebbe avuto e avrebbe bisogno l'Italia ben più del Regno Unito, il cui debito in rapporto al Pil è intorno all'80%, mentre il nostro al 118%. Ma a Londra sanno che allo Stato l'appetito vien mangiando e che se la dinamica del debito non si arresta subito e drasticamente, si fa presto, nel giro di pochi anni, a finire come noi italiani.

Al contrario, in Italia, tanto per citare due esempi, si stanziano fondi per 9 mila docenti universitari in sei anni (e si pretende l'inutile assunzione di altre migliaia di precari), il ministro della Giustizia Alfano promette nuove toghe a centinaia, che andranno ad ingrossare organici secondo tutte le statistiche internazionali tra i più dotati tra i Paesi occidentali. Da noi è bastata la piccola sforbiciata di Tremonti a suscitare non solo le grida delle opposizioni, ma anche i piagnistei di molti ministri del governo. Certo, è pur vero che la nostra economia e il nostro mercato del lavoro non sono abbastanza dinamici per assorbire una virata tale in modo che non abbia effetti depressivi, ma il nostro vero guaio è che nessuna forza politica, nessun giornalone, nessun polo mediatico e intellettuale ha criticato Tremonti per essere stato troppo timido, chiedendo tagli più coraggiosi e strutturali. Al contrario, dietro le critiche ai tagli lineari e le richieste, invero piuttosto vaghe, di politiche per lo "sviluppo" si sono ingrossate le file del trasversale partito della spesa. Per questo, nonostante tutto, Tremonti è un argine che è pericoloso abbattere.

Adesso si comincia a parlare di riforma del sistema fiscale. Per ora siamo ancora agli annunci, agli studi, ai tavoli tecnici e concertativi. Vedremo...

P.S.: Proprio ieri Fini ha incontrato Cameron, ha detto di seguirlo con «grande interesse, soprattutto sull'economia verde e la solidarietà». Chissà come la andrà a spiegare Fini ai suoi amati dipendenti pubblici la «solidarietà» versione Cameron-Osborne...

Wednesday, October 20, 2010

Ecco perché serve la riforma. E che sia "punitiva"

Circa 10 milioni di euro, 150 persone indagate di cui solo 34 rinviate a giudizio, di cui 26 assolte. Ma quel che più conta, smontata l'ipotesi investigativa di una "spectre" di potenti, tra cui l'ex ministro della Giustizia Mastella. Sono i numeri del fiasco dell'inchiesta ("Why Not") con cui De Magistris voleva "spaccare" il mondo e invece è riuscito "solo" a minare alle fondamenta il governo Prodi e a farsi eleggere con l'Italia dei Valori (!). Grave ciò che emerge dalla sentenza del gup: in pratica, De Magistris, invece di accontentarsi di perseguire i reati facilmente addebitabili, ha puntato sempre più in alto, tentando di arrivare ai piani più alti della politica solo per ottenere la pubblicità dei media. Il risultato? Ha edificato un costosissimo (per le casse dello Stato) castello di carte che ha diffamato molti, ha destabilizzato un governo democraticamente eletto portandolo infine alla sua caduta e ha danneggiato l'inchiesta stessa.

Impietose le motivazioni del gup, che parla di «una distorta e infedele rappresentazione dall'esterno delle reali e obiettive risultanze delle fonti di prova», ma che soprattutto trasformano De Magistris da accusatore a imputato:
«Nel corso delle indagini è stato abilmente seppellito da chi aveva interesse a farlo, sotto una miriade di dichiarazioni, propalazioni, coraggiose rivelazioni volte a rappresentare la molto più avvincente, inquietante 'televisiva' realtà di associazioni segrete, logge deviate, congiure di palazzo, accordi clandestini che dapprima operavano occultamente per monopolizzare la gestione degli appalti e delle risorse e che poi, a indagine avviata, tramavano per distruggere ed annientare da un punto di vista economico e di credibilità chi aveva avuto invece il coraggio di denunciare la realtà del malaffare».
Una ipotesi investigativa che «dopo anni di lunghe e costose indagini non ha trovato alcun conforto probatorio essendo stata sconfessata già nella fase delle indagini preliminari», ed anzi «ha impedito di analizzare con la necessaria obiettività i vari e inconfutabili elementi di prova che emergevano sin da subito». Ecco perché serve una riforma della giustizia. Ed ecco perché dovrebbe essere, in un certo senso, "punitiva".

Tuesday, October 19, 2010

Faccia di bronzo

Davvero una notevole faccia tosta quella di Fini. Anche noi siamo «delusi dalle promesse mancate di quella che nel 1994 appariva come una vera e propria rivoluzione liberale e modernizzatrice di cui purtroppo non si è visto fino a oggi alcuna traccia duratura». Ma è il colmo che a intestarsi il ruolo di portavoce di quella delusione sia addirittura Fini, che fino ad oggi si è distinto per un efficace contributo ad affossarla, ritardarla, annacquarla in ogni modo, quella "rivoluzione" promessa. Che si trattasse delle due-tre aliquote fiscali, della riforma della giustizia (in particolare, la separazione delle carriere), del lavoro e delle pensioni, o delle riforme istituzionali (vedi Bicamerale), o di federalismo, Fini era tra i molti, e a volte il principale, a mettersi di traverso. Sulla giustizia è ancora così, mentre gli altri temi di quella "rivoluzione liberale" berlusconiana sono stati nel tempo accantonati.

E' legittimo cambiare idea, ma le sue repentine e continue svolte e contro-svolte sono apparse puramente strumentali, al solo scopo di ergersi a controcanto di Berlusconi, di giocare da vera e propria spina nel fianco, ricostruendo la propria identità politica in opposizione al Cav. E a fronte di un legittimo percorso di "cambiamento", le manovre di Fini appaiono in tutto e per tutto immerse nelle logiche della Prima Repubblica, quando nella Dc le correnti minoritarie facevano di tutto per logorare il presidente del Consiglio di turno.

Sulla presunta volontà modernizzatrice di Fini una pietra tombale la getta, nella sua replica, Galli Della Loggia:
«Se per esempio il presidente della Camera avesse continuato a predicare la necessità del presidenzialismo con la forza e l'insistenza con cui l'ha fatto per tanto tempo, a nessuno oggi verrebbe in mente di collocarlo tra i custodi delle regole, dei tic e dei tabù della prima Repubblica. Ma non mi pare proprio che l'abbia fatto o che lo stia facendo. All'opposto, gli ammonimenti di inamidato buonismo e i precetti politicamente corretti che va dispensando regolarmente lo stanno rendendo degno del miglior Scalfaro d'annata».
E adesso Fini potrà appuntarsi al petto anche la "riabilitazione" che gli concede Adriano Celentano. Che il Corriere della Sera debba pubblicare una paginata intera dei deliri di Celentano dà la misura dei mala tempora qui currunt. Detto questo, se fossi in Fini mi preoccuperei di far parte del personale Pantheon del cantante in compagnia della Fiom, di Grillo, di Di Pietro e di Santoro. Celentano incorona Fini come il «Leader nuovo», «in grado di dialogare e mettere insieme, sulla via della LIBERTÀ e della DEMOCRAZIA, quello che di BUONO c'è, qua e là nei vari movimenti e partiti». E su «quello che di buono c'è» Celentano non ha dubbi: dalla protesta rispettosa (?) della Fiom alla «purezza» dei grillini, da Di Pietro a Santoro. D'altronde, «per essere nuovi - c'insegna il molleggiato - non c'è bisogno di cambiare la faccia, basta RISORGERE DENTRO». Risorto dentro: è questa l'immagine con cui Celentano eleva l'ex leader di An dalle fogne dei fascisti. Una riabilitazione un po' umiliante... Contento Fini...

Monday, October 18, 2010

Se piangono i ricchi, piangono tutti

Non c'è niente da fare, la tassazione resta un fattore fondamentale di sviluppo o di declino, a seconda se sia contenuta (a partire dai redditi più alti) o eccessiva. L'ennesima conferma arriva da questo dato che ci segnala Michele Boldrin, su noiseFromAmeriKa: in Italia la tassazione totale effettiva sui redditi lordi superiori ai 100 mila dollari (75 mila euro) è la più alta al mondo. Ridurre le tasse sui redditi medio-bassi è senz'altro giusto e opportuno, a patto di non illudersi che ciò basti a rilanciare la domanda interna, ma è l'aliquota marginale più alta, insieme alla fascia di reddito cui si applica, che determina l'effetto del sistema fiscale sull'economia. Più è elevata, e più si accanisce a partire da redditi lordi tutto sommato medi come i nostri 75 mila euro, maggiore sarà l'effetto punitivo nei confronti dell'attività economica e dell'accumulo di capitale che ne è il presupposto.

Può piacere o meno, ma è proprio chi guadagna quelle cifre, dai 75mila euro in su, a far girare l'economia, ad avere le risorse finanziarie, materiali e immateriali per creare impresa, quindi lavoro e crescita. Il nostro sistema fiscale, abbassando la soglia della ricchezza fino al ceto medio, sembra ideato al solo scopo di mettere in fuga questi soggetti o di indurli a nascondersi. Il risultato è che i "ricchi", quelli veri, si godono comunque la loro ricchezza, ci illudiamo di farli piangere, mentre tutti gli altri annaspano. Insomma, la tassazione eccessiva rimane la principale palla al piede del nostro sistema produttivo. Senza ridurla sensibilmente sarà difficile recuperare competitività e produttività.

Friday, October 15, 2010

Si scrive sviluppo, si legge spesa

Diventa sempre più difficile criticare il ministro Tremonti in nome di politiche per lo sviluppo. Se infatti è indubbio che principalmente su di lui pesa la responsabilità di un certo immobilismo del governo durante la crisi, della rivendicata volontà di non affrontare subito le riforme necessarie a far tornare l'Italia a tassi di crescita accettabili una volta passata la tempesta, diventa tuttavia sempre più difficile parlare di sviluppo, perché è dietro questa parolina magica che si nasconde un partito della spesa sempre più grande e trasversale. Aumentano le voci di coloro i quali non sembrano neanche concepire una crescita senza spesa e per i quali, al dunque, sembra esistere un'equazione inscindibile tra sviluppo e spesa pubblica. Vai a sentire quanti si riempiono la bocca di sviluppo e gratta gratta trovi quasi unicamente gente che si lamenta per i tagli tremontiani, non perché vorrebbe abbattere il debito o ridurre le tasse, ma semplicemente perché vorrebbe spendere quei soldi in qualche baraccone pubblico o in sussidi. Ormai quasi nessuno più ha la faccia tosta di invocare esplicitamente "più spesa", per questo occorre sforzarsi di distinguere tra chi usa la parola sviluppo come cortina fumogena e chi sostiene davvero politiche per lo sviluppo. E purtroppo bisogna constatare che oltre a Bersani ed Epifani, che irresponsabilmente hanno passato i mesi più duri della crisi ad invocare «soldi freschi, veri», più deficit, anche molti ministri del governo partecipano al piagnisteo contro i tagli.

Anche per loro lo sviluppo passa per i loro budget ministeriali (vero Galan?). E' comprensibile che non festeggino per i tagli. Il problema di fondo, però, è che intimamente non vedono altro modo per implementare le loro politiche ministeriali se non ottenendo più soldi, sempre più soldi. Ed è un modo sbagliato di concepire i compiti e le responsabilità di ministro. Possibile - mi e vi chiedo - che un ministro non sappia valorizzare il proprio settore di competenza in nessun altro modo che ricevendo più soldi da spendere? Possibile che si comporti più come un capo del personale? Si chiama "Ministero dell'Istruzione", non della "Scuola Statale". Possibile che non si riesca a capire che politiche efficaci per la "salute", o l'"istruzione", per fare due esempi, non debbano inevitabilmente consistere nell'ingrossare il baraccone pubblico di cui si è a capo? Quasi come se aver speso sia garanzia di aver operato bene. Eppure, sono moltissime le cose che possono essere cambiate e migliorate senza spendere un centesimo, ed è proprio questa la sfida.

La Gelmini ha portato a un passo dall'approvazione un'ottima riforma. Non perfetta, ma ottima rispetto allo scarso tasso di riformismo che esprimono i nostri governi. Perché proprio ora quell'emendamento, che non servirà certo a placare le proteste? Perché non portare a casa subito le nuove, preziose regole, la riforma dell'ordinamento, rinviando alla fine dell'anno il fondo per accontentare i ricercatori? E siamo sicuri che le nostre università abbiano davvero bisogno di tutti quei 9 mila nuovi stipendi in sei anni, piuttosto che di nuove infrastrutture, laboratori, attrezzature tecnico-scientifiche? A guardare le statistiche è proprio il monte stipendi che in Italia assorbe una quantità abnorme delle risorse destinate alle università.

Tremonti si è comunque impegnato a trovare i fondi, e lanciare sulla base della stabilità dei conti una politica di sviluppo in questa seconda parte della legislatura. Vedremo, ma ci conforta quello che è diventato il mantra del ministro: il deficit non crea crescita; porta alla rovina, non allo sviluppo. Non può più funzionare il metodo per cui basta un emendamento e puff, ecco in automatico anche i soldi. Il Tesoro non è un bancomat. Tra l'altro, non si tiene in debita considerazione che veramente in Europa il vento - e per fortuna - è cambiato. Probabilmente tra non molto dovremo rispettare un nuovo patto di stabilità che imporrà agli stati membri di portarsi entro il 60% nel rapporto debito/pil. Una meta da cui l'Italia è lontanissima.

Un altro mito che va sfatato è quello dei cosiddetti tagli lineari. Premesso che i baracconi in Italia sono tali da rendere possibili, e quindi necessari, tagli anche lineari, se si vogliono evitare allora qualcuno si dovrà prendere la responsabilità politica di indicare dove tagliare di più e dove meno o nient'affatto. Siccome però quando si cerca la vittima, ogni capitolo di spesa si scopre indispensabile, e l'unico risultato è rinviare qualsiasi taglio, il ministro intanto fa bene a tagliare un po' ovunque, ché dimagrire fa bene a tutti.

A carte sempre più scoperte/3

Dopo aver definito «ineccepibile» sotto il profilo istituzionale la risposta in cui Schifani conferma l'assegnazione in prima battuta al Senato della discussione sulla legge elettorale, gli basta un secondo et voilà, Fini sveste i panni di terza carica dello Stato per vestire quelli di capofazione, aggiungendo che «è altrettanto evidente che c'è una questione politica perché risulta difficile pensare che il Senato manderà avanti davvero la riforma elettorale». Ecco quello che si intende per incompatibilità del doppio ruolo di Fini. Un presidente della Camera dovrebbe fermarsi all'aspetto istituzionale «ineccepibile» e sulla «questione politica» far esprimere, semmai, qualcuno dei suoi.

Che la discussione sulle modifiche alla legge elettorale possa procedere speditamente, e procedere nella direzione gradita a Fli, Udc e Pd (il che al momento è numericamente possibile solo a Montecitorio), rappresenta per Fini il grimaldello da usare, in caso di crisi, per evitare un voto anticipato. E' ovvio, infatti, che trarrebbe un palese vantaggio, quanto meno in termini di potere di ricatto se non nel merito delle modifiche da apportare, dal profilarsi alla Camera di una maggioranza sulla legge elettorale diversa da quella che sostiene il governo, anche se poi non è affatto detto che si manifesti anche al Senato. Ma basta alla Camera per mettere sotto pressione Berlusconi. Che da presidente della Camera Fini spinga così tanto sfacciatamente in questa direzione, arrivando persino ad accusare il Senato (e la seconda carica dello Stato) di voler insabbiare l'iter parlamentare, dimostra il totale spregio per la terzietà e la neutralità politica della carica che ricopre.

Una manovra squisitamente politica, di bassa politica per altro, alla quale piega il corretto esercizio delle sue funzioni, disposto persino allo scontro non più solo con Berlusconi ma anche con Schifani. Non si spiega altrimenti questo accanimento, visto che se fosse il merito della riforma a stargli a cuore, la diatriba sarebbe del tutto senza senso, perché è ovvio che la proposta di riforma dovrà passare prima o poi sia per la Camera che per il Senato. Non si può non concordare con Bechis:
«È bene a tenersi a mente questo spettacolino teatrale messo in scena dalla terza istituzione della Repubblica, perché si ripeterà non una, ma mille volte nei prossimi mesi. Fini vuole restare incollato saldamente alla sua poltrona, perché quella gli assicura una statura e una dimensione politica che altrimenti non avrebbe alla guida di un piccolo manipolo di parlamentari. Ma rispetto per quella carica e per i suoi doveri non ne ha più. Come nel caso della legge elettorale ha esposto l'istituzione a una figuraccia (sapeva di chiedere quel che non si poteva chiedere) pur di piegarla ai piccoli interessi del suo gruppetto politico. Uno stile che fa apparire dei giganti delle istituzioni i suoi predecessori, anche quelli immediati come Fausto Bertinotti e Pierferdinando Casini. Ma è questione di uomini».
Sconcerto per questa condotta lo fa trasparire anche Stefano Folli, sul Sole 24 Ore, non certo un berlusconiano, il quale ricostruisce così la manovra:
«Il grosso dell'opposizione auspica la riforma della legge elettorale, ma intende quasi sempre riferirsi a un nuovo governo che, non potendo nascere da un patto politico e programmatico, si farebbe scudo della riforma per darsi un'impronta "tecnica". Tutti sanno che si tratta di uno scenario irrealistico e che il Capo dello Stato non favorirebbe mai una manovra ambigua. Tuttavia si continua a parlarne. Nella speranza che prima o poi il gruppo di "Futuro e Libertà", determinante a Montecitorio, si decida a provocare la caduta di Berlusconi. Ma è evidente che questa prospettiva, allo stato delle cose, è aleatoria. Forse prenderà forma più avanti, ma solo quando gli amici del presidente della Camera saranno sicuri di ottenere proprio quella nuova legge elettorale di cui essi hanno assoluto bisogno per rendere credibile la prospettiva dell'"altra destra" prima delle elezioni. Una sicurezza che al momento davvero non c'è. Per cui si resta nel circolo vizioso. Lo screzio istituzionale tra Fini e il suo collega del Senato, Schifani, suona conferma dell'intreccio. A Palazzo Madama, dove il centrodestra ha ancora una chiara maggioranza senza bisogno dei voti dei finiani, il dibattito sulla riforma elettorale rischia di esaurirsi in un nulla di fatto. Quindi Fini avrebbe voluto trasferirlo a Montecitorio, dove gli equilibri sono diversi. Avendo ricevuto un rifiuto ("formalmente ineccepibile") da Schifani, ha accusato il Senato di volontà insabbiatrice. Il che costituisce una novità senza precedenti».
Per Folli, «il progetto di un esecutivo dedicato solo alla riforma elettorale è mera utopia», e anche se fosse realistico, non ci sarebbe accordo, neanche all'interno del Pd, sul sistema da adottare, perché dipende «da quale politica delle alleanze si vuole seguire». Ciò non toglie che ognuno appaia «autorizzato a inseguire il proprio tornaconto», anche se «senza molto costrutto», ma ciò che è grave è che lo insegua Fini smaccatamente avvalendosi delle proprie funzioni istituzionali.

P.S.: Sia detto per inciso (ma mica tanto): non solo Fini e Casini questa legge elettorale l'hanno votata, ma l'hanno persino imposta a Berlusconi come condizione per tenere in vita l'alleanza per le elezioni del 2006.

La riforma che aspettiamo

Finalmente non più le tanto e a lungo contestate leggi "ad personam" (divenute un mantra senza più alcun senso). Il governo, secondo le indiscrezioni, avrebbe ormai pronte le linee guida di una riforma complessiva della giustizia e si preparerebbe a varare, in un Consiglio dei ministri che si terrà probabilmente entro la prossima settimana, i primi provvedimenti. Ieri il ministro guardasigilli Alfano le ha illustrate oralmente al presidente della Repubblica Napolitano. Separazione più netta tra magistrati inquirenti e giudicanti, con il conseguente sdoppiamento del Csm in due organismi, nei quali i magistrati non saranno più la maggioranza dei consiglieri ma solo un terzo; divieto per il Csm di esprimere pareri su questioni politiche; riforma, con attenuazione e rimodulazione, dell'obbligatorietà dell'azione penale; rafforzamento della responsabilità penale, civile e disciplinare dei magistrati; inappellabilità delle sentenze di assoluzione, che verrebbe questa volta introdotta nella Costituzione, dopo la bocciatura della legge Pecorella nella scorsa legislatura; maggiore autonomia della polizia giudiziaria dai pubblici ministeri. Novità allo studio anche per la Corte costituzionale, che non potrà più dichiarare l'incostituzionalità di una legge a maggioranza semplice, ma con il voto dei 2/3 dei suoi componenti.

Si tratta di punti che fanno tutti - o quasi - parte del programma del centrodestra sulla giustizia praticamente dalla sua nascita, nel 1994. Quindi poche storie dai finiani, che hanno sempre ribadito di voler mantenere fede al programma, guai a chi si mette di traverso.

Thursday, October 14, 2010

Promotional tour di Fini (con i soldi della Camera)

Il Pdl ha tenuto fede all'impegno preso sui rinnovi delle presidenze delle commissioni, accettando la conferma della Bongiorno nella delicatissima postazione alla guida della Commissione Giustizia della Camera e, di fatto, accettando il ruolo di Fli come "terza gamba" della coalizione. Adesso Fli garantirà un rispetto altrettanto leale, e integrale, del programma di governo? Sulla giustizia, i punti della riforma sono noti e al di là dell'annoso problema dell'eccessiva durata dei processi, di recente ricordato dal presidente Napolitano, sia il rafforzamento della distinzione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, in attuazione dei principi del giusto processo, sia il rafforzamento della responsabilità penale, civile e disciplinare dei magistrati, e persino la limitazione dell'uso e il divieto di pubblicazione delle intercettazioni, fanno parte del programma del Pdl presentato agli elettori nel 2008. Dunque, «punitivo» o no nei confronti delle toghe, niente storie! I finiani hanno sempre giurato di voler tener fede a quel programma.

Eppure, che sia tacita o meno, l'alleanza tra Fini e le toghe per far fuori il governo Berlusconi, o comunque per impedirgli di toccare alcunché dei privilegi e del potere politico della casta, mi sembra emergere chiaramente dalle sue parole e dai suoi comportamenti, nonché dallo scarso zelo, se non dall'attenzione nulla dedicata dai magistrati a vicende poco trasparenti che lo riguardano. Tra qualche mese, alla luce del comportamento di Fli sulle riforme, ne avremo conferma o smentita. Permangono quindi forti dubbi sulle reali intenzioni di Fini, che evoca il tema della giustizia come causa di una possibile crisi di governo; che usa le sue prerogative di presidente della Camera per spingere in avanti, in parallelo, la discussione sulle modifiche alla legge elettorale, con la minaccia appena velata di dar vita a governi "tecnici" con una maggioranza diversa; e che ora annuncia ai suoi la politica delle «mani libere», delle «alleanze variabili», alle prossime amministrative, esattamente come l'Udc di Casini.

Il 20 ottobre, inoltre, sarà a Londra per una visita ufficiale, prima tappa di un tour nelle principali capitali europee. Poi sarà la volta di Berlino e Parigi. Almeno è quanto anticipano, senza smentite finora, alcuni quotidiani. Formalmente in veste di presidente della Camera, ma non sfugge come in realtà - con i soldi della Camera dei deputati, e soprattutto sfruttando il prestigio della carica che ricopre e le numerose occasioni di udienza che garantisce - per Gianfranco Fini si tratterà di accreditarsi all'estero come leader di un centrodestra diverso e alternativo rispetto a quello berlusconiano, di presentarsi come avversario, se non nemico, di Berlusconi, di spiegare le sue intenzioni. Insomma, di farsi pubblicità. L'accreditamento internazionale - ancora una volta sfruttando a fini personali risorse e rilievo istituzionale garantiti dal podio di Montecitorio - come parte della strategia comunicativa per il lancio del suo movimento.

P.S.: Intanto, Fini e i suoi brindano perché le autorità di Montecarlo giudicano il valore catastale (catastale!) dell'appartamento del cognato dichiarato nel 1999 (1999!), cioè all'atto del passaggio di proprietà dalla defunta contessa Colleoni all'ex An, "congruo" per l'epoca (1999, non 2008, dunque). Valore, tra l'altro, ai soli fini catastali, e non di mercato. E tutti gli italiani sanno bene cosa significhi. Può ben darsi che la Procura di Roma archivi tutto (e d'altronde ha dimostrato già uno scarsissimo zelo sulla vicenda, non ritenendo neanche di ascoltare il cognato), ma Fini non riuscirà a convincere nessuno che sia "congruo" anche il prezzo di vendita nel 2008, solo del 10% superiore al valore catastale dichiarato ben nove anni prima e a sei anni trascorsi dal passaggio all'euro, che tutti sappiamo bene cosa abbia significato per i prezzi degli immobili. A ben vedere, le carte arrivate da Montecarlo dimostrano esattamente il contrario: e cioè che vendere a 300 mila euro un immobile il cui valore catastale nove anni prima (e tre anni prima del passaggio all'euro!) era di 270 mila euro è semplicemente ridicolo, un regalo.

Wednesday, October 13, 2010

La cultura della resa

Si sta affermando sempre più, con i fatti di ieri sera a Genova, un immaginario diritto all'incolumità dei violenti - ammesso (ed è ancor più grave e pericoloso) che siano in gruppo. Responsabili delle forze dell'ordine e Figc sottolineano come un successo - avrebbe evitato addirittura una «tragedia» - la gestione dell'ordine pubblico nello stadio Marassi in occasione dell'incontro di calcio Italia-Serbia. Se l'obiettivo è che nessuno, neanche i violenti e i prevaricatori della legge, si faccia male, allora sì, quello di ieri è un successo. Ma se l'obiettivo era lo svolgimento dell'evento sportivo in programma, come credo debba essere, allora si è trattato di un fallimento completo.

E sì, ha ragione l'Uefa, ci sono responsabilità anche italiane: «Oltre alla responsabilità di chi provoca incidenti - ricorda un dirigente - i regolamenti Uefa prevedono anche quella della federazione che organizza la partita e che deve garantire la sicurezza nello stadio e il regolare svolgimento dell'incontro». E' evidente, infatti, che sono state commesse ingenuità in serie, prima e dopo l'evento, e che di fronte alla palese volontà dei tifosi serbi di non far giocare la partita qualcuno ha deciso di non intervenire in alcun modo. Al contrario di quanto accade in occasione delle partite di campionato, ai tifosi serbi è stato permesso di portare all'interno dello stadio fumogeni e oggetti contundenti; li si è lasciati completamente soli all'interno di un settore, senza circondarli preventivamente con un cordone di polizia come si fa di solito (il che ha reso rischioso tentare il blitz a disordini in corso); una volta annullata la gara, si è permesso loro di sfollare dal settore in tutta tranquillità (tanto che il protagonista assoluto della serata è stato arrestato quasi per caso, sorpreso nel vano motore del pullman che lo stava già riportando a casa). Non solo ai teppisti serbi non si è torto un capello, ma non li si è minimamente disturbati, neanche ricorrendo all'uso degli idranti. Probabilmente sarebbe bastato sparare del narcotizzante ai tre-quattro capi che hanno guidato i disordini, come si fa con gli orsi.

Facile "gestire" in questo modo l'ordine pubblico, di fatto arrendendosi ai violenti per poi vantarsi che nessuno si è fatto male. Ieri a Genova hanno vinto loro, gli ultranazionalisti serbi, punto e basta. E' stata una umiliazione che non si può cancellare con una manciata di identificazioni e arresti tardivi. Non solo annullare la partita equivale ad una resa, ma di tutta evidenza sarà di incoraggiamento, una vera e propria istigazione, a qualsiasi esaltato pensi di emulare simili gesta, perché da ieri sera può sperare di poterla avere vinta. Per la Federazione si è trattato inoltre di un considerevole danno economico (l'incasso della partita), eppure non risultano ancora denunce a carico degli autori dei disordini.

Bisognerebbe introdurre nel codice penale un'aggravante, o uno specifico reato, per chi provoca danni e disordini, resiste o commette oltraggio a pubblici ufficiali, agendo sotto la copertura del "gruppo", della "folla", nell'ambito di manifestazioni sportive o politiche. In queste occasioni i violenti la fanno quasi sempre franca, mentre per gli stessi comportamenti, se a livello individuale, si va incontro a guai seri. Gli stadi soprattutto, ma anche le manifestazioni politiche, appaiono come delle vere e proprie zone franche, dove le responsabilità individuali in qualche modo si diluiscono fino a dileguarsi.

Ma quel che è più preoccupante è che si sta affermando sempre più nella gestione dell'ordine pubblico una cultura della rinuncia e della resa totale ai violenti, specie se in gruppo (e quindi più pericolosi). Il che può risparmiare qualche osso rotto e qualche proiettile di gomma, ma puntualmente a rimetterci è chi rispetta la legge e alla lunga il rischio è di lacerare la credibilità - già ampiamente compromessa - del nostro stato di diritto.

A carte sempre più scoperte/2

Senza pudore, Fini si aggrappa ad argomenti insulsi per convincere Schifani che la Camera e non il Senato (che ha già iniziato l'iter) si deve occupare per prima della legge elettorale. Ma non sarà per caso perché alla Camera il suo gruppo è numericamente determinante e può dar vita ad una maggioranza ad hoc sulla legge elettorale senza Pdl e Lega, mettendo questi ultimi sotto pressione? Tutto tranne che imparziale e rispettoso del suo ruolo, è la dimostrazione lampante che Fini esercita le sue funzioni e determina le sue scelte da presidente della Camera in base all'agenda politica del suo movimento.
«Appare opportuno che, alla luce del significativo carico di lavoro che grava attualmente sulla commissiona Affari costituzionali del Senato e coerentemente con lo spirito dell'intesa già assunta all'inizio della legislatura, la priorità della trattazione della materia elettorale, non limitata alla sola legge per l'elezione del Parlamento europeo, ma comprensiva anche delle iniziative riferite alla legge elettorale nazionale, possa essere riservata alla Camera».
A dispetto di chi dice che nonostante il suo ruolo politico il comportamento di Fini è corretto nell'esercizio delle sue funzioni di presidente della Camera, ecco l'ennesimo smaccato uso della sua carica per perseguire il suo personale disegno politico. Vale la pena di ricordare i casi più clamorosi, che hanno riguardato la calendarizzazione del ddl intercettazioni, della mozione di sfiducia nei confronti del sottosegretario Caliendo, della riforma dell'università, e non ultima la decisione di sollecitare, come richiesto da Udc e Pd, il presidente della Commissione Affari costituzionali di Montecitorio ad incardinare il dibattito sulla legge elettorale. La medesima Commissione del Senato ha giocato d'anticipo, ma Fini non ci sta.

Il tutto mentre Bocchino vaneggia di un «vero centrodestra» che dovrebbe prendere vita da un'alleanza tra Fini, Casini e Lombardo, guidati da Montezemolo come leader. Queste sono le manovre al cui altare potrebbero essere sacrificate la legislatura e la maggioranza votata dagli italiani nel 2008. Al cospetto di Fli le vecchie correnti Dc erano educande.

Tuesday, October 12, 2010

Il "complesso" militare

Come mai il governo di centrosinistra presieduto da Massimo D'Alema nel 1999 ha potuto far partecipare i nostri aerei ai bombardamenti contro la Serbia di Milosevic, anche sulla capitale Belgrado, senza neanche informare prima il Parlamento, mentre il ministro La Russa, per una missione sotto l'ombrello dell'Onu, autorizzata e rifinanziata più volte dal Parlamento, si rivolge alle commissioni Difesa per una scelta tecnico-militare come quella di armare (come hanno fatto tutti i nostri alleati) o meno con bombe e missili i nostri aerei già impiegati in Afghanistan?

Che la responsabilità di una scelta simile spetti al governo, sentite le autorità militari, mi pare fuor di dubbio. Stefano Folli, sul Sole 24 Ore, è stato l'unico a sottolinearlo: il Parlamento «non deve, salvo casi eccezionali, sostituirsi al governo nelle scelte operative». Il motivo è evidente: perché si rischia di piegare alle esigenze di posizionamento e di dialettica politica dei partiti decisioni che dovrebbero essere guidate solo dalla maggior efficacia possibile dell'azione militare e dalle esigenze - tattiche e "politiche" - delle nostre truppe sul campo.

Purtroppo, il fatto che La Russa abbia deciso diversamente - magari credendosi furbo nel crearsi in ogni caso un alibi parlamentare - dimostra quanto sia radicato il complesso d'inferiorità culturale del centrodestra quando si tratta di assumere importanti decisioni di governo di cui si teme che qualcuno contesti la legittimità costituzionale. Giusto procedere con cautela, ma rimettendosi al Parlamento per una scelta operativa come questa, si attribuisce di fatto alla tipologia di armi in dotazione ai nostri aerei - quando dovrebbe meravigliare, semmai, che siano stati mandati in Afghanistan "disarmati" - la definizione ultima della natura della missione, se "di guerra" o "di pace" (distinzione di per sé vacua e politichese), e implicitamente si finisce con l'aderire all'interpretazione restrittiva e francamente senza senso che la sinistra pacifista propaganda dell'articolo 11 della Costituzione.

L'esito di questa malintesa concezione del controllo parlamentare è sotto gli occhi di tutti: ogni passo dei nostri militari in missione dev'essere attentamente vagliato e autorizzato da Roma, con i costi (anche in termini di vite umane) che ciò comporta; quindi, spesso le nostre forze armate sono i "paria" delle coalizioni internazionali, costrette a combattere con le mani legate e a districarsi in regole d'ingaggio troppo burocratiche perché rispondono alle logiche dei politici a Roma.

Una maggioranza di seconde scelte

Condivisibile l'auspicio espresso da Angelo Panebianco, oggi sul Corriere della Sera, per cui se davvero, nelle prossime settimane, la maggioranza dovesse dimostrare una compattezza tale da far sperare che arrivi a fine legislatura, le forze politiche dovrebbero mutare il proprio approccio al tema della legge elettorale abbandonando i propri egoismi e assumendone uno più responsabile. I presupposti per poter arrivare ad una riforma condivisa, ricorda giustamente Panebianco, sono due: «Non può essere fatta "contro" qualcuno»; «non può essere costruita in modo tale da avvantaggiare manifestamente qualcuno».

Tuttavia, se dovesse verificarsi lo scenario - tuttora improbabile - di un prosieguo della legislatura, a mio avviso è più probabile che il tema della legge elettorale esca di nuovo dall'agenda politica. Semplicemente perché le opposizioni non avrebbero più interesse a brandirlo contro l'ipotesi di un voto troppo anticipato. Perché, diciamocelo francamente, in questi mesi è stato sollevato unicamente come argomento per aggregare, in caso di crisi, il fronte antiberlusconiano in un governo tecnico. E nel merito tutte le forze di opposizione, più i finiani, nella legge elettorale non vedono altro che un espediente per "far fuori" Berlusconi. Per questi motivi, se la maggioranza dovesse riacquistare solidità, qualsiasi modifica - comunque improbabile - all'attuale legge sarebbe approvata per iniziativa di Pdl e Lega (e alla Camera dovrebbe passare con qualche soccorso esterno).

Detto questo, Panebianco suggerisce di «togliere subito dal tavolo l'ipotesi del cosiddetto sistema "tedesco"», che in Itallia «avrebbe l'effetto di dare ai centristi la quasi certezza, comunque vadano le elezioni, di stare comunque al governo, vuoi con la sinistra vuoi con la destra. Più che un sistema "alla tedesca" sarebbe un sistema "alla Casini"». Indirizzandosi verso «una qualche forma di maggioritario con collegi uninominali», il politologo evoca un possibile punto di incontro per mettere d'accordo «sostenitori del turno unico e sostenitori del doppio turno». Si tratta di un sistema maggioritario con collegi uninominali e a turno unico (come in Gran Bretagna), ma «con la facoltà per l'elettore di dare non uno ma due voti (una prima e una seconda scelta)», e in cui, dunque, «vince il seggio il candidato che ottiene più voti sommando prime e seconde scelte».

Tale sistema avrebbe tutti i vantaggi descritti da Panebianco e sicuramente sarebbe migliore della legge attuale. Tuttavia, presenterebbe un problema a ben guardare simile a quello dei sistemi a doppio turno. Si potrebbe dare il caso di un candidato che fra tutti ottenga più prime scelte, ma che venga superato da qualcuno che abbia raccolto più seconde scelte di lui. Sarebbe giusto, sarebbe democratico? Immaginate, per assurdo, un candidato che ottenesse 499 prime scelte su mille (il 49,9% dei voti, in poche parole) ma 0 seconde scelte. Ebbene, verrebbe superato da un candidato che ottenesse solo 200 prime scelte su mille ma 300 seconde scelte. Oppure pensate, per essere più realistici, ad un candidato cui andassero 340 prime scelte e 110 seconde scelte su mille (un candidato del Pdl alleato alla Lega), venendo superato da un candidato (per esempio del Pd) che conquistasse solo 280 prime scelte su mille ma ben 180 seconde.

In modo simile, con il doppio turno, per effetto della "stanchezza" degli elettori, al secondo turno potrebbe vincere il seggio un candidato arrivato secondo al primo con meno voti di quanti ne abbia conquistati il primo piazzato al turno precedente. Supponiamo, infatti, che al primo turno uno abbia conquistato 450 voti su mille votanti e l'altro 350 voti. Al secondo turno, se i votanti calassero a 800, sarebbero sufficienti 401 voti per vincere.

Dunque, per correggere il sistema proposto da Panebianco, che rischia di generare una maggioranza di seconde scelte, bisognerebbe o dimezzare il valore numerico dei voti conquistati come seconda scelta o importare il sistema australiano così com'è.

Monday, October 11, 2010

Armare i nostri aerei. Perché sì

Piuttosto che dell'opzione di armare i nostri caccia bombardieri in Afghanistan, bisognerebbe discutere del perché non lo si è fatto fino ad oggi dal momento che si è deciso di impiegarli. Nella guerra moderna rinunciare alla superiorità aerea è decisamente una follia. E' vero che combattiamo contro quattro straccioni senza aviazione, ma hanno comunque le loro armi letali e la capacità di infliggerci perdite. Le modalità di impiego dei nostri aerei finora è stata del tutto irresponsabile. Anche perché limitarsi all'uso dei cannoncini significa costringere un mezzo costosissimo a passaggi a bassa quota che lo espongono ad essere colpito, mentre sarebbe in grado di operare da altezze tali da essere al riparo da Rpg e simili.

Certo, è ovvio che bombe e missili non possono nulla contro le mine sotto le strade, quindi non bisogna illudersi che ciò basti a proteggere i nostri soldati da attentati come quello di sabato scorso, ma armare i nostri aerei avrebbe anche un duplice significato "politico", con risvolti non trascurabili dal punto di vista militare. Primo, è un messaggio chiaro ai nemici: non ci facciamo intimidire e siamo determinati ad usare mezzi più potenti per sconfiggerli. Secondo, combattere alla pari con i nostri alleati ci porrebbe nella condizione di essere maggiormente ascoltati e di giocare un ruolo più di primo piano sulla scena internazionale. Dalle parole del ministro La Russa traspare tutto il disagio dei nostri militari, che all'evenienza sono costretti a mendicare copertura aerea ai nostri alleati.

Non che ci venga negata, ma indubbiamente è una situazione "scomoda" e frustrante per i nostri e fastidiosa per gli altri, che non si vedono offrire da parte nostra analoga solidarietà in battaglia. Per questo credo che la richiesta di armare i nostri aerei venga innanzitutto dai nostri militari, che legittimamente non vogliono sentirsi inferiori o debitori nei confronti di nessuno. Sapendo che anche i nostri, come gli aerei degli altri, sono a disposizione per garantire copertura a tutte le forze Isaf, sarebbe più agevole chiedere copertura, che siano i nostri aerei o meno a poterla garantire in quel dato momento in cui serve.

Friday, October 08, 2010

"Secondo te chi c'è dietro Fini?"

Si tratta di alcuni passaggi estratti dall'audio di una conversazione telefonica tra Nicola Porro e il portavoce della Marcegaglia, Rinaldo Arpisella, pubblicato sul sito del Fatto quotidiano. Non è la trascrizione integrale della telefonata (che dura più di 12 minuti), e nulla di penalmente rilevante ovviamente, un normale scambio di vedute, un po' dietrologico e cifrato, tra un giornalista e un portavoce, ma alcuni spunti mi sembravano curiosi. Lascio a voi trarre eventuali conclusioni.

Rinaldo Arpisella: "Sono incazzati con voi che se potessero impalarvi... Sono molto incazzati (a Mediaset? ndr), anche quello in alto (Berlusconi? ndr)".
Nicola Porro: "In effetti, siamo molto preoccupati".

NP: "Ma dimmi una cosa. E' una cosa intelligente far chiamare Feltri da Confalonieri? Tu non conosci Feltri..."
RA: "Sì, ma mettiti nei panni di un Confalonieri o di un Berlusconi".
NP: "Vedi i casini che gli sta facendo ora sulla questione di Fini, secondo te... quello lì... si diverte dieci volte di più..."
RA: "Ci sono sovrastrutture che ci pisciano in testa, che non ci considerano... Non hai capito una cosa. Se c'è un gioco di sponda, e credo che tu l'abbia capito, su tutta questa vicenda politica, 'il governo deve andare avanti', è chiaro che è un gioco di sponda concordato".
NP: "Lui è il padrone del suo giornale, finché non lo cacciano... cosa che non è esclusa... lo possono anche cacciare".

NP: "La questione è che vorrei che tu capissi una roba. Se, ti faccio un esempio, Riotta ha deciso di rompere con la Marcegalia, ti faccio un'ipotesi dell'assurdo, e di rompere, al contrario di quanto sta facendo Riotta, non perdendo 50 mila copie ma nel momento in cui ne ha guadagnate 60 (70? ndr) mila, in maniera tale da farsi liquidare e uscire...".
RA: "E' il suo disegno".
NP: "Eeeeh allora, Rinaldo, di che cazzo stiamo parlando...".
NP: "Ti stavo raccontando un ragionamento ampio, ti stavo dicendo che un certo piano con lui (Feltri, ndr) non serve, non perché gli editori non debbano svolgere il loro ruolo, ma perché lui sta in una fase diversa".

NP: "Devo dire che c'è un punto francamente di sottovalutazione di Confindustria nei nostri confronti che a me personalmente un po è seccato".
RA: "Ma, senti, se a un certo punto ci dicono tutti che siamo sdraiati su questo governo, ragiona, tu che cosa vai fare, vai a fare anche le interviste sul Giornale, dài, ragiona, mettiti nei nostri panni".

RA: "Tu non sai che cazzo c'è altro in giro. Secondo me, davvero scusami, ma ti parlo da amico, è un ottica corta. Allora il cerchio sovrastrutturale va oltre me, va oltre Feltri, va oltre Berlusconi, va oltre... ci sono logiche che non riguardano i Fini, i Casini, i Buttiglione, questo o quell'altro, sono altri..."
NP: "Non so cosa tu voglia dire... non capisco".
RA: "Secondo te, chi c'è dietro Fini?"
NP: "Tu lo sai? Io no".
RA: "Ci sono quelli che c'eran dietro la D'Addario, dài su...".

Nobel a Liu Xiaobo sveglia anche per l'Occidente

Oggi è il giorno di Liu Xiaobo, Nobel per la pace 2010. Prima il liberale Vargas Llosa Nobel per la letteratura, poi Liu, quest'anno i Comitati per i Nobel sembrano rinsaviti. Dopo anni di politically correct, e un anno dopo la decisione ridicola, anzi grottesca, di conferire il primo Nobel "preventivo" della storia, quello al presidente Obama, di fatto un premio alle sue buone intenzioni, per cose solo annunciate e che ancora oggi è lungi dal realizzare, il Nobel per la pace recupera una certa credibilità.

Insieme a Liu Xiaobo vincono gli attivisti per la democrazia e i diritti umani in Cina (tra cui Bao Tong), vincono i duemila sottoscrittori di Charta '08, di cui avevamo parlato due anni fa, vince l'idea di un Occidente meno timido, più fiducioso nella validità universale dei suoi principi e del suo stile di vita. E' un premio che ci ricorda quanto sia ancora lunga la strada che la Cina deve percorrere prima di ergersi a modello, e che dovrebbe ricordare ai cinesi che la crescita economica non è tutto, che non si è una superpotenza, non si è al pari di Stati Uniti ed Europa, finché non si è in grado di emanare, anziché l'immagine dell'oppressione, un modello di vita desiderabile e attraente oltre i propri confini.

Il governo cinese farà la sua sfuriata ma come al solito farà due fatiche. La sensazione infatti è che al di là della propaganda di regime, che parte d'ufficio in questi casi, tornerà molto presto al business as usual. A ben vedere, nessun incontro con il Dalai Lama, nessuna presa di posizione sul Tibet o contro la censura ha di fatto mai provocato danni permanenti ai rapporti tra le capitali occidentali e Pechino. La verità è che se non possiamo permetterci di isolare la Cina, i cinesi hanno bisogno di noi almeno quanto (e forse di più) noi di loro.

Quindi è inutile autocensurarsi, mordersi la lingua su temi come la democrazia, la libertà d'espressione, i diritti umani. La loro promozione dall'esterno e dall'interno della Repubblica popolare può, deve (perché ci conviene) andare di pari passo con lo sviluppo delle relazioni commerciali e del dialogo sulle grandi questioni globali, da quelle economico-finanziarie a quella climatica. Si può, si deve chiedere alla Cina di aprire i suoi mercati, di rinunciare alla concorrenza sleale, di rivedere la sua politica monetaria, così come si può e si deve chiederle di aprire la sua società, di avviare riforme politiche. I due approcci non sono alternativi se perseguiti in modo intelligente, perché l'interdipendenza è reciproca e dovremmo liberarci del complesso d'inferiorità secondo cui il nostro declino a vantaggio dell'ascesa cinese sarebbe inevitabile, e quindi dovremmo rinunciare a condizionare lo sviluppo anche politico della Cina.

Thursday, October 07, 2010

La solita inchiesta del Woodcock

Oltre 200 innocenti accusati senza fondamento in 14 anni di carriera, tra cui gli arrestati e poi prosciolti Corona e Vittorio Emanuele e l'accusato e poi prosciolto Sottile. Veri e propri casi da licenziamento, ma ovviamente la "cricca" dei magistrati l'ha sempre difeso. E' questo l'imbarazzante "record" del pm Woodcock, definito nel 2006 da Gianfranco Fini un pm «fantasioso», «un signore che in un Paese normale avrebbe già cambiato mestiere», e che invece ora ci riprova e si lancia in una spedizione punitiva contro il Giornale. Perquizioni, sequestri e iscrizione nel registro degli indagati di Sallusti e Porro.

E viene il sospetto che piuttosto che la Marcegaglia, Woodcock stia in realtà "tutelando" se stesso. Guarda caso proprio due settimane fa, dopo l'ennesimo proscioglimento eccellente dalle sue accuse, quello di Vittorio Emanuele di Savoia, il Giornale pubblicava questo documentato articolo sui fallimenti del pm Woodcock . La rappresaglia, a quanto pare, non si è fatta attendere.

Vediamo ora quanti e quali paladini della libertà di stampa grideranno la loro indignazione per questo vile attacco, per quella che a tutti gli effetti, grazie alla solita interpretazione cavillosa del codice e al solito uso "a strascico" delle intercettazioni, assume tutte le sembianze di una censura preventiva, di una intimidazione. Il Giornale stesso l'aveva anticipato alcuni giorni fa ("Ci intercettano") ed è davvero intollerabile in una democrazia che la stampa venga "spiata". Le conversazioni e gli sms dei due giornalisti, infatti, sono finiti all'attenzione degli inquirenti nell'ambito di intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria per tutt'altra inchiesta. Ma ormai si sa, è fin troppo evidente, che le inchieste vengono aperte sulla base di quali personaggi influenti puoi arrivare ad intercettare (e intanto il ddl intercettazioni è stato annacquato e poi affossato, tante grazie presidente della Camera!).

Le inchieste scomode - ammesso che fosse effettivamente in corso un'inchiesta sulla Marcegaglia da parte della redazione del Giornale - su personaggi anche solo un pizzico critici con il governo, diventano "dossieraggio". Berlusconi è l'unico "toccabile" dalla stampa, chi si schiera contro di lui o lo critica diventa immediatamente "intoccabile", gode di coperture mediatiche e giudiziarie altrimenti inimmaginabili (come dimostra il caso Montecarlo) e se qualcuno si dovesse azzardare, ecco che lo si fa diventare un martire del "dossieraggio".

Wednesday, October 06, 2010

E ora l'oblio

Già smontati l'anno scorso, dalla Consulta, i tre punti cardine (limite dei tre embrioni; obbligo di "un unico e contemporaneo impianto"; divieto di crioconservazione) della legge 40 sulla procreazione assistita, ora anche il quarto, il divieto di fecondazione eterologa, potrebbe a breve essere dichiarato incostituzionale. Va tuttavia tenuto presente che si tratta di una questione senz'altro più controversa delle altre tre norme, davvero deliranti e palesemente dannose per la salute sia della donna che del feto. Il centrodestra farebbe bene a imparare la lezione e a non perseverare su una linea incostituzionale e soprattutto largamente minoritaria nel Paese e anche tra i propri elettori.

Ma adesso tacciano anche i cosiddetti laici e i finti liberali, che vedono ovunque la necessità di legiferare (per altro ben sapendo di essere in netta minoranza in Parlamento). Non facciano l'errore di ritornare alla carica solo per protagonismo e puro puntiglio. E' l'ora del pragmatismo, di consegnare all'oblio la legge 40. Meglio, molto meglio il presunto "far west", che poi non significa altro che responsabilità dei medici e libertà dei pazienti.

A carte sempre più scoperte

Un altro smaccato caso della sopravvenuta incompatibilità tra il ruolo politico che ormai da mesi Fini ha deciso di giocare e la carica istituzionale che ricopre. Come richiesto dai capigruppo dell'opposizione contro il parere di quelli di maggioranza, Fini sollecita il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera, Donato Bruno, ad incardinare il dibattito sulla legge elettorale. Evidentemente sacrificando altre priorità, ma per una buona causa: quella del suo nuovo partito. C'è da ridurre le soglie di sbarramento e abolire il premio di maggioranza. Con buona pace del credo bipolarista e uninominalista sempre professato da Fini e dai suoi. Le priorità oggi sono altre: si tratta di porre le basi per il prossimo "ribaltone". La semplice prospettiva di modifiche alla legge elettorale che impediscano a Berlusconi di tornare a Palazzo Chigi potrebbe infatti favorire il formarsi di una inedita maggioranza (da Fli a Di Pietro passando per Casini, Rutelli e il Pd), pronta in caso di crisi a dar vita a un governo tecnico al solo scopo, appunto, di cambiare il sistema di voto. Al Senato i numeri necessari all'operazione ancora mancano, ma ci stanno lavorando - il presidente della Camera primo fra tutti - facendo leva anche sull'accelerazione, che Fini grazie al suo ruolo può garantire, dell'esame delle proposte di riforma della legge elettorale.

Con l'avvio del percorso fondativo del nuovo partito finiano, dell'incompatibilità di Fini con le funzioni di terza carica dello Stato sembra aver preso atto finalmente il Corriere della Sera:
«La mutazione del presidente della Camera in leader di partito gli impone però di dare alcune risposte al Paese. Alcune riguardano il passato: Fini ha bloccato il processo breve, che avrebbe mandato in fumo migliaia di processi per fermare quelli di Berlusconi; ma ha votato il lodo Alfano, il legittimo impedimento e altre numerose leggi ad personam nei sedici anni in cui è stato alleato di Berlusconi. Altre risposte riguardano il futuro, e in particolare il suo ruolo istituzionale.
È vero, sia Casini sia Bertinotti sono stati nel contempo presidenti della Camera e capi di partito. Anche nella prima Repubblica è accaduto che sullo scranno più alto di Montecitorio sedessero leader politici, oltretutto a capo di correnti avverse alla segreteria del loro partito, dal democristiano Gronchi al comunista Ingrao. Ma non è mai accaduto che il presidente in carica si mettesse alla testa di una nuova forza, nata da una scissione del partito di maggioranza relativa, che compatto l'aveva indicato per la terza carica dello Stato».
Ma soprattutto non è mai accaduto e rappresenta un vero scandalo politico e istituzionale - che Napolitano con il suo silenzio ha la gravissima responsabilità di legittimare - che gruppi parlamentari che fanno riferimento al presidente della Camera lavorino nell'ombra per sfilare dalla maggioranza dei senatori (altri la chiamerebbero "campagna acquisti") per rendere possibile un "ribaltone" e un governo tecnico che vedrebbe relegati all'opposizione i partiti usciti vincitori dalle elezioni del 2008 (il che sarebbe un altro inedito nell'intera storia repubblicana, persino rispetto al "ribaltone" del 1995). Ma è un disegno che ormai viene teorizzato alla luce del sole da Bocchino, e quindi riconducibile a Fini. Conclude il Corriere:
«Ora però dovrebbe valutare se il difficile lavoro di costruire un partito, con la ragionevole prospettiva di condurlo presto in una durissima campagna elettorale, sia compatibile con la presidenza della Camera. Nessuno può obbligarlo a dimettersi; la scelta può essere soltanto sua. L'intellettuale di maggior spicco tra quelli vicini al nuovo partito, il professor Alessandro Campi, auspica che il leader si concentri sulla battaglia politica, con la piena libertà di adeguarsi alle asprezze con cui sarà combattuta nei prossimi tempi. È un consiglio su cui Fini, prima di prendere la sua decisione, farebbe bene a riflettere».

Tuesday, October 05, 2010

Abolizionisti da salotto

Pur restando contrario alla pena di morte (essenzialmente perché non nutro nello Stato una fiducia tale da ritenerlo in grado di assumere decisioni così definitive), mi dissocio dalle campagne abolizioniste, che ormai hanno ceduto al peggior relativismo culturale e politico. Sakineh Ashtiani come Teresa Lewis. Ahmadinejad ha così accusato l'Occidente di «doppio standard» e direi che la provocazione ha fatto una certa presa sui benpensanti e gli attivisti occidentali. Oggi, sul Fatto quotidiano, ma è solo l'ultimo in ordine di tempo, uno dei principali protagonisti in Italia, oltre ad "Amnesy" international, della battaglia contro la pena capitale, Sergio D'Elia (Nessuno Tocchi Caino) scrive che Sakineh e Teresa «restano le due diverse facce della stessa, fasulla e arcaica medaglia della pena di morte». No, proprio no, si tratta di due "medaglie" completamente diverse: una è d'oro, l'altra di latta. Non accorgersene significa rendersi semplicemente non credibili.

Nel perseguire l'obiettivo o coltivare l'auspicio dell'abolizione della pena di morte, è a mio avviso un errore gravissimo mettere sullo stesso piano sistemi politici e giudiziari agli antipodi. Per la causa in sé, ma anche per quella a mio avviso più grande per la democrazia e i diritti umani. Non c'è «la legge islamica del taglione» da una parte e «la legge biblica dell'occhio per occhio» dall'altra, come crede D'Elia. In Iran sì, c'è letteralmente la legge islamica, e nessuna garanzia per l'imputato; negli Usa, invece, parlare di legge biblica è solo un'iperbole, in realtà c'è uno stato di diritto ed è garantito (molto più che in Italia) il giusto processo. Persino il metodo di esecuzione fa eccome la differenza. Una società in cui si può essere lapidati per adulterio è oggettivamente primitiva rispetto ad una dove per un efferato duplice omicidio si arriva all'iniezione letale. Da non sottovalutare anche la possibilità di appellarsi e di fare campagne pubbliche alla luce del sole. Da una parte, infatti, abbiamo un Paese democratico, gli Stati Uniti, dove il dibattito sulla pena di morte fa parte da sempre del libero confronto delle idee e in qualsiasi momento lo decidano, gli americani possono con un voto democratico abrogarla.

In questo senso, non riconoscere che certi sistemi politici e giudiziari sono superiori, di gran lunga superiori (non uso a caso questo termine: superiore) ad altri, è un errore di approccio che spalanca le porte alla propaganda delle peggiori dittature, proprio laddove la campagna contro la pena capitale non ha nemmeno diritto di cittadinanza, al contrario che in America. Ed è proprio questo a mio avviso, la comodità del "fare" campagna (in un Paese più trasparente, dove c'è accesso ai documenti e ai dati, è garantito diritto di cronaca e di critica, ci si può appellare a giudici indipendenti e si possono condurre campagne d'opinione e culturali, anche attraverso il cinema) che spinge molte organizzazioni e molti intellettuali non solo a mettere sullo stesso piano Paesi dai regimi molto diversi tra di loro, ma addirittura a concentrarsi ossessivamente sugli Stati Uniti piuttosto che su Paesi dove sarebbe molto più difficile, persino a rischio della propria vita, far passare certi messaggi. L'effetto che ne deriva è che questi attivisti (non certo la gente normale) si scandalizzano per la pena di morte negli Usa, mentre "razzisticamente" sembrano ritenere quasi inevitabile che gli iraniani o i cinesi patiscano certe "usanze".

Monday, October 04, 2010

Riforma, non commissioni

Non servono commissioni d'inchiesta. Il verdetto politico sulla magistratura e sull'organizzazione della giustizia italiana è già stato emesso ed è di condanna senza attenuanti. Ciò che serve, dunque, è avanzare senza indugi, senza compromessi al ribasso, e senza fare prigionieri, con "la" riforma. Separazione netta tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, in attuazione dei principi del giusto processo; rafforzamento della responsabilità penale e civile dei magistrati; riduzione della durata dei processi. «Punitiva» o meno nei confronti della magistratura, questa è la riforma che il Pdl (finiani compresi) prometteva ai suoi elettori nel programma elettorale del 2008 (che prevedeva persino limitazione dell'uso e divieto di pubblicazione delle intercettazioni, legge prima annacquata, poi affossata, grazie a Fini e ai suoi). Fini e Bocchino possono ritenere «punitiva» una simile riforma oggi, ma dovranno spiegare agli elettori di aver cambiato idea. E allora non sarebbe del tutto campato in aria sospettare che questi neo paladini della magistratura agiscano per il mantenimento dello status quo per garantirsi certe protezioni politiche e giudiziarie.

Tony, ci manchi/8 - Battere Silvio?

«Smettetela di parlare di scandali e cominciate a parlare di politica. E' semplicemente che se di fatto, davvero, avessimo fiducia nella gente - la gente legge tutte queste cose, quello che si fa e si dice, i grandi titoloni sui giornali - be' onestamente, quello che ho imparato in dieci anni - ed era anche per me fonte di enorme preoccupazione quando leggevo titoli a caratteri cubitali, mi preoccupavo moltissimo - be', dovremmo avere fiducia nella gente, perché alla fine, loro leggono, possono anche essere divertiti dalle notizie, dai titoli, ma poi tutto finisce nel cestino della carta straccia quando si arriva a votare. Quando si vota la gente pensa a chi ha la politica migliore per il futuro. Si vince così».
Tony Blair (ospite a "Che tempo che fa")

Le "mediazioni" di Fini

Oggi, sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco denuncia il «probabile affossamento della riforma universitaria», perché nonostante fosse fissato l'avvio dell'esame alla Camera per il 4 ottobre, la conferenza dei capigruppo l'ha rinviata al 14 ottobre. Peccato che «il 15 ottobre comincia la sessione di bilancio e la discussione dovrà essere subito sospesa per almeno un mese». Per non parlare delle eventuali elezioni anticipate a marzo, che rimanderebbero il tutto alla prossima legislatura. E' vero, come osserva Panebianco, che «varare una così importante riforma significherebbe dire al Paese: è vero, siamo immersi in risse continue, ma sappiamo anche, su questioni concrete come il destino dell'istruzione superiore, portare a termine i nostri progetti». Ma è anche vero che è azzardato imputare la responsabilità dello slittamento ai capigruppo della maggioranza. Anzi, proprio quello della riforma universitaria è un caso esemplare degli enormi poteri del presidente della Camera e dell'uso politico che ne fa Fini, per ritardare e intralciare la realizzazione del programma di governo.

Sarà che in molti credono che sia la maggioranza a stabilire il calendario dei lavori - com'è ragionevole che sia - ma non è così. Prevede il regolamento della Camera, infatti, che il calendario sia approvato «con il consenso dei presidenti di gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti». Cosa succede se - come quasi sempre accade, visto che i gruppi di maggioranza raggiungono al massimo il 55% e non il 75 - non c'è l'accordo dei tre quarti? Decide il presidente. Ed è proprio quello che ha fatto Fini sulla riforma dell'università: tra la richiesta di Pdl-Lega (avviare subito l'esame della riforma) e quella di Pd-Idv-Udc (rinviare a dopo la sessione di bilancio), ha ritenuto di "mediare", fissando l'esame per il 14 ottobre. Peccato che di fatto sia come averla rinviata a dopo la sessione di bilancio (dal momento che inizia il 15 ottobre), cioè come volevano le opposizioni. Insomma, l'impressione è che nel rinvio ci sia più che uno zampino di Fini e ciò dimostra che alla luce del ruolo politico attivo che ha deciso di giocare, le sue decisioni sollevano sospetti più che legittimi.

Friday, October 01, 2010

Attentato a Belpietro, Napolitano distratto?

Ore 18 e al Quirinale tutto tace. Il nostro presidente della Repubblica interviene su tutto, anche laddove di certo non gli compete, ma in dieci ore nemmeno una parola sull'attentato a Maurizio Belpietro. Però, quando si trattò di difendere Fini da Belpietro e Feltri... Evidentemente, quando scrivono articoli sul presidente della Camera i due direttori sono importanti, tanto da giustificare altisonanti interventi per fermare l'"indegna" campagna. Quando qualcuno cerca di ammazzarli, non li degna neanche di una parola. Vedo troppa assuefazione per la violenza politica. Quando la politica, e il principio costituzionale della libertà di stampa, vengono scossi in questo modo, Napolitano dovrebbe essere il primo a intervenire. In altre circostanze (statuetta contro Berlusconi; aggressioni a Schifani e a Bonanni alla festa del Pd) è intervenuto. Oggi, per un fatto ancora più grave, è stato piuttosto, diciamo... distratto.

Tony, ci manchi/7 - Apertura contro chiusura


«Riesce naturale alle opposizioni di governo venire trascinate nel dissenso tout-court. E' il mercato a breve termine dei voti. Sono le posizioni in cui il partito si sente più a suo agio. E' l'atteggiamento che suscita gli applausi più fragorosi. Il problema è però che incatena l'opposizione a prese di posizione che, nel lungo termine, appaiono irresponsabili, miopi o semplicemente del tutto errate... Definire la propria posizione per contrasto con quella dell'altro non solo è infantile, ma del tutto scollegato dalla situazione in cui oggi si trova la politica... Il vero rischio, a destra o a sinistra, consiste nel fatto che, proprio nel momento in cui l'elettorato ha perso entusiasmo per le divisioni politiche tradizionali, i partiti e i suoi attivisti ne sono semnpre più ossessionati. Ne risulta una pericolosa incongruenza fra persone "normali" e militanti politici "anormali" che potrà solo aggravare l'ostilità del pubblico verso la politica... Non perdi la tua identità di progressista solo perché hai delle ideee in comune con i conservatori. E' questo il mondo nuovo, e dobbiamo abituarci».
«C'è una nuova frattura nei programmi politici che trascende la tradizionale suddivisione fra destra e sinistra: quella che definisco una contrapposizione fra "apertura" e "chiusura". Alcuni uomini di destra sono favorevoli al libero scambio, altri no; da entrambe le parti, alcuni sono favorevoli all'immigrazione, altri no; alcuni appoggiano una politica estera interventista, altri no; alcuni considerano la globalizzazione e l'ascesa della Cina, dell'India e di altre nazioni come una minaccia, altri come un'opportunità. Certo, esiste un filo conduttore tra le posizioni politiche favorevoli al libero scambio, all'immigrazione (controllata, ovviamente) e alla globalizzazione, ma la contrapposizione è fra "apertura" e "chiusura", non fra destra e sinistra. Sono convinto che i progressisti debbano essere i campioni di un punto di vista aperto, non solo giusto ma anche vincente...».
«I progressisti devono essere orgogliosi delle politiche che conseguono l'efficienza tanto quanto di quelle che perseguono la giustizia. Perché la lezione appresa sin dal 1945 è che cercare anche nel servizio pubblico un buon rapporto qualità-prezzo non è una questione di essere efficienti piuttosto che giusti: è utile in sé... Servizi migliori sono anche più equi... Oggi le politiche ultra-stataliste sono destinate a fallire: davanti all'alternativa fra uno Stato invadente e uno più leggero, sarà quest'ultimo a vincere. Persino adesso, dopo la crisi. I progressisti devono andare oltre questa contrapposizione e proporre un'idea di Stato capace di mettere la gente nelle condizioni di prendere le proprie decisioni, non che cerca di farlo al posto loro. Sarà quindi uno Stato più piccolo, più strategico, ma anche attivo: non un male necessario, come lo vedrebbero alcuni a destra, ma uno Stato ripensato per il mondo d'oggi. Qualsiasi posizione politica che non se ne rende conto è condannata».
Tony Blair ("A Journey")