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Thursday, March 31, 2011

Circo Italia

Il "presidio democratico" incoraggiato dal Pd, cui si sono uniti i forcaioli dell'Idv e del partito del presidente della Camera, si trasforma in un'aggressione squadrista proprio all'istituzione presieduta da Fini e ai suoi membri, in quel "popolo delle monetine" che quasi vent'anni fa rappresentò la pagina più brutta, incivile e insieme inquietante - perché non del tutto spontanea - del pur giustificato disgusto popolare per la corruzione imperante nella Prima Repubblica. E sono gli stessi: ex Pci, ma anche forcaioli di destra, dell'ex An, oggi divisi tra Idv e futuristi.

Nei Paesi seri il ministro della Difesa quasi non si sente e non si vede. Già le escandescenze televisive di La Russa risultano poco compatibili con il suo incarico, figuriamoci il "vaffa" di ieri all'indirizzo del presidente della Camera. Anche se interpreta l'umore di molti, non è certo un comportamento da ministro, né da coordinatore del primo partito italiano. Così come Fini che tenta di impedire a La Russa di denunciare in aula ciò che sta avvenendo a un metro dall'ingresso di Montecitorio (ancora una volta la rete di protezione di uno dei rami del Parlamento ha fatto cilecca), e che dà del «cocainomane» al ministro della Difesa, dimostra che non può essere presidente della Camera uno che nei confronti di Berlusconi e del Pdl ha gli stessi occhi iniettati di sangue dei manifestanti là fuori.

Che dire poi del Pd, che agita la piazza senza neanche rendersi conto di esserne in realtà prigioniero? Guardare sotto la voce "nullità". Ciò che è in gioco, oggetto dello scontro, come sintetizza efficacemente un titolo su Il Foglio di questa mattina, è il «diritto dei giudici ad abbattere Berlusconi». Un diritto che va negato con una riforma della giustizia rigorosa e senza compromessi che riporti la magistratura sotto controllo. Sì, sotto controllo, come ogni altro potere e ordine dello Stato. Sempre Il Foglio fa notare come la Repubblica inganni i suoi lettori. Nei suoi retroscena attribuisce al presidente Napolitano pensieri e interventi che sembrano delegittimare l'azione del governo e della maggioranza, ma si tratta spesso di pure invenzioni. Peccato che il quotidiano non abbia neanche l'onestà professionale di pubblicare le forti smentite del Quirinale.

Tutto questo mentre la crisi libica, con tutto ciò che comporta per il nostro Paese - interessi, ruolo in Europa e nel mondo, emergenza immigrazione - dovrebbe richiamare la nostra classe politica a ben altre priorità e sfide che non ad una rissa continua e sterile.

Già, la Libia. La defezione del ministro degli Esteri di Gheddafi, ed ex capo dell'intelligence del regime, Koussa è un'ottima notizia per Obama, Sarkozy e Cameron, un risultato delle loro pressioni politiche e militari, ma un po' meno per Roma. L'uomo che avrebbe dovuto tessere la trama negoziale per l'esilio del raìs pensa alla propria pelle e fugge. D'altra parte, tuttavia, l'ipotesi di armare i ribelli, che si sta facendo sempre più strada a Washington, a Parigi, così come a Londra, dimostra l'insufficienza della "strategia" adottata finora ed è la conferma che al di là delle ipocrisie l'obiettivo discriminante per il successo o meno della missione non è solo la protezione dei civili, ma la cacciata di Gheddafi. Se oggi di fatto si va verso un'escalation, è perché sì è agito con colpevole ritardo, in ossequio al ruolo dell'Onu (per ottenere una risoluzione ambigua esattamente come quella che portò alla guerra in Iraq) e al multilateralismo (se così si può chiamare una coalizione di 15 Paesi, mentre sarebbe "unilateralismo" quella di 40 per l'Iraq, ironizza Rumsfeld).

Il ritardo, infatti, ha reso insufficiente la formula della no-fly zone e dei raid aerei. E' probabile che le armi stiano già affluendo ai ribelli da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, magari via Egitto, sicuramente non dalla Nato, e non si possono escludere anche operazioni di appoggio (Obama avrebbe autorizzato la Cia a condurre operazioni segrete in Libia). Come al solito la nostra diplomazia non capisce al volo e si attarda in uno controcanto sterile («non è la soluzione migliore», o «è l'estrema ratio»), dal momento che sarà costretta ad accodarsi alle decisioni altrui tra pochi giorni.

Ma le difficoltà della missione voluta da Usa, Francia e Gran Bretagna, e l'escalation delle armi ai ribelli che sono costretti a valutare, non dovrebbero essere motivi di rivalsa a Roma. Confermano infatti che lo stallo militare sul terreno, con la Tripolitania saldamente nelle mani di Gheddafi e la Cirenaica ai ribelli, è una vittoria per il Colonnello, che può sperare così di sabotare i cingoli della missione internazionale e resistere indefinitamente, e una sciagura innanzitutto per l'Italia. Alla Farnesina continuano a non capire che uno stallo esclude che Gheddafi si rassegni a trattare il suo esilio, anzi sarà lui a chiedere a Obama, Sarkozy e a Berlusconi di andarsene. Non so se armare i ribelli sia l'opzione migliore (è ancora fresco il ricordo dei famosi stinger che gli Usa hanno dovuto ricomprare uno ad uno dai mujaheddin afghani), ma di certo se vuole avere un ruolo con questa carta velleitaria dell'esilio l'Italia deve augurarsi che l'intervento armato riesca a mettere Gheddafi con le spalle al muro, quindi non ha senso non bombardare oppure ostacolare soluzioni per aumentare l'efficacia dell'intervento alleato.

Wednesday, March 30, 2011

Condannati a rincorrere

Mentre Obama dichiara di non escludere di armare i ribelli, le parole nemmeno del ministro, ma di un portavoce della Farnesina che evidentemente non ha letto la rassegna stampa («non è la soluzione ideale... sarebbe una misura controversa, estrema e certamente dividerebbe la comunità internazionale») suonano esattamente come quel controcanto, quell'ambiguità che giustificano una certa freddezza nei confronti dell'Italia da parte del Consiglio nazionale di transizione libico, sempre più riconosciuto nel ruolo di guida del processo che porterà ad una nuova Libia. Freddezza emersa anche ieri al summit di Londra.

Più passano i giorni e più sembra evidente che Parigi riconoscendo il Cnt ha solo fatto prima degli altri, assicurandosi tutti i vantaggi che in prospettiva comporta, ciò che prima o poi anche gli altri Paesi saranno indotti dagli eventi a fare. E mentre un ambasciatore francese è già a Bengasi, e gli Stati Uniti inviano un loro rappresentante, Frattini ieri è solo riuscito ad ammettere che be', sì, la credibilità del Cnt si rafforza. Nel frattempo però, mentre apriamo lentamente gli occhi, l'Italia si vede scavalcata anche da Ankara. L'esercito turco già assicura il funzionamento del porto e dell'aeroporto di Bengasi; anche Erdogan tratta con Gheddafi per raggiungere un cessate-il-fuoco, mentre il suo ministro degli Esteri parla direttamente con Jibril, il capo del Cnt. Mi chiedo quanto ci vorrà perché alla Farnesina capiscano che è ora di riconoscere anche noi il Cnt ed instaurare rapporti formali.

Solo chiacchiere al summit di ieri a Londra, come si legge sui giornali? Da una parte sì: tutti hanno ripetuto che Gheddafi se ne deve andare, senza avere le idee chiare sul come. Nessuna decisione, dunque, anche se una piccola indicazione sulla piega che sta per prendere l'intervento alleato in realtà c'è: l'ipotesi di armare gli insorti sembra farsi strada. Detto questo, politicamente qualcosa è senz'altro accaduto. Esce rafforzata la credibilità del Cnt, e insieme ad essa il ruolo di chi li ha riconosciuti per primo. Essendo ancora in alto mare ogni ipotesi di esilio, su cui l'Italia sta puntando tutte le sue forze per recuperare un ruolo di primo piano nella crisi libica, esce accentuato anche il protagonismo di Londra e Parigi. Tra l'altro, siccome l'idea di un «esilio dorato macchiato di sangue» non piace molto ai ribelli, Frattini ha dovuto anche specificare che esilio non significa impunità, un altro macigno che grava sulla fattibilità della soluzione. Chi riuscirà ad aiutare il popolo libico a liberarsi di Gheddafi? Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna a forza di bombe, e forse fornendo armi agli insorti, o l'Italia con l'esilio? Se le ambiguità e i limiti imposti alla missione militare non rendono scontato il successo dei primi, ancor più improbabile che riesca la soluzione all'italiana. Soprattutto perché quante più difficoltà incontra la soluzione militare, tanto più diminuiscono le chance che Gheddafi si senta alle corde.

E' comunque questo - chi farà di più per cacciare Gheddafi -, comprensibilmente, uno dei metri di giudizio per le future relazioni che instaurerà con i Paesi occidentali la nuova leadership libica che sta prendendo forma in queste settimane. A Londra erano tre i rappresentanti del Cnt: Mahmoud Jibril, Guma El-Gamaty e Mahmoud Shammam. Hanno parlato con tutti, ma non c'era bisogno di essere presenti per capire che i rapporti privilegiati sono con Parigi («Sarkozy a Bengasi è ormai un eroe»), Washington e Londra. Le parole di Shammam sull'Italia, riportate dal Corriere della Sera, sono emblematiche e confermano le mie previsioni: «Distinguiamo fra italiani e governo italiano. Gli italiani sappiamo che ci appoggiano e saranno i benvenuti. Quanto al governo di Roma devo ammettere che c'è un grosso problema». Perché? «Il vostro premier ha avuto rapporti personali troppo stretti con Gheddafi e la sua famiglia, indubbiamente questo è un ostacolo al ruolo che l'Italia potrà svolgere». E Sarkozy no? «Ma adesso ci ha difeso». Chiedete che anche l'Italia vi riconosca? «No, il nostro obiettivo non è il riconoscimento, è semmai quello di cacciare subito Gheddafi e di avviare il processo politico per la ricostruzione della Libia. Poi decideremo e valuteremo le relazioni mediterranee». Più chiaro di così... Esattamente come scrissi giorni fa, fin dall'inizio della crisi, non sarà il passato a contare nelle relazioni con la nuova Libia - chi ha fatto più o meno affari con Gheddafi, chi era più o meno "amico" - ma il presente, chi cioè si impegna di più a cacciarlo. Ed è comprensibile che sia così. Quindi c'era tutto lo spazio per una conversione immediata a 180 gradi, esattamente come quella di Obama con Mubarak e di Sarkozy proprio con Gheddafi, e non ci saremmo trovati a rincorrere gli altri sventolando un piano "pannelliano" per Gheddafi.

Alla luce delle mosse che sta compiendo il governo italiano, il rischio non dico di essere tagliati fuori, ma di restare in secondo piano nel processo che porterà alla nuova Libia, Paese nel quale abbiamo rilevantissimi interessi strategici e commerciali, stanno aumentando o diminuendo? Scampato il pericolo iniziale di un isolamento totale, a me pare che restiamo nelle seconde file, se non in balconata, costretti a rincorrere le mosse altrui senza mai anticiparle.

Tuesday, March 29, 2011

Qual è il piano? Un colpo di fortuna

C'è da sperare che il presidente degli Stati Uniti sia un ipocrita e non un incapace. Nel suo discorso al Paese sulla Libia ha ribadito che favorire l'avanzata degli insorti non rientra nel mandato Onu che ha autorizzato l'intervento e che «ampliare la missione in modo da includere il regime change sarebbe un errore», ma ha spiegato che la caduta di Gheddafi è un obiettivo, solo che va perseguito «con mezzi non militari». Pressioni e isolamento.

E' evidente anche ad un bambino che questa strategia, se fosse applicata alla lettera, non porterebbe mai alla caduta di Gheddafi, il quale ha il vantaggio di poter considerare una vittoria anche solo una situazione di stallo dal punto di vista militare che lo veda controllare la Tripolitania. A parole la strategia di Obama è più vicina alla posizione italiana che a quella francese, ma nei fatti - fortunatamente - dai bersagli centrati, dalle armi e dai mezzi aerei (come gli AC-130 e gli A-10) impiegati dagli Usa, le cose sembrerebbero stare molto diversamente. A parole Obama assicura di non voler dare appoggio aereo ai ribelli né di perseguire militarmente la caduta di Gheddafi, ma nei fatti è esattamente ciò che le sue forze aero-navali stanno cercando di fare - pur senza dare troppo nell'occhio, quindi a scapito dell'efficacia dell'azione. A Washington d'altra parte sanno bene che le chance di successo delle pressioni non militari tanto care a Obama sono direttamente proporzionali al grado di minaccia bellica.

Tuttavia, l'ambiguità su un obiettivo militare che non si può dichiarare apertamente, e dunque sembra venire perseguito troppo debolmente, resta, ed è ciò che anche il Washington Post rimprovera al presidente, in sostanza di non avere «una strategia che non faccia affidamento su un colpo di fortuna - un golpe improvviso, una inaspettata avanzata ribelle, o un improbabile accordo con Gheddafi per il suo esilio... Il rischio - conclude il quotidiano della capitale Usa - è che l'ansia del presidente nel circoscrivere il coinvolgimento americano alla fine ostacoli il cambiamento che a parole sostiene». Se secondo voi "prova a farlo col minimo sforzo e senza dirlo" rappresenta una «dottrina» politica...

Un piano sostanzialmente affidato al colpo di fortuna - addirittura tre, cioè che Gheddafi accetti di fermare le armi, di dialogare con gli insorti e, infine, di andarsene - è anche quello elaborato alla Farnesina per ritagliare finalmente all'Italia un ruolo da protagonista: cessate-il-fuoco; dialogo di riconciliazione nazionale; iniziativa dell'Unione africana per convincere Gheddafi all'esilio. Tutto bello e buono, ma perché dovrebbe funzionare? Per di più in Italia, diversamente dagli americani, sembriamo ignorare la centralità del fattore militare. Ci illudiamo anzi che da uno stallo sul terreno possano scaturire le condizioni per una «fase di mediazione», mentre è vero il contrario, perché uno stallo è una vittoria di Gheddafi e il raìs non tratterà mai quando ai suoi occhi è convinto di poter vincere.

Ecco perché l'Italia dovrebbe continuare pure a elaborare quanti piani vuole ma intanto partecipare ai bombardamenti. Per fugare gli ultimi residui dubbi sulla sua amicizia (ex?) con la famiglia Gheddafi, e perché solo i successi militari possono accelerare la caduta del raìs con mezzi non militari. Per mediare c'è sempre tempo, ma prima bisogna mettere il dittatore dinanzi alla prospettiva di una sconfitta e/o morte praticamente certa. Il che con i dittatori non è mai facile, perché il loro fanatismo li induce a sopravvalutare leggermente le loro forze. Ma posta una pistola alla tempia di Gheddafi, il più sarebbe fatto e parlare di esilio non avrebbe senso se non per salvargli la vita.

Smascherati e umiliati

L'Italia smarrita alla ricerca di un copione

Ieri, con un uno-due che solo l'arroganza francese avrebbe potuto concepire, Sarkozy ha smascherato il bluff diplomatico italiano sulla Libia. Prima la dichiarazione congiunta Parigi-Londra a prefigurare per il vertice di oggi una «soluzione politica» della crisi libica fondata su un dialogo nazionale e un processo democratico di cui il Consiglio nazionale di transizione - già riconosciuto da Parigi - dovrebbe essere il motore. Niente di concreto, tutti auspici più che ovvii e condivisibili, ma nelle stesse ore da Roma e Berlino non usciva alcun comunicato, il che evidenziava come la sponda tedesca vantata da Frattini in questi giorni in contrapposizione all'asse anglofrancese fosse solo un gioco di specchi; poi, la videoconferenza pre-vertice convocata da Sarkozy con Cameron, Obama e la Merkel, ad evocare una guida politica "a quattro" della crisi libica che incredibilmente includeva la Germania, astenuta sulla risoluzione dell'Onu e del tutto assente dalle operazioni, ed escludeva l'Italia, che con le sue basi e il comando dell'embargo navale Nato svolge comunque un ruolo di primo livello. Uno schiaffo tremendo, che oltretutto certificava come non esistesse alcun asse diplomatico Roma-Berlino.

Un'umiliazione che andrà restituita a Parigi con gli interessi alla prima occasione utile, ma che non è decisiva, come spiega Vittorio Emanuele Parsi su La Stampa, e, anzi, è anche lo specchio delle «debolezze» francesi e tedesche:
«La partita vera si gioca oggi a Londra. E per quel che riguarda il ruolo dell'Italia, il comando delle forze impegnate nel blocco navale, l'inclusione nel Gruppo di contatto e la partecipazione attiva a una coalizione sotto la guida della Nato pesano molto di più che l'esclusione, pur immeritata e sgarbata, da una teleconferenza organizzata all'ultimo momento per lenire l'orgoglio ferito di Sarkozy».
In questi casi, quindi, sdrammatizzare sul momento è d'obbligo, per non accentuare ulteriormente l'accaduto. Epperò, alla luce dell'appuntamento di oggi a Londra, e anche considerando l'ondata di clandestini che sta approdando sulle nostre coste nell'indifferenza dell'Ue, faremmo comunque bene a cogliere quest'occasione per fare un po' di sana autocritica sui limiti, direi l'inconsistenza della posizione dell'Italia, che dalle operazioni in Libia resta con un piede dentro e uno fuori aspettando un Godot che le restituisca magicamente il "posto al sole" perduto.

All'inizio Gheddafi non andava «disturbato»; seguono giorni di imbarazzato silenzio, poi sì all'intervento, ci siamo anche noi ma anche no, «i nostri aerei non spareranno»; l'idea di aspettare che maturino le condizioni per una «fase di mediazione» viene abbandonata per una «soluzione politica» basata sul dialogo nazionale fra le tribù; intanto, Berlusconi che si dice «addolorato» per il raìs; adesso si farebbe di nuovo strada l'ipotesi dell'esilio. Tutto e il contrario di tutto, insomma, fuor ché l'unica scelta che ci avrebbe fatto recuperare il terreno perduto: partecipare ai raid sulle forze del regime.

Puntare sull'esilio di Gheddafi per ritagliarsi un ruolo è più che velleitario, è come sperare che ti entri una scala reale con una carta sola ancora da scoprire. Può capitare un colpo di fortuna, certo, ma non è saggio impostarci il tuo gioco. In questo momento dovremmo puntare sulle bombe come gli altri (cioè a far cadere Gheddafi prima possibile), e intanto approfondire i contatti con il Cnt, semi-riconoscerlo anche, poi si vedrà. Tanto il ruolo di mediatori, nel caso di ripensamenti da parte del raìs, non ce lo toglie nessuno.

Un errore di valutazione madornale invece, che probabilmente si commette in queste ore alla Farnesina e che si legge sui giornali, è dare per scontato che una situazione di stallo militare possa favorire le condizioni per quella fase di mediazione per cui ci stiamo preparando, mentre è vero piuttosto il contrario, chiuderebbe ogni chance: Gheddafi non accetterà mai l'idea di lasciare, ma tanto più se sarà riuscito a resistere ai raid e all'avanzata dei ribelli. Lo stallo per lui è come una vittoria. Basta che resista in Tripolitania, tanto da evocare lo spettro di una Libia divisa in due. A quel punto spera di costringere la comunità internazionale a trattare con lui o a dividersi sul da farsi. Se c'è una minima possibilità che accetti l'esilio, è messo di fronte ad una situazione disperata, ma a quel punto potrebbe essere troppo tardi, sarebbero i ribelli a non volerlo concedere.

Piuttosto, uno scenario leggermente più probabile che dovremmo prepararci fin d'ora ad affrontare è che di fronte ad uno stallo la Francia decida di inviare truppe di terra. Questa volta sarebbe il caso di riflettere in anticipo su come comportarci.

Monday, March 28, 2011

Ipocriti!

La coalizione internazionale guidata dalla Nato in Libia non prende posizione per nessuna delle due parti in lotta, avrebbe assicurato poche ore fa alla Bbc il segretario generale dell'Alleanza Anders Fogh Rasmussen dopo le critiche da parte russa (secondo Mosca l'intervento in atto non sarebbe autorizzato dalla risoluzione dell'Onu). Bando alle ipocrisie, com'era ovvio, e auspicabile, l'intervento militare alleato non si è limitato a proteggere i civili dalle bombe di Gheddafi. Interpretando il mandato Onu in modo più esteso, l'intervento di fatto ha offerto, nonostante le numerose e ripetute smentite, una vera e propria copertura aerea agli insorti, che hanno così potuto rompere l'assedio di Bengasi e riprendere ad avanzare.

Un intervento, quindi, che oltre a proteggere i civili ha di fatto ribaltato, appena in tempo utile, le sorti del conflitto a favore dei ribelli. Un esito inevitabile e ragionevole. Con loro e non con Gheddafi ci siamo schierati, sarebbe onesto dirlo - e rivendicarlo - anziché nascondersi dietro l'alibi dell'intervento "umanitario". Non furono "umanitari" i bombardamenti contro la Serbia di Milosevic. Non lo sono quelli di oggi contro le forze di Gheddafi. Nonostante l'espressione «cambio di regime» venga ancora ipocritamente respinta per allontanare lo spettro di Bush, prima demonizzato poi riabilitato nei fatti, è innegabile che questo - e giustamente - sia l'obiettivo ultimo dell'intervento: cacciare Gheddafi. Diverse le circostanze politiche, molto diversa la Libia dall'Iraq, diverso l'impiego della forza, diversa (peggiore) l'organizzazione della coalizione, ma di questo si tratta. Nonostante a sinistra - siccome adesso alla Casa Bianca c'è Obama - molti si affaticano a spiegare perché in Libia sì può mentre in Iraq non si doveva (Libia vs. Iraq instruction for dummies), e a destra - solo perché Berlusconi con Gheddafi ha concluso molti affari e anche un trattato di amicizia, e perché in Libia l'Italia ha (aveva?) cospicui interessi - molti adottano le stesse infantili argomentazioni della sinistra contro la guerra in Iraq. Ipocriti!

P.S.
E tra l'altro mi chiedo: perché Pannella e i radicali non danno vita ad una bella iniziativa per l'esilio di Gheddafi, quindi a sostegno dei tentativi di Berlusconi, ostacolati evidentemente da quei "criminali" di Obama, Sarkozy e Cameron che vogliono la guerra a tutti i costi?!

Panorama deprimente

E' stato un weekend di pura follia quello che si è appena concluso. Con Frattini che se ne esce con l'idea malsana di un bonus in denaro per convincere i clandestini a rimpatriare, che di tutta evidenza non farebbe altro che alimentare il commercio di essere umani su cui prosperano le organizzazioni criminali; il centrodestra al governo e i giornali ad esso vicini (con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi) che continuano a trattare la crisi libica come un'emergenza immigrazione e poco più (quando a tutt'oggi i grandi esodi paventati non si sono visti) e, ancor più patetico, ad esercitarsi in complottismi e vittimismi, quando è evidente che Parigi e Londra, ciniche quanto si vuole, stanno solo perseguendo il loro interesse nazionale; e in ultimo le opposizioni, che immancabilmente si dimostrano capaci solo di strumentalizzazioni sull'orizzonte ristrettissimo della politica interna.

Con rarissime eccezioni, insomma, un panorama politico e giornalistico davvero deprimente, mentre Gheddafi sta per cadere (i ribelli starebbero marciando verso Sirte, sua città natale), e Francia e Gran Bretagna giocano all'attacco la loro partita per l'influenza nel Mediterraneo, per riempire cioè quel nuovo promettente spazio geopolitico apertosi con le rivoluzioni del Nord Africa. Dovremmo chiederci perché noi non solo non riusciamo ad agire con la stessa determinazione ed efficacia, sembriamo ancora intontiti dalla tempesta che ha spazzato via il nostro comodo "posto al sole" in Libia, ma neanche discutiamo di come riprendercelo, quasi ce ne vergognassimo. Eppure, basterebbe partecipare attivamente, quanto francesi e inglesi, alle operazioni militari (abbiamo le forze e le capacità operative per farlo) e sfruttare al meglio qualcosa che loro invece non hanno: i nostri contatti, la nostra conoscenza sul campo, la nostra buona immagine.

Invece, stiamo lì a rimuginare, a piangerci addosso, ad aspettare un'improbabile «fase di mediazione» che dovrebbe farci tornare protagonisti, sottolineando in questo modo noi stessi il ruolo di secondo piano dell'Italia. Se chiedere «l'immediato cessate il fuoco» quando Gheddafi sembrava stesse per sferrare l'attacco finale su Bengasi aveva un qualche senso, è ridicolo farlo oggi, quando può essere scambiato per un modo di correre in aiuto del Colonnello stretto in una morsa (ribelli e raid) che sembra inesorabile, anche se lenta. Il nostro governo vaneggia di «mediazioni», «dialogo», «riconciliazione nazionale», mentre il raìs sta ancora combattendo ed è chiaro a tutti che venderà cara la pelle, altro che esilio... Certo, prima o poi occorrerà avviare un dialogo fra le tribù, un lavoro di riconciliazione, ma solo dopo che sarà caduto Gheddafi. Affannarsi tanto ora ricopre di un alone di ambiguità le nostre intenzioni, si potrebbe pensare che pretendiamo o che crediamo possibile «riconciliare» i ribelli con il tiranno e viceversa.

Siamo riusciti, è vero, a togliere a Sarkozy il monopolio del palcoscenico, ma ormai gli effetti che l'intervento alleato doveva determinare sul campo si sono verificati. Insomma, la Nato sembra intervenire se non a cose fatte, di certo molto ben avviate, e i ribelli sanno bene chi è intervenuto per primo e in modo decisivo in loro soccorso, nell'ora più drammatica. Pensare che ci lasceranno condurre le danze del dopo-Gheddafi, dopo che siamo rimasti in secondo piano negli sforzi per cacciarlo, è pura utopia consolatoria. Tant'è che alla nostra vera o presunta «soluzione diplomatica» avanzata da Frattini (di sponda, pare, con Germania, Russia e Turchia) già se ne contrappone un'altra, vera o presunta anche questa, elaborata da Parigi e Londra (almeno così dice il ministro degli Esteri francese Juppé). Sarà dura recuperare sulla nuova Libia l'influenza che avevamo, ma quand'è che iniziamo a giocare da duri?

Friday, March 25, 2011

La missione spezzatino

Ormai più che ad un'Alleanza la Nato somiglia ad un supermercato, dove ciascuno va e compra ciò che gli pare; e la missione uno spezzatino, divisa in tre tronconi per non scontentare nessuno. Quella di Bruxelles sembra di fatto una non scelta, che consente a ciascun alleato di scegliersi il livello di impegno che preferisce in Libia (e di coltivare quindi il proprio obiettivo). In realtà, non sono ancora ben chiari i contenuti dell'accordo raggiunto ieri: secondo il Corriere della Sera, che riporta le parole del segretario Rasmussen, la Nato ha già assunto il comando dell'embargo navale e assumerà a breve anche quello per il rispetto della no-fly zone, mentre, pare di capire, alla coalizione dei volenterosi, e in particolare ai singoli Paesi che lo vorranno, rimarranno gli attacchi mirati ai bersagli militari del regime di Gheddafi. Secondo la Repubblica, invece, l'Alleanza assumerà il comando sia della normale no-fly zone (già da domenica), sia di una cosiddetta no-fly zone plus (entro martedì), che comprenderebbe i raid contro le forze del Colonnello. Sul modello di quanto già avviene per l'Isaf in Afghanistan, la direzione politica sarà esercitata dal Consiglio atlantico, allargato ai rappresentanti dei Paesi non Nato che fanno parte della coalizione, come Qatar ed Emirati.

Il comando sarà unico su tutte le operazioni militari, non ci sarà più la "coalizione dei volenterosi" separata dalla Nato, confermano fonti dell'Alleanza. Sì, ma di fatto per tre diverse missioni: embargo, no-fly zone e bombardamenti. La Turchia si limiterà al primo, l'Italia alla seconda (non sia mai che i nostri aerei sparino un colpo), mentre Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti faranno il lavoro sporco, con gli inevitabili oneri ma anche, al momento opportuno, onori e benefici.

Secondo la versione di Repubblica, per Sarkozy sarebbe una resa totale. Salverebbe la faccia solo dicendo che sarà la conferenza di Londra di martedì prossimo tra i ministri degli Esteri della coalizione a fornire «l'ombrello politico-strategico» sotto cui agirà la Nato. Il ruolo francese viene comunque ridimensionato perché il comando (soprattutto se anche della versione "plus" della missione) passa alla Nato, ma solo sulla carta, perché c'è da scommettere che Parigi saprà ritagliarsi il ruolo di leader sul campo, nelle operazioni militari, e quindi anche nella direzione politica della crisi. Noi italiani possiamo da una parte ritenerci soddisfatti perché da "amici" del raìs, inizialmente un po' isolati, siamo riusciti a rientrare in partita, ma pur avendo voce in capitolo, rinunciando a partecipare alla parte "plus" della missione rischiamo di restare comunque in secondo piano.

Anziché partecipando ai bombardamenti, è puntando tutto su una improbabile futura «mediazione» con il regime di Gheddafi che Berlusconi spera di tornare protagonista. E' una scommessa ardita, perché come anche lui ben sa il suo vecchio "amico" non si arrenderà mai, piuttosto è capace di una carneficina, e il rischio è che il suo tentativo passi solo per l'ultima patetica ciambella di salvataggio all'amico dittatore. Se è vero che Berlusconi si sente trascinato "obtorto collo" nella missione, allora bisogna riconoscere il merito di aver evitato al nostro Paese un drammatico isolamento a Frattini, Letta e a La Russa (ma anche al presidente Napolitano e alla Clinton).

E' in queste occasioni che l'aspetto positivo della politica estera berlusconiana della "pacca sulla spalla" mostra tutti i suoi limiti. I rapporti umani con i leader aiutano senz'altro la diplomazia e gli affari, ma non bisogna rimanerne prigionieri, come è capitato al premier con Putin e Gheddafi. Il guaio per l'Italia in questa crisi è che Berlusconi è rimasto sentimentalmente, emotivamente legato ai bei tempi andati con il Colonnello, quando il leader libico sembrava aver rimesso la testa a posto. A causa del suo coinvolgimento personale non ha avuto quel guizzo, quel coraggio politico - o cinismo, se preferite - di un cambio di rotta a 180 gradi quando lo scenario geopolitico nell'intero Nord Africa è radicalmente mutato. Recriminare contro il protagonismo francese è solo un'infantile pratica autoassolutoria e raccontarsi che prima o poi si aprirà una «fase di mediazione» che ci vedrà protagonisti un fatuo esercizio consolatorio.

Thursday, March 24, 2011

Esserci ma anche no

Nonostante l'annunciato «ruolo chiave» della Nato nella missione in Libia, un accordo sul comando vero e proprio ancora non è stato raggiunto, quindi l'Italia la sua piccola rivincita non l'ha ancora ottenuta e inoltre non partecipando ai raid e vaneggiando di «mediazioni» continuiamo a lasciare a francesi e inglesi la prima fila.

All'inizio si era tenuta in disparte l'opzione Nato per favorire l'adesione di Paesi arabi alla coalizione. Paesi arabi che però finora non si sono visti. Quindi Obama pare si sia deciso per il comando Nato, ma i francesi insistono per una cabina di regia politica esterna all'Alleanza. Sembrerebbe che la maggior parte dei Paesi condivida la posizione italiana, eppure la situazione non si sblocca. Come'è possibile? Perché a Washington non premono con la dovuta convinzione? O perché in fondo non ne hanno la volontà, e quello con Parigi è solo un gioco delle parti? Sia come sia, l'assenza di leadership da parte americana lascia basiti. Obama è sì riuscito ad ottenere un mandato dell'Onu, grazie all'astensione della Russia, ma a quasi una settimana dall'inizio delle operazioni occidentali - e dopo oltre un mese di tentennamenti - non è ancora riuscito ad organizzare e definire ciò che più conta quando si va in guerra: la coalizione non ha ancora preso una forma definitiva (deve ancora convincere i Paesi arabi a partecipare); non è ancora chiaro a chi spetti il comando (deve convincere turchi e francesi ad accettare il comando Nato); e non sono chiari gli obiettivi ultimi (tra chi si accontenta di attuare la no-fly zone per proteggere i civili, e chi continua a bombardare per far cadere Gheddafi).

Obama in questi giorni viene aspramente criticato da commentatori e analisti di qualsiasi orientamento: «capo del cerimoniale del Pianeta», «metà Amleto, metà Macbeth», «brilla per prudenza, ma non ha mai un guizzo di coraggio politico», sono alcune delle espressioni nei suoi confronti. Stiamo assistendo al declino dell'America da molti atteso (e da qualcuno auspicato) o più semplicemente alla ratifica dell'inconsistenza della sua attuale leadership? Nonostante certamente la crisi economica, il debito, e i numerosi impegni militari limitino le capacità americane, propendo decisamente per la seconda.

Su una cosa non si può dar torto a francesi e inglesi: la no-fly zone di per sé non basta. Per far cadere il raìs bisogna bombardare e decimare le sue forze. D'altra parte, può anche non essere scritto esplicitamente sulla risoluzione Onu, ma non prendiamoci in giro: la missione ha successo se Gheddafi cade in breve tempo, altrimenti il rischio è un pantano che non coinviene a nessuno.

E l'Italia come sta giocando la sua partita? Male. Non abbiamo compreso il nuovo scenario che si sta aprendo in Nord Africa e la nuova sfida geopolitica che implica, mentre Sarkozy è stato lesto ad approfittarne. Anziché riconoscere il nostro errore e sgomitare per riguadagnare le posizioni perdute, ci nascondiamo dietro un infantile vittimismo anti-francese e un'ipocrita non-belligeranza («in dieci missioni i nostri aerei non hanno mai sparato», si vanta La Russa), nella speranza che prima o poi si apra una finestra diplomatica tra Gheddafi e la comunità internazionale. Nel frattempo però, l'impasse sul comando Nato, l'assenza di leadership americana, e il nostro esserci e non esserci («non siamo in guerra e non ci entreremo», ripete il governo), ci stanno relegando in una posizione sempre più vistosamente di secondo piano rispetto a francesi e inglesi. Berlusconi punta tutto sulla questione del comando Nato e su una improbabile «fase di mediazione», che dovrebbe seguire un vero cessate-il-fuoco, per riguadagnare spazio rispetto al protagonismo francese. Certo, se riuscisse a convincere Gheddafi all'esilio ne uscirebbe come il grande trionfatore, ma stavolta il suo sembra davvero un sogno ad occhi aperti.

Ripeto: l'Italia non deve utilizzare la questione del comando per mettere i bastoni tra le ruote alle operazioni, disquisendo se sia o non sia all'interno del mandato Onu bombardare i tank di Gheddafi. Certo che lo è. Punto. E anzi deve fare la sua parte come gli altri. Perché anche a noi interessa ormai che Gheddafi cada prima possibile e che si passi al dopo. Certo, dovremo contenderci con i francesi l'influenza sulla nuova Libia, ma semplicemente ritardare o peggio ostacolare questo esito non è un opzione percorribile, perché i bei tempi andati non torneranno più, a meno di non accettare il nuovo scenario e rimboccarsi le maniche. Insomma, una volta superato per sempre uno status quo che ci avvantaggiava, giocare sulla confusione degli obiettivi finali della missione per far dispetto ai francesi è una magra consolazione e, in realtà, faremmo dispetto a noi stessi. Anche perché l'interpretazione restrittiva del mandato Onu (la protezione della popolazione civile) è quella che più rischia di determinare una situazione di stallo, e alla lunga un esito per noi deleterio come la spartizione della Libia, con un governo dei ribelli in Cirenaica, ma a quel punto decisamente filo-francese, e uno in Tripolitania imprevedibile e vendicativo nei nostri confronti, e comunque sotto embargo e sanzioni.

Tuesday, March 22, 2011

Arginiamo Parigi, ma cacciamo Gheddafi

Sono le misere gelosie tra i Paesi europei a stagliarsi sulle ceneri della leadership americana. L'Italia ha ragione nel pretendere un comando Nato della missione, ha torto nel porre limiti alle operazioni, ma in questo sembra in linea con le ambiguità del presidente americano Obama.

Se si tratta di arginare il protagonismo francese - che ha tutta l'aria di essere dettato non da un afflato umanitario, ma dalla volontà di sostituire la propria influenza a quella italiana in Libia e dall'ambizione personale di Sarkozy, che cerca di rianimare la sua immagine nell'imminente corsa alla rielezione - ok; se è un modo per tornare su una posizione "neutralista" e prolungare surrettiziamente il regime di Gheddafi, decisamente no, perché ciò non risponde più ai nostri stessi interessi e prima ce ne convinciamo, meglio è. Invece, nel centrodestra stanno confondendo la legittima reazione al protagonismo francese con le sorti del raìs. E' certamente vero che siamo di fronte ad un intervento per lo più di carattere "neocoloniale" da parte di francesi e inglesi, che mirano a sostituire la loro influenza alla nostra in Libia, ma la soluzione non è piangerci addosso e addolorarci per Gheddafi. Il punto è un altro: che il Colonnello cada, e il prima possibile, è ormai anche nel nostro interesse, dal momento che il ritorno a qualcosa che somigli anche lontanamente allo status quo ante è impensabile e quindi il nostro comodo "posto al sole" in Libia è perduto. Dobbiamo riconquistarlo non prolungando l'agonia di Gheddafi, bensì non lasciando il comando delle operazioni - belliche e politiche - ai francesi. Questa è la sfida, rispetto alla quale l'alternativa è ritrarsi, rinunciando però in partenza a riguadagnare le preziose posizioni perdute in Libia.

Ad aver lasciato campo libero ai francesi purtroppo siamo stati noi stessi, paralizzati - a quanto pare ancora oggi - dall'imbarazzo per la nostra (ex?) amicizia con Gheddafi. Guardiamo agli Stati Uniti di Obama, a quanto velocemente hanno scaricato il loro miglior "amico" in Medio Oriente, Mubarak, quando si sono accorti che lo scenario era cambiato per sempre. Dobbiamo riconoscere, come fa non da oggi Mario Sechi su Il Tempo, che Sarkozy «è stato svelto nello scavalcarci perché ha capito qual era lo scenario»: in breve, che le rivoluzioni in Tunisia, Egitto e Libia stavano aprendo lo «spazio geopolitico» del Mediterraneo a chi fosse stato più rapido nel riempire quel vuoto; e che gli Stati Uniti sarebbero stati refrattari a svolgere un ruolo da protagonisti nella crisi libica. In questo spazio avremmo dovuto infilarci noi, invece Sarkozy ci ha preceduti. Ora non possiamo far altro che rincorrere, non negare la situazione.

Di fronte a quanto stava accadendo, e alla Francia che puntava chiaramente a sostituire l'Italia nei rapporti con la nuova Libia, due erano le possibilità per il nostro governo: o sostenere dichiaratamente il Colonnello, con tutto quello che avrebbe comportato, e senza nasconderci che comunque il suo destino sarebbe stato segnato nel medio termine; oppure, contendere ai francesi il dopo-Gheddafi, ma puntando decisamente a favorire il "dopo". Tertium non datur. Per questo è giusto sollevare un problema di comando, ma sarebbe sbagliato restare nell'ambiguità sull'obiettivo ultimo: cacciare Gheddafi prima possibile.

Questa guerra è cominciata tardi e male essenzialmente per responsabilità americane, per la debolezza della leadership di Obama. La confusione sull'obiettivo ultimo della missione infatti è innanzitutto la sua. Da una parte ripete ogni giorno che nessuna risoluzione dell'Onu autorizza a cacciare il raìs, quindi che l'obiettivo della missione non è rovesciare il regime, dall'altra aggiunge che il dittatore «se ne deve andare», non si capisce bene come. Indica una sottilissima «distinzione» fra l'intervento militare autorizzato dall'Onu e la politica del suo governo. La risoluzione 1973 richiede la protezione dei civili dalle violenze di Gheddafi, dunque l'obiettivo della coalizione non è il «cambio di regime», ma ciò non toglie che la Casa Bianca ritenga che «Gheddafi deve abbandonare il potere». Eh sì, sono lontani i tempi della chiarezza cristallina di George W. Bush. Solo con le lenti dell'ipocrisia si può fingere di non vedere che laddove la risoluzione autorizza «ogni mezzo necessario» a proteggere la popolazione civile, de facto autorizza - se necessario - anche la rimozione di Gheddafi dal potere. Ma secondo Obama l'intervento armato si dovrebbe limitare a proteggere i civili, mentre le sanzioni dovrebbero bastare a far cadere il regime. Questo per lasciare almeno all'apparenza nelle mani dei libici il loro destino, come in Egitto nel caso di Mubarak, evitando di impegnare gli Usa in un vero e proprio "regime change", che ricorderebbe troppo Bush. Se è lecito dubitare che una no-fly zone possa provocare da sola la caduta di Gheddafi, figuriamoci le sanzioni. O si tratta di ipocrisia liberal allo stato puro - e a questo punto c'è da augurarselo - oppure c'è da dubitare delle doti politiche del presidente Usa.

Stupiscono infine certe obiezioni sollevate nel campo del centrodestra, che somigliano in modo sospetto a quelle sollevate dalla sinistra ad ogni guerra americana: perché in Libia sì e in altre parti del mondo no? Il fatto che di dittature anche più minacciose e di genocidi sia pieno, purtroppo, il mondo non significa che bisogna rimanere con le mani in mano anche quando c'è la possibilità di intervenire. E' il solito trucco dialettico: siccome si dovrebbe intervenire ovunque, o comunque "ben altre" sarebbero le situazioni che richiederebbero un intervento, allora non si interviene mai.

Monday, March 21, 2011

Partiti, ma che confusione!

Come si fa a non rimpiangere Bush e Blair?

Delle ragioni che rendono per l'Italia obbligatorio partecipare attivamente all'intervento militare in Libia, e che anzi avrebbero suggerito sin dall'inizio un ruolo da protagonista del nostro governo in quel senso, ho già scritto in questo post. Ma quel che stupisce in queste ore, persino da parte statunitense, è la confusione su aspetti cruciali della missione, che potrebbe seriamente compromettere la sua riuscita.

Il rischio di insuccesso c'è innanzitutto perché è tardiva, a causa delle incertezze occidentali (e in primis americane) più che per il veto russo, di fatto superato due sabati fa con il via libera della Lega araba. All'inizio, durante l'avanzata dei ribelli, una no-fly zone e alcuni raid mirati avrebbero potuto assestare l'ultima spallata a Gheddafi. Oggi è tutto molto più problematico: salvare gli insorti e i civili dalla controffensiva del raìs non significa automaticamente farlo cadere, quindi si rischia uno stallo della situazione.

Registriamo nel frattempo la relativa facilità con cui sembra stabilita già in queste ore la no-fly zone sulla Libia. Le forze della coalizione hanno ampiamente «neutralizzato» le difese aeree libiche ed evitato «in extremis» un massacro a Bengasi», ha riferito il primo ministro britannico Cameron alla Camera dei Comuni; «abbiamo dedicato le prime 24 ore alle operazioni per stabilire la no-fly zone e stiamo passando adesso alla fase di pattugliamento del cielo libico», ha reso noto poco fa un portavoce del Pentagono. Solo 24 ore? Ma non era lo stesso Pentagono ad avvertire che predisporre una no-fly zone sarebbe stata un'operazione complessa e pericolosa che richiedeva studi e contro-studi, riflessioni su riflessioni?

Ma soprattutto, ciò che allarma - anche il Wall Street Journal, favorevole all'intervento - è la confusione che a tre giorni dal via alle operazioni ancora si registra riguardo la leadership politica, il comando operativo, le limitazioni e gli obiettivi finali della missione.

Obama ha spiegato che gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano». Sarebbe una situazione inedita e il WSJ ha rammentato ad Obama che la Costituzione Usa pone il presidente americano al comando delle forze armate, né Sarkozy né l'emiro del Qatar. Gli americani non la prenderebbero bene se venisse fuori che c'è qualcun altro al comando delle loro forze aero-navali che operano in Libia. Ma quindi chi guida la missione? Per ora nessuno, pare di capire. In queste prime fasi la coalizione ha agito in ordine sparso, con un coordinamento random. E' sbalorditivo come gli Stati Uniti non abbiano preventivamente ottenuto da Parigi l'impegno ad accettare un comando Nato una volta concesso loro di sparare il primo colpo. Pare che qualcosa si stia muovendo adesso. Il ministro degli Esteri francese ha aperto ad un «sostegno» Nato; Cameron ha espresso la volontà che «col tempo il comando e il controllo dell'operazione passi alla Nato»; la Norvegia ha sospeso la sua partecipazione finché non sarà chiarita la questione del comando; e finalmente, dopo essere entrati a pieno titolo nella coalizione, anche dall'Italia arriva un colpo d'ala per arginare il protagonismo francese: se la missione non passerà sotto comando Nato, avverte Frattini, l'Italia riconsidererà la sua posizione sull'uso delle basi. I francesi replicano e rischia di finire a pesci in faccia tra Roma e Parigi.

Speriamo che qualcuno a Washington sia in ascolto, ma pare che anche lì qualcosa nella catena di comando non funzioni. Veniamo infatti alla leadership politica e agli obiettivi finali della missione. Nella risoluzione dell'Onu che autorizza gli attacchi non c'è scritto che l'obiettivo è la caduta di Gheddafi. Eppure, tutti sanno che è proprio quello l'obiettivo ultimo e non potrebbe essere altrimenti. Venerdì scorso il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, non ha nascosto che oltre a fermare le violenze del Colonnello sui civili il secondo esito che si vuole provocare, sia pure indirettamente, è la fine del suo regime. Eppure, la Clinton è stata corretta venerdì stesso, poi sabato, poi ancora oggi, da Obama, il quale ha chiarito e fatto ribadire dai suoi portavoce che «l'azione non mira a mutamenti di regime» in Libia (non sia mai che qualcuno dovesse confonderlo con Bush...). Ora, o il presidente americano ci crede stupidi, o si è bevuto il cervello. Perché una missione del genere che non si ponesse come obiettivo ultimo la caduta di Gheddafi sarebbe da irresponsabili. Un autentico salto nel buio.

Intanto, anche al Cremlino si registra qualche scossone negli equilibri del potere. Medvedev smentisce Putin. L'ex presidente aveva bollato la risoluzione 1973 dell'Onu come un «appello alle crociate». «Inaccettabile» per Medvedev, che ha invece definito «non sbagliata» la risoluzione.

Se siamo costretti a inseguire la colpa è solo nostra

La spiacevole sensazione di trovarci trascinati obtorto collo in un conflitto che la nostra diplomazia aveva scommesso non ci sarebbe stato, e che avremmo volentieri evitato, è comprensibile, ma della nostra condizione dobbiamo incolpare solo noi stessi. Se oggi, come si legge sul Corriere della Sera, il premier si trova «nell'indesiderata e paradossale posizione di dover sperare nel successo pieno, sino alla destituzione di Gheddafi, di un'operazione che vive anche nel ruolo di vittima», è comodo ma miope prendersela con il cinico Sarkozy. Piuttosto, Berlusconi se la prenda con le "distrazioni" giudiziarie di cui è suo malgrado oggetto e con una Farnesina poco reattiva e malamente informata. Ricordiamo bene i giorni delle rivolte in Tunisia e in Egitto, quando i nostri servizi segreti, quelli che avrebbero dovuto saperne di più al mondo sulla situazione in Libia, assicuravano che il regime del Colonnello era saldo. Se non capiamo questo in fretta, sbaglieremo anche le prossime mosse. Come osserva Panebianco sul Corriere della Sera, stiamo facendo «la cosa giusta, l'unica possibile», partecipando con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo tirarci indietro. Il classico "buon viso a cattivo gioco", insomma, con la differenza che il cattivo gioco se l'è autoinflitto l'Italia da sola, non comprendendo per tempo ciò che stava accadendo e che inevitabilmente sarebbe accaduto. Consapevoli di non avere la forza di impedire agli altri di "giocare" nel cortile davanti casa nostra, sarebbe stato più intelligente uscire di casa col pallone sotto braccio e organizzare noi per primi la partita.

Era del tutto evidente, infatti, fin dai primissimi giorni della rivolta in Libia e anche ad umilissimi blogger come il sottoscritto, che Gheddafi non sarebbe rimasto al potere se non ad un prezzo inaccettabile di vite umane, rendendo quindi impossibile un ritorno al "business as usual" e probabilmente inevitabile un intervento militare per cacciarlo, soprattutto dopo le impegnative parole di Obama e di Sarkozy. Insomma, il nostro comodo e privilegiato "posto al sole" in Libia era comunque perduto, tanto valeva prepararsi il prima possibile a rioccuparlo nella nuova Libia. Avremmo dovuto giocare d'anticipo e porci noi, dall'inizio, alla testa dei Paesi interventisti, invece abbiamo tentennato e ora ci troviamo costretti ad inseguire, ma sempre titubanti, il protagonismo altrui. Capisco che è un boccone amarissimo, ma dobbiamo mandarlo giù in fretta. L'esclusione della Nato è anch'essa un altro piccolo grande successo di Sarkozy, permesso dalla debolezza americana e italiana. Si potrebbe iniziare da qui per arginare il protagonismo francese.

Non sorprende che la Lega, per sua natura non pacifista ma isolazionista, sia refrattaria all'intervento. Sorprende che lo siano i principali giornali di centrodestra, con l'eccezione del Tempo di Mario Sechi, che in tempi non sospetti aveva colto tutti gli aspetti di ciò che stava montando. Questa guerra porterà solo altri immigrati sulle nostre coste e ci toglierà il petrolio e il gas libici, come temono i leghisti ed ampi settori del Pdl? Avrei capito le perplessità nei confronti del nostro intervento se ci fosse stato davvero uno status quo da difendere, ma al contrario ciò che ci ha fatto rimanere indietro rispetto ai nostri alleati è esattamente non aver compreso che tutto ciò che ci interessa in Libia - le nostre "piattaforme" energetiche e commerciali, il contenimento dell'immigrazione clandestina e dell'estremismo islamico, non avere alle nostre porte uno Stato fallito - per noi era già perduto in partenza, con l'innescarsi della crisi, e questa guerra, semmai, ci offre l'occasione di tentare di riprenderci in futuro ciò che altrimenti non avremmo avuto più. In ogni caso. Perché se Gheddafi fosse rimasto al potere, certo non sarebbe stato possibile tornare al "business as usual" e il raìs, ce lo ha brutalmente chiarito lui stesso alcuni giorni fa, ci avrebbe fatto pagare salatissimo il nostro mancato appoggio, avremmo dovuto ritrattare tutto; se invece la nuova Libia nascesse con un aiuto esterno ma senza il contributo italiano, perderemmo ogni possibilità d'influenza. Dunque, per uscire dal vicolo cieco occorreva fare esattamente ciò che sta facendo Sarkozy, solo prima che lo facesse lui. Adesso è tardi, non possiamo far altro che accodarci e riguadagnare pazientemente le posizioni perdute. Siamo in grado di farlo, perché trattiamo con i libici da quarant'anni e non abbiamo l'arroganza dei francesi.

In questi ultimi due decenni abbiamo preso parte a costose missioni estere in cui il nostro interesse a partecipare era solo indiretto: contribuire alla lotta contro il terrorismo islamico e accrescere il nostro status sulla scena internazionale. Paradossalmente è proprio nella crisi libica che non abbiamo saputo cogliere l'occasione più unica che rara di un intervento nelle cui ragioni confluivano la nobile causa della difesa delle popolazioni civili da una brutale dittatura, l'interesse strategico ad accrescere il nostro status guidando una coalizione internazionale nel Mediterraneo (almeno formalmente sarebbe stato possibile vista la refrattarietà degli Usa di Obama) e - per una volta - la tutela di interessi concretissimi (energetici e commerciali) nell'unico Paese che si trova, se così possiamo definirla, nella nostra "sfera d'influenza". Sarkozy invece - con l'arroganza tipica dei francesi e un pizzico di avventurismo (la scommessa su una campagna breve, dal minimo sforzo e trionfale è comunque un azzardo) - ha colto al volo l'occasione di riempire questo vuoto lasciato dalle incertezze di Washington e dall'imbarazzo italiano. Per la Francia l'occasione di sostituirsi a noi come primo partner energetico e commerciale della nuova Libia e di lanciarsi così alla conquista del nostro "spazio naturale": il Mediterraneo. Per Sarkozy, accusato in patria di aver subito in modo troppo passivo le crisi in Tunisia ed Egitto, anche una ghiottissima occasione per riaffermare la "grandeur" francese e risollevare così le sue sorti personali. Per gli Stati Uniti non solo la difesa della propria influenza in Medio Oriente, e l'interesse strategico a sintonizzarsi con le masse arabe che si sono rivoltate contro i loro oppressori imprimendo alla storia della regione un nuovo corso, ma anche un modo per penetrare in Africa (dopo il tragico fallimento in Somalia) e contrastare le ambizioni imperialiste della Cina (come abbiamo visto presente in forze nella Libia di Gheddafi).

E' «la guerra di Sarkozy», come osserva Lucio Caracciolo su la Repubblica, o non dobbiamo farci ingannare dalle apparenze ed è «tutta americana», come sostiene Lucia Annunziata su La Stampa? In effetti, quello francese potrebbe rivelarsi un colpo di coda della "grandeur" perduta, mentre dietro l'intervento "umanitario" per gli Stati Uniti si concretizza la possibilità di segnare un punto a favore nella serrata competizione che li vede in svantaggio rispetto alla Cina per l'influenza in Africa.

L'azione in corso presenta non pochi rischi, è vero. L'obiettivo dichiarato è far cadere Gheddafi. Questo nella risoluzione dell'Onu che autorizza gli attacchi non c'è scritto, ma tutti lo sanno. Ebbene, uno dei rischi di quest'azione, poiché tardiva e priva fino ad ora di una leadership forte, è che salvi gli insorti dalla controffensiva del raìs, ma che non riesca a rianimare le loro capacità militari e quindi a provocare in tempi ragionevoli la caduta del dittatore. All'inizio c'è stato un momento, durante l'avanzata dei ribelli, durato circa una settimana, in cui sembrava che una no-fly zone, alcuni bombardamenti mirati, potessero assestare l'ultima spallata a Gheddafi. Oggi è tutto molto più problematico, perché i raid sono iniziati quando al Colonnello mancava solo Bengasi per riprendersi il controllo del Paese intero. Il rischio quindi è una situazione di stallo: la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo. Purtroppo sull'efficacia dell'intervento pesa anche l'irresolutezza e la mancanza di leadership degli Stati Uniti. Molti vi hanno visto l'intenzione di lasciare per una volta all'Europa la guida politica di una crisi alle porte del vecchio continente. Purtroppo, bisogna riconoscere che le oscillazioni della Casa Bianca sono dipese solo dalle incertezze di Obama, a loro volta dovute in parte all'inesperienza ma soprattutto alla totale mancanza di visione politica del presidente Usa.

Non si capisce, poi, se Obama si nasconda spudoratamente o sia un totale idiota, quando sottolinea che l'intervento punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime» (se così fosse, sarebbe un irresponsabile), e che gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» (non credo gli americani siano contenti di sapere che le loro forze armate sono sotto il comando di Sarkozy). Per altro, anche la «solida legittimazione internazionale» fornita dalla risoluzione dell'Onu mostra le prime crepe, con le prese di distanza di Russia e Lega araba, mettendo a nudo un lavoro diplomatico non proprio perfetto come si vorrebbe far credere.

Friday, March 18, 2011

Meglio tardi che mai, ma basterà?

UPDATE ORE 15,43:
Finalmente il governo s'è desto. Il ministro La Russa ha riferito alle Camere che verrà chiesta «l'autorizzazione» del Parlamento per «aderire alla coalizione di volenterosi» cui spetterà far rispettare la risoluzione Onu sulla Libia. Non solo le basi, pare di capire, ma anche «uomini e mezzi», una partecipazione «attiva» alle operazioni. Sarebbe stato paradossale che mancassimo solo noi ad una missione a cui manca poco che partecipi pure Trinidad e Tobago. Dignità nazionale non è solo sventolare una bandierina e cantare l'inno nelle ricorrenze.
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UPDATE ore 13,46:
L'insidia, la crepa nascosta nel testo della risoluzione era la richiesta di un «immediato cessate-il-fuoco», e puntualmente - ne ero certo, l'avevo scritto stamattina - Gheddafi ha afferrato l'occasione e dichiarato un presunto cessate-il-fuoco in linea con le richieste dell'Onu. Certo, tutto da verificare, ma quanto basta per guadagnare tempo e almeno provare a dividere la comunità internazionale.
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Ormai avevamo perso ogni speranza, ma con colpevole ritardo, addebitabile essenzialmente alle incertezze della Casa Bianca, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato a maggioranza l'intervento militare per fermare Gheddafi. Non solo una no-fly zone, ormai superata dagli eventi sul campo. Il richiamo al capitolo VII della Carta dell'Onu legittima «ogni mezzo necessario» per «proteggere i civili», «per il mantenimento della pace e della sicurezza», con l'unica espressa limitazione di «non inviare forze di occupazione», dunque truppe di terra. Probabilmente lo stesso Gheddafi con la sua protervia e le sue minacce, non solo contro gli insorti asserragliati a Bengasi, ma persino contro il traffico aereo e marittimo nel Mediterraneo, ha impresso un'accelerazione al negoziato che si stava svolgendo al Palazzo di vetro. Ma potrebbe comunque essere troppo tardi. E un'altra insidia si nasconde nel testo della risoluzione: la richiesta di un «immediato cessate-il-fuoco» offre al dittatore libico ancora dei margini per guadagnare tempo, ritardare l'intervento e dividere la comunità internazionale. Se conosciamo bene Gheddafi, giocherà eccome quest'ultima carta che l'Onu gli offre.

Al di là di quanto recita la risoluzione dell'Onu, è ovvio che l'obiettivo vero dell'operazione per gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali - esattamente come per il Kosovo, l'Afghanistan e l'Iraq - è il regime change, ossia cacciare Gheddafi. Il problema è che il tipo di intervento militare autorizzato dall'Onu potrebbe salvare ciò che resta degli insorti, ma a questo punto potrebbe non bastare a ottenere l'effetto di far cadere il raìs. E ciò riprodurrebbe una situazione di stallo che potrebbe richiedere ulteriori interventi sui quali sarebbe ancor più complicato ottenere un mandato internazionale. Avesse agito una settimana fa, probabilmente oggi staremmo commentando il capolavoro di Obama.

Del tempo prezioso (una settimana, a voler essere comprensivi) si è perso invece principalmente a causa delle incertezze della Casa Bianca, non certo aiutata dalle resistenze del Pentagono. Alla fine dev'essere stata Hillary Clinton a risvegliare Obama dal suo torpore a forza di sberle. Il decisivo via libera della Lega araba infatti è di sabato scorso e come avevo puntualmente previsto una settimana fa, è quel passaggio ad aver ammorbidito la posizione di Mosca, e quindi di Pechino. Dunque, se la risoluzione arriva solo una settimana dopo, ciò non è dipeso tanto dalle resistenze russe e cinesi, ma dalle incertezze occidentali, americane in primis.

Alla fine, ma proprio all'ultimo momento utile, quando è apparso evidente che c'era il rischio di giocarsi anche l'ultima briciola di credibilità, persino la faccia (e non è detto che non sia comunque troppo tardi), a Washington sono scesi nelle trincee per difendere quel che resta dell'influenza americana, cui la sopravvivenza politica di Gheddafi recherebbe un colpo mortale. Se restasse al potere dopo che il presidente Usa gli ha intimato di andarsene, ha scritto il Wall Street Journal, «il colpo inferto all'influenza americana e all'ordine mondiale sarebbe enorme».

La situazione all'Onu si è sbloccata quando gli americani hanno deciso che si dovesse sbloccare. Allora perché tutto questo tempo? Perché - nonostante la condizione multilateralista fosse stata soddisfatta dal via libera della Lega araba, che ha sbloccato anche Mosca? Perché il problema di Obama va oltre la pericolosa ideologia multilateralista. Anzi, è alla radice di quel pregiudizio. Obama è grandioso nel padroneggiare le parole e nel creare aspettative anche eccessive, quanto inesperto e incerto sul da farsi, perché privo di una visione politica, e soprattutto culturalmente impreparato perché è lui il primo, nonostante ne sia il leader, a nutrire forti dubbi circa il ruolo positivo dell'America nel mondo.

E l'Italia? Probabilmente non si aspettava che arrivasse il mandato dell'Onu, si credeva scampato il pericolo di dover dar seguito - tra gli imbarazzi - alle decisioni degli organismi internazionali. Ancora una volta la nostra diplomazia si è fatta cogliere di sorpresa. Fin dall'inizio ho criticato la posizione del nostro governo nel modo più netto. Pochi giorni fa, quando l'ipotesi di un intervento appariva ormai tramontata, mi ero rassegnato ad ammettere che la nostra posizione "furbetta" avrebbe potuto rivelarsi una scommessa vinta sul non-intervento. Adesso però le cose cambiano. Ci accoderemo, in ossequio alla legalità internazionale e agli impegni con le organizzazioni di cui facciamo parte, ma da comprimari, quando potevamo e dovevamo giocare un ruolo da protagonisti.

Il mandato Onu c'è e l'Italia «farà la sua parte», ma è chiaro che nonostante i 150 anni appena compiuti rimane la solita Italietta. La concessione delle basi aeree è il minimo sindacale della decenza, mentre sarebbe auspicabile una partecipazione più attiva alle operazioni. E dopo che Tripoli ha intimato all'Italia di «restarne fuori» è anche una questione di dignità nazionale. Una dignità che non si dimostra solo sventolando una bandierina e cantando l'inno nelle ricorrenze.

Wednesday, March 16, 2011

Isteria e dilettantismo

Uno schifo autentico, permettetemi lo sfogo. L'isteria collettiva europea sul nucleare (non ci siamo fatti mancare neanche il solito euroburocrate irresponsabile che ha parlato di «apocalisse» ed è paradossale che il ministro degli Esteri giapponese debba esortare «i Paesi stranieri ad avere sangue freddo») e l'immobilismo di tutto l'Occidente nella crisi libica restituiscono un'immagine nitida dei mala tempora che stiamo vivendo.

Non voglio certo sottovalutare quanto sta accadendo alla centrale di Fukushima, dove purtroppo c'è ancora molto che può andare storto, ma siamo di fronte ad una catastrofe naturale di proporzioni epiche, che ha già ucciso migliaia, forse decine di migliaia di persone, mentre i vapori radioattivi fuoriusciti dai reattori non hanno ancora ucciso nessuno, l'esplosione delle strutture esterne undici operai e la contaminazione radioattiva sembra per ora non aver oltrepassato la zona circostante la centrale. Insomma, tutto può ancora succedere, ma c'è una probabilità che «l'apocalisse atomica» sia una bolla mediatica. Ed è uno schifo vedere gente in tv o sui giornali che ha tutta l'aria di auspicare il peggio solo per vedere avvalorata la propria ideologia antinuclearista.

I giornali e le tv sembrano non accontentarsi di raccontare il dramma che sta già vivendo il Giappone. L'enorme distesa di fango che ricopre le province nipponiche colpite dallo tsunami, così come la conta dei morti e delle distruzioni, è roba noiosa, deprimente, e soprattutto vista e rivista. C'è bisogno di dare il senso di un'escalation per mantenere il pubblico col fiato sospeso come in uno di quei thriller apocalittici che riempiono le sale. Con voracità inaudita divorano e risputano le notizie. E pazienza se spesso hanno ben poco a che fare con la realtà. Nell'incertezza, le sparano ad alzo zero. Ci raccontano dei giapponesi cinici impassibili di fronte alla tragedia, quegli stessi giapponesi che nell'articolo sulla pagina successiva vengono descritti così in preda al panico da dar vita ad esodi di massa e assalti ai generi alimentari.

E' una riflessione utile in queste ore quella del Wall Street Journal in un editoriale di qualche giorno fa: «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico è che più ci rende maggiormente sicuri, più sembriamo diventare avversi ai rischi, che sono l'unica strada verso progressi futuri». Senza tener conto che «il motivo per cui il Giappone è sopravvissuto ad un tale evento catastrofico è proprio il suo grande sviluppo e la sua ricchezza materiale». «La civiltà moderna è quotidianamente occupata a misurare e mitigare i rischi, ma il suo progredire richiede che continuiamo ad assumerci dei rischi... La vita moderna richiede di trarre delle lezioni dai disastri, non di fuggire da tutti i rischi. Dovremmo imparare dalla crisi nucleare giapponese, non lasciare che alimenti un panico politico sull'energia nucleare in generale».

Nella crisi nucleare di Fukushima, così come nella crisi libica, ha ragione Mario Sechi: «Siamo di fronte a un decadimento delle leadership e a una quanto mai improvvisata e dilettantesca gestione dell'agenda internazionale».

Gli ultimi sviluppi in Libia dimostrano che c'è una nuova ideologia da abbattere in Occidente: il multilateralismo. E che quando l'America esercita la sua leadership, gli altri Paesi si accodano. Quando invece rimane inerte, il mondo diventa un posto più pericoloso.

Nonostante l'inedito e preziosissimo via libera della Lega araba, nessuno farà nulla mentre Gheddafi schiaccerà i ribelli e potrà cantare vittoria - unico leader arabo ad aver umiliato l'Occidente. A Washington c'è un re-tentenna le cui parole altisonanti valgono ormai come un dollaro bucato. Si è capito che la Merkel decide in base alle scadenze elettorali, sulla sospensione delle centrali così come sulle ipotesi di intervento in Libia. Francia e Gran Bretagna sono più interventiste ma solo a parole, senza un mandato dell'Onu e soprattutto - si ha l'impressione - senza Washington, non muoverebbero mai un dito. La Russia a mio avviso dopo il voto della Lega araba sarebbe stata pronta a chiudere un occhio, ma trovata la sponda tedesca e le incertezze americane ne ha approfittato.

L'Italietta si barcamena, non vuole bruciarsi l'ultimo filo di rapporto con Gheddafi nel caso - ormai quasi certo - che il raìs riconquisti il Paese e che la comunità internazionale dopo tanti esercizi di multilateralismo non muova un dito. Non so se per un colpo di fortuna o per capacità d'analisi, ma alla fine tocca ammettere che il governo italiano ci ha visto lungo nel mantenere un atteggiamento prudente, forse prevedendo che non ci sarebbe stato alcun intervento internazionale e che Gheddafi sarebbe rimasto al potere, quindi meglio non esporsi. Diciamo che è stato il miglior modo di arrendersi agli eventi e ai non eventi, ma certo non il migliore per tutelare i nostri interessi in Libia.

Tuesday, March 15, 2011

Se l'America abdica al suo ruolo

«Libya is what a world without U.S. leadership looks like».
Non c'è frase più eloquente di questa del Wall Street Journal per far comprendere le nefaste conseguenze della mancanza di leadership da parte dell'America di Obama nella crisi libica. La Libia riconquistata da Gheddafi come metafora di un mondo senza leadership americana. «Quando gli Stati Uniti si rimettono al mondo, il mondo non riesce a decidere cosa fare, e il vuoto è riempito da una dittatore e i suoi uomini violenti che sono giunti alla conclusione che nessuno li fermerà». Segue la lunga serie delle tragicomiche iniziative della «comunità internazionale» cui abbiamo assistito in queste settimane.

«Quando gli Stati Uniti non esercitano la loro leadership, - conclude il WSJ - il mondo ritorna alla sua modalità di default, una Torre di Babele diplomatica. Ciascuno discute "opzioni" ed "eventualità", ma nessuno ha la volontà di agire, mentre i predatori marciano... Quando gli Stati Uniti decidono di agire come qualsiasi altro, il risultato è il Ruanda, il Darfur e, ora, la Libia». Ma, aggiunge il WSJ, la differenza stavolta è che le conseguenze di una vittoria di Gheddafi in Libia non sarebbero solo «umanitarie». Il prezzo pagato al multilateralismo di Obama sarebbe altissimo. Se il Colonnello resta al potere dopo che il presidente Usa gli ha intimato di andarsene, «il colpo inferto all'influenza americana e all'ordine mondiale sarebbe enorme».

Non solo i dittatori, anche amici e avversari dell'America impareranno a contare sul multilateralismo come migliore garanzia di non-intervento, di inazione, e per imbrigliare la potenza e l'influenza degli Usa. Mentre il mondo discute le varie opzioni, se e quando venisse presa una decisione, sarebbe sempre troppo tardi. «Questo è sempre un messaggio pericoloso da mandare, ma soprattutto con un Medio Oriente alle prese con la rivoluzione».

Forse all'inizio sarebbe bastato un soffio per liberarsi di Gheddafi, ma ogni giorno che passa un eventuale intervento diventa sempre più costoso. C'è chi ritiene infatti che ammesso che si voglia, e si riesca ad attuare rapidamente, una no-fly zone non basterebbe, perché a questo punto Gheddafi sembrerebbe in grado di riconquistare Bengasi anche senza aviazione. Che poi l'atteggiamento ambiguo del nostro governo ci metta al riparo dalle ritorsioni di un Gheddafi vittorioso è a mio avviso una maledetta illusione. Nella migliore delle ipotesi, dovremo ritrattare tutto daccapo concedendo il doppio, in termini di denaro e umiliazioni.

Monday, March 14, 2011

L'Occidente rischia un meltdown geopolitico

All'inizio sarebbe forse bastata la no-fly zone per spezzare lo stallo nella guerra civile libica a favore degli insorti. Oggi - dopo aver perso due settimane nelle solite chiacchiere da solotto multilateralista - neanche quella sembrerebbe essere più sufficiente a risollevare le loro sorti. Bombardamento dopo bombardamento, Gheddafi ha letteralmente spianato il terreno alle sue milizie e sembra in procinto di assediare Bengasi, dopo essersi ripreso nel weekend le più importanti città petrolifere. Non ha senso, è da sciocchi, continuare ora ad intimargli di farsi da parte o proporre un cessate-il-fuoco. Nonostante il prezioso via libera della Lega araba sabato scorso, la diplomazia occidentale è in panne. Stavolta vittima più delle sue incertezze che dei veti altrui.

E' davvero questione di ore. Se l'Occidente non agisce con determinazione e rapidamente si ritroverà una Libia comunque altamente instabile, quindi pericolosa per qualsiasi investimento, e un Gheddafi incattivito. A farne più di tutti le spese - nonostante con la nostra scellerata ambiguità abbiamo tentato di non rompere del tutto i ponti con il Colonnello - saremo soprattutto noi italiani. Pechino è pronta a soppiantare noi e tutti gli europei nello sfruttamento delle risorse libiche.

L'incapacità e l'ignavia dimostrate, singolarmente e collettivamente, dai leader occidentali nella crisi libica non hanno precedenti nella storia recente. Le conseguenze dell'immobilismo sarebbero devastanti, ben oltre il futuro assetto della Libia. Devastata ne uscirebbe, agli occhi di alleati, avversari e nemici, la stessa credibilità occidentale: dopo aver scaricato Gheddafi e preso le parti dei ribelli, fino a riconoscere il loro Consiglio di transizione come unico interlocutore e a promettergli aiuto; dopo aver intimato al raìs di andarsene, minacciato di bombardarlo e averlo denunciato al tribunale penale internazionale; dopo aver adottato severe sanzioni e cincischiato su un intervento militare; dopo essersi spinti così in avanti, la sopravvivenza al potere in Libia permetterebbe al Colonnello di ergersi - non senza ragione - come colui, unico tra i leader arabi, che ha piegato l'Occidente.

Se il Giappone rischia il meltdown nucleare, noi rischiamo un meltdown geopolitico. Russia e Cina potrebbero ragionevolmente ambire a conquistarsi un posto di primo piano nel cuore del Mediterraneo e ricaverebbero da questa vicenda un'ulteriore dimostrazione della debolezza dell'Occidente, da capitalizzare in altre aree del mondo; le opposizioni nel resto del mondo arabo e in Iran non potrebbero più nutrire speranze e i regimi imparerebbero in fretta la lezione: il "moderato" Mubarak è stato detronizzato, il sanguinario Gheddafi no. Ecco come riuscire a resistere alle rivolte popolari: facendo ricorso al massimo della forza. Tanto si può star certi che nessuno interverrà.

Dopo averci fatto sperare, con le sue parole, in un cambio di rotta, ora Obama tace. Non vorremmo esserci illusi di nuovo. Con la scusa del multilateralismo sembra aver lasciato la guida della crisi libica agli europei e agli arabi. Il silenzio di Washington è assordante, musica per le orecchie di Gheddafi. Siamo forse in procinto di assistere a quell'abdicazione dell'America che molti temono - e più di qualcuno auspica. Guidata da un presidente inesperto, titubante, ma che soprattutto non crede nel ruolo giocato fino ad oggi nel mondo dalla sua nazione, anzi in fondo la biasima proprio per quel ruolo.

Un po' di rispetto, please

Il Giappone si era preparato allo "jishin" per decenni. Nessuna società al mondo è più preparata: tecnologicamente ma anche e soprattutto culturalmente. Il rispetto e la disciplina hanno salvato la vita probabilmente a un milione di persone. Se è scritta nel nostro destino una catastrofe del genere, preghiamo di trovarci in Giappone in quel momento.

Purtroppo però, di fronte a una tragedia simile stiamo assistendo da una parte ad uno tsunami di vere e proprie banalità, luoghi comuni sui giapponesi, quasi "disumanizzati" proprio per quel rispetto e quella disciplina, scambiati per insensibilità; dall'altra a strumentalizzazioni senza ritegno sul nucleare civile nel nostro Paese. Solo di questi miserevoli dibattiti siamo ormai capaci evidentemente nella nostra Italietta.

Si sono dipinti come insensibili i giapponesi solo perché non abbiamo visto scene di disperazione né grandi mobilitazioni di volontari; insomma, solo perché i media nipponici hanno il pudore di non lucrare sul dolore altrui per alzare i propri ascolti, come invece accade nei nostri salotti televisivi. E comunque, passati i primi giorni, quando la zona più colpita era davvero irragiungibile, stanno arrivando fino a noi, a soddisfare la nostra morbosità, le prime immagini degli sguardi angosciati e persi nel vuoto dei sopravvissuti.

Guai a scambiare la compostezza dei giapponesi per insensibilità, indifferenza alla vita umana, cinismo ed egosimo. Quella compostezza è espressione di una specifica cultura del rapporto uomo-natura, che comprende sia l'accettazione piena delle sue forze, e della morte umana, come componenti insopprimibili del ciclo della vita, sia il dovere di reagire alle avversità senza perdersi d'animo. Ma è anche un'esigenza molto pratica: il panico e la disperazione non aiutano a salvare se stessi né gli altri. E talvolta, specie in presenza di tali immani catastrofi (con tutto il rispetto, non siamo di fronte all'alluvione di Firenze), anche le migliori intenzioni rischiano di ostacolare i soccorsi.

Il rischio che una catastrofe nucleare si sommi a quella naturale è alto, ma ciò non giustifica il vero e proprio sciacallaggio di quanti in queste ore cavalcano la comprensibile emotività dell'opinione pubblica per lanciare la propria campagna referendaria antinuclearista. Non commettiamo lo stesso errore del 1987, quando per la criminale negligenza sovietica a Chernobyl perdemmo qui da noi il treno del nucleare.

Numerose centrali nelle regioni colpite dal sisma e dallo tsunami hanno retto e l'unica che sta avendo problemi seri è stata progettata negli anni '60 ed è in funzione da quarant'anni. E' ovviamente lecito, anzi auspicabile, che quanto accaduto e sta accadendo serva da lezione per perfezionare ulteriormente gli standard di sicurezza, anche in situazioni limite, e che spinga a chiudere celermente le vecchie centrali, ma non ha alcun senso concludere dalla tragedia giapponese che il nucleare non fa per noi.

Friday, March 11, 2011

L'Italia si autoesclude

Il dado è tratto. Ci siamo autoesclusi. Per mancanza di leadership o per comodità - probabilmente per entrambe le cose - Obama preferisce lasciare la guida sulla crisi libica agli europei, come ha scritto ieri il Washington Post. Il protagonismo interessato di Parigi e Londra. Italia scalzata, solita ignavia e solito patetico doppiogiochismo.

La Francia è il primo Paese europeo che ha riconosciuto il Consiglio provvisorio degli insorti libici e Sarkozy oggi a Bruxelles chiederà al Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Ue di fare altrettanto. Più che una no-fly zone proporrà bombardamenti mirati contro il regime di Gheddafi. Non ritiene opportuno che a intervenire sia la Nato, né che una vera e propria no-fly zone sia lo strumento appropriato. Meglio una coalizione di "volonterosi" europei, guidata da Francia e Regno Unito, per bombardamenti aerei mirati e limitati: distruggere il bunker di Gheddafi e neutralizzare i tre aeroporti da cui partono le sue operazioni. E probabilmente ha ragione. Sulla stessa linea il premier britannico David Cameron. E' così che Francia e Gran Bretagna lanciano la loro Opa sulla nuova Libia e, quindi, sullo sfruttamento delle sue risorse naturali. E come osserva Il Foglio, «Sarkozy ne approfitta per rifarsi una verginità araba, dopo i disastri della sua diplomazia in Tunisia e Egitto».

Finalmente europei con le palle, mentre l'Italia cagasotto resta a guardare mentre le sfilano di mano il posto di prima fila occupato fino ad oggi in Libia. Un esito che nonostante tutta l'"amicizia" tra i nostri governi (dagli anni '70 in poi) e Gheddafi non era affatto scontato, bensì non è altro che l'inevitabile conseguenza della nostra miopia, ma soprattutto, credo, della nostra codardia, che ci spinge anche in queste ore ad adottare una strategia attendista e doppiogiochista. Il retropensiero che traspare, infatti, dalle dichiarazioni governative, è il seguente: se Gheddafi restasse al potere, l'Italia ne ricaverebbe un ruolo. Sono calcoli della serva. Più che infondati, sfiorano il ridicolo. In effetti, come hanno spiegato al Congresso Usa i vertici dei servizi segreti, alla lunga l'apparato militare di Gheddafi potrebbe prevalere sugli insorti, peggio equipaggiati, addestrati e organizzati. Ma è uno scenario che a questo punto è anche nel nostro interesse scongiurare ad ogni costo, perché se davvero il Colonnello riuscisse a restare al potere, sarebbe per poco tempo, il prezzo sarebbe così alto che sarebbe improponibile restaurare relazioni "normali", il Paese sarebbe comunque altamente instabile e quindi insicuro per qualsiasi investimento e, infine, non è affatto scontato che il «cane rabbioso» ricompenserebbe la nostra ambiguità. Questi sono giochetti da fine '800, che nella diplomazia contemporanea irritano tutte le parti in gioco.

Eppure, l'impostazione uscita dal Consiglio supremo di Difesa, presieduto da Napolitano, sembrava andare nella giusta direzione, parlando non di basi e missioni umanitarie, ma di un'Italia «pronta a dare il suo attivo contributo alla migliore definizione ed alla conseguente attuazione delle decisioni» delle Nazioni Unite, dell'Unione europea e della Nato. Ma come osserva correttamente Mario Sechi su Il Tempo, da noi si parla della crisi libica in uno «scenario da questura e non d'ambasciata e centro di comando aero-navale. Non a caso il ministro più loquace e attivo in questa vicenda appare quello dell'Interno, Roberto Maroni, mentre il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sembra impegnato da un lato ad assecondare i timori di Berlusconi sui contraccolpi per la caduta del regime di Gheddafi, dall'altro deve fare i conti con la Lega, la cui visione del mondo su questa vicenda sembra purtroppo cominciare e finire a Varese». Ma non diamo troppe colpe alla Lega, isolazionista per definizione e da sempre, qui a mancare è Berlusconi, che pure in passato aveva dimostrato di saper tenere saldamente in mano le redini della politica estera.

Naturalmente la strada dell'Onu è quella maestra, ma la Francia si dice pronta ad agire da sola «se necessario» ed è quanto basta ad assumere la leadership in una situazione paradossale, in cui tutti dicono che è finita la stagione del regime Gheddafi, ma nessuno si prende la responsabilità di decidere come tradurre in azione questa dichiarazione e nessuno, in Europa, sembra rendersi conto che ripetere questa sentenza e poi essere smentiti dalla realtà senza far nulla di concreto fa perdere drammaticamente credibilità. Tra l'altro, le chance che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu autorizzi una no-fly zone, o un generico uso della forza in base al capitolo VII della Carta, non sembrano del tutto azzerate questa volta. Non so se sono io ad avere le traveggole, nessun giornale l'ha riportato, ma mi pare che il ministro degli Esteri russo Lavrov ieri non abbia chiuso del tutto le porte ad una no-fly zone autorizzata dall'Onu:
«We hear talk about the idea of creating a no-fly zone in Libya. ... Such zones have been deployed in the past by the Security Council and we already have certain experience in the ways they function. So if such proposals emerge, we will naturally study them based on existing experience. And this will probably require more precise and detailed information about how the authors of these proposals expect to implement them in practice».
Ieri l'Unione africana ha espresso la sua contrarietà a qualsiasi intervento militare, ma la sensazione è che le decisioni in proposito della Lega araba potrebbero essere diverse e risultare decisive rispetto alla posizione di Mosca. E comunque a Washington, Parigi e Londra ormai si comincia a dare più importanza ad «un forte sostegno regionale» che ad un mandato del Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

Wednesday, March 09, 2011

Opposizioni attese al varco sulla giustizia

Sembra ormai acquisito che al Quirinale debbano arrivare le bozze di leggi e decreti prima che agli stessi membri del Consiglio dei ministri. Ma da quanto sembra delinearsi, almeno leggendo i giornali di oggi (in particolare la Repubblica!), la riforma della giustizia sarebbe priva di qualsiasi legge ad personam o presunta tale. Purtroppo pare che ciò comporti l'accantonamento del ripristino dell'immunità parlamentare così come della riforma della Consulta, che d'altra parte avrebbe senso solo se si mettesse mano anche alla forma di governo. Separazione delle carriere; sdoppiamento del Csm in due organismi entrambi con funzioni meramente amministrative (niente pareri sulle leggi, atti d'indirizzo, dossier e pratiche a tutela); inappellabilità delle sentenze di assoluzione; responsabilità civile dei magistrati; obbligatorietà dell'azione penale entro i limiti di legge.

Sarebbero finalmente riforme epocali e di civiltà. Aspettiamo di leggere il testo, ma se così fosse - e speriamo ardentemente che lo sia - le opposizioni sarebbero costrette a gettare la maschera. Non potrebbero più nascondersi dietro l'alibi delle leggi ad personam, né del presunto vantaggio che otterrebbe il premier nei suoi processi, dato che l'iter della riforma sarebbe quello di lungo termine previsto dalle modifiche costituzionali. Verrebbero smascherate le posizioni puramente conservatrici e corporative. Vedremo insomma quanti, tolto quest'alibi, sapranno riconoscere e scegliere una riforma liberale della giustizia. Qui si scommette che tranne eccezioni individuali nessun partito di opposizione si renderà disponibile ad un confronto vero.

Al solo annuncio il partito dei magistrati e la loro "periferica di gioco" in Parlamento, il Pd, sono subito saliti sulle barricate. Scriveva alcuni giorni fa Il Foglio:
«Un'opposizione eterodiretta, che fa da amplificatore parlamentare di agitazioni corporative, senza la capacità o la volontà di avanzare proposte alternative, distrugge anche la credibilità riformista di chi aveva cercato, anche dall'interno del Partito democratico, di smarcarsi dalla pura contrapposizione per entrare criticamente nel merito dei problemi su cui intende intervenire l'esecutivo. Le voci sempre più concitate, le contestazioni portate in piazza a ripetizione, il tono urlato dell'opposizione sono segnali di un'altrettanto grave afasia riformistica, di una condizione subalterna che impone di inseguire tutte le agitazioni per coprire l’assenza di una solida e riconoscibile politica alternativa».
E' una spiata, non si fa, ma a leggere le e-mail scaricate e riportate oggi da il Giornale dalla mailing list dei magistrati c'è da mettersi le mani nei capelli. Sembra di leggere né più né meno la mailing list o il forum di un partito. Ovviamente nel mirino c'è Berlusconi, a prescindere da qualsiasi ipotesi di reato, ma inquieta leggere che una volta fatto fuori lui andrà affrontato il problema dei suoi elettori. Non solo vi troviamo la conferma che alcuni magistrati fanno politica, ma che nelle loro funzioni, e "in qualità di", sono pronti a intralciare l'attività del potere esecutivo e legislativo. Per molto meno si è parlato di una fantomatica P4 e qualcuno è finito pure incriminato per associazione segreta e a delinquere.

In Iran cancellata l'opzione riformista

Manifestazioni e repressione in Iran continuano lontano dagli sguardi dei media, concentrati sulla guerra civile scoppiata in Libia. Dei leader dell'opposizione Moussavi e Karroubi non si hanno notizie dal 14 febbraio e ieri un pezzo da novanta del regime, ma prezioso contrappeso interno al potere quasi assoluto di Khamenei e Ahmadinejad, l'ex presidente Rafsanjani è uscito di scena. Occupava ancora una posizione chiave: la presidenza del Consiglio degli Esperti, un organo di 86 "mujtahed", o giurisperiti, con il compito di controllare l'operato del leader supremo, nominare un suo successore in caso di morte e, in casi estremi, perfino destituirlo.

E' stato costretto dalle intimidazioni del regime a ritirare la sua candidatura per il rinnovo della carica: gli attacchi dei basiji alla figlia Faezeh; il mandato di cattura nei confronti del terzo figlio, Mehdi, esule a Londra; le pressioni che hanno indotto il figlio Mohsen Hashemi a dimettersi dalla guida della Metro di Teheran. Ahmadinejad sembra aver eliminato ogni punto di riferimento dell'opposizione "lealista" (almeno a parole) rispetto al sistema messo in piedi da Khomeini.

Gran parte di quel movimento verde che si era ribellato alla rielezione truffaldina di Ahmadinejad infatti non mirava a sovvertire la Repubblica islamica, ma a riformarla, a "democratizzarla". Ma adesso che i leader riformatori Moussavi e Karroubi sono fuori gioco, che il pragmatico Rafsanjani è stato costretto a farsi da parte, la speranza è che il venir meno per la seconda volta (dopo l'illusione Khatami) dell'opzione riformista radicalizzi il movimento di protesta, che tutti si convincano che il regime non è riformabile dall'interno e che va abbattuto.

Tuesday, March 08, 2011

Obama e il fantasma di Bush

Su taccuinopolitico.it

Dalle politiche anti-terrorismo alla crisi libica, Obama rischia di seguire la strada di Bush
Il "change", almeno in politica estera, è costretto a rimangiarselo a favore di un "dietrofront". Con il discorso del Cairo, poco dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Obama aveva voluto dimostrare al mondo che l'America stava cambiando rotta: niente più regime change; basta ingerenze negli affari interni dei Paesi arabi; come interlocutori i regimi al potere e non i movimenti democratici (a quelli egiziani e iraniani furono decurtati gli aiuti). Dai leader arabi "moderati" il nuovo presidente Usa si aspettava in cambio un contributo concreto al rilancio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi (per tutte le sinistre occidentali l'unica politica mediorientale degna di essere perseguita); dagli iraniani, che non sentendo più minacciato il loro potere si convincessero a fermare il programma nucleare.

Ha ricevuto invece uno schiaffo dietro l'altro. Il processo di pace non ha compiuto passi avanti (e come avrebbe potuto? Non essendo - almeno non più - il conflitto israelo-palestinese all'origine delle tensioni della regione, ma queste ultime ad impedirne la soluzione); Teheran ha rispedito al mittente le più generose offerte occidentali; e per di più, adesso, coloro i quali erano stati snobbati da Obama - le vere "piazze arabe" - calcano la scena da protagonisti, imponendosi come attori, o almeno fattori politici non più trascurabili in Medio Oriente, nemmeno dagli autocrati che li governano. Starebbe quindi emergendo tra gli analisti della Casa Bianca la consapevolezza che le rivolte che nessuno aveva previsto possano diventare «l'evento che segnerà l'amministrazione Obama».

Obama non vuole mancare all'appuntamento, ha capito dove spira il vento della storia e che lo status quo è inaccettabile, ma allo stesso tempo teme di dire e fare le stesse cose di George W. Bush, di venire trascinato dall'impetuosa corrente della realtà nelle stesse identiche situazioni che si trovò ad affrontare il presidente dell'11 settembre e che tanta impopolarità gli addussero. Nel caso, si tratterà di trovare i giusti espedienti retorici e comunicativi per liberarsi dall'ombra del suo predecessore, ma sarà molto, molto difficile non ammettere che per due anni ha sbagliato politica estera e che la Freedom Agenda, pur declinata con pragmatismo, è oggi la più sensata da perseguire.

L'altro ieri Obama ha firmato un decreto presidenziale per far ripartire i processi militari a Guantanamo, dopo due anni di riflessione e apportandovi modifiche solo cosmetiche, stabilendo inoltre che alcuni detenuti resteranno nel carcere a tempo indeterminato e senza processo. E' la conferma che per quanto imperfetto, l'impianto giuridico elaborato dall'amministrazione Bush resta il più ragionevole considerando che ci si trova di fronte ad un fenomeno giuridicamente inedito. «Nessuno - ha scritto beffardamente il Wall Street Journal - ha fatto di più per rinverdire la reputazione delle politiche anti-terrorismo dell'era Bush dell'amministrazione Obama». Avrete notato come sia sparita dai giornali e dai dibattiti televisivi qualsiasi preoccupazione su Guantanamo - che Obama non ha chiuso - e sullo status giuridico dei detenuti - che nella sostanza viene confermato.

In queste ore, con la crisi libica, Obama rischia di ripercorrere gli stessi passi di Bush anche sull'uso dell'hard power americano, anche se non sentirete nessuno rimproverarglielo. Ad un presidente di colore, alto, giovane e soprattutto progressista questo ed altro è concesso. Le analogie si moltiplicano con il passare dei giorni: anche oggi come allora lo status quo è inaccettabile. Gheddafi come Saddam è uno sterminatore del suo popolo e un pericolo per gli altri; i costi umanitari, economici e strategici dello stallo rendono urgente un intervento. Anche se certamente va ben ponderato e calibrato, con un occhio più che vigile a quanto accade nel frattempo nello strategico Bahrein e, quindi, ai riflessi sulla stabilità dell'Arabia saudita. Per la Libia, la Nato sta studiando «una vasta gamma di opzioni, tra cui eventuali opzioni militari». Francia e Regno Unito, con l'appoggio Usa, si preparano a chiedere alle Nazioni Unite una risoluzione che autorizzi l'istituzione di una no-fly zone, o comunque un qualche intervento militare in grado di rompere l'equilibrio di forze a favore dei ribelli. Obama rischia di entrare, dunque, in un nuovo calvario al Palazzo di vetro come ogni presidente americano che si rispetti. Anche oggi come allora si cerca una «seconda risoluzione» che autorizzi l'uso della forza. Anche oggi come allora qualcuno a Washington ritiene che già la prima risoluzione - la 1970, votata all'unanimità - sia sufficiente, sulla base del riferimento al capitolo VII che prevede l'adozione di misure per «restaurare pace e sicurezza».

Certo, Obama potrebbe essere più bravo e fortunato di Bush. Incontrerà le resistenze di russi e cinesi, ma almeno l'Europa è compatta (anche se bisognerà verificarne la tenuta se l'intervento non dovesse ottenere il via libera dell'Onu) e questa volta sarebbe sostenuto dalla Lega araba e dall'Unione africana. All'Eliseo non c'è più Chirac e a Berlino non c'è Schroeder, e soprattutto Francia e Germania hanno in Libia molti meno interessi di quanti ne avessero in Iraq; Saddam era (o sembrava) saldamente al potere, mentre Gheddafi sta combattendo un'incerta guerra civile. Insomma, in questo contesto non è da escludere che anche Russia e Cina si convincano.

In questo caso, Obama avrà salvato capra e cavoli: libertà da una parte e multilateralismo dall'altra, che non sempre - anzi quasi mai - vanno a braccetto. Ma se, come probabile, Russia e Cina si opporranno, e quindi un mandato dell'Onu non ci sarà, allora Obama dovrà scegliere tra il multilateralismo e l'intervento e si vedrà se è davvero cambiata la sua politica estera, o se si è fermato alle buone intenzioni. Se dovesse optare per il primo, avrà concesso a Russia e Cina, e potenzialmente anche all'Europa, un potere di veto su ciò che Washington ritiene giusto e opportuno fare, e avrà mandato un segnale di debolezza ai nemici dell'America. Se deciderà per l'intervento, "Anakin Obama" si sarà trasformato in "Darth Vader". Sarebbe infatti di nuovo una «coalizione di volenterosi». Forse più ampia di quella che riuscì a mettere in piedi Bush jr. contro Saddam, ma pur sempre "illegale" e odiosamente "unilaterale" secondo i parametri infausti dei fautori dell'Onu. Il fatto è che il "multilateralismo", lungi dall'essere un metodo per risolvere le crisi - il più possibile consensualmente ma risolverle - è diventato l'alibi dietro cui potenze al tramonto, o emergenti, con i loro "niet" cercano di accrescere il proprio status sulla scena internazionale a spese soprattutto degli Stati Uniti.

E l'Italia? C'è da sperare che il governo stia studiando e ponderando attentamente il da farsi, ma certo le parole del ministro Frattini destano preoccupazione. L’alibi secondo cui il nostro passato coloniale ci sconsiglierebbe di partecipare ad operazioni militari in Libia, è una clamorosa e infondata banalità da contrastare. Il ministro esclude che gli aerei italiani possano prendere parte all'istituzione di una no-fly zone o ad eventuali altre operazioni. L'Italia, spiega, offrirà «basi e supporto logistico», ma solo in presenza di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che ci imporrebbe quel «rispetto della legalità internazionale» cui fa riferimento l'articolo 4 del Trattato di amicizia italo-libico, e che ci esonererebbe dal divieto previsto nello stesso comma, cioè di usare o far usare contro la Libia basi esistenti sul nostro territorio. Ma se, come probabile, non ci sarà alcun mandato Onu, e gli alleati decideranno di agire comunque, e se nel frattempo non avremo revocato ufficialmente il trattato firmato con Gheddafi, accontentandoci di tenerlo in sospeso, non potremo offrire neanche le basi aeree per la no-fly zone. Certo non una bella figura.

P.S. Ieri Veltroni, intervistato dal Sole 24 Ore, si chiedeva dove siano finiti i pacifisti: sparito Bush, spariti anche loro. E noi ci chiediamo dove fosse lui durante la prima e la seconda guerra del Golfo, che ha liberato gli iracheni da un massacratore ancor più efferato: Saddam Hussein. Il passato è passato, non importa più che grandi Paesi europei ci abbiano fatto affari, che Stati Uniti e Gran Bretagna l'abbiano sdoganato, in politica se non si è in grado di avere una visione lungimirante, bisogna almeno - almeno - essere dotati della lucidità e della prontezza d'animo necessari ad adattarsi al nuovo corso degli eventi. Per questo, ha ragione Veltroni quando si chiede: «A questo punto, che interesse ha l'occidente a essere così timido e impacciato?»