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Friday, August 31, 2012

Go ahead, make my day!

Cos'altro ci si poteva aspettare da Clint Eastwood - regista, attore, uomo di spettacolo - se non un mini-show sul filo dell'ironia? Così è stato il suo intervento (qui il video) alla convention repubblicana che ha incoronato Romney. Può aver fatto centro o meno sul pubblico, la sua performance può essere stata più o meno "appropriata" alla serata, ma l'ondata di critiche e malignità che sono piovute dai blog liberal e sui social network suonano pregiudiziali e pretestuose. Possibile sia così insopportabile l'idea che uno solo dei big di Hollywood abbia osato schierarsi apertamente per i Repubblicani? E addirittura contro Obama?

Nel merito, Clint non ha certo speso troppe parole per lodare Romney. Anzi, il cuore politico del suo messaggio mi è sembrato piuttosto elementare: «You, we own this country... And when somebody does not do the job, we got to let them go». Il Paese ci appartiene, i politici sono al nostro servizio e quando non fanno il loro lavoro, mandiamoli a casa. Tutto qui. Come dire: mi schiero con Romney per mandare via Obama.

Resta in ogni caso la toppa clamorosa di quanti avevano letto lo spot Chrysler interpretato da Eastwood nell'intervallo del Superbowl come un endorsement a Obama. Coraggio America, «siamo solo a metà partita». Lo ricordate? Già, peccato che per il vecchio Clint il secondo tempo dovrebbe giocarlo Romney al posto di Obama.

Thursday, August 30, 2012

La peste delle intercettazioni e le colpe del Colle

A questo punto tanto vale pubblicarle, tutte, maledette e subito. Anzi, le stampi direttamente la procura di Palermo le intercettazioni che riguardano il Capo dello stato. Di abuso in abuso, siamo giunti al culmine di questo vero e proprio bubbone che infetta le istituzioni e la politica. E accanto a pezzi di magistratura che agiscono come "servizi deviati", cioè deviando e sconfinando dai limiti che la Costituzione assegna al proprio ufficio per giocare un ruolo politico, si aggiunge una casta giornalistica che trasuda ipocrisia da tutti i pori (o quasi).

Oltre al danno dell'abuso, la beffa: è evidente, infatti, che queste intercettazioni girano, sono di dominio pubblico nelle redazioni dei più "autorevoli" quotidiani, nei cosiddetti ambienti "bene informati". Le conversazioni del presidente non dovevano essere ascoltate. E se ascoltate casualmente, non dovevano essere conservate, ma immediatamente distrutte. Questo sarà la Consulta a stabilirlo. Appurato che esistono, il latte è versato, ma è ancora peggio che da mesi se ne parli, che ci vengano costruite sopra campagne di stampa e difese d'ufficio, e che un centinaio di privilegiati – i quali evidentemente ne conoscono il contenuto – ne facciano l'uso che fa loro comodo, mentre gli italiani sono costretti a brancolare tra i sospetti incrociati. Anche nel dubbio che siano state acquisite, conservate e diffuse illegalmente, ci sarebbe qualcosa di nobile per un giornale nel pubblicarle integralmente, per mettere al corrente i suoi lettori e tutta l'opinione pubblica. Ma evocarle strumentalmente, usare ciò che si conosce non per informare, bensì per alimentare allusioni, sospetti, veleni, non si addice alla professione giornalistica. E' sciacallaggio sulla pelle delle istituzioni e alle spalle degli italiani.
(...)
Ha avuto ragione il presidente Napolitano ad investire del problema la Consulta, ma il suo intervento è tardivo rispetto alla gravità delle anomalie e limitato alla difesa delle prerogative della sua carica, mentre in questi anni altre istituzioni – Parlamento e governo – avrebbero meritato maggiore tutela dagli attacchi, spesso impropri e con mezzi illegittimi, da parte di alcune procure. Si può rimproverare a Napolitano di aver deliberatamente contribuito ad affossare un disegno di legge sulle intercettazioni e di non aver intrapreso – pur essendo al vertice dell'ordinamento giudiziario, come presidente del Csm – iniziative ben più incisive per vigilare sulla corretta applicazione della legge e sul corretto svolgimento delle loro funzioni da parte di alcuni settori della magistratura. Insomma, è spiacevole la sensazione che Napolitano si sia svegliato solo quando si è trovato lui stesso coinvolto nel circolo mediatico-giudiziario.

E ancor più grave sarebbe scoprire che confidava agli amici, in privato, di essere consapevole del ruolo indebitamente politico svolto da alcune procure e pm, senza però fare nulla, nell'ambito dei suoi poteri naturalmente, per porre fine a tali anomalie. È arrivato il momento per il presidente Napolitano di fare il presidente del Csm e di dar seguito con atti pubblici, formali, alle convinzioni espresse in privato.

La condizione di "ricatto" in cui si trova, d'altra parte, è nei fatti. Non una "ricattabilità" in senso stretto, ovviamente, ma certo l'esistenza stessa delle intercettazioni, e il fatto ormai appurato che in decine, se non in centinaia, ne conoscono seppure sommariamente il contenuto, espongono l'istituzione al rischio destabilizzazione e obiettivamente tolgono al presidente margini di manovra e serenità, dunque piena libertà, nell'esercizio delle sue funzioni. Si potrebbe pensare, per esempio, che non agisca – per quanto è nei suoi poteri – nei confronti delle anomalie che egli stesso vede nell'operato di parte della magistratura, per timore di subire altri attacchi. Va tenuto presente, comunque, che il problema delle intercettazioni non è solo legislativo, ma soprattutto disciplinare e di politica giudiziaria. Può essere in vigore la migliore legge, ma se non c'è alcun contrappeso istituzionale all'arbitrio dei magistrati nell'interpretarla a loro comodo, non servirà a nulla.
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Tuesday, August 28, 2012

Tasse da Stato (pat)etico per fare cassa

«Bevi la coca cola che ti fa bene / bevi la coca cola che ti fa digerire / con tutte quelle, tutte quelle bollicine...». Le tasse salutiste annunciate dal ministro Renato Balduzzi ci renderanno più cari i versi di questa provocatoria canzone di Vasco Rossi. L'iniziativa del ministro rivela una concezione dello stato, della fiscalità, profondamente illiberale e anti-economica, ma con le aggravanti dell'inutilità, dell'ipocrisia e della banalità. Oltre al danno di essere governati da statalisti, la beffa (o forse la fortuna?): questi signori non mostrano la minima coerenza per esserlo fino in fondo, né il coraggio di sopportare le conseguenze del loro dirigismo.

C'è qualcuno che davvero ritiene che «un aumento di tre centesimi a bottiglietta» - questo l'aggravio quantificato ieri dal ministro - possa aiutare a «far riflettere - questo lo scopo proclamato - sulla necessità di abitudini alimentari migliori, specialmente per i più giovani»? Non solo l'aggravio è contenuto nell'entità, ma anche circoscritto nei prodotti che colpisce. Perché è stata esclusa una moltitudine di cibi e bevande - anche della nostra tradizione gastronomica - senz'altro nocivi e di cui spesso abusiamo? (...) Per cambiare davvero, in senso "salutista", i consumi alimentari degli italiani sarebbe servito un aggravio molto più pesante, e anche sui prodotti nostrani, ma avrebbe causato danni enormi all'economia e sollevato resistenze ancora più forti.

Eppure, per quanto sia "mini", questo nuovo balzello su bibite analcoliche gassate e superalcolici con zuccheri aggiunti, in ragione della loro diffusione tra i ceti popolari garantirà alle casse dello stato un gettito nient'affatto trascurabile di circa 250 milioni di euro l’anno. La nuova tassa, dunque, è inutile sul piano delle abitudini alimentari e ipocrita, perché lo scopo apparentemente nobile - la salute dei cittadini - serve a dissimulare il vero obiettivo: fare cassa. Appare talmente inappropriata allo scopo dichiarato che chiamare in causa lo stato etico o il paternalismo di stato è persino troppo lusinghiero per Balduzzi.
(...)
La tutela della salute rientra invece nelle funzioni dello stato, ma la sua accezione si sta estendendo fino a minacciare le libertà individuali. Oggi il governo pretende di esercitare la sua tutela non solo nei confronti di possibili danni arrecati da terzi, ma anche di quelli che l’individuo adulto e nel pieno delle sue facoltà può autoinfliggersi. Il diritto alla salute può diventare un dovere alla salute senza ledere la libertà individuale?

Se l'obiettivo non è "etico", ma è contrastare l’aumento dei costi per il servizio sanitario nazionale legati ai comportamenti dannosi per la salute, allora forse si dovrebbe mettere in discussione il modello di sanità pubblica: invece di tassare anche chi non abusa di cibi e bevande, far pagare ai singoli i costi sanitari dei loro stili di vita dissennati.
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Saturday, August 11, 2012

A settembre ultima chiamata per l'Italia

Anche su L'Opinione

Scampata – almeno così sembra al momento, perché con i mercati non si può mai stare tranquilli – la tempesta d'agosto, grazie soprattutto alle rassicuranti prese di posizione del presidente della Bce Mario Draghi, sarà settembre il mese delle decisioni irrevocabili. La Corte costituzionale tedesca dovrà esprimersi sul meccanismo di stabilità europeo (ESM), ma soprattutto l'Italia dovrà decidere se formalizzare una richiesta d'aiuto o se continuare a tentare di farcela da sola. Nel primo caso, almeno nelle intenzioni del governo, non si tratterebbe di chiedere un "salvataggio" vero e proprio, ma un intervento per calmierare lo spread e i tassi d'interesse sui nostri titoli di stato, così da rifiatare in attesa che le riforme introdotte producano i loro benefici.

Sia attraverso il bollettino mensile di agosto della Bce, che nella sua ultima conferenza stampa, Draghi ha raccomandato ai governi in difficoltà (Spagna e Italia) di tenersi pronti ad inoltrare le richieste d'aiuto ai fondi salva-stati. Solo una volta chiamato il soccorso, e firmato il relativo memorandum di impegni, infatti, la Bce può a sua volta attivare il proprio piano di acquisto di titoli di stato sul mercato secondario. Ma oltre alla perdita di sovranità fiscale, il problema è che chiedere aiuto prima ancora di aver perso l'accesso ai mercati, solo per ottenere un intervento calmierante, verrebbe interpretato dagli investitori come un segno di debolezza, rischiando quindi di scatenare il panico e determinare uno shock ulteriore sui tassi. Avendo chiesto "solo" l'attivazione del cosiddetto scudo anti-spread, ci ritroveremmo, di fatto, in pieno "salvataggio", con tutto ciò che ne consegue.

Dunque, la domanda alla quale a settembre dovremo rispondere è: possiamo ancora farcela da soli, senza aiuti? Forse sì, una via – seppure molto stretta – ancora c'è, ma occorre imboccarla di corsa e con la massima determinazione. Il governo Monti, proprio per la sua natura "tecnica" ed "emergenziale", l'avrebbe dovuta intraprendere da subito, appena insediato. E' quella di un corposo abbattimento dello stock di debito pubblico, in tempi rapidi e con modalità trasparenti. Escludendo il ricorso ad una tassa patrimoniale straordinaria – di dubbia efficacia, dall'effetto troppo depressivo sull'economia e discutibile sotto il profilo etico (i cittadini hanno già dato!) – si tratta di impegnare il patrimonio pubblico. Gli strumenti tecnici ci sono e gli esperti ne hanno già indicati alcuni.

Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio bivio politico: o si aggredisce il debito accumulato con una sostanziosa sforbiciata nel breve-medio periodo, o si continua con una politica di rientro graduale, di lungo-lunghissimo periodo, realizzando avanzi primari pluriennali. Quest'ultima è la via tentata in passato, e fallita, perché corrisponde ad una sorta di cappio, o ergastolo fiscale: richiede infatti una crescita sostenuta, continua e per un lungo periodo, che nello stato attuale non è credibile, e che in ogni caso i mercati non sembrano disposti ad aspettare; oppure continue strette fiscali, che innescano, o aggravano, una spirale recessiva, aggiungendo al problema del debito quello della caduta del Pil o dell'assenza di crescita, che non fa che aumentare la sfiducia dei mercati nella nostra capacità sia di mantenere il pareggio di bilancio sia di ripagare il debito.

Abbattere il debito tramite cessioni di patrimonio pubblico, invece, ha molteplici vantaggi: una prospettiva credibile di forte riduzione dello stock in tempi relativamente brevi (cinque anni) riduce di per sé il rischio e incoraggia i mercati ad avere fiducia; si può evitare di ricorrere a nuove emissioni di titoli, o limitarle sensibilmente, in un periodo di tassi troppo penalizzanti; si possono ottenere risparmi rilevanti nella spesa per interessi, liberando risorse per una politica fiscale pro-crescita (ridurre le tasse, non aumentare la spesa!).

Purtroppo il governo Monti ha intrapreso la via degli avanzi primari, aumentando la pressione fiscale e sperando nella ripresa. Ma ultimamente è sembrato più incline a cambiare rotta e a prendere in esame iniziative più incisive per ridurre il debito. Le proposte, da parte di centri studi, singoli economisti, appelli come fermareildeclino, ma anche da parte del Pdl (l'unico partito ad averne avanzata una), non mancano. Settembre quindi si annuncia come il mese decisivo: insieme al terzo round di spending review – il rapporto Giavazzi (dieci miliardi in meno di sussidi alle imprese da tradurre in minori imposte), il rapporto Amato (tagli ai finanziamenti a partiti e sindacati) e il piano Vieri Ceriani (sfoltimento delle agevolazioni fiscali) – il governo dovrebbe cominciare ad attuare il suo piano anti-debito.

Quello del ministro Grilli però è ancora modesto nelle dimensioni (15-20 miliardi l'anno per cinque anni) e discutibile nel metodo, il ricorso alla Cassa depositi e prestiti (al 70% di proprietà del Tesoro ) per i tre fondi in cui dovrebbero confluire gli asset da dismettere (uno per le società municipalizzate, uno per i beni demaniali assegnati agli enti locali con il federalismo e uno per i 350 immobili di pregio già individuati). L'operazione dev'essere più ambiziosa. Ecco il merito della proposta del Pdl, che punta a 400 miliardi in cinque anni: al di là delle tecnicalità, e della "verginità" politica da tempo persa dai promotori, indica la strada giusta – abbattere subito il debito – e obbliga gli altri soggetti politici, nonché il governo Monti, a posizionarsi rispetto a questa fondamentale scelta politica.

Thursday, August 09, 2012

Partiti alle grandi manovre: il Pd rinnega l'agenda Monti, il Pdl vuole integrarla

Mentre il governo si prepara per gli esami di riparazione a settembre, studiando nuovi "compiti a casa" che avrebbe dovuto per lo meno iniziare a svolgere nove mesi fa, i partiti scaldano i motori per la competizione elettorale del 2013 e le loro strade, confluite temporaneamente nel sostegno a Monti, iniziano a divergere con sempre maggiore evidenza. Con la carta d'intenti di alcuni giorni fa, e con le interviste di ieri di Bersani e Fassina, il Pd si allontana sempre di più dalla cosiddetta "agenda Monti", mentre con la proposta per l'abbattimento del debito il Pdl si mostra più intento ad integrarla, forse nel tentativo di "agganciarsi" al professore per riguadagnare la credibilità perduta negli anni di governo. Il sogno di Casini, invece, è dar vita ad una sorta di "lista Monti" e di sostituirsi definitivamente al Pdl nel ruolo di rappresentante dei "moderati".

Al Sole 24 Ore il segretario del Pd ha giurato «lealtà al governo Monti», «lealtà verso il grande obiettivo europeo» e responsabilità sui conti pubblici. Quanto all'"agenda Monti", cioè a quell'insieme di riforme strutturali in parte avviate in parte da avviare, il discorso è ben diverso. Per Bersani la continuità con Monti sta nel fine – l'Europa e l'euro – non nei mezzi, nelle politiche per raggiungerlo. I patti e gli impegni assunti vanno certamente rispettati, «finché non si cambiano e migliorano». Un modo per dire che il Pd si impegnerebbe innanzitutto per ricontrattare i patti esistenti come il fiscal compact.

Mentre il governo Monti sembra deciso ad imboccare, alla ripresa di settembre, la strada dell'abbattimento del debito e di ulteriori tagli alla spesa pubblica, per il Pd si è già tagliato abbastanza e la priorità è la crescita, da rilanciare attraverso due vie: investimenti pubblici, a livello comunitario e nazionale, cioè ulteriore spesa che ammorbidendo i vincoli europei di bilancio non andrebbe conteggiata nel rapporto deficit/Pil; e redistribuzione, una tassa patrimoniale il cui gettito verrebbe "redistribuito", in termini di minori imposte, a imprese e lavoratori. Voglia di retromarcia, invece, almeno parziale, in due dei capitoli già affrontati dal governo Monti: pensioni e lavoro. Il grande pallino di Bersani, poi, è la «politica industriale».
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Saturday, August 04, 2012

Il "Lodo" Draghi mette in fuori gioco il Pds Bersani-Vendola

(...)
Bazooka sì, quindi, ma nessuna scappatoia per Spagna e Italia: dovranno chiedere gli aiuti e fare le riforme. Sarebbe impensabile, infatti, far digerire ai tedeschi l'acquisto di bond da parte della Bce senza allinearsi alla loro politica di stringenti condizionalità. Condizionando il proprio intervento alla richiesta di soccorso ai fondi salva-stati, quindi all'iniziativa dei leader politici dei paesi interessati, la Bce mantiene le mani libere: nessun acquisto sarà automatico o "dovuto". Un margine di incertezza che responsabilizza sia i mercati sia i politici, e che soprattutto preserva la funzione di stimolo, di pressione sui governi, esercitata dai mercati attraverso lo spread (nella cui efficacia Berlino crede fermamente).

Le condizioni che si vanno delineando per l'attivazione dello scudo anti-spread – richiesta formale e firma del memorandum – sembrano mettere in fuori gioco l'alleanza elettorale Pd-Sel, il nuovo Pds ("Polo della speranza"), a cui sta faticosamente lavorando Pierluigi Bersani. La "Carta d'intenti" del Pd (un'analisi approfondita è uscita su queste pagine due giorni fa), che getta le basi per l'intesa programmatica tra i due partiti, è un manifesto di discontinuità, nemmeno troppo sfumata, rispetto all'"agenda Monti". Certo, l'Europa è il «nostro posto», non c'è alcuna strizzata d'occhio alle pulsioni antieuro, ma Bersani è convinto di poter restare ancorato alla visione di un'Italia saldamente nell'euro, con un ruolo da protagonista nell'Ue, attuando politiche da sinistra novecentesca. Gli "intenti" del Pd, sommati a quelli ancor più esplicitamente anti-montiani enunciati da Vendola, delineano un'alleanza che esprime una politica di sinistra "identitaria" per fare il pieno di voti a sinistra, pronta eventualmente a contaminarsi con le istanze montiane dell'Udc dopo il voto, se necessario per formare una maggioranza parlamentare. Ma in questo modo rischiando una riedizione dei conflitti interni all'Unione prodiana.

Un'alleanza siffatta sarebbe "unfit" a rispettare gli impegni eventualmente assunti dall'Italia con Ue e Bce a seguito della richiesta di attivazione dello scudo, che potrebbe essere avanzata già a settembre. Ecco perché il "lodo" Draghi (bazooka della Bce sì, ma a condizioni "tedesche") mette in fuori gioco la coppia Bersani-Vendola e aumenta invece le chance di un Monti-bis dopo il voto, l'unica prospettiva, al momento, che renderebbe credibile il rispetto degli impegni da parte del nostro paese.

Se dopo le parole di Draghi possiamo essere ragionevolmente ottimisti sullo scudo europeo, ora serve immediatamente uno scudo anti-spread italiano: un programma credibile e concreto per l'abbattimento, in tempi ragionevoli, dello stock di debito pubblico e una riduzione della spesa pubblica tale da permettere di ridurre gradualmente ma sensibilmente la pressione fiscale. Una proposta di abbattimento del debito è giunta nei giorni scorsi dal Pdl e finirà sul tavolo di Monti: un piano da 400 miliardi, il quadruplo di quello di Grilli (15-20 miliardi l'anno per 5 anni), per riportare il debito sotto il 100%.

Ma c'è uno strano spread tra Pdl e Pd: il Pdl soffre di scarsa credibilità, paradossalmente il Pd di troppa credibilità. Nel senso che il Pdl, pur avendo di recente formulato una proposta articolata e interessante per l'abbattimento del debito e la riduzione delle tasse, ha dimostrato al governo di non saper mantenere le proprie promesse e, anzi, di fare l'esatto contrario. Il Pd, al contrario, quando minaccia la patrimoniale, quando promette investimenti e dirigismo (quindi più spesa), quando parla di "redistribuzione" e di gestione pubblica dei "beni comuni", può essere creduto sulla parola, ma se lasciato fare ci porterebbe dritti in Grecia.
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Friday, August 03, 2012

Il bazooka c'è, ma non gratis: su richiesta e condizionato

Anche su L'Opinione

Nessun automatismo nell'attivazione dello scudo anti-spread, che dipende, invece, dalla richiesta degli stati interessati con tutte le condizionalità previste. E' questo il nodo politico: lo scudo come meccanismo di stabilità che scatta in modo autonomo, o come forma di "salvataggio", quindi su richiesta e condizionato? Le aspettative innescate dal discorso di Draghi del 26 luglio a Londra - che forse perché inaspettato, o perché così volitivo («la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro e, credetemi, sarà abbastanza»), aveva rassicurato i mercati e allentato le tensioni sui titoli di stato - si sono infrante ieri sulle sue parole al termine del direttorio della Bce, provocando il nuovo tonfo in Borsa (-4,6%) e il rialzo dello spread (511). «Nessuna retromarcia», assicura Draghi. Solo che i mercati avevano interpretato le sue parole di una settimana fa come il segnale di un prossimo intervento della Bce sui mercati obbligazionari di Spagna e Italia, ma in realtà, fa notare, non c’era alcun riferimento esplicito ad una ripresa degli acquisti di bond.

Consapevole che gli spread sono «eccezionalmente alti», a livelli «inaccettabili», a causa delle paure di reversibilità dell'euro, Draghi ha ribadito che la moneta unica è «irreversibile» e che l'intenzione di «fare di tutto» per preservarla c'è ed è «unanime». Questo solenne impegno dovrà bastare a dissuadere gli speculatori nel mese di agosto, perché la «decisione finale» sugli interventi della Bce sarà presa solo «nelle prossime settimane» (a settembre). L'accordo con i tedeschi sulle modalità ancora non c'è. Draghi ha ripetuto che la Bce «nell'ambito del suo mandato per mantenere la stabilità dei prezzi nel medio termine e in osservanza della sua indipendenza nel determinare la politica monetaria, può eseguire operazioni di mercato di una dimensione adeguata a raggiungere il suo obiettivo». Ma sugli acquisti di bond, ha avvertito, restano le note «riserve» della Bundesbank, forse un vero e proprio veto. Quindi i negoziati continuano. Al momento, la situazione è che prima deve arrivare la richiesta formale di assistenza da parte di Spagna e Italia, e solo dopo la Bce si affiancherebbe al fondo salva-Stati (Efsf o Esm) con gli acquisti di bond sul mercato secondario, i quali sarebbero concentrati sui titoli a breve scadenza e non sui decennali. Da qui la raccomandazione ai governi di «tenersi pronti» a inoltrare la richiesta.

Come riferito dalla "Sueddeutsche Zeitung", Draghi pensa ad una «doppia strategia», «un'azione concertata» tra Bce e fondo salva-stati. Quest'ultimo acquisterebbe i titoli direttamente dai governi, alle aste, mentre la Bce sul mercato secondario. Dalle parole di Monti pare di capire che il nostro governo spera nella seconda opzione, senza passare per una richiesta esplicita, ma il premier, alla vigilia del vertice del 29 giugno, e da allora in altre occasioni, non ha nemmeno escluso la richiesta d'aiuto. L'Italia, ha detto ieri da Madrid, «non ha bisogno di alcun salvataggio», ha i conti a posto, e al momento «non c'è alcuna intenzione» di chiedere l'attivazione dello scudo, ma «ci riserviamo di valutare azioni di accompagnamento» per far calare gli spread.

Ricapitolando: Monti distingue tra salvataggio, di cui l'Italia non ha bisogno, e strumento per raffreddare lo spread, per la stabilità dell'Eurozona. Per i tedeschi invece è la stessa cosa, da attivare previa richiesta formale di aiuto e firma del memorandum d'intesa, che porta al monitoraggio Commissione Ue-Bce. La posizione di Monti - compiti a casa da una parte, «soluzione europea» per calmierare lo spread dall'altra, per dare tempo alle riforme di produrre i loro effetti - sembra ragionevole. Il problema è che non abbiamo ancora compreso che i soldi della Bce non sono la soluzione alla crisi, ma solo uno strumento per guadagnare tempo. Strumento che non può durare all'infinito. Fino ad oggi, purtroppo, ad ogni calo dello spread si è puntualmente registrato un rallentamento, o annacquamento, delle riforme, a conferma dei pregiudizi tedeschi.

Thursday, August 02, 2012

Il difficile equilibrio dello spread

Non ha tutti i torti Mario Monti quando, da Helsinki, avverte che se lo spread dovesse rimanere a questo livello per qualche tempo, rischieremmo di vedere al potere in Italia un governo euroscettico e non orientato alla disciplina di bilancio. Il discorso ha senso economicamente, perché tassi troppo alti rischiano di vanificare l'effetto positivo delle riforme, e politicamente, perché se i cittadini non toccano con mano i frutti dei loro sacrifici, c'è il rischio di una crisi di rigetto della terapia. Però è innegabile l'esistenza di un'altra faccia della medaglia, come ammette lo stesso Monti: solo i tassi di interesse alti, quindi sotto la costante minaccia del default/commissariamento, sembrano costringere i governi a fare le riforme e le opinioni pubbliche ad accettarle. E non è, purtroppo, una storia del passato, come vorrebbe far credere il nostro premier. E' accaduto fino allo scorso marzo. Appena lo spread è calato di un centinaio di punti (per effetto dei presiti della Bce e non delle riforme), rimanendo comunque a livelli tali da non permettere una ripresa dell'economia e quindi l'uscita dalla crisi, il governo e i partiti si sono "rilassati". Da qui, in particolare, il cedimento ai sindacati e al Pd sulla cruciale riforma del mercato del lavoro, pesantemente sanzionato dai mercati e dai media della finanza internazionale.

La tesi secondo cui non è l'Italia, che sta facendo bene i suoi "compiti a casa", ad aver bisogno di aiuto, ma sono i mercati a non funzionare al meglio perché non riconoscono i progressi compiuti, è molto pericolosa. Perché di solito sono i politici a sovrastimare il loro operato e a identificare al di fuori del governo le cause del problema. La Commissione Ue può anche promuovere a pieni voti le politiche di un Paese, ma a rifinanziare il debito di quel Paese sono i mercati, non Bruxelles.

La strategia definita nell'incontro con il premier finlandese Katainen del «doppio binario» - da una parte «sforzi indefessi nel fare i compiti a casa nel proprio Paese», dall'altra, allo stesso tempo, una «soluzione europea» per calmierare lo spread, in modo da dare tempo alle riforme di produrre i loro effetti - sembra ragionevole ed equilibrata. Il punto, però, è che i politici, e le opinioni pubbliche, dei Paesi interessati - Spagna e Italia - devono aver ben chiaro che i soldi della Bce non sono la soluzione alla crisi, ma solo uno strumento per guadagnare tempo. Strumento che non può durare all'infinito. Fino ad oggi, purtroppo, sembrano non averlo ancora compreso e ad ogni calo dello spread si è puntualmente registrato un rallentamento, o annacquamento, delle riforme, a conferma dei pregiudizi tedeschi.

La carta degli stenti e il ritorno del Pds

A leggere con attenzione la "Carta d'intenti" del Pd, presentata martedì scorso da Pierluigi Bersani, viene da augurarsi che non si trasformi in una realtà di "stenti" per gli italiani. Di concreto s'intravede solo la patrimoniale («non si esce dalla crisi se chi ha di più non è chiamato a dare di più»), quindi più tasse, sullo sfondo della solita paccottiglia ideologica di paroloni "de sinistra" (uguaglianza, diritti, cittadinanza, partecipazione, pace, cooperazione, accoglienza).

Bisogna riconoscere però che il segretario del Pd si sta muovendo bene sul piano delle alleanze, preparando il suo partito a giocare in una posizione di perno centrale in una coalizione di sinistra-centro. Al netto dei balletti – Vendola scarica Di Pietro, ma anche no; apre all'Udc, ma anche no – la foto di Vasto si conferma l'alleanza elettorale a cui punta il Pd. Bersani ha incassato l'ok di Vendola alla sua carta d’intenti, quello a Di Pietro sembra un ultimo avvertimento (cambi i suoi toni o è fuori) e il veto di Nichi a guardare al centro sembra caduto. No alle politiche liberiste, difesa dell’articolo 18 e riconoscimento delle coppie gay le condizioni poste per un’intesa con Casini. Vendola auspica un "Polo della speranza". Speranza per chi non è chiaro, se per gli italiani, o se la loro di andare a Palazzo Chigi, ma di certo come acronimo è indicativo: Pds.

In particolare alcuni capitoli del "manifesto" sono emblematici dell'arretratezza ideologica a cui la linea Bersani condanna il Pd. La stessa lettura della crisi, colpa di un populismo «alimentato da un liberismo finanziario che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole», rende bene l'idea di quale sia il distacco dalla realtà degli autori. Si enunciano generici "intenti", come il lavoro «parametro di tutte le politiche», la «dignità del lavoratore da rimettere al centro», il «tasso di occupazione femminile e giovanile il misuratore primo dell’efficacia di tutte le nostre strategie». Per poi passare al concreto: si propone di «alleggerire» il peso fiscale sul lavoro e sull'impresa. Giustissimo, ma le risorse necessarie non si ottengono tagliando la spesa pubblica, riducendo il perimetro dello stato e delle sue articolazioni territoriali, il Pd vuole attingerle «alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari». Viene teorizzato un nuovo conflitto sociale: tra produttori e rendita finanziaria. Si troverebbero tutti dalla stessa parte, tra i produttori, «il lavoratore precario e l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore e l'impiegato pubblico, il giovane professionista e l'insegnante». Ma di tutta evidenza difficilmente queste categorie di lavoratori potrebbero sentirsi tutelate da una stessa, univoca politica economica. Contrastare la precarietà è uno degli obiettivi, da centrare «rovesciando le scelte della destra nell'ultimo decennio». In concreto, quindi, maggiore rigidità del mercato del lavoro, senza superare il dualismo tra outsider e iperprotetti, secondo lo schema Ichino.

Il problema delle diseguaglianze, che pure esistono nella nostra società, va risolto secondo il Pd nell’ottica di una mera «redistribuzione» della ricchezza. Si conferma, dunque, in antitesi con quella che è ormai la visione delle sinistre europee più moderne e liberali, un concetto di uguaglianza sorpassato, ma duro a morire nella sinistra italiana, secondo cui la vera uguaglianza è quella delle posizioni di arrivo, non di partenza: risuona forte la condanna, morale e politica, per «ricchezze e proprietà smodate che si sottraggono a qualunque vincolo di solidarietà». Così come si coltiva ancora l'illusione che si possa «redistribuire» ancor prima di aver creato ricchezza: «La giustizia sociale non è pensabile come derivata della crescita economica, ma ne fonda il presupposto».

Si scrive «sviluppo sostenibile» ma si legge dirigismo... la proposta è «una politica industriale "integralmente ecologica"». Poco più avanti ecco spiegato cosa si intende per «politica industriale»: è il governo che individua «grandi aree d'investimento, di ricerca, di innovazione verso le quali orientare il sistema delle imprese». Resta da capire come sia conciliabile, dal punto di vista logico prima che politico, ritenere che l’economia abbia bisogno di essere "orientata" e allo stesso tempo che occorre puntare su qualità spiccatamente italiane come «il gusto, la duttilità, la tecnica e la creatività», che hanno invece bisogno del massimo della libertà per esprimersi.

Il capitolo sui cosiddetti «beni comuni» non lascia dubbi: nel Pd il mercato viene ancora vissuto come un intruso molesto. Sanità, istruzione, sicurezza e ambiente sono «beni indisponibili alla pura logica del mercato e dei profitti». In questi ambiti, pare di capire, non c'è spazio per operatori privati. Maggiore tolleranza per l’iniziativa imprenditoriale in altri settori, ma sempre sotto il rigido e occhiuto controllo statale: «L’energia, l’acqua, il patrimonio culturale e del paesaggio, le infrastrutture dello sviluppo sostenibile, la rete dei servizi di welfare e formazione, sono beni che devono vivere in un quadro di programmazione, regolazione e controllo». E non manca, ovviamente, il richiamo ai «referendum della primavera del 2011» (nucleare e acqua). Per il resto, si parla genericamente di «agganciare la crescita in un quadro di equità», si proclama che «il nostro posto è in Europa». Ma nessun impegno sull'"agenda Monti", che viene brevemente citato per aver avuto «l'autorevolezza di riportarci in Europa».
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Wednesday, August 01, 2012

Arriva la Bce e Monti torna ottimista, ma lo scudo non risolve la crisi

«La fine del tunnel sta cominciando a illuminarsi». Queste le parole del premier Mario Monti ieri mattina a Radio Anch'io. Speriamo solo che quella luce in fondo al tunnel non sia di un treno che ci viene addosso. Rinfrancato dall'intervento volitivo di Mario Draghi, le cui parole («la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro e, credetemi, sarà abbastanza») hanno rassicurato i mercati e allentato le tensioni sui nostri titoli di Stato, il premier è tornato a diffondere ottimismo. E ci risiamo. Anche nel marzo scorso, infatti, Monti aveva parlato con troppa disinvoltura di crisi «quasi finita» e del peggio ormai alle nostre spalle. Allora furono le due operazioni di prestiti della Bce alle banche a far calare indirettamente lo spread, ma si trattò di un'aspirina, tanto che la "febbre" tornò ben presto a salire fino al picco dei 540 punti dei giorni scorsi.

Oggi come allora gli acquisti di bond da parte della Bce, o dei fondi salva-stati Efsf/Esm, servirebbero solo a guadagnare tempo, ma non a risolvere la crisi.
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Mentre anche Monti e Hollande siglano un patto per l'integrità della zona euro e chiedono che siano subito attuate le decisioni dell'ultimo vertice Ue, il problema è che appena cala lo spread, anche di poco, ci rilassiamo e si allenta la determinazione nell'attuare le riforme necessarie. E' capitato persino a Monti, proprio nel marzo scorso, quando in un periodo di relativo "rientro" dello spread ha ceduto ai sindacati e al Pd sulla riforma del mercato del lavoro.

Dunque, se da una parte, come hanno ripetuto Monti e Hollande dopo il loro incontro di ieri, è vero che «diversi paesi dell'Eurozona devono oggi rifinanziarsi a tassi di interesse troppo elevati, malgrado stiano portando avanti le difficili ma necessarie riforme economiche», e quindi meritano in un certo senso la fiducia degli altri partner Ue e il sostegno della Bce, è anche vero tuttavia che proprio quel sostegno rischia di provocare un rilassamento dei governi e delle classi politiche. Un film già visto che non fa che confermare i pregiudizi tedeschi: solo sotto la costante minaccia di spread elevati si può sperare che i paesi eurodeboli, Italia in testa, imbocchino la via del risanamento e delle riforme strutturali. A complicare la situazione ci sono i partiti, impegnati nei loro esasperati tatticismi sulla legge elettorale.
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Insomma, potremmo essere alla vigilia di una tregua della crisi, ma i "compiti a casa" dovremo continuare a farli e spargere ottimismo non aiuta a tenere alta la concentrazione né del governo né dei partiti.
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