Pagine

Tuesday, April 30, 2013

Letta non dura se il Pd non fa sul serio con la pacificazione

Se il Pd fa sul serio con la pacificazione, Berlusconi dev'essere figura di primo piano nel processo costituente, se no il governo Letta non dura

Anche su Notapolitica

Può farcela il governo Letta? Quali sono gli elementi di fragilità e quali, invece, i potenziali punti di forza? Non che vi fossero alternative, se non il salto nel buio di nuove elezioni. Un accordo tra Pd e Pdl resta l'unica prospettiva da cui potrebbero scaturire in breve tempo quelle 3/4 riforme in grado di restituire un minimo di credibilità alla politica, almeno arginare la crisi, e rafforzare bipolarismo e governabilità. Ma l'orchestra di violini che sta celebrando il nascituro governo è troppo simile a quella che accolse il governo Monti per non destare più di qualche sospetto.

Purtroppo, il fatto stesso che alla Camera e al Senato il premier Letta abbia esposto come programma una specie di enciclopedia, anziché un'agenda stringata, realistica, con pochi obiettivi concreti, ben delineati, ai quali inchiodare i partiti, nasconde l'assenza di un accordo politico - sui contenuti oltre che sulle poltrone da spartirsi - tra Pd e Pdl. Non c'è alcuna certezza programmatica, né sull'Imu - lo dimostrano le polemiche di questa mattina, e d'altra parte quello annunciato da Letta è solo un rinvio, poi "si vedrà" - né sulle riforme costituzionali. Qualsiasi Convenzione rischia di naufragare se Pd e Pdl non vi entrano con un'idea di massima condivisa sulla forma di governo e la conseguente legge elettorale a cui approdare. Non si può tornare alle urne prima dell'estate, e non si poteva fare uno sgarbo al presidente Napolitano, appena pregato di farsi rieleggere. Sembrano queste le uniche convergenze tra i due partiti che hanno portato alla nascita di questo governo.

Letta ha parlato con convinzione di pacificazione nazionale. Il banco di prova delle reali intenzioni del suo partito sarà però la Convenzione per le riforme. Ha minacciato di dimettersi il premier, se entro 18 mesi non vedrà profilarsi dei risultati, ma è la sopravvivenza del suo governo che sembra dipendere dalla Convenzione, non viceversa.

Se il Pd fa sul serio, Berlusconi (già tenuto fuori dai ministeri economici) dev'essere pienamente coinvolto nel processo costituente, altrimenti il governo Letta è destinato a durare molto poco. Al di là dell'Imu sulla prima casa, infatti, su cui il Cav alla fine potrebbe rivelarsi più elastico di quanto si creda (potrebbe rivendicare come un successo anche un mero alleggerimento, conservando l'abolizione totale come cavallo di battaglia elettorale), è la sua piena legittimazione come "padre costituente" della Terza Repubblica, poter rivendicare un ruolo da "De Gaulle" italiano, l'unica ricompensa politica per cui, dal suo punto di vista, potrebbe valere la pena far durare il governo Letta.

Dunque, senza il contrafforte di un autentico processo costituente, senza l'impegno sincero del Pd a concluderlo con successo, ad arrivare ad una nuova forma di governo, e senza riconoscere a Berlusconi il suo ruolo, come presidente della Convenzione oppure vicepresidente (come Alfano lo è di Letta), quello del "giovane" Letta sarà per il Cav un governo da impallinare senza troppi rimpianti. Un governo che d'altra parte ha già un punto debole nella sua composizione a medio-bassa intensità politica.

Enrico Letta è l'eterno giovane del centrosinistra. Giovanissimo ministro dell'Industria dei governi D'Alema e Amato, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Prodi, di lui purtroppo non si ricordano battaglie e sfide politiche di particolare coraggio. Si è accomodato in fila, all'ombra prima di Prodi poi di Bersani. Chi lo conosce e lo segue assicura che ha buone idee, ma finora le ha tenute ben nascoste. Premier a parte, molto simile sarebbe potuta essere la compagine del governo Monti se un anno e mezzo fa i partiti avessero accettato di farsi coinvolgere blandamente.

Oggi i principali partiti - Pd, Pdl e Scelta civica - sono coinvolti, ma non espugnano il Tesoro, che sarà ancora guidato da un tecnico. Come Monti, anche Saccomanni si presenta con un background "liberale" e un lungo catalogo di buoni consigli alla politica, dispensati per anni dalla sua postazione in Bankitalia: meno spesa, meno tasse, riforme per la produttività. «Bisogna riallocare il carico fiscale, ridurre le imposte su lavoro e imprese e trovare i fondi altrove, tramite la riduzione delle spese improduttive e dell'evasione». Queste le sue ultime dichiarazioni pochi giorni prima la nomina a ministro. Ma pesa il precedente di Monti, che al governo ha fatto esattamente l'opposto di quanto predicava nei suoi editoriali. Al Lavoro un altro tecnico, il presidente dell'Istat Giovannini, se non altro non il solito ex sindacalista o giuslavorista.

Tra i criteri per la composizione della squadra di governo ha prevalso quello, più che opportuno, del rinnovamento e del ringiovanimento. Il che mette al riparo il governo Letta dalle tensioni che possono causare figure ingombranti, e impopolari, come Monti, Amato, D'Alema e Berlusconi, ma  è anche un fattore di fragilità, perché quelle coinvolte appaiono figure per lo più "sacrificabili" agli occhi dei partiti di provenienza.

Sia il Pd che Berlusconi hanno mandato avanti le rispettive componenti popolari, gli ex-democristiani, tanto da far parlare di un governo monocolore Dc. Questi ci credono, vagheggiano scenari neodemocristiani, ma rischiano di rivelarsi poco più che carne da macello. Defilata l'area ex Ds-Cgil del Pd, che presumibilmente in questa fase concentrerà le sue attenzioni sul partito, lasciando che siano le minoritarie correnti "centriste" e riformiste a mettere la faccia sul governo dell'"inciucio" con il caimano. Da comprendere la strategia di Berlusconi, che apparentemente ha "premiato", indicandoli come ministri, i protagonisti della quasi scissione del novembre scorso, quando sotto la sigla "Italia popolare" erano pronti a lasciare Silvio per Monti. Quale logica dietro questa scelta? La definitiva vittoria delle "colombe" sui "falchi"? Un nuovo assetto nel Pdl, che sancisce la centralità dei democristiani e marginalizza ex An e anima liberale di FI? Oppure più che una promozione, una rimozione dal partito?

Certo è che da quella frase su Facebook, subito dopo l'ufficializzazione della lista dei ministri («abbiamo trattato per formazione del governo senza porre alcun paletto, senza impuntarci su nulla, escludendo persone che fossero ministri in precedenti governi»), Berlusconi non appariva molto entusiasta, sembrava quasi vantare subito un credito.

Se figure come Brunetta e Gelmini, o lo stesso Berlusconi, di per sé poco digeribili per il Pd, avessero fatto parte del governo, sarebbe stato difficile escludere D'Alema, un'altra figura problematica più per il Pd che per il Pdl. La sensazione è che i veti del Pd, la sua necessità di mantenere un basso profilo politico per rendere il più indolore possibile ai suoi la pillola del "governissimo", abbiano però lasciato Berlusconi nella comoda posizione di poter recitare più parti in commedia, tutte da protagonista: sufficientemente coinvolto da rivendicare la paternità dell'operazione se le cose dovessero mettersi per il meglio - sulla politica economica e nella Convenzione - ma non a tal punto da rimpiangere troppo di sfilarsi in caso contrario, abbandonando al loro destino figure politiche tutto sommato "sacrificabili", al governo più che altro per farsi le ossa. E' tutta qui, oltre alla complessità delle sfide che si trova di fronte, naturalmente, la fragilità politica del governo Letta.

Monday, April 29, 2013

L'enciclopedia Letta, non l'agenda

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Cosa possiamo aspettarci dal governo Letta? Quando, all'indomani del voto, abbiamo indicato come unica via possibile - per superare l'impasse determinato dal pareggio elettorale e per arginare lo tsunami grillino - quella di un governo Pd-Pdl, abbiamo anche sostenuto una precisa "road map": cioè che dovesse porsi come scopo quello di realizzare 3/4 riforme fulminee, poche cose ma buone, in 6-12 mesi massimo, per poi riportare il paese alle urne in un contesto di rinnovata (quanto più possibile) credibilità della politica, alleggerimento della pressione fiscale, bipolarismo e governabilità rafforzati.

Tra le riforme di sistema spiccano come minimo sindacale il dimezzamento dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, la riforma della legge elettorale. Ma non una qualsiasi. L'unico sistema in grado di ripristinare legittimazione democratica degli eletti e governabilità è l'uninominale, a turno unico o doppio, associato all'elezione diretta del presidente della Repubblica (o del premier). Si può fare in un anno. A questo nuovo assetto dovrebbe mirare il dialogo costituente tra Pd e Pdl nella Convenzione per le riforme annunciata oggi dal neo premier.

Sul fronte economico, il governo Letta dovrebbe affrontare l'emergenza fiscale: in breve tempo si può abolire l'Imu sulla prima casa, si possono evitare gli aumenti Iva e Tares, risolvere le questioni Cig ed "esodati", defiscalizzare le assunzioni, mentre sembra meno realistico, seppure sempre auspicabile, imporre allo Stato una dieta dimagrante tale da rendere possibile l'abolizione dell'Irap (servirebbero 25-30 miliardi di tagli alla spesa). In ogni caso, al livello di pressione fiscale a cui siamo giunti, non c'è spazio per essere troppo "choosy": che sia Imu o Irap, l'importante è cominciare a tagliare. Per quanto riguarda il lavoro, urgente anche la cancellazione della riforma Fornero, che introduce rigidità sulle forme contrattuali in ingresso ma non certezze sui licenziamenti senza giusta causa.

Questi i contenuti sulla base dei quali giudicheremo, nei prossimi mesi, l'operato del governo Letta, da cui dipenderà a nostro avviso il suo successo o il suo fallimento.

Ma il discorso programmatico su cui oggi alla Camera il premier Letta ha chiesto la fiducia non lascia ben sperare. Molta retorica, paternalismi, scontatezze, un fiume di concetti e obiettivi condivisibili, ma anche furbizie democristiane, bilancini, poca concretezza. Molte tasse in meno, ma nessuna indicazione - proprio nessuna! - sui tagli alla spesa pubblica necessari per la «riduzione fiscale senza indebitamento» che ha indicato come «obiettivo continuo e a tutto campo». Nessun accenno nemmeno alla vendita del patrimonio pubblico e alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Mai più al voto con il "porcellum", ma nessuna indicazione, nemmeno di massima, sul sistema di voto verso cui si vuole approdare. Nemmeno citata l'ipotesi di riforma presidenzialista. In generale, una frettolosa, e pretenziosa declamazione enciclopedica di cose da fare che ci ha trasmesso un forte senso di perdita di priorità, un minestrone ad elevato rischio di inconcludenza.

Pur definendo il suo un «temporaneo governo di servizio» - e la grande coalizione che lo sostiene un fatto politico «eccezionale», così come, d'altra parte, le circostanze che l'hanno resa necessaria (il pareggio elettorale, la crisi economica, le regole da riscrivere) - Letta ha pronunciato un ambiziosissimo discorso "di legislatura", a cui nessuno però può realisticamente credere, contraddicendo lui per primo quel «linguaggio della verità» a cui dice di ispirarsi. L'orizzonte temporale del suo governo va dai sei mesi ai due anni (molto più probabilmente un anno). Così stando le cose, sarebbe stato più utile, e più credibile, inchiodare le forze politiche che sostengono il governo a pochi impegni, ma precisamente delineati.

Apparentemente le questioni che stanno a cuore ai due principali partiti di maggioranza, Pd e Pdl, c'erano tutte, ma non in termini così stringenti come sarebbe stato opportuno. Letta ha parlato di «superare» l'Imu sulla prima casa, offrendo per il momento una sospensione dei pagamenti di giugno, «per dare il tempo a governo e Parlamento di elaborare una riforma complessiva»; di «rinuncia» all'aumento dell'Iva; di un fisco «amico dei cittadini», affinché la parola "Equitalia" non procuri «brividi»; di detassazione del lavoro «stabile» (per giovani e neoassunti); di sburocratizzazione, rivedendo il sistema delle autorizzazioni. Ma anche delle delicate questioni Cig ed "esodati", di «reddito minimo», di welfare «più universalistico e meno corporativo», estendendo gli ammortizzatori sociali ai precari.

Ma al di là dei contenuti, l'obiettivo politico dell'esecutivo Letta si conferma essere una vera e propria pacificazione nazionale: dopo «vent'anni di attacchi e delegittimazioni reciprohe», di «risse inconcludenti», bisogna capire che «come italiani si perde o si vince tutti insieme», e si può fare se ci concentriamo sulle soluzioni «politiche», anziché sulla dialettica «politica». Con l'invito ad abbandonare spade e armature, per scendere a valle armati come Davide contro Golia solo di «fiducia e coraggio», Letta esorta tutte le forze politiche alla pacificazione, che passa inevitabilmente per una legittimazione di Berlusconi come attore politico non emarginabile.

Banco di prova di questa pacificazione sarà la Convenzione per le riforme da cui dovranno uscire quelle modifiche condivise alla nostra Costituzione tanto a lungo attese. E' qui che Letta lancia il suo ultimatum: se tra 18 mesi verificherà che i lavori della Convenzione non sono avviati verso il successo, che veti e incertezze minacciano di «impantanare tutto per l'ennesima volta», ne trarrà le conseguenze, dimettendosi. Ma davvero la politica, i partiti, hanno tutto questo tempo - 18 mesi! - per riformare legge elettorale e forma di governo? Il governo non rischia di uscire di scena ben prima che Letta abbia il tempo di attuare la sua ultimativa forma di pressione sui partiti?

La luna di miele con i mercati, e tra i partiti che lo sostengono, durerà probabilmente fino a novembre. Poi si vedrà. Ma la sensazione è che l'esecutivo abbia pagato a caro prezzo l'esigenza di rinnovamento e ringiovanimento. Il Pd da una parte e Berlusconi dall'altra sono sufficientemente coinvolti da rivendicare la paternità dell'operazione se le cose dovessero mettersi per il meglio, ma non a tal punto, forse, da rimpiangere troppo di sfilarsi in caso contrario, abbandonando al loro destino figure politiche tutto sommato "sacrificabili", al governo più che altro per farsi le ossa. E' tutta qui, oltre alla complessità delle sfide che si trova di fronte, naturalmente, la fragilità politica del governo Letta.

Wednesday, April 24, 2013

Incarico a Letta, Pd spalle al muro. E il Pdl prova ad alzare la posta

Anche su Notapolitica e L'Opinione

L'hanno pregato di accettare la rielezione al Quirinale per sbloccare l'impasse da loro provocato, e ora Napolitano inchioda i partiti - Pd in primis - alle loro responsabilità. Niente governi tecnici, né "del presidente" (con sole figure istituzionali a risparmiargli l'imbarazzo di dover collaborare con il "nemico"), né formule ambigue, tipo "a bassa intensità politica". Con l'incarico di formare il nuovo governo a Enrico Letta, e non ad altre personalità (come per esempio Giuliano Amato), il Pd è costretto al "governissimo", cioè un governo con ministri politici, i suoi esponenti insieme a quelli di Pdl e Scelta civica, l'ipotesi che all'indomani delle elezioni, nonostante la realtà impietosa dei numeri, la direzione del partito aveva categoricamente escluso per ben due volte. Ebbene, il presidente ha chiarito che quella delle larghe intese, che si apre oggi, è la «sola prospettiva possibile», che «non ha alternativa» (se non il voto subito). Per questo, confida nel successo del tentativo di Letta - chi dovesse affossarlo si assumerebbe una grave responsabilità dinanzi al paese - e confida che tutte le forze politiche, ma anche i mezzi di informazione, «cooperino per favorire il massimo di distensione piuttosto che rinfocolare vecchie tensioni».

IL PDL - Ma anche per il Pdl l'incarico a Letta rappresenta una sfida non da poco. Berlusconi ha fin dall'inizio, all'indomani del voto, chiesto con forza un governo politico, forte, duraturo, non un governicchio «semibalneare», utile solo al Pd per riprendersi dalle ultime batoste e dalla crisi interna. E' questo, ora, il rischio maggiore per il Pdl: trovarsi costretto a concedere ai suoi avversari una tregua, una sorta di tempi supplementari, in vista degli esami di riparazione, senza ottenere in cambio risultati politici concreti (l'abolizione dell'Imu, per esempio, cavallo di battaglia elettorale, o il presidenzialismo). Nell'autunno del 2011 Napolitano ha ritenuto a tal punto rischioso per il paese il ritorno alle urne, e talmente impreparato il centrosinistra a governare, da costruire l'ipotesi Monti, ma di fatto preparando la strada per una vittoria dell'alleanza guidata da Bersani e per una scontata successione al Colle. E' andata molto diversamente, e tutti sappiamo cosa non ha funzionato, ma in fondo il governo Letta può essere visto come un secondo tentativo, sebbene in altre forme, di rianimare il centrosinistra, di costringerlo a risolvere le proprie contraddizioni preparandolo al governo del paese.

Letta nelle sue prime dichiarazioni ha parlato di un governo «di servizio al paese», di provvedimenti per il lavoro e l'impresa, e di riforme costituzionali: la riduzione dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, una nuova legge elettorale. «O si ritrova credibilità tutti, e tutti insieme, o non si trovano strumenti per risolvere i problemi», è stato il suo appello alle forze politiche. «Parleremo con tutti, Pdl in primis. Ma questo governo non nascerà a tutti i costi, nascerà solo se ci saranno le condizioni». E le condizioni del Pdl, ancor prima dell'ufficializzazione dell'incarico, le ha ricordate Alfano, lanciando un vero e proprio avvertimento: «Non ci sarà un nuovo caso Marini, non daremo il sostegno a uno di loro cui loro non daranno un sostegno reale, visibile, con nomi che rendano evidente questo sostegno e con un programma fiscale chiarissimo ed inequivocabile». Dunque, ministri Pd-Pdl insieme, ma che siano nomi di peso, i "big", e contenuti «irrinunciabili». Il Pdl alza la posta, cerca di rendere più costosa possibile per il Pd un'eventuale esperienza di governo di larghe intese, con un occhio ai sondaggi che danno il centrodestra in crescita e in netto vantaggio, quindi con la tentazione del voto. Ma è anche vero che sarà difficile, a questo punto, dopo aver rieletto Napolitano, smarcarsi dal tentativo Letta, almeno quanto difficile però per il Pd irrigidirsi, rischiando il ritorno al voto e, quindi, un bagno di sangue, per ritrovarsi poi nella stessa prospettiva di oggi, solo senza premio di maggioranza alla Camera.

AMATO - Il presidente Napolitano ha spiegato di aver scelto Letta perché è «giovane - molto per gli standard italiani - ma ha già accumulato esperienza parlamentare, di governo, e internazionale». Amato era probabilmente la personalità che giudicava più idonea per competenza, esperienza parlamentare e istituzionale, doti da mediatore e notorietà in contesti internazionali, ma non mancavano controindicazioni politiche che il presidente aveva ben presenti e che nel calcolo costi-benefici hanno finito per prevalere. Innanzitutto, la sua nomina sarebbe apparsa come un dito in entrambi gli occhi dell'opinione pubblica (di centrosinistra ma anche - e forse più - di centrodestra), un ritorno al passato (al '92, quando Amato fu premier e Napolitano presidente della Camera), e infine avrebbe dato al nuovo governo un profilo troppo simile al precedente, sonoramente bocciato dagli elettori. Troppo tecnico, troppo bassa la "densità politica", mentre ad avviso di Napolitano (in questo in sintonia con Berlusconi), stavolta serve il pieno coinvolgimento della politica, dei partiti.

Meno "divisivo" dovrebbe essere per il Pd (ma il condizionale è d'obbligo) il nome di Letta, a favore del quale ha giocato anche il fattore generazionale: dopo la conferma di un 88enne al Quirinale, almeno con la nomina del premier il presidente ha voluto mandare un messaggio di freschezza (anagraficamente, s'intende). Corretti i ragionamenti che il quirinalista del Corriere Marzio Breda ha attribuito a Napolitano, descritto come «travagliato tra la necessità di avere esperienza e competenza e il bisogno di dare un segnale di novità e cambiamento al paese», sbagliate tuttavia le sue conclusioni («ormai tutto sembra chiaro: si va verso un incarico pieno a Giuliano Amato»), dettate forse da una preferenza del suo giornale.

RENZI - Quanto all'ipotesi Renzi, non è mai decollata oltre la bolla mediatica innescata da Orfini con una dichiarazione televisiva, nemmeno reiterata in direzione. La sua candidatura solo «un'effimera creazione politico-mediatica», l'ha definita Breda. Dunque, se anche Berlusconi non avesse visto di buon occhio Renzi a Palazzo Chigi, non ha avuto bisogno di porre veti. L'ipotesi non è mai davvero arrivata sul tavolo di Napolitano. Ora Renzi cercherà di avvalorare la tesi del veto di Berlusconi per usarlo strumentalmente nella lotta interna al partito: «Per la prima volta gran parte del Pd si è ricompattata sul mio nome. Non era mai successo», ha dichiarato al Corriere (ma non sarebbe, piuttosto, un segnale di cui preoccuparsi?). «La sensazione - ha aggiunto - è che sia Berlusconi a non volermi. E questo forse aiuta a chiarire l'equivoco una volta per tutte».

Preferenze sono state senz'altro espresse al capo dello Stato (Berlusconi avrebbe dato il suo ok sia su Amato che su Letta), così come Napolitano le ha senz'altro valutate, ma parlare di veri e propri "veti" e "candidature" da parte dei partiti in questa fase è fuori luogo. L'abbiamo sentito tutti il discorso di insediamento del presidente. Le sue parole che lasciavano spazio a veti o pretese sui nomi. Ha deciso lui, e pregandolo di accettare la rielezione i partiti si sono consegnati alle sue decisioni. Napolitano non ha sul serio considerato Renzi: perché a digiuno di esperienze di governo, ma soprattutto perché porta su di sé una carica politica esplosiva. Essendo uno dei leader che saranno direttamente impegnati nella futura, forse molto prossima campagna elettorale, avrebbe calamitato su di sé e sull'esecutivo tutte le tensioni interne al Pd, trasferendo sull'azione di governo il dibattito congressuale, un po' come accaduto per l'elezione del capo dello Stato. E anche in Berlusconi e nel Pdl, la sua nomina avrebbe accentuato la tendenza già forte a valutare l'azione di governo in termini di mera convenienza elettorale (avvantaggia o no Renzi?).

Tuesday, April 23, 2013

Da Napolitano schiaffi ai partiti e lezione di politica valida per tutti

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Con una durezza senza precedenti, e un velo di irritazione, il presidente Napolitano si è rivolto alle forze politiche che lo hanno appena rieletto nel suo discorso di insediamento alle Camere. Vere e proprie sberle verbali sono volate nell'aula di Montecitorio all'indirizzo dei partiti, colpevoli di inconcludenza, irresponsabilità, immaturità politica e democratica. Ne ha avute per tutti, grillini compresi. Ma è al Pd che ha attribuito la responsabilità dell'attuale situazione di stallo, di aver perso tempo, non riconoscendo subito che i risultati elettorali imponevano un'intesa tra forze diverse per la nascita di un governo. E ha denunciato aspramente come una pericolosa «regressione» l'idea di politica secondo cui ogni compromesso, ogni mediazione, ogni intesa, è un "inciucio" da demonizzare. E quanto più sferzanti risuonavano le sue parole, tanto più scroscianti (e forse un tantino ipocriti) gli applausi.

Un Napolitano commosso, ma non solo nei passaggi relativi alla sua storia personale e sulla «fiducia e l'affetto» che ha avvertito «crescere» in questi anni, per lui e l'istituzione che rappresenta. In certi momenti la sua commozione è apparsa scaturire da una rabbia e una frustrazione per l'inconcludenza della politica e la sempre più diffusa sfiducia nelle istituzioni, sentimenti che probabilmente oggi sono comuni a tutti gli italiani. Ma alcuni risvolti della sua dura reprimenda all'indirizzo dei politici, quelli sull'essenza del "fare politica" e del metodo democratico, farebbero bene ad ascoltarli attentamente anche molti cittadini italiani. Il senso del suo messaggio, infatti, è che la più che giustificata rabbia, e frustrazione verso la politica, non può tuttavia far venir meno la fiducia dei cittadini nella democrazia, nelle sue regole e istituzioni, la razionalità dei comportamenti, né la percezione della realtà, della complessità delle sfide che abbiamo di fronte.

Riguardo il nodo politico più atteso del suo discorso, il presidente Napolitano ha chiarito che non è per prendere atto dell'ingovernabilità nella legislatura appena iniziata che ha accettato la rielezione, ma «perché l'Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno». «Farò a tal fine ciò che mi compete, non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale... fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno». Ma nessuna condizione impropria: «Tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità: era questa la posta implicita dell'appello rivoltomi due giorni or sono», ricorda. Bando alle formule «di cui si chiacchiera», il presidente non attribuisce mandati particolari per la formazione del governo, l'unico vincolo è l'art. 94 della Costituzione, che vuole un governo che abbia la fiducia delle due Camere.

«La condizione è dunque una sola». Ai partiti, soprattutto al Pd che l'ha negata fino ad oggi, Napolitano chiede di «fare i conti con la realtà delle forze in campo in Parlamento», ricordando che «sulla base dei risultati elettorali - di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no - non c'è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sue sole forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto», ammonisce il presidente, «non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni», i quali «indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo».

Eppure, ricordando i suoi «sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità» dei partiti, Napolitano va oltre la "condizione" dell'assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche, avvertendo che se si troverà «di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato», non esiterà «a trarne le conseguenze dinanzi al paese». Aggiungendo che «non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme». Quali siano queste «conseguenze», non l'ha esplicitato, ma si può intuire che possono andare dallo scioglimento delle Camere fino all'estrema ratio delle sue dimissioni.

In ogni caso, il messaggio è chiaro: Napolitano ha accettato la rielezione per dare un governo al paese. Chi dovesse negare la fiducia a questo governo nascente, o chi dovesse decidere di ritirarla, si assumerebbe la responsabilità di portare non solo alle dimissioni del premier, ma anche alle elezioni il paese o addirittura alle dimissioni dello stesso presidente della Repubblica. Un altro passo, quindi, verso lo schema presidenzialista, dove presidente e governo sono politicamente e istituzionalmente legati l'uno all'altro.
CONTINUA su Notapolitica

Monday, April 22, 2013

Napolitano 2.0 male minore, ma ora il presidenzialismo

Anche su Notapolitica e L'Opinione

La rielezione di Napolitano rappresenta senz'altro un sollievo, essendo scampati a ipotesi peggiori come Marini, il vendicativo Prodi o addirittura il "grillino" Rodotà. Ma anche indiscutibilmente un fallimento della classe politica, costretta a richiamare in servizio un signore di quasi 88 anni. E superato solo uno dei blocchi di questa fase politica, resta l'impasse sulla formazione del nuovo governo e, naturalmente, la gravissima crisi economica per lo più auto-indotta per eccesso di tassazione. Per la verità, è un fallimento soprattutto del Pd, che pur potendo contare su quasi la metà dei "grandi elettori" per il Colle non ha saputo indicare un proprio candidato senza spaccarsi, in una faida tra vecchie "glorie" (o salme) e tra generazioni, ma soprattutto dilaniato dall'eterna contrapposizione (nella sinistra) tra riformismo democratico e giacobinismo massimalista.

Un grave errore l'ha commesso anche il presidente Napolitano, permettendo al pre-incaricato Bersani di perdere tempo, e quindi, con l'avvicinarsi della scadenza del proprio mandato, facendosi da parte, rinunciando ad esercitare il potere di nomina del presidente del Consiglio che la Costituzione gli attribuisce. Anteporre la sua successione al Colle alla risoluzione del problema del governo, infatti, non ha avuto l'effetto sperato di favorire il dialogo tra le forze politiche, come pure era lecito aspettarsi trattandosi di un'elezione per la quale la Costituzione stessa (altro che inciucio!) richiede maggioranze qualificate. Anzi, il Pd ha scaricato sull'istituzione più alta della Repubblica tutto il peso delle proprie contraddizioni interne, quasi trasformando la successione al Colle in un suo congresso. Il dilemma delle forze alle quali aprire per tentare di formare un governo a guida Pd è entrato nella scelta del nome, producendo una situazione in cui, al di là degli antichi rancori personali, qualsiasi candidato, tranne Napolitano, avrebbe spaccato il partito. Marini e Cancellieri, perché identificati con una prospettiva di governo di "larghe intese" con il Pdl, non avrebbero ottenuto il consenso delle correnti e dei parlamentari contrari a tale ipotesi; Prodi, perché oltre a risuscitare irriducibili rivalità interne, sarebbe stato un dispetto al Pdl, senza per questo garantire un'apertura da parte del M5S; Rodotà, perché avrebbe significato "consegnarsi" a Grillo.

E' del tutto evidente, quindi, che a dispetto dei tentativi di negarlo da parte del Pd, era impossibile tenere distinta la scelta del nuovo presidente da un'ipotesi di governo o l'altra, dal momento che i poteri presidenziali di nomina e scioglimento delle Camere in questo caso sarebbero stati esercitati fin da subito. Anzi, le due questioni non potevano che essere intrecciate. Una circostanza che di per sé ci fa vivere una situazione tipicamente "presidenzialista", in cui dal nuovo presidente dipende anche la maggioranza di governo.

Un aspetto certamente positivo della rielezione di Napolitano è che sia pure indirettamente rilancia l'idea dell'elezione diretta del capo dello Stato, sia tra coloro che alla fine lo hanno pregato di rendersi disponibile, sia tra i cittadini che avrebbero voluto nomi diversi. Se si è certi, per esempio, che gli italiani avrebbero voluto Rodotà, allora per coerenza si dovrebbe sostenere l'elezione diretta del presidente come logico completamento dello schema "Quirinarie", se siamo d'accordo che nelle urne - ancor meglio che nel web o nelle piazze - si esprime la volontà popolare. E' la prima volta nella storia repubblicana che un presidente viene rieletto. Se è vero che questa possibilità non è esclusa dalla Carta costituzionale, ma solo dalla prassi, e quindi non si può affermare che sia incostituzionale, è pur vero che la rielezione è concettualmente presidenzialista. E' prevista, infatti, e costituzionalmente limitata, nei sistemi in cui il presidente viene eletto direttamente dal popolo e ha un mandato inferiore al nostro nella durata (4-5 anni e non 7), ma più politico, di governo. Tale è l'evoluzione in senso presidenzialista del ruolo del nostro capo dello Stato, avviata con l'adozione di un sistema maggioritario, che nel panorama politico non esistono proprio più figure "neutre", super partes, e anzi la situazione richiede proprio una figura "di governo", sia pure in un contesto di equilibrio tra i poteri. Inoltre, il presidente Napolitano, già riluttante ad accettare un secondo mandato, sarebbe ben disposto a lasciare nell'arco di uno o al massimo due anni, appena fosse riformato il sistema d'elezione alla presidenza della Repubblica.

Ma il dilemma in casa Pd è solo rinviato: governo con Pdl e Scelta Civica, o voto (con il rischio di un bagno di sangue), considerando che Napolitano, ora rieletto, può sciogliere le Camere? E' molto probabile che questo pomeriggio Napolitano chiarirà che i partiti devono assumersi fino in fondo le loro responsabilità e che quindi non c'è spazio per governi di "medie intese" o solo tecnici, come vorrebbero molti nel Pd per non mettere la faccia su un accordo con Berlusconi. Ed è anche probabile che alla fine il Pd dovrà piegarsi, accettare il male minore: rialzarsi tra un anno, dovendo spiegare ai propri elettori l'"inciucio" col "giaguaro", sarà difficile, ma votare subito sarebbe suicida.

E' ovvio che un governo di larghe intese lascerebbe un bazooka in mano a Grillo, cioè gli permetterebbe di intestarsi il ruolo di unico oppositore nei confronti del "sistema", dei partiti di maggioranza - per certi versi davvero un partito "unico" - ma non esistono scorciatoie. C'è solo una possibile road map, che qui avevamo indicato già all'indomani del voto di febbraio: o Pd e Pdl sono in grado di collaborare seriamente e proficuamente per un numero ristretto di mesi, assicurando al paese 3/4 riforme di cui ha assoluto bisogno, economiche ed istituzionali (per adeguare finalmente Costituzione e legge elettorale al semipresidenzialismo di fatto in cui siamo), oppure sì, il M5S aumenterà i suoi consensi, ma a ragione. Il governo di "larghe intese" si rivelerà uno sterile arroccamento, se i partiti si dimostreranno ancora incapaci di fare riforme, ma è al tempo stesso l'unica, forse l'ultima, chance di lanciare una controffensiva all'antipolitica di Grillo.

Un «pacchetto di provvedimenti economici», una nuova legge elettorale, l'elezione diretta del presidente e poi il voto, è la via che oggi sposa anche Matteo Renzi, nella sua tempestiva intervista a Repubblica, nonostante abbia anch'egli usato l'elezione del capo dello Stato per produrre un esito del tutto diverso, il ritorno immediato alle urne, da lui giudicato più conveniente dal punto di vista personale, e per regolare i conti interni: far fuori Bersani (e D'Alema). Ha finito però per scottarsi anche lui nell'esplosione del quartier generale: contribuendo a bruciare la candidatura di Marini, e da entusiasta sponsor di quella di Prodi, ha dismesso i panni del grande rottamatore e vestito quelli del riesumatore di salme, contraddetto la sua idea di leadership da conquistare nelle primarie, in una competizione a viso aperto, facendo ricorso ai vecchi intrighi correntizi pur di inseguire le proprie ambizioni. Da potenziale salvatore del Pd, rischia di restare coinvolto nel crollo del partito che lui stesso ha contribuito a provocare. Com'è rapidamente "invecchiato" Renzi in questi due-tre giorni, politicamente...

Friday, April 19, 2013

Renzi da rottamatore a riesumatore di salme

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Nella partita per il Colle è venuto fuori un Renzi che sospettavamo, ma che fino ad ora non avevamo conosciuto: è entrato in gioco con due occhi ben aperti sulle sue ambizioni e con una massiccia dose di tatticismo da vecchia politica. Bersani ha usato l'elezione del capo dello Stato per cercare di entrare a Palazzo Chigi, il sindaco di Firenze l'ha usata per far fuori Bersani. Contribuendo in modo decisivo a bruciare la candidatura di Marini ha forse ha vinto un set, o meglio un singolo game, essendo - forse - riuscito ad abbattere il "cavallo ferito". Ha ripetuto innumerevoli volte di volersi conquistare la leadership nelle primarie, in una competizione all'"americana", a viso aperto, e invece ha fatto ricorso come tutti, come da tradizione italiana, ai giochi di palazzo e alle correnti di partito, a cui aveva giurato di non voler partecipare.

Ma innanzitutto, non è ancora detto che Prodi ce la faccia. Ha bisogno di una manina o dal M5S (che sembra confermare la candidatura Rodotà) o da "Scelta Cinica" (che ha candidato ufficialmente la Cancellieri, anche se il "prodiano" Riccardi si è già attivato...), e non si può escludere che qualcuno nel Pd sia tentato di fare un dispetto sia al professore che al giovane sindaco in un colpo solo.

In ogni caso, sostenendo l'elezione di Prodi al Quirinale Renzi ha dismesso i panni del grande rottamatore e ha vestito quelli del grande restauratore.

Condanna l'Italia a 7 anni di Prodi, che sarebbe un presidente estremamente divisivo, da vera e propria "guerra civile", solo perché convinto che sbarrando la strada a un candidato condiviso tra Pd e Pdl, e quindi ad un governo subito (come lui stesso sembrava invocare per il bene del paese), si tornerà molto presto al voto e potrà essere lui il candidato premier del centrosinistra: 7 anni di Prodi al paese, in cambio della vaga possibilità di una candidatura a premier. A questo punto Renzi sembrerebbe il leader ideale per "Scelta Cinica". Ma il colmo è che il suo calcolo potrebbe essere sbagliato. Imprevedibili, infatti, le mosse di Prodi una volta eletto presidente. Potrebbe persino dare a Bersani (o a qualcun altro del Pd) una chance per andarsi a cercare i voti dei grillini al Senato, o comunque ritardare lo scioglimento delle Camere, o ancora cercare di governare lui stesso dal Quirinale, formando un governo del presidente. D'altra parte, il precedente di Napolitano con Monti è una breccia che si presta ad essere allargata da un professore dall'ego smisurato come Prodi. Insomma, Renzi potrebbe anche non ottenere un ritorno alle urne così ancitipato come vorrebbe.

Ma al di là dei suoi calcoli personali, dire "no" a Marini e "sì" a Prodi significa per Renzi negare l'essenza stessa della sua sfida alla vecchia politica e alle vecchie idee della sinistra. Se appaiono fondati i suoi argomenti contro l'ex presidente del Senato (un candidato che certo non appassiona), gli stessi valgono contro Romano Prodi, che esattamente come Marini corrisponde al profilo di politico che secondo i canoni renziani sarebbe ora di rottamare senza esitazioni. Con la differenza che l'ex premier è già stato rottamato e si tratterebbe di riciclarlo. Due volte presidente del Consiglio, controverso manager di Stato, collante di una fallimentare coalizione di governo, anche lui ultra-settantenne e di estrazione cattolica. Prodi rappresenta forse la "visione di paese" che ha in mente Renzi? Il segnale di "cambiamento" che gli italiani aspettano? O piuttosto non è, anche lui, un "dispetto", per almeno la metà degli italiani, e un "candidato del secolo scorso"?

L'unica differenza è, appunto, l'antiberlusconismo, che fa di Prodi il presidente ideale per scongiurare qualsiasi formula di intesa tra Pd e Pdl e, dunque, rendere più probabile il ritorno alle urne. Ma anche Prodi rappresenta la vecchia politica e le vecchie contrapposizioni, tutto ciò che della sinistra Renzi ha sempre dichiarato di voler superare, anzi rottamare.

Thursday, April 18, 2013

Dopo aver seminato vento, il Pd raccoglie la sua tempesta

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Si raccoglie quello che si semina: se è vento, allora sarà tempesta. Se fino ad un minuto prima si è seminato antiberlusconismo, se l'unico pensiero che scalda il cuore è "smacchiare il giaguaro", è poi difficile spiegare ai propri elettori, e ai propri eletti, che bisogna far scegliere il nome del nuovo presidente della Repubblica agli "impresentabili", come premessa di chissà quale altro accordo per far nascere un governicchio.

«Siamo ostaggi di uno psicodramma tutto interno alla sinistra e di una scissione latente nel Pd che è sul punto di esplodere», scrivevamo su queste pagine all'indomani del voto. E il naufragio della candidatura Marini alla prima votazione per il Quirinale ne è l'ennesima dimostrazione. Sulla scelta del prossimo inquilino del Colle un Pd balcanizzato sta svolgendo il suo congresso, in pratica una guerra tra bande. E sono giunti a maturazione i frutti velenosi di vent'anni di antiberlusconismo, l'eterna maledizione che la sinistra e i suoi leader si sono auto-inflitti.

La radicalizzazione del Pd in questi anni è tale che la pancia del partito non può reggere ad alcuna concessione a Berlusconi, nemmeno ad un nome condiviso per il Quirinale, nemmeno se è un esponente storico dello stesso Pd. Una personalità come Marini, che 7 anni fa un centrosinistra compatto imponeva come seconda carica dello Stato a colpi di maggioranza, oggi lo spacca a metà come una mela. La linea politica di questi anni, di demonizzazione deresponsabilizzante dell'avversario, ai danni dell'immagine stessa del paese, e l'insensato inseguimento dei grillini di queste ultime settimane, hanno finito per aggravare, anziché sanarla, la contraddizione, la frattura storica interna sia al popolo che ai partiti di sinistra: quella tra riformisti e massimalisti, tra partito di governo e partito di lotta.

Il risultato che si tocca con mano oggi è una quantità di parlamentari, anche vicini al segretario del Pd, semplicemente "impolitici", per i quali ogni compromesso è a prescindere un inciucio da demonizzare - anche quando è l'unica via realistica per un governo di cui il paese ha disperatamente bisogno, o è soltanto per mettere a capo della Repubblica una figura di garanzia - e che vagheggiano un governo con il M5S propiziato dall'elezione di Rodotà al Quirinale, dimostrando un'idea ingenua, immatura, ottusa e al tempo stesso pericolosa di democrazia. Se Bersani credeva di poter fare scouting tra i grillini, in queste ore si sta amaramente accorgendo che è Grillo ad avergli già sfilato Vendola e a fare scouting persino tra i suoi fedelissimi.

E adesso? Quella di Franco Marini è una candidatura che nasce per un'elezione rapida e largamente condivisa, con i 2/3 dell'assemblea alla prima votazione. Che senso avrebbe eleggerlo a maggioranza, con più voti dal centrodestra che dal Pd? Tra l'altro, sarebbe un suicidio portarlo, o riproporlo, al quarto scrutinio, considerando che i 521 voti presi oggi sono pericolosamente vicini al quorum di 504.

Dall'inizio di questa crisi entrare a Palazzo Chigi è stato l'unico scopo che ha guidato l'azione di Bersani. Fallito il tentativo con Grillo, e dovendosi piegare di fronte alle resistenze di Napolitano, ha provato la strada del dialogo con Berlusconi a partire dall'elezione del presidente della Repubblica, ma così facendo ha spaccato il suo partito, nemmeno i suoi hanno digerito la svolta di 180°. Ad uscire vincitore dal naufragio del segretario è senz'altro Renzi, che dall'inizio ha sparato ad alzo zero sull'ipotesi Marini. Fondati i suoi argomenti contro l'ex presidente del Senato, ma pretestuosi, visto che si possono applicare anche alle figure ritenute preferibili.

Prodi e Rodotà non fanno forse parte di foto di 20 o 30 anni fa? Esattamente come Marini, corrispondono al profilo di politico che secondo i canoni renziani sarebbe ora di rottamare. Il primo, due volte presidente del Consiglio, controverso manager di Stato, collante di una fallimentare coalizione di governo. E Rodotà? Parlamentare per ben quattro legislature (da quando ancora c'era il Pci), primo presidente del Pds, 7 anni come garante della privacy, con una pensione d'oro di poco inferiore a quella leggendaria di Amato, e anche lui ottantenne come Marini. Prodi e Rodotà rappresentano forse la "visione di paese" che ha in mente Renzi? Sono forse il segnale di "cambiamento" che gli italiani aspettano?

No, è che anche il sindaco di Firenze è entrato nella partita per il Colle con due occhi alle sue ambizioni e con una massiccia dose di tatticismo da vecchio politico. Aveva spiegato che le strade dinanzi a Bersani erano due: un accordo con il Pdl o il voto subito. L'elezione di Marini avrebbe prefigurato la prima ipotesi, ma evidentemente per Renzi esiste solo la seconda, illudendosi di poter essere lui il candidato premier. Dunque, sostiene per il Colle candidati antiberlusconiani, nonostante siano anch'essi vecchi e rappresentino politicamente tutto ciò che della sinistra ha sempre dichiarato di voler superare. L'importante è sabotare Bersani e togliersi di dosso l'immagine di cripto-berlusconiano disponibile all'inciucio. Anche il Renzi del "fate presto", insomma, pur di non perdere il suo tram è pronto a precipitare il paese nel caos di nuove elezioni, e pazienza se il prezzo è l'elezione di un presidente che rischia di alimentare, anziché ricomporre, le divisioni tra gli italiani.

Un'altra lezione da trarre da questa vicenda è che finché l'elezione del presidente della Repubblica è in mano ai partiti è del tutto naturale che il prescelto sia innanzitutto un loro garante, e non il favorito degli italiani. Chi vuole un presidente "del popolo" abbia la coerenza di sostenere il presidenzialismo, o taccia per sempre. L'impressione è che coloro che oggi si scandalizzano per la scelta di Marini e sostengono Rodotà, o altri nomi più originali, non accetterebbero di affidarsi totalmente alla volontà del popolo in una elezione diretta. Pretendono semplicemente che i partiti ascoltino un'avanguardia illuminata interprete dei suoi presunti voleri.

Wednesday, April 17, 2013

E' ora che gli italiani scelgano da soli il loro presidente

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Mentre Milena Gabanelli si chiama fuori (dopo una riflessione così prolungata da far trasparire scarso senso del ridicolo), e Rodotà dunque, alla fine, dovrebbe essere il nome scelto dal M5S per sfidare il Pd, e mentre Prodi sembra ormai uscito dalla partita, con il deludente ottavo posto ottenuto alle "Quirinarie", sembra Giuliano Amato il fortunato (o sfortunato) destinato ad entrare Papa nel Conclave presidenziale (con D'Alema nient'affatto rinunciatario). Rodotà, quindi, se il Pd intende ancora proseguire sulla via penitenziale e gravida di umiliazioni predisposta da Grillo. Amato, se invece prevarrà la linea di una qualche forma di dialogo e collaborazione con il Pdl. Cassese l'outsider, ma sarebbe il colmo se Berlusconi si facesse convincere a mandare al Colle un giudice della Consulta.

Queste le indicazioni dei retroscena della vigilia, che come si sa lasciano il tempo che trovano. Anche perché stentiamo a credere che davvero Pd e Pdl intendano puntare su Amato. Sarebbe una scelta politicamente suicida per entrambi e anche rischiosa per la tenuta del sistema, tanta è l'impopolarità dell'ex presidente del Consiglio socialista. Possibile che i partiti siano così sconnessi dalla realtà del paese da non cogliere la portata del risentimento anti-sistema che scatenerebbe l'elezione di Amato? Per gli italiani è, e sarà sempre, il parassita di Stato che si porta a casa più di 30 mila euro di pensioni al mese, nessuna delle quali ovviamente maturata con il sistema contributivo; colui che ha prelevato di notte i soldi dai conti corrente degli italiani e che continua a proporre nuove tasse patrimoniali; colui che per riciclarsi nella II Repubblica ha fatto finta di non conoscere Craxi, di cui fu sottosegretario e braccio destro. Insomma, Amato incarna tutto ciò che gli italiani disprezzano dello Stato e della casta: privilegi, tasse, trasformismo. Con la sua elezione anche il Quirinale, un'istituzione fino ad oggi solo marginalmente oggetto degli attacchi dell'antipolitica, potrebbe precipitare nella crisi di legittimazione e autorevolezza che stanno vivendo i partiti.

Ma al di là del merito, del "totonome", è il metodo di elezione del nostro presidente della Repubblica a meritare qualche riflessione. Si tratta infatti di un rito stucchevole e opaco, un bizantinismo ormai fuori dalla storia, con risvolti persino surreali. Basti pensare che la sola assenza di candidature ufficiali può portare ad un esito assurdo. Dove sta scritto, infatti, che il Giorgio Napolitano eletto nel 2006 fosse proprio "quel" Giorgio Napolitano e non un omonimo, e che non esistano altri Giuliano Amato o altre Emma Bonino?

Ma soprattutto, se è vero che gli ultimi presidenti hanno visto accrescere enormemente il loro peso politico pur senza esercitare poteri che non fossero previsti dalla nostra Costituzione, è indubbio che quello del capo dello Stato non è più il ruolo così neutro e imparziale come era stato concepito dai costituenti e interpretato dai primi 6/7 presidenti. Negli ultimi decenni si è trasformato. A causa della crisi dei partiti e dell'intero sistema politico-istituzionale, non certo di una volontà prevaricatrice da parte degli inquilini del Colle, è diventato un ruolo supremamente politico, "intra partes" piuttosto che super partes. Ormai è inutile, velleitario, aspettarsi una figura neutra e imparziale. Primo perché non c'è. Secondo, perché ormai il contesto storico e politico richiede tutt'altro che neutralità. Proprio quest'ultimo settennato ci insegna a non confondere la correttezza con la neutralità: sempre corretto dal punto di vista formale, e attento garante delle istituzioni, Napolitano ha interpretato in modo tutt'altro che neutro e imparziale il suo ruolo.

D'altra parte, i nostri costituenti avevano sì concepito una figura di capo dello Stato alla quale per decenni neutralità e imparzialità sono state indossolubilmente associate, sembrando inderogabili, ma l'hanno anche dotato di poteri potenzialmente molto incisivi, tipicamente "presidenzialisti" (come il potere di nomina del presidente del Consiglio o di scioglimento delle Camere), lasciando ampia discrezionalità interpretativa sul suo ruolo. E invece di consegnare ai cittadini le chiavi del Quirinale, temendo svolte populiste hanno preferito lasciarle in mano ai partiti. Per circa 40 anni tali poteri sono rimasti "in sonno", essendo il sistema politico bloccato. Ma pur nel rispetto del dettato costituzionale, i connotati "presidenzialisti" hanno finito per prevalere su quelli "notarili".

Pertini e Cossiga hanno sdoganato le "esternazioni presidenziali", al di fuori dei messaggi formali alle Camere previsti dalla Costituzione. Da quando è stata introdotta la democrazia dell'alternanza, i presidenti che si sono succeduti hanno interpretato il loro ruolo di garanzia come interposizione, se non contrapposizione alla maggioranza a loro non affine politicamente, trovando nella Costituzione i poteri per farlo e dando luogo quindi ad una forma di diarchia. Il risultato è che oggi in Italia il semipresidenzialismo c'è già: nei poteri, ma senza investitura popolare. Un semipresidenzialismo "a corrente alternata". Il Quirinale ha lavorato come uno studio notarile durante i governi di centrosinistra, mentre ha esercitato i suoi poteri in senso presidenzialista durante i governi di centrodestra, dando vita ad una sorta di "coabitazione".

Napolitano è il presidente che ha portato a compimento questo processo. Pur nel rispetto formale dei suoi poteri costituzionali, è diventato un "dominus" della scena politica, riempiendo uno spazio politico lasciato vuoto dalla debolezza sia del governo che del Parlamento. Con tempismo perfetto ha saputo inserirsi nel dibattito quotidiano e nella dialettica tra le forze politiche, offrendo autorevoli "coperture" istituzionali o lanciando dure reprimende, oscillando tra arbitro ineccepibile, indebita sponda e giocatore a tutti gli effetti. È arrivato a condividere con l'esecutivo importanti atti di indirizzo, esercitando di fatto un potere di veto e/o di vaglio preventivo sui decreti legge, spesso sottoposti ai suoi uffici addirittura prima di arrivare in Consiglio dei ministri. Ma è intervenuto pesantemente anche sul processo legislativo: contribuendo ad affossare provvedimenti (come il ddl intercettazioni); condizionando il calendario parlamentare e l'agenda politica; e qualche volta vagliando i testi di legge prima che uscissero dalle commissioni parlamentari. Sia pure spinto da circostanze eccezionali, è arrivato a scegliersi un premier.

Completare con gli opportuni poteri ed equilibri questa innovazione presidenzialista, dandogli legittimità costituzionale e investitura popolare diretta, come avviene, per esempio, in Francia, è ormai indispensabile e urgente, se non si vuole incrinare anche la fiducia degli italiani nel Quirinale. In un paese normale, Pd e Pdl saprebbero approfittare dell'impasse politico per avviare una fase "ri-costituente": rieleggendo Napolitano come garante di un rapido processo di riforma (basato sullo scambio tra doppio turno di collegio e semipresidenzialismo) da portare a compimento in 12 mesi.

Thursday, April 11, 2013

Una rivoluzione conservatrice contro uno status quo progressista

Anche su Libertiamo

Margaret Thatcher «vista da sinistra», nell'articolo di Simona Bonfante per Libertiamo, non era una conservatrice. Poiché era anti-socialista, in definitiva era una progressista. C'era da aspettarselo che prima o poi qualcuno azzardasse la provocazione intellettuale, nel solco della ormai vasta letteratura per cui il "liberismo è di sinistra".

Il ragionamento è a prima vista seducente. D'altra parte, è anti-socialista anche quella sinistra riformista che non crede nelle virtù della pianificazione economica e che è disposta a concedere che il libero mercato può essere strumento di promozione sociale e non di sfruttamento. E così si salvano capra e cavoli. Siccome la Thatcher aveva ragione (si ha l'onestà intellettuale di ammetterlo), ma la destra rimane sporca e cattiva, si dice che aveva ragione in modo "progressista". È un ottimo escamotage dialettico di chi si ritiene di sinistra, ma di una sinistra riformista e liberale, quindi anti-socialista, per riconoscere le ragioni della Thatcher senza passare per conservatore.

Dunque, più che un'analisi sulla Lady di ferro, abbiamo la solita polemica, tutta interna alla sinistra, tra socialismo di ispirazione marxista e riformismo-laburismo. Ma il fatto che, come la sinistra liberale oggi, la Thatcher fosse anti-socialista, non fa di lei una progressista. Così come il fatto che fosse nemica della "conservazione", intesa come status quo, non significa che fosse progressista, dal momento che lo status quo contro cui si è battuta era il frutto di politiche tipicamente progressiste.

Il problema di questi ragionamenti è che filano solo sulla base di equivoci linguistici e mere astrazioni, cioè solo attribuendo un significato letterale a quelle che sono categorie politiche, e solo presumendo una destra e una sinistra che non esistono nella realtà storica, che non corrispondono al loro "idealtipo". Solo in un mondo immaginario, infatti, la sinistra si batte per offrire maggiori opportunità agli outsider meritevoli, per uno Stato leggero che concentra le sue risorse sui veri bisognosi, e la destra favorisce lo status quo. Può darsi sia stato vero in un'epoca pre-marxista, quando la divisione era tra Ancien Régime e liberalismo. Ma non è questa la realtà politica dei paesi occidentali nell'ultimo secolo, compreso l'ultimo ventennio: la destra non sarà stata quasi mai un modello di liberismo, ma quasi sempre molto meno statalista della sinistra.

Se al conservatorismo si attribuisce il significato letterale di conservazione dello status quo, e per questo un'accezione negativa, mentre al progressismo il significato di un cambiamento di segno pregiudizialmente positivo, il gioco delle apparenze è fatto: anche MT può diventare progressista. Ma conservatori e progressisti sono categorie politiche che vanno ben oltre il loro significato letterale. È ovvio che in una realtà socio-economica di fatto socialistizzata, com'era il Regno Unito sul finire degli anni '70 (e com'è oggi l'Italia), essere conservatrice per la Thatcher non significava certo essere per lo status quo, per la conservazione, ma non per questo significava essere progressista. Anzi, essere conservatrice significava essere per il cambiamento di uno status quo progressista. Di fatto, fu una rivoluzionaria, ma la sua fu una rivoluzione conservatrice.

Se si vuole dire che una parte della sinistra (minoritaria, per la verità) ha tratto insegnamento dalla Thatcher, e che le politiche liberiste possono effettivamente produrre esiti "di sinistra" in termini di promozione sociale, il che è innegabile, lo si dica apertamente. Che la sinistra europea post-thatcheriana (parliamo soprattutto di Blair) abbia saputo far tesoro di quella lezione, adottando politiche semi o simil-liberiste, è certamente un fatto storico, culturale e politico di un certo rilievo. Ma temporaneo e minoritario, nient'affatto di dimensioni imponenti. Anzi, trascurabile ai fini di una ridefinizione delle categorie politiche di destra e sinistra tale da arrivare a sostenere che la Thatcher non fosse conservatrice ma progressista. E comunque non c'è niente di tutto questo nell'analisi di Simona Bonfante, che si limita a sostenere che MT in definitiva fu progressista perché anti-socialista. In questo modo il gusto, il vezzo della provocazione intellettuale rischia di mangiarsi tutto: storia, cultura, politica.

È vero, piuttosto, che la sinistra post-thatcheriana, per tornare a vincere, ha dovuto fare i conti con il thatcherismo, quindi in qualche modo spostarsi verso destra. Ma certo questo non viene facile da dire, se si parte dal pregiudizio che a destra ci sono quelli che hanno torto, che vogliono conservare lo status quo, e a sinistra quelli che hanno ragione, che sono per il cambiamento. È una brutta forma di subalternità culturale quella dei liberali italiani che, per rendere accettabili concetti come il thatcherismo e il liberismo, avvertono l'esigenza di sostenere che sono "di sinistra", solo perché per la cultura dominante a sinistra ci sono i "buoni" fautori del progresso e a destra i "cattivi" che conservano. Ed è tra i motivi per cui non abbiamo avuto, e non avremo, una Thatcher in Italia.

Wednesday, April 10, 2013

Perché in Italia non abbiamo avuto una Thatcher

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Quando abbiamo saputo della morte di Margaret Thatcher, in molti una domanda è sorta spontanea, avrebbe detto Antonio Lubrano: perché in Italia non abbiamo avuto una Thatcher, nonostante il nostro paese è, e non da oggi, in una situazione di declino, a causa dello statalismo e del corporativismo, simile a quella in cui si trovava il Regno Unito sul finire degli anni '70?

D'accordo, in Italia tantissimi erano thatcheriani «solo a parole», «all'italiana», come ha osservato Pierluigi Battista. Ma non bisogna dimenticare l'altra faccia della medaglia, che ci ha ricordato Piero Ostellino: ci fosse stata una vera Thatcher, «l'avrebbero spedita a morire a Tunisi». Ogni tentativo di rispondere alla nostra domanda tralasciando uno dei due aspetti - le responsabilità della classe politica di centrodestra e il fattore culturale e istituzionale - è condannato a produrre risposte parziali.

E' vero, i thatcheriani "de noantri" lo erano «solo a parole», hanno fatto poco o niente per diminuire la spesa pubblica, il debito pubblico, quindi le tasse, e per liberalizzare l'economia. Sono partiti sognando il «partito liberale di massa» e sono finiti nell'anti-mercatismo di Tremonti o nel keynesismo di ritorno del "premio Nobel" Krugman.

E' vero, i thatcheriani d'Italia sono stati più «pacioni». Di fronte al conflitto, alle opposizioni anche dure, hanno deciso di battere in ritirata temendo per il consenso del giorno dopo, quindi per le loro carriere politiche, ma anche perché, in fondo, non ci credevano neanche loro alla cosiddetta "rivoluzione liberale". Dopo la caduta della Prima Repubblica dirsi liberali era un modo, per ex-Msi, ex democristiani ed ex socialisti, per sdoganarsi. Una volta rilegittimati, hanno ben presto dimenticato cosa significasse. Qualche timida "lenzuolata" liberalizzatrice il centrosinistra l'ha portata avanti, ma obtorto collo, senza convinzione, solo per convenienza. Ci si era accorti che privatizzare poteva essere un modo per creare una rete di oligarchi amici e che liberalizzare qualcosa si poteva, purché limitandosi a colpire i settori di interesse dell'elettorato altrui.

No, non si può certo dire che il centrodestra italiano sia stato "liberista", tutto "small government e deregulation". Bisogna però riconoscere qualche circostanza attenuante ai liberali della Prima Repubblica, per aver fatto i "cespugli" della Democrazia cristiana quando l'alternativa era il comunismo di Mosca. E nella giusta critica al berlusconismo non si può ignorare che per tre volte Berlusconi ha coalizzato vaste maggioranze di centrodestra intorno a parole d'ordine liberiste, anti-stataliste, mentre mai niente di simile si è visto a sinistra. Berlusconi e la sua classe dirigente hanno poi tradito la "rivoluzione liberale", hanno governato da moderati nel senso di "socialisti moderati", e nell'elettorato di centrodestra le spinte stataliste e assistenzialiste del centro-sud e le spinte corporative hanno finito per prevalere sulle istanze liberalizzatrici. Ma tutto ciò non cancella il fatto inoppugnabile che da una parte i "thatcheriani", almeno a parole, sono esistiti, e che milioni di elettori di centrodestra hanno risposto, e ancora rispondono presente ai richiami liberisti, mentre dall'altra parte istintivamente li hanno sempre respinti.

Certo è che chi si è opposto alla riforma delle pensioni del primo governo Berlusconi, nel 1994, o all'abolizione dell'articolo 18, solo per citare due esempi, non ha titolo oggi per biasimare il centrodestra perché non ha saputo esprimere una Thatcher. Non si possono recitare due parti in commedia.

In fondo, una Thatcher in Italia non c'è stata perché non siamo inglesi. Non abbiamo né la loro cultura politica né il loro modello istituzionale e questi sono forse i fattori che più hanno pesato. Non è da noi che è sorto e si è sviluppato il pensiero liberale. La cultura liberale è sempre stata ultra-minoritaria nelle élites, schiacciata tra il solidarismo cattolico e l'assistenzialismo comunista e post-comunista. E il libero mercato lontano dall'esperienza concreta della borghesia e del capitalismo italiani. Tanto che il giornale degli industriali, il Sole24Ore, ha pensato bene di ospitare in prima pagina un convinto commento anti-Thatcher di Romano Prodi. Il caso Italia è particolamente penoso: la controversa percentuale del 47% di elettori che secondo Romney avrebbero comunque votato Obama, perché in vario modo sussidiati dal governo, in Italia probabilmente supera di gran lunga il 50%, rendendo ancor meno attraenti le opportunità che le politiche liberiste potrebbero aprire. Troppo pochi, e senza voce, gli outsider.

Non sorprendiamoci, dunque, se una Thatcher in Italia è impossibile. Anche il sistema istituzionale e politico è stato concepito, edificato e preservato apposta per renderla impossibile. Nel Regno Unito la politica è conflitto, alternative di governo, da noi concertazione e trasformismo. Il modello di leadership che la Thatcher rappresenta si è potuto affermare per le virtù del bipartitismo e di un premierato forte, che da noi è considerato una forma di autoritarismo. Il nostro è un sistema di poteri deboli, consociativo, che premia il trasformismo e deresponsabilizza i leader. Il presidente del Consiglio non ha il potere che ha avuto la Thatcher. E ogni tentativo di riformare la nostra Costituzione, che molti ancora ritengono "la più bella del mondo", in senso presidenzialista, o del premierato, si sono infranti contro una strenua, radicale opposizione, anche da parte di quanti, oggi, hanno il coraggio di dire che sì, in effetti, avremmo avuto bisogno di una Thatcher, ma che se ci fosse stata le avrebbero riservato il trattamento che per molto meno hanno riservato a Craxi e a Berlusconi.

Monday, April 08, 2013

Thatcher, sinonimo di leadership

Anche su Rightnation.it

Che Margaret Thatcher abbia salvato la Gran Bretagna da un declino certo, contribuito a cambiare le coordinate della politica britannica (e non solo), e - insieme a Ronald Reagan - a cambiare il mondo, non ci sono dubbi. Ma se è stata - ed è ancora oggi - fonte di ispirazione per intere generazioni di conservatori e liberali, è perché la Lady di ferro rappresenta un modello di leadership saldamente fondato sui principi, forse l'unico davvero vincente, e la dimostrazione tangibile che libertà e responsabilità non solo possono essere le linee guida di un'azione di governo, ma sono la miglior politica economica e il miglior programma di governo possibile: «Non può esserci libertà senza libertà economica».

La sua è stata tra le rare leadership fondate sulle convinzioni contrapposte alle convenienze come bussola dell'agire politico. Un modello di leadership i cui pilastri sono moralità, fiducia nell'individuo, e soprattutto fermezza sui principi. Lo sapeva bene, una donna che per emergere ha dovuto combattere il maschilismo dei partiti e della società britannica, che i principi sono tutto ciò che distingue lo statista dal politicante. Sapeva che per avere successo bisogna lottare «ogni santo giorno della propria vita», andare controcorrente, sfidare il conformismo, la banalità e la mediocrità imperanti, senza piegarsi.

II thatcherismo, dunque, innanzitutto come modello di leadership e prassi di governo. No ai compromessi al ribasso per vivacchiare politicamente. No ai cedimenti alle lobby e ai gruppi di pressione. No al consociativismo sociale. No alle lusinghe della spesa facile. «La medicina è amara ma il paziente ne ha bisogno», «ci odieranno oggi ma ci ringrazieranno per generazioni», risponde la Thatcher ai suoi colleghi di partito e di governo che pensano solo alla rielezione.

Certo, è più facile prendere voti, e vincere le elezioni, devastando le finanze pubbliche piuttosto che risanandole; elargendo privilegi e sussidi piuttosto che responsabilizzando i cittadini, restituendo loro e alle famiglie il potere invece di aumentare a dismisura quello del governo. Ed è più facile, rimandando sine die una soluzione impopolare piuttosto che affrontando di petto i problemi, ma tutto questo non sarebbe governare ed esercitare una leadership.

Come pochi altri leader del '900, la Lady di ferro ci ha insegnato che l'arte del governo non è solo carisma e tecnica. Per cambiare un paese non bastano politiche efficaci e politici onesti e competenti. Quanto maggiori sono le sfide pratiche da affrontare, tanto più ci vogliono visione morale (avere un'idea di ciò che è bene e ciò che è male), intelaiatura intellettuale e chiarezza ideologica, per realizzare ciò che si è promesso conquistando e mantenendo il sostegno dell'opinione pubblica (di una maggioranza di essa, ovviamente).

La "Thatcher Revolution" ha dimostrato per la prima volta che le politiche keynesiane non sono le uniche possibili in democrazia. Che le politiche cosiddette "liberiste", la riduzione del peso dello Stato nell'economia a vantaggio della dimensione individuale, anche su quell'abusata astrattezza che chiamiamo «società» («non esiste la società: ci sono gli individui, uomini e donne, e ci sono le famiglie»), non solo sono convenienti dal punto di vista economico, ma sono anche politicamente e socialmente sostenibili, nonché in ultima analisi vincenti, anche se indubbiamente richiedono un surplus di coraggio e determinazione. Di leadership, insomma.

A salvare la Gran Bretagna non sono state distanti teorie economiche, né oscure formule tecnocratiche, ma è stato il buon senso della figlia di un droghiere. Il bilancio dello Stato come il bilancio di una famiglia: il risparmio, non la spesa, è la virtù. Il duro lavoro, non lo sciopero, è un valore, mentre l'assistenzialismo è immorale ed economicamente insostenibile. Il ritratto stesso della figlia di un droghiere di provincia che contro tutti i pregiudizi e gli stereotipi diventa primo ministro ne fa un'icona positiva del liberalismo e dell'individualismo.

La situazione italiana è molto simile a quella del Regno Unito pre-Thatcher della fine degli anni '70. Da noi è ancora dominante l'ideologia dello Stato-padrone e del cittadino-suddito, della spesa pubblica, del posto fisso, del "godersi" la pensione a 50 anni, dell'inflazione per far fronte al debito. Una società che colpevolizza la ricchezza e il merito, che ostacola l'accumulo del capitale, che frustra gli sforzi individuali per arrivare alla propria affermazione, che ignora le regole basilari dell'economia e che, per tutti questi motivi, è destinata al declino. Nessun centrodestra, soprattutto in Italia, può pensare di non ripartire dalla lezione di Margaret Thatcher.

Friday, April 05, 2013

Renzi l'uomo giusto nel partito giusto

Anche su Formiche.net e Notapolitica

All'indomani delle primarie del centrosinistra da cui uscì sconfitto, anche se con un risultato lusinghiero, si moltiplicarono gli inviti e gli appelli rivolti a Matteo Renzi perché abbandonasse il Pd, i cui vertici avevano ancora una volta mostrato di considerarlo alla stregua di un corpo estraneo e di essere incapaci di accogliere il rinnovamento (Qui la prima puntata: Il liberismo "buono" è solo quello che non c'è, su IlFoglio.it). Appelli, inviti, semplici auspici, che tornano a manifestarsi oggi, dopo che il sindaco di Firenze ha attaccato frontalmente, dalle pagine del Corriere della Sera, la linea della "perdita di tempo" portata avanti dal suo segretario. Per alcuni dovrebbe andarsene e fondare la sua forza politica, per altri semplicemente migrare nel centrodestra o approdare nel centro montiano per risollevarne le sorti. Quasi tutte queste provocazioni almeno in parte colgono nel segno, evidenziando contraddizioni e ritardi sia della sinistra che della destra.

E' vero che le idee, ma direi anche il linguaggio, e persino postura e sorrisi di Renzi, sembrano stonati in un partito come il Pd, ancora ostaggio dell'ossessione antiberlusconiana e appesantito dalla tara statalista, dove l'"apparatchik" ha ancora il suo peso, e quindi che in questo senso possa sembrare "l'uomo giusto nel posto sbagliato". Ma ciò non rende né più probabile né, a ben vedere, auspicabile, un suo "salto" verso altre sponde politiche. Credo che Renzi debba combattere fino in fondo la sua battaglia "blairiana" nel Pd e che il centrodestra debba trovare il suo di Renzi. Dovrebbe essere questo l'ordine normale e non scandaloso delle cose, anche se ammetto che la nostra politica è tutto fuorché "normale".

Innanzitutto, per una banale questione di credibilità personale. La politica italiana è già piena di personaggi che saltano da un partito all'altro, qualche volta per buoni motivi ma più spesso per convenienza, anzi per frustrazioni e piccole miserie personali. Non si vedono riconosciuta dal loro partito la leadership, o la poltrona, che ritengono di meritare, e allora cambiano casacca o se ne vanno e fondano il loro partitino. E di solito il "salto" non porta molta fortuna, gli elettori tendono a diffidare.

Ma anche perché in un certo senso Renzi è proprio l'uomo giusto nel posto giusto: il riformatore con la necessaria sfrontatezza nel partito che ha urgente bisogno di essere riformato - nei contenuti, nello stile politico e nella classe dirigente. Così come dev'essere sembrato un marziano Tony Blair nel Labour dei primi anni '90, sarà stato accusato di cripto-thatcherismo, ma era esattamente l'uomo giusto al posto giusto.

Che Renzi riesca con il Pd laddove Blair è riuscito con il Labour è tutt'altro che scontato. Anzi, sono molto meno certo di quanto si tenda comunemente ad essere che sia predestinato a vincere trionfalmente le prossime primarie, o il prossimo congresso del Pd. Che sarà proprio lui il futuro leader del centrosinistra ci crederò solo quando lo vedrò con i miei occhi.

Ma è una battaglia che deve combattere nel Pd, almeno se riteniamo auspicabile avere, prima o poi anche in Italia, un sistema politico maturo, in cui i due principali partiti, uno di centrodestra e uno di centrosinistra, vincono, perdono, invecchiano, ma sono riformabili e contendibili. Non possiamo andare avanti con questa maionese impazzita che per rigenerarsi ha continuamente bisogno di veder sorgere come funghi mini-partiti personali, progetti terzisti (o quartisti), tsunami e rivoluzioni più o meno incivili.

Né sarebbe auspicabile che sia Renzi a sopperire al vuoto di leadership che si annuncia nel centrodestra con il crepuscolo della leadership berlusconiana. Anche in questa parte dello schieramento politico il rinnovamento dovrà trovare le sue forme, i suoi contenuti e i suoi protagonisti. Comprensibile che Renzi susciti interesse e simpatia in un panorama così avido di novità, ma non bisogna commettere lo stesso errore di chi, per vezzo intellettuale ma con scarsa lucidità politica, addirittura lo voleva a capo di un movimento liberista. Dovremmo forse rassegnarci all'idea che il centrodestra del futuro altro non possa essere che una sinistra in versione "renziana", solo più moderata e "labour" del Pd?

Thursday, April 04, 2013

Renzi silura la linea para-golpista di Bersani

Ciò che da qualche giorno - da quando è circolata la voce di possibili dimissioni di Napolitano di fronte allo stallo politico e all'incomunicabilità tra i partiti - appare a tutti evidente, e che oggi, nella sua intervista al Corriere, viene definitivamente svelato da Matteo Renzi («Si punta a prendere tempo e a eleggere un capo dello Stato che ci dia più facilmente l'incarico di fare il nuovo governo»), qui l'avete letto in quasi tutti gli articoli a partire da circa un mese fa.

Che fosse questa l'unica linea di Bersani l'avevamo intuito, e scritto fin dall'inizio: la rincorsa a Grillo era disperata, non gli avrebbe mai garantito di avere numeri certi in aula, ma l'importante era perdere tempo, trascinarsi più avanti possibile verso la scadenza del mandato di Napolitano, in modo da ridurre i margini d'iniziativa del presidente, indurlo ad accelerare la sua successione, così da poter eleggere un nuovo capo dello Stato, meno incline a cercare imbarazzanti "larghe intese" con il giaguaro e disponibile, invece, ad incaricare Bersani nonostante non avesse numeri certi al Senato, e a sciogliere subito le Camere in caso di sfiducia. Pur non potendosi dimettere prima, per non esporre il paese a un vuoto di potere che avrebbe spaventato i mercati, Napolitano alla fine si è arreso, non se l'è sentita di mettere in ulteriore difficoltà il suo partito. Di fatto, nominando i dieci saggi si è tirato fuori dalla questione del nuovo governo e l'ha passata al suo successore. Il piano di Bersani stava riuscendo.

Ma non è forse un disegno velatamente "golpista" non rinunciare all'incarico nonostante l'esito negativo dell'esplorazione, indurre il presidente uscente a passare la mano prima del tempo perché si rifiuta di dare l'incarico, eleggersi (con il 29% dei voti sul 72% di quelli espressi) un nuovo capo dello Stato compiacente, disposto a fare ciò che Napolitano non ha voluto fare, ossia mandare Bersani a Palazzo Chigi anche senza una maggioranza certa al Senato? Se avesse concepito e perseguito Berlusconi un simile disegno?

La forza di Renzi, con l'intervista di oggi, è aver detto semplicemente e limpidamente ciò che anche gli italiani di buon senso hanno capito e stanno dicendo in questi giorni: 1) La politica (Napolitano compreso) sta perdendo tempo, quando è chiaro a tutti che o il Pd fa con Berlusconi un «patto costituente da cui nasce la Terza Repubblica», oppure si torna subito alle urne; 2) Bersani si è fatto umiliare dagli arroganti del M5S.

Wednesday, April 03, 2013

La resa pilatesca di Napolitano

L'arbitro che non se l'è sentita di fischiare rigore all'ultimo minuto

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Si congela qualcosa per conservarla e poterla utilizzare in un secondo momento, non per gettarla via. In questo senso è corretto sostenere che la decisione del presidente Napolitano di nominare i dieci saggi ha soltanto "congelato" Bersani, senza sancire il suo fallimento. Certo, il segretario del Pd avrebbe di gran lunga preferito ricevere un incarico pieno, per formare il suo governo e farsi eventualmente sfiduciare in aula, entrando comunque a Palazzo Chigi, oppure le dimissioni anticipate del presidente, ma ha "assorbito" con lungimiranza la mossa del Colle, cogliendone la debolezza, persino l'impotenza. Napolitano, infatti, gli ha sì sbarrato la strada verso Palazzo Chigi, ma di fatto, pur non dimettendosi, perché sconsigliato da Draghi, sta passando nelle mani del suo successore la spinosa questione del nuovo esecutivo.

Il favore a Bersani è doppio: perché il presidente non ha attribuito a nessun altro l'incarico di formare un governo, come invece avrebbe voluto la prassi costituzionale alla luce dell'esito negativo della sua esplorazione; e perché ribaltando l'ordine dei fattori dell'ingorgo istituzionale - l'elezione del nuovo presidente della Repubblica è ormai temporalmente prioritaria rispetto alla formazione del nuovo governo (il 18 aprile la prima seduta utile) - aiuta il segretario del Pd a tenere il partito unito sulla prima delle due scadenze.

L'inerzia è di nuovo a vantaggio di Bersani: basta aspettare l'elezione del nuovo inquilino del Colle, che sarà più propenso a conferirgli l'incarico anche senza numeri certi al Senato. Esplicativo il titolo dell'editoriale di Stefano Menichini, direttore di Europa: «Si va al governo passando dal Quirinale». Così come sperava che l'elezione dei presidenti di Camera e Senato potesse favorire le condizioni per ottenere almeno il "non impedimento" alla nascita del suo governo, ora Bersani spera di utilizzare l'elezione del nuovo capo dello Stato per continuare la sua rincorsa a Grillo, per un nuovo tentativo di agganciare i senatori del M5S. Se il nuovo presidente venisse eletto senza i voti del Pdl, ma con qualche voto dei montiani e dei grillini, come avvenuto per Grasso, tramonterebbe definitivamente qualsiasi ipotesi di "larghe intese" tra Pd e Pdl e verrebbe rilanciata, invece, l'idea del governo del "cambiamento" in grado di ottenere almeno la "non sfiducia" dei grillini. O, al peggio, ci sarebbe il voto.

Peccato che il presidente abbia deciso di chiudere il suo settennato con una mossa così dilatoria e pilatesca. Questa volta il compagno Napolitano ha anteposto l'interesse del suo partito alla tutela delle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica, che aveva voluto difendere con forza, invece, chiamando in causa la Corte costituzionale sulle intercettazioni che lo riguardavano in possesso della Procura di Palermo. Dei due poteri che la Costituzione attribuisce al capo dello Stato per risolvere crisi politiche come quella attuale - il potere di nomina del presidente del Consiglio e il potere di scioglimento anticipato delle Camere - gli restava solo il primo, poiché il presidente in scadenza di mandato non può sciogliere anticipatamente le Camere.

Ebbene, Napolitano ha rinunciato anche a quello. Ha rinunciato al potere di nominare un presidente del Consiglio, quindi a provare a sciogliere con il potere che la Costituzione gli attribuisce l'intricato nodo del governo, inventandosi invece una formula dilatoria - le due commissioni di saggi - che nelle sue intenzioni dovrebbe servire a «spezzare, o magari soltanto allentare, la spirale di incomunicabilità fra partiti che si sentono e si comportano ancora come se fossero in piena campagna elettorale». Ha inteso creare una sorta di camera di decompressione, illudendosi di far emergere in questo modo elementi programmatici condivisi per un eventuale governo di corresponsabilità, più o meno esplicita, tra le forze politiche.

Di fatto, però, più o meno consapevolmente ha regalato al Pd una cospicua rendita di posizione. Mentre prima avrebbe dovuto accettare un nome di garanzia per il Quirinale affinché non fosse preclusa la nascita di un governo Bersani, adesso è nella posizione di pretendere che il centrodestra si pieghi a votare il candidato espresso dalla sinistra, pena l'elezione della personalità più antiberlusconiana possibile. E in ogni caso il nuovo presidente consentirebbe finalmente a Bersani di varare il suo esecutivo "di minoranza" e di insediarsi a Palazzo Chigi. Se una simile manovra presidenziale avesse in tal modo favorito Berlusconi, si sarebbe gridato al golpe per settimane.

La linea di Bersani, di totale chiusura nei confronti del centrodestra, non poteva, e non può, essere messa in discussione all'interno del Pd se non in modo lacerante. Se davvero c'è chi non la condivide, di sicuro stenta a manifestarsi. E stenterà ancor di più, dal momento che la mossa del Colle aiuta Bersani a compattare il partito dietro di sé, essendo l'elezione del nuovo presidente l'obiettivo condiviso su cui ora non ci si può proprio dividere. Al rifiuto del segretario del Pd di rinunciare all'incarico nonostante non fosse riuscito a ottenere le condizioni poste da Napolitano (una maggioranza certa anche al Senato), il presidente avrebbe potuto, e dovuto reagire facendo saltare il tappo, dichiarando formalmente fallito il tentativo di Bersani e nominando un premier incaricato di formare un governo. Era questo l'unico atto di forza che avrebbe potuto dare una scossa al Pd: a quel punto, chi non fosse stato convinto della linea Bersani, avrebbe potuto sfidarla sotto la copertura autorevole del Quirinale, con gli argomenti pressanti di un governo del presidente che sarebbe arrivato di lì a poco a chiedere la fiducia alle Camere.

Napolitano non se l'è sentita di mettere il proprio partito di fronte ad un bivio così lacerante, ma così è uscito dalla sua traiettoria istituzionale proprio all'ultima curva del suo settennato.

Tuesday, April 02, 2013

La madre di tutte le anomalie

Ne abbiamo scritto infinite volte su questo blog. Ce la ricorda, il giorno di Pasqua, Giuliano Ferrara su il Giornale:
«Lo scudo di Berlusconi, quel che permette al Cav di giocare la carta finale della sua sopravvivenza ogni volta che la situazione incresciosa della Repubblica dei partiti lo mette in pericolo, è questo risentimento motivato di mezza Italia contro coloro che non vogliono accettare l'esistenza di un destra italiana di popolo, magari rozza o semplificatrice, così come la storia l'ha prodotta dopo la crisi del Paese che si identificava nei partiti della Costituzione. Bersani paga il prezzo di un ripudio assurdo, che si riassume nel senso sciagurato di superiorità che il suo schieramento esprime, la chiara evidenza di una sinistra che non vuole normalizzare il suo rapporto con questa Italia, ma ne esige la condanna, la damnatio memoriae, e la vuole a ogni costo, anche con processi grotteschi e accuse infamanti e indimostrabili. Battere Berlusconi con mezzi normali, e dunque in una logica di confronto tipica delle democrazie liberali, mutuando qualcosa di importante dalla sua esperienza, condonando la parte lapalissiana di inciviltà e accanimento giudiziario che lo riguarda, e procedere oltre, in una logica di pacificazione e di riconciliazione che tagli le ali dell'estremismo ideologico: è quel che il centrosinistra non sa e non vuole fare, è quel che lo condanna a una subalternità senza speranza, interminabile, stupefacente, e che alla fine siamo tutti noi a pagare come disfunzione e paralisi della democrazia».
Ed è una anomalia che comunque finirà Berlusconi, non finirà con Berlusconi. Riguarderà qualsiasi leader vincente che il centrodestra saprà scegliersi.