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Tuesday, May 28, 2013

La gente ha capito... che votare è inutile

Anche su Notapolitica e L'Opinione

E' sbagliatissimo leggere l'esito del voto amministrativo attraverso le lenti della politica nazionale. Ovviamente il governo Letta e le forze politiche che lo sostengono lo fanno per convenienza: «Ha vinto il governo delle larghe intese e chi prova a dare risposte effettive al Paese». Il premier prova a metterci il cappello, facendo filtrare ai giornali la sua soddisfazione: «La gente ha capito». Ma l'unica conclusione a cui la gente sta mostrando di essere giunta è che votare è inutile, perché tra destra e sinistra non c'è poi molta differenza. Intendiamoci: ovvio che un crollo del centrodestra e del centrosinistra, e un nuovo boom di Grillo, avrebbero indicato una bocciatura, sia pure prematura forse, delle "larghe intese".

Ma il semplice fatto che ciò non sia avvenuto non significa che l'operazione è stata promossa. Uno scampato pericolo non equivale a una promozione. Anzi, sull'elevato astensionismo semmai, oltre a una certa stanchezza di politica (dopo la "full immersion" degli ultimi mesi, tra elezioni di febbraio e travagliato parto del governo) e a un giudizio complessivamente negativo sui candidati, può aver pesato una certa rassegnazione: tanto votare è inutile, gli uni o gli altri sono la stessa cosa. E anche votare Grillo, oltre al "vaffa", è sterile, non porta a nulla per cui valga la pena distogliersi dalle proprie attività domenicali.

Il voto amministrativo può certamente dare indicazioni di approvazione o disapprovazione dell'operato del governo nazionale, ma non può essere questo il caso. Sul governo Letta, e dunque sull'operazione politica che l'ha tenuto a battesimo, il giudizio degli elettori è ancora sospeso: giustamente, dal momento che è in carica solo da poche settimane. Non è il voto amministrativo, quindi, a rafforzare le "larghe intese", ma il semplice fatto che il governo ha iniziato a lavorare da poco e dunque il primo giudizio è rimandato a settembre.

Basti prendere in esame il caso del Comune di Roma, che da solo rapppresenta il 57,5% dell'elettorato chiamato alle urne e addirittura il 73,3% di quello dei 16 comuni capoluogo. Alemanno è arrivato a questo voto sfiancato da scandali veri o presunti e da una incessante campagna di ridicolizzazione personale, eppure ha retto ed è riuscito ad andare al ballottaggio. D'altra parte, Marino non rappresenta certo la linea delle "larghe intese", e ha posizioni politiche distanti dai possibili futuri leader del suo partito. Semmai, la sua affermazione dovrebbe suonare come campanello d'allarme per il Pd impegnato nelle "larghe intese".

Insomma, gli elettori hanno dato un giudizio sull'operato dei sindaci uscenti, basato sulla percezione - spesso imprecisa - di ciò che è stato o non è stato fatto. E come spesso accade, è un giudizio molto negativo, che tuttavia si è esteso anche ai candidati sfidanti. L'astensione elevata - anche se il confronto corretto non è con il 2008, quando pesò il traino delle politiche - è probabilmente il segno che i candidati sono apparsi tutti mediocri, anche quelli del M5S. A Roma può aver pesato il derby, certo, ma forse ancor di più la certezza che si sarebbe andati al ballottaggio. Anche questo può aver convinto molti elettori a "disturbarsi" solo quando si deciderà per davvero, cioè fra due settimane. Al ballottaggio l'affluenza nella capitale potrebbe persino aumentare, o restare pressoché invariata ma con un elettorato molto diverso, anche se le chance di Alemanno sembrano ridotte al lumicino.

Ridicoli anche i frettolosi "de profundis" per Grillo e M5S: alle amministrative, dove contano di più i volti dei candidati, dove si cerca un amministratore e non ci si accontenta di un "vaffa" generalizzato, non sorprende che i grillini non abbiano convinto. La gente ha capito che anche loro sono mediocri, e rispetto agli altri pure inesperti. Probabilmente il M5S non avrebbe toccato il 25% alle politiche, se si fosse votato in collegi uninominali, che avrebbero costretto i parlamentari grillini a presentarsi agli elettori - con i loro volti, le loro storie personali - prima del voto in ogni singolo collegio.

A Roma è uscito sconfitto il candidato De Vito, ma lo tsunami nazionale non è affatto rientrato. Non sono venuti meno i motivi che lo scorso febbraio hanno indotto il 25% degli elettori a mandare un sonoro "vaffa" ai partiti tradizionali, ma adesso anche Grillo sa che non basta più evitare la tv, non bastano più i suoi comizi. Le inadeguatezze, l'ingenuità, talvolta l'antipatia dei parlamentari e dei candidati del movimento non si possono nascondere in eterno dietro una battuta o un insulto.

Friday, May 24, 2013

I mostri che si aggirano per l'Europa: gli Stati mannari

Anche su Notapolitica e L'Opinione

La copertina dell'Economist di questa settimana si candida seriamente al premio cover dell'anno. I principali leader europei - Merkel e Hollande in testa, con Draghi, Letta e Samaras alla loro destra e Rajoy, Barroso, Passos Coelho e Van Rompuy alla loro sinistra - che incedono con sguardo fiero e fisso sulla linea dell'orizzonte, non curanti del burrone ad un passo dai loro piedi. Titolo: "The sleepwalkers" (i sonnambuli).

E' il sesto trimestre successivo di recessione in Europa, la disoccupazione è oltre il 12%. Si discute di austerity, ma i deficit e i debiti pubblici continuano a correre, e non solo nei paesi cicala, come l'Italia, dove per lo meno il problema è noto e all'attenzione dei severi censori di Bruxelles e Berlino. La crisi ormai non riguarda più soltanto i paesi del Sud Europa, ma tocca da vicino anche i "virtuosi" tedeschi, olandesi e scandinavi. E' un problema comune, nessuno può illudersi che il vagone su cui viaggia non deraglierà insieme al resto del treno.

Perché se la situazione è certamente più drammatica nei paesi più deboli e più indebitati, in crisi - come ebbe modo di spiegare mesi fa Mario Draghi al Wall Street Journal - è il modello sociale europeo in tutte le sue varianti, quelle più efficienti, mittle e nord-europee, e più dissennate, quelle mediterranee. E' insostenibile, drena troppe risorse perché le economie europee riescano ad essere competitive con quelle dei paesi emergenti. Serve a poco preoccuparsi di come redistribuire meglio e in modo più equo, se la torta nel frattempo si restringe. Fa eccezione, per ora, la Germania, ma tra breve anche le sue riforme di un decennio fa si riveleranno insufficienti.

Eppure, i leader europei non sembrano rendersi conto di quanto profondamente la crisi metta in discussione le certezze dell'ultimo mezzo secolo. Di fronte alla realtà, sembra diffondersi il virus italiano: piuttosto che riconoscere che la soluzione passa per riforme dolorose, impopolari, ma necessarie, volte a far recuperare competitività alle nostre economie fiaccate da bilanci pubblici troppo pesanti e famelici, burocrazie opprimenti e mercati troppo rigidi, il problema che sembra angosciare i governanti europei, senza eccezioni, è come fare cassa, dove rastrellare soldi freschi da destinare a ulteriori investimenti dall'alto (la maggior parte dei quali si riveleranno improduttivi) e a nuove forme di assistenzialismo.

Dunque, invece di accelerare i processi di unione bancaria e unione fiscale, di discutere di come implementare velocemente le riforme strutturali e fiscali in tutti i paesi, ecco che il nuovo tema elevato a priorità dell'ultimo Consiglio europeo, al pari del lavoro, è quello dell'evasione fiscale, nonostante negli altri grandi paesi europei non sia certo ai livelli italiani. Quando però si va a stringere sulle misure concrete, ci si accorge che va bene lo scambio dei dati, ma più che l'evasione nel mirino c'è la concorrenza fiscale tra i paesi. I "grandi" vorrebbero limitare, se non azzerare, la capacità dei "piccoli" e dei "medi" di attirare aziende e multinazionali con sistemi fiscali più competitivi. Insomma, quei «salti mortali», così si è espresso di recente Ed Miliband parlando di «capitalismo responsabile», che molte grandi e medie aziende (Google, Apple e Amazon sono sotto i riflettori), ma anche persone fisiche, fanno per pagare meno tasse. Più che di evasione, dunque, si tratta di forme elusive legali.

Una volta, quando si parlava dei cosiddetti "paradisi fiscali", ci si riferiva a minuscole isolette, per lo più dei caraibi, praticamente prive di strutture statuali. Oggi però politici e media ne parlano con riferimento a qualsiasi paese che scelga un'imposizione fiscale più leggera e norme meno invasive sui capitali. Così anche Svizzera, Austria, Slovenia, Irlanda, e persino il Regno Unito, vengono considerati alla stregua di "paradisi fiscali". Un'azienda, o una persona fisica, che vi trasferiscano la propria residenza fiscale o parte dei propri profitti, vengono immediatamente bollati come evasori e, quindi, criminali (quanto meno moralmente). Non ci si chiede nemmeno se sia il caso di abbassare le proprie pretese fiscali, non si prende nemmeno in considerazione l'ipotesi che, più semplicemente, sono Italia, Francia e Germania ad essere diventati "inferni fiscali".

Difficile, d'altra parte, ampliare le pretese della riscossione fiscale nel mondo globalizzato di oggi, in cui i capitali si muovono attraverso i continenti in pochi secondi, il commercio è sempre più online e i paesi sono sempre più in competizione tra loro per attirare investimenti. Ma in Europa, soprattutto, dove il mercato è unico, la concorrenza fiscale dovrebbe essere vista come una sfida virtuosa, non un molesto residuo della sovranità nazionale. Emblematico il doppio ruolo che è costretto a giocare il premier britannico Cameron, che fa il duro nei confronti di Bermuda e Isole Cayman, ma poi rivendica il diritto della Gran Bretagna a mantenere «tasse basse sulle imprese per attirare gli investimenti, aumentare i posti di lavoro, ed essere vincenti nella competizione globale».

L'unica cosa che proprio non riescono a immaginare i leader europei è come restringere il perimetro dello Stato, quindi della spesa pubblica e del debito. I paesi virtuosi non si pongono - per il momento - il problema. In quelli meno virtuosi, come l'Italia, sentiamo ripetere la solita litania: non ci sono soldi per rimettere in moto l'economia. Due miliardi di qua, due di là, si spostano da una tassa all'altra. Non ci sono soldi? Ma stiamo scherzando? Un governo che spende (o sperpera?) ogni anno la metà della ricchezza prodotta dai suoi cittadini - e ormai non sono molto lontani da questa soglia gli altri grandi paesi europei - viene a raccontarci che non ci sono soldi? E' un luogo comune ormai tanto radicato - nella politica, tra gli osservatori e nell'opinione pubblica - quanto fa a pugni con la logica.

Il dibattito in Europa è sempre più intrappolato tra le due polarità rigore/spesa, con i paesi del Sud e la Francia che chiedono aiuti e investimenti, e quelli del centro e del nord che tentano di stringere i cordoni della borsa. E una dinamica che rischia di somigliare sempre più a quella dell'Italia post-unitaria: un nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso. Una sorta di "italianizzazione" dell'Eurozona non è più una prospettiva inverosimile, se costringeremo la Germania e i paesi del nord Europa ad adottare nei confronti dell'Europa mediterranea le stesse politiche sbagliate che per oltre un secolo il nostro Stato unitario ha "somministrato" al Sud Italia e che, come stiamo vedendo, ci sta trascinando tutti nel baratro.

Wednesday, May 22, 2013

Verso il porcellone

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Come spesso accade in Italia, non c'è nulla di più definitivo del transitorio. Quindi, se entro il 31 luglio verranno apportate le correzioni minime al "porcellum" annunciate oggi, è probabile che ci troveremo di fronte alla legge elettorale con la quale voteremo alle prossime elezioni. La situazione è, come al solito, piuttosto contorta, quasi in corto circuito, ed è più o meno la seguente.

Da una parte, la scelta di una mera manutenzione del "porcellum" mette in tempi rapidi in sicurezza la legge rispetto a possibili profili di incostituzionalità, e mette al riparo il governo dalle tensioni di un confronto totale tra le forze politiche sul sistema di voto. Dall'altra, però, proprio superando le cause di inadeguatezza, e forse anche incostituzionalità del "porcellum", il ritorno alle urne non sarà più politicamente impraticabile se il governo non funziona e vivacchia. Anzi, proprio per l'aprirsi dell'opzione voto, aumenteranno veti e pretese da una parte e dall'altra e, quindi, il rischio di paralisi della sua attività (già non particolarmente frenetica).

Ma su questo fronte molto dipenderà dalla soglia minima per far scattare il premio di maggioranza. Se bassa (35%), si riducono le possibilità di pareggio, e di un nuovo stallo. Quindi ottimo: si salvaguarda la governabilità. Ma non il governo Letta, perché crescerebbe la tentazione di staccare la spina al minimo incidente, essendo il premio a portata di coalizione. Quindi la legge elettorale sarebbe ok, ma di nuovo addio riforme costituzionali. E non è nemmeno detto che una soglia bassa dissolva i dubbi di incostituzionalità. Se alta (40-45%), difficile che il premio possa scattare: si tratterebbe di un proporzionale pressoché puro. Una pessima legge, quindi, che non salvaguarda la governabilità. Ma disincentivate le forze politiche dal rischio "palude", quindi dalla prospettiva di dover formare di nuovo un governo di "larghe intese", salvaguarda il governo Letta, la durata della legislatura, e paradossalmente accresce le chance del percorso di riforme di arrivare a conclusione.

E' ovvio, in questa situazione, che Berlusconi e il Pd spingano per correzioni minime che offrano se non la certezza almeno buone probabilità di non replicare un pareggio elettorale (il primo una soglia bassa, sia alla Camera che al Senato; il secondo per il ritorno al "mattarellum"), così da poter staccare la spina al governo quando diventi troppo dannosa la loro compartecipazione. Al contrario, il premier e i ministri ("colombe" ed ex Dc di Pd e Pdl) spingono per una soglia alta, un proporzionale quasi puro. Innanzitutto, come assicurazione sulla vita del governo, ma nel peggiore dei casi - il ritorno alle urne - un sistema che non produrrebbe una maggioranza in Parlamento, e renderebbe quindi inevitabile un nuovo governo di "larghe intese", favorendo l'aggregazione di un'area neocentrista, neodemocristiana, e dunque il sempre più definitivo superamento del bipolarismo.

Tuesday, May 21, 2013

La trappola neocentrista

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Si sta facendo strada, dopo il cauto pressing del capo dello Stato e quello incauto e "inammissibile" della Corte di Cassazione, l'idea di un intervento soltanto "manutentivo" e "transitorio" sulla legge elettorale. Consapevole che aprire ora un confronto tra le forze politiche su un nuovo sistema di voto avrebbe effetti destabilizzanti sul governo di "larghe intese", il presidente Napolitano si è fatto sponsor di un intervento minimalista, finalizzato a mettere in sicurezza la legge rispetto ai profili di incostituzionalità già espressi dalla Corte costituzionale e di nuovo sollevati, in modo alquanto inappropriato, dalla Corte di Cassazione.

Non bastavano le Procure che intentano processi politici, che convocano grandi "convegnoni" come quello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia (176 testimoni)? Non bastavano magistrati che si candidano alle elezioni, perdono e tornano ad indossare la toga come se niente fosse? Non bastava un Csm che "boccia", come fosse una terza Camera, qualsiasi scelta in materia di giustizia da parte del legislatore? Ora abbiamo anche i giudici che vogliono riscrivere le leggi elettorali? E' molto dubbia l'ammissibilità della questione di costituzionalità relativa al "porcellum" sollevata dalla Cassazione. Nel nostro sistema, infatti, i cittadini non possono chiamare direttamente la Corte costituzionale a giudicare la costituzionalità di una legge. Possono farlo i giudici, ma solo in via incidentale, mentre nel procedimento in questione la legge della cui legittimità costituzionale si dubita è l'oggetto stesso del giudizio intentato dai cittadini.

Inoltre, nelle sue argomentazioni la Cassazione mostra di puntare esplicitamente ad un risultato politico: l'eliminazione del premio di maggioranza e il ripristino delle preferenze, cioè il ritorno al sistema elettorale della Prima Repubblica. Sollecita, infatti, «un'opera di mera "cosmesi normativa" e di ripulitura del testo, che può essere realizzata dalla Corte costituzionale, avvalendosi dei poteri che ha a disposizione, o dal legislatore in attuazione dei principi enunciati dalla stessa corte».

In pratica, chiede ai giudici della Consulta di riscrivere la legge elettorale. E se sul premio di maggioranza senza soglia minima erano già stati espressi dubbi dalla Consulta, l'illegittimità delle liste bloccate, che avrebbe come conseguenza necessaria l'introduzione delle preferenze, sembra assai meno fondata. Innanzitutto, le preferenze non sono mai state adottate per l'elezione dei senatori, nemmeno durante la Prima Repubblica. Sono uscite chiaramente bocciate dal referendum elettorale del 1991. E non esistono nella maggior parte dei paesi europei che adottano sistemi di voto proporzionali, che prevedono proprio le liste bloccate (come Germania e Spagna).

Il ministro per le riforme, Gaetano Quagliariello, si è espresso a favore di un «intervento di manutenzione per rendere costituzionale» il "porcellum", ma solo come «legge transitoria» in vista di una «vera riforma», da fare «insieme alla riforma dello Stato, del governo e del bicameralismo». Una soglia minima da cui far scattare il premio di maggioranza (40-45%, percentuali dalle quali sono al momento lontani sia il centrodestra che il centrosinistra), o la sua eliminazione tout court, sono i ritocchi di cui si parla. Significherebbe di fatto il ritorno ad un sistema proporzionale puro.

Oltre a contraddire i voti referendari del 1991 e del 1993, non verrebbe comunque sciolto il nodo della scelta dell'eletto da parte degli elettori, né risolto il problema della governabilità. Se si tornasse a votare con un tale sistema, infatti, l'esito sarebbe del tutto simile alla situazione odierna, anzi con l'aggravante che nemmeno alla Camera ci sarebbe un partito di maggioranza. Dunque, perché ritoccare la legge elettorale in un modo che già sappiamo essere peggiorativo? Sarebbe comunque da irresponsabili tornare al voto con una legge simile, a meno che non si abbia in mente un sistema che favorisca il consolidarsi delle "larghe intese", l'aggregazione di un'area neocentrista, neodemocristiana, e dunque il definitivo superamento del bipolarismo.

Se si intende intraprendere seriamente la via delle riforme costituzionali, allora non c'è motivo per cui la nuova legge elettorale non debba arrivare a coronamento del processo "ri-costituente". Il modello dovrà essere scelto, e il testo congeniato con attenzione, alla luce della nuova forma di governo che si vorrà adottare. Viceversa, l'idea di «mettere in sicurezza» prima di tutto, come viene detto, l'attuale legge, nasconde la riserva mentale di non portarlo a conclusione il processo di riforme costituzionali e di restaurare semplicemente il proporzionale puro.

Friday, May 17, 2013

Governo, andamento troppo lento

Anche su Notapolitica

Il Consiglio dei ministri di oggi non ha partorito alcun provvedimento degno di nota. Più che altro simbolica l'eliminazione degli stipendi di ministri, viceministri e sottosegretari che siano anche membri del Parlamento. Poi solo sospensioni (l'Imu sulla prima casa fino al 16 settembre), annunci (la riforma complessiva delle tasse sugli immobili, a settembre), e proroghe (i precari della pubblica amministrazione). Rifinanziata la Cig in deroga, perpetuando così uno strumento assistenziale che non aiuta né il sistema produttivo a ristrutturarsi né i lavoratori a cercarsi una nuova occupazione. Di una riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali – una delle urgenze del paese – nemmeno si parla. Solo una revisione dei criteri di concessione della Cig in deroga, previo il solito «dialogo» concertativo con le parti sociali, che da decenni produce solo dannose e confusionarie controriforme.

L'unica decisione di rilievo è il cambio ai vertici della Ragioneria generale dello Stato. Fuori Canzio, dentro Daniele Franco, direttore centrale dell'area ricerca economica e relazioni internazionali della Banca d'Italia. Di buono c'è che è finalmente smantellata la struttura tremontiana, molto probabilmente corresponsabile dell'immobilismo dell'ultimo ventennio. Una mossa, quindi, che da sola potrebbe valere più di una riforma, ma tutta da verificare. Dipenderà tutto da quanto il dottor Franco vorrà, e saprà, aprire un nuovo corso, rivoluzionare la Ragioneria generale, che se da un lato è irrinunciabile guardiano dei conti, dall'altra in questi anni non ha certo brillato per trasparenza, esercitando un potere d'interdizione quasi sacerdotale, basato sul ricatto di una conoscenza senza pari del bilancio pubblico. Troppo spesso le sue valutazioni sono apparse a numerosi ministri e parlamentari molto poco tecniche, anzi veri e propri giudizi politici in funzione di un approccio conservativo sul bilancio pubblico.

L'unica chance di rianimare, ma a questo punto diremmo quasi risuscitare, la nostra economia, è quella indicata sul Corriere della Sera da Alesina e Giavazzi, ed è basata su un vero e proprio shock fiscale e una profonda revisione del bilancio pubblico: meno tasse e meno spesa pubblica per 50 miliardi di euro in 3 anni:
«Proporre all'Ue un piano di riduzione immediata delle imposte: l'Imu, ma soprattutto le imposte sul lavoro. Diciamo per un ammontare dell'ordine di 50 miliardi che abbasserebbe la pressione fiscale di circa tre punti, contribuendo alla ripresa dell'economia. Contemporaneamente adottare un piano di riduzione graduale ma permanente delle spese: un punto di Pil di tagli all'anno per tre anni».
E' la via coraggiosa che i due economisti suggeriscono al premier Letta e al ministro Saccomanni di intraprendere, invece di perdersi nei decimali di punto che ci separano dal tetto deficit/Pil del 3% imposto dall'Ue. Ma implica una scelta filosofico-strategica che non sembra essere nelle corde di questo governo. Sia culturalmente, sia per la mancanza di coraggio, dal momento che significherebbe scommettere sulla crescita, quindi sulle riforme, anziché su una mera manutenzione della finanza pubblica. Credere, cioè, che si possa rientrare nella soglia del 3%, e arrivare al pareggio strutturale, attraverso la crescita del Pil e non la riduzione del numeratore.

L'esito piuttosto sterile, anche negli obiettivi annunciati, del primo Consiglio dei ministri rafforza il sospetto che l'orizzonte temporale del governo Letta sia al momento piuttosto ristretto: superare l'estate, sembra per ora l'obiettivo che si sono posti il governo e le principali forze politiche che lo sostengono, rimandando a settembre la verifica sulle reali ambizioni della "strana" grande coalizione.

Wednesday, May 15, 2013

Tre Watergate per Obama

Anche su Rightnation.it

Tre scandali ciascuno dei quali, preso singolarmente, somiglia terribilmente ad un Watergate per il presidente Obama. A differenza di Nixon, manca (ancora) la "pistola fumante" che lo collega personalmente ai misfatti della sua amministrazione, ma politicamente ne è comunque responsabile: il "cover up" (l'insabbiamento) dell'attentato al consolato americano di Bengasi; la condotta persecutoria dell'Irs (l'agenzia delle entrate Usa) nei confronti dei suoi avversari politici; lo spionaggio ai danni dell'agenzia di stampa Ap. Ma le polemiche infuocate che oltreoceano si stanno abbattendo su Obama in Italia vengono relegate nelle ultime pagine dei giornali, o in fondo alle homepage dei siti internet, e solo accennate nei notiziari tv e radio, mentre si è letto di tutto, e viene discusso ogni singolo aspetto, della decisione di Angelina Jolie di farsi asportare i seni per "prevenire" il tumore. L'effetto è quello di una gigantesca operazione di distrazione di massa, che non sarebbe riuscita così bene se fosse stata orchestrata, mentre è solo il frutto del conformismo dei mainstream media.

SPIONAGGIO AP - Per due mesi (aprile-maggio 2012) il Dipartimento di Giustizia ha tenuto sotto controllo 20 utenze telefoniche dell'Associated Press, intercettando a loro insaputa le conversazioni di un centinaio di giornalisti, a caccia della talpa che dall'interno dell'amministrazione passava informazioni riservate all'agenzia di stampa. Un'azione così prolungata e invasiva, per altro non autorizzata dal procuratore generale in persona, Eric Holder, come da regolamento, ma dal suo vice Jim Cole, è senza precedenti. Che funzionari del governo abbiano messo sotto controllo un centinaio fra reporter, caporedattori e direzione, in pratica l'intera redazione centrale della maggiore agenzia di stampa Usa, ha il sapore del Watergate.

Se Hunt e Liddy erano i cosiddetti "plumbers" del presidente Nixon, un team ristretto incaricato di dare la caccia alle talpe interne all'amministrazione, Obama ha usato a questo scopo il Dipartimento di Giustizia, deputato a questo tipo di indagini. Peccato però che abbia fatto ricorso a metodi sporchi, a rischio di incostituzionalità, tanto da suscitare la vibrante indignazione anche del leggendario reporter del caso Watergate Carl Bernstein: «E' vergognoso, pericoloso, non ci sono scuse». Un «evento nucleare», l'ha definito Bernstein, secondo cui il vero scopo dell'indagine era intimidire chi parla con i giornalisti. Ed è irrilevante che la Casa Bianca non ne fosse al corrente, dal momento che scovare e punire le talpe è una politica centrale della presidenza Obama: ne ha perseguite penalmente già sei, più di tutti i predecessori messi insieme. Stavolta anche la stampa amica del presidente, dal Washington Post al New York Times, non ha potuto far altro che esprimere forti preoccupazioni e biasimare i metodi dell'amministrazione, che rischia di trovarsi in violazione del I emendamento (che tutela la libertà di stampa) e del IV (che garantisce i cittadini contro indebite violazioni della sfera personale). Niente di lontanamente paragonabile al caso dell'agente Valerie Plame per cui fu messo in croce Bush.

CASO IRS - E sa di Watergate anche il caso dell'Irs, l'agenzia delle entrate Usa, che ha preso intenzionalmente di mira, trattandole come sospetti evasori, associazioni di destra, del movimento anti-tasse o che proclamano di voler difendere la Costituzione, ossia i più acerrimi nemici dell'amministrazione Obama, per la sola presenza di parole come "tea party" o "patriot" nel loro nome. Le loro pratiche per l'esenzione dal pagamento delle tasse hanno subito un deliberato ostruzionismo da parte dell'Irs (ritardi e controlli non necessari). Per oltre 18 mesi dal 2010, afferma un rapporto del Dipartimento del Tesoro citato dalla Cnn, l'Irs ha sviluppato e applicato una politica scorretta per determinare se i richiedenti fossero o meno coinvolti in attività politiche.

Condotta «inappropriata», ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Jay Carney. «No, usare per il piatto principale la forchetta per l'insalata è inappropriato. Usare l'Irs per scopi politici è un reato», ha osservato l'editorialista del WaPost George Will, che parla di «echi di Watergate». Ecco quanto si legge, infatti, tra gli articoli per l'impeachment contro Nixon, adottati nel 1974 dalla Commissione giudiziaria della Camera. «He (Nixon, ndr) has, acting personally and through his subordinates and agents, endeavored to... cause, in violation of the constitutional rights of citizens, income tax audits or other income tax investigations to be initiated or conducted in a discriminatory manner».

BUGIE SU BENGASI - Amministrazione Obama sotto accusa anche per la gestione dell'attentato al consolato di Bengasi dell'11 settembre scorso. Dalle audizioni del Congresso sta emergendo che non solo c'è stata una vera e propria operazione di insabbiamento della natura dell'attacco e della ricostruzione degli eventi, ma che si poteva fare molto di più per salvare la vita dell'ambasciatore e delle altre tre vittime americane. La testimonianza dell'ex vice ambasciatore Gregory Hicks, secondo cui le forze speciali americane sarebbero potute intervenire ma avrebbero ricevuto l'ordine di non muoversi, contraddice quanto detto in precedenza dall'amministrazione, e in particolare dall'ex segretario di Stato Hillary Clinton. La matrice terrorista dell'attacco al consolato, inoltre, fu chiara fin dai primi momenti e a Washington ne erano perfettamente al corrente, ma giorni dopo ancora si sosteneva la versione delle proteste per un video amatoriale su Maometto.

Le e-mail scambiate durante e dopo la crisi fra Dipartimento di Stato, Cia, direttore dell'intelligente e Casa Bianca, e consegnate al Congresso, avvalorano la tesi di Hicks. L'ufficio sicurezza del Dipartimento comprese subito, ad assalto in corso, che si trattava di jihadisti. Il primo rapporto della Cia parlava di «estremisti di Al Qaeda», alcuni «legati ad Ansar al Sharia», ma queste frasi vennero fatte sparire nelle versioni successive su richiesta di una portavoce del segretario di Stato Clinton. Nell'ultima, al posto di «attacco» si parla di «violente dimostrazioni», e ogni riferimento ad Al Qaeda è sostituito da un generico «estremisti». Non solo, dunque, un insabbiamento mediatico nei giorni immediatamente successivi all'attacco e - ricordiamo - vicinissimi al voto per le presidenziali, ma anche un insabbiamento, dinanzi al Congresso, degli errori commessi dall'amministrazione.

Nessun altro presidente americano, probabilmente, ha beneficiato come Obama di una narrazione, e di conseguenza di una copertura mediatica, così positiva. Si può dire che sia addirittura diventato presidente grazie a quella narrazione così carica di passione e speranza. Ora però pesantissimi dubbi si stanno addensando sui metodi con cui Obama e la sua amministrazione "curano" la narrazione degli eventi e si occupano degli avversari politici: manipolazione, intimidazione e violazione dei diritti costituzionali.

Tuesday, May 14, 2013

L'Imu mette ko il mercato immobiliare

Anche su Notapolitica e L'Opinione

La fotografia scattata dal rapporto di Abi e Agenzia delle Entrate sul mercato immobiliare è impietosa ma non sorprendente. Che l'Imu, associata alla stretta del credito in atto, avrebbe avuto effetti devastanti, da queste parti l'avevamo previsto fin dalla sua introduzione, nel dicembre 2011.

Ora ne abbiamo solo la conferma: nel 2012 il mercato immobiliare è letteralmente crollato. Rapidamente i dati essenziali: un calo del volume degli scambi del 25,7% rispetto al 2011 e il tasso tendenziale trimestrale (-19,5% nel I trimestre 2012 e -30,5% nell'ultimo) indica un ulteriore peggioramento nel 2013; oltre 150 mila compravendite in meno, 448.364 in tutto (quasi come nel 1985), per un valore complessivo stimato di 75,4 miliardi di euro rispetto ai 101,9 del 2011. In un anno, dunque, il settore ha perso scambi per 27 miliardi. Il che significa anche meno entrate per le casse dello Stato: per circa 12 miliardi in più, rispetto alla vecchia Ici, incassati grazie all'Imu, principalmente a causa dell'Imu un minor gettito dalle imposte di registro per una cifra che dovrebbe aggirarsi tra 1 e 2,7 miliardi, per effetto del crollo delle compravendite.

Calo significativo anche dei prezzi delle case: nel 2012 del 2,7%, ma nel IV trimestre del 4,4%, il secondo peggior dato dal 1980. Si prospetta quindi un 2013 altrettanto nero. Infatti nel primi tre mesi di quest'anno l'Abi stima un calo dei prezzi dell'1,1% rispetto all'ultimo già disastroso trimestre del 2012.

Molti economisti da salotto tv, e purtroppo anche molti economisti di scuola liberale, hanno sottovalutato l'impatto recessivo dell'Imu. Pensavano che colpendo il patrimonio non avrebbe avuto effetti troppo negativi sulla crescita, o comunque che sarebbe stata un'imposta «fra le meno dannose», molto meno dannosa e distorsiva di altre tasse, come l'Irap per esempio. In astratto poteva essere corretto, ma non si è considerato 1) che seppur calcolata su base patrimoniale, cioè in base al valore dell'immobile che si possiede, alla fine è sempre attingendo al proprio reddito personale, o ai ricavi d'impresa, che si paga l'Imu; e 2) che l'Irap deprime sì la nostra economia, le impedisce di crescere, anzi la condanna al declino, ma esiste da anni e probabilmente gli attori del sistema economico le hanno ormai preso le misure.

Il nuovo salasso, invece, si è abbattuto falciando tutto: consumi delle famiglie, utili delle imprese, valori immobiliari, quindi edilizia e banche. Il mercato immobiliare, il settore dell'edilizia erano sì in contrazione da anni, ma lentamente, mentre nel 2012 abbiamo assistito ad un vero e proprio crollo, uno "scalone", che non si può non spiegare principalmente con l'introduzione dell'Imu: solo nell'edilizia 200 mila posti di lavoro in meno in un anno.

Una riduzione piuttosto cospicua della rendita delle abitazioni comporta automaticamente anche una perdita del valore patrimoniale degli immobili degli italiani (soprattutto quelli di minor pregio e "popolari"). Su un patrimonio complessivo stimato di 5 mila miliardi, stiamo parlando di diverse centinaia di miliardi di minor ricchezza nazionale per una manciata di miliardi in più nel bilancio pubblico. A conti fatti per 10-12 in più rispetto alla vecchia Ici si rischia di infliggere un vero e proprio colpo di grazia alla nostra economia. Oltre al danno reale sul patrimonio, infatti, c'è l'effetto psicologico: la perdita di sicurezza anche nelle classi benestanti è causa di una minore propensione al consumo anche da parte di chi potrebbe permetterselo e, dunque, aggrava ulteriormente la crisi della domanda interna, portando alla chiusura di attività produttive e alla perdita di posti di lavoro.

La verità è che puoi inventarti la tassa più giusta, equa e meno distorsiva possibile, ma al livello di vera e propria spoliazione fiscale in cui siamo, anche un centesimo di euro in più di tasse, ovunque e comunque prelevato, avrebbe determinato effetti recessivi devastanti. L'Imu appariva anche a molti economisti di scuola liberale una tassa accettabile. E di fronte alla proposta propagandistica di Berlusconi di cancellarla, almeno sulla prima casa, e addirittura di restituire quanto versato nel 2012, si sono esercitati in una forma di "benaltrismo": ben altre sarebbero le tasse da tagliare. Un dibattito, purtroppo, che di fronte a questi dati rischia di rivelarsi poco più di una sterile disputa accademica.

Tra i tanti, Luca Ricolfi ha avuto l'onestà intellettuale di ammettere di aver sottovalutato l'impatto recessivo dell'Imu e di aver quindi «cambiato opinione», fino a dare ragione all'"antipatico" Brunetta, esortando su La Stampa a «parlare di tasse senza ideologie». Per esempio, considerare di tagliare l'Imu senza la riserva mentale di non dare ragione a Berlusconi, che ha imposto il tema al centro dell'ultima campagna elettorale.

L'introduzione dell'Imu nel dicembre 2011 poteva essere sostenibile se compensata da un alleggerimento del carico fiscale su altri fronti. Sarebbe dovuta essere una misura emergenziale, quindi temporanea, "una tantum", in attesa che il governo avesse il tempo di reperire dai tagli alla spesa pubblica le risorse necessarie a riequilibrare il bilancio. Peccato che una volta introdotta l'Imu, il governo Monti non abbia proceduto a tagliare la spesa in misura sufficiente ad alleggerire il carico fiscale.

Monday, May 13, 2013

Requisitoria da brividi. In che mani siamo?

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Bisogna sospendere anche i processi, per le frasi razziste pronunciate dai pm, come ieri sera è stata sospesa la partita Milan-Roma per i cori razzisti all'indirizzo di Balotelli? Se in un'aula di tribunale capita di ascoltare da una pm, durante la sua requisitoria, una frase vagamente razzista (nei confronti di una ragazza che, tra l'altro, secondo l'ipotesi accusatoria dovrebbe essere la vittima), come possiamo sorprenderci che in un contesto un po' più "popolare", allo stadio, un gruppetto di tifosi intoni "buuu" razzisti all'indirizzo di un calciatore di colore?

«Furba, di quella furbizia orientale propria delle sue origini». Questa la frase infelice pronunciata durante la sua requisitoria dalla pm Ilda Boccassini per spiegare i comportamenti di Karima El Mahroug. Ragazza che tra l'altro, essendo marocchina (e non egiziana, com'è stato appurato!), difficilmente può essere definita «orientale». Il ragionamento della pm sulla «furbizia» di Ruby appare viziato non solo da un pregiudizio vagamente razzista, ma anche sessista, laddove sembra accennare a quel particolare tipo di furbizia che usano le donne giovani e belle per ottenere i loro scopi. Che poi, la presunta «furbizia» imputata alla maghrebina Karima non sarebbe anche tipicamente italiana?

Se una frase del genere l'avessero pronunciata un leghista, o Berlusconi, è facile immaginare la quantità di reazioni veementi e indignate. Alla Boccassini, eroina della "resistenza" al berlusconismo per via giudiziaria, verrà perdonata dalla sinistra solidal-chic e politicamente corretta. Non sentiremo condanne né critiche da parte della presidente della Camera Boldrini né dal ministro dell'integrazione Kyenge. E immaginiamo come suonerebbe una frase simile nei confronti di Kabobo, tristemente famoso come il picconatore di Niguarda: "Feroce, di quella ferocia meridionale propria delle sue origini". Come la prenderebbero i concittadini ghanesi di Kabobo? Probabilmente come le concittadine marocchine di Karima.

Ma non è tutto. Dopo averla ascoltata nella sua interezza, ci verrebbe da assolvere Berlusconi solo sulla base della requisitoria della Boccassini, senza nemmeno bisogno di ascoltare l'arringa dei difensori. Una requisitoria che dovrebbe fondarsi su fatti circostanziati e prove inoppugnabili, tenuti assieme da una logica ferrea, risulta essere invece un minestrone di luoghi comuni, pregiudizi, moralismi, teoremi, fino a scadere nell'analisi psico-sociologica da bar. E le prove schiaccianti? Tutte in un "non poteva non sapere", "non si può non pensare", "non può non aver detto", "non c'è alcun dubbio che". Emerge sì uno spaccato di squallore, quello dell'imputato, ma anche tutto lo squallore di una magistratura che anziché alla caccia di reati eventualmente commessi sembra dare la caccia a "spaccati" di squallore, voler raddrizzare il "legno storto" degli italiani.

Il tutto espresso attraverso un eloquio stentato nell'incedere, povero nel lessico, sconnesso, sgrammaticato, al punto che la Boccassini non sembra in grado di accordare le desinenze di genere, numero e persona secondo le regole della concordanza della lingua italiana. Questa la trascrizione letterale delle sue parole: «Furba, di quella furbizia proprio orientale, dellE suE ORIGINE. Sfrutta... riesce in una... a sfruttare LA propriA essere extracomunitariA». Un appello rivolgiamo al ministro della Giustizia Cancellieri: nonostante le ristrettezze finanziarie, stanziare subito fondi per corsi di italiano e geografia per magistrati. E test Invalsi per le verifiche.

Da cittadini un inquietante dubbio ci assilla sul funzionamento del sistema giustizia nel suo complesso: se questo è il pm che sta processando un ex presidente del Consiglio in un tribunale importante come quello di Milano, dunque si suppone non sia l'ultimo dei pretori di una cittadina di provincia, chi si trovano di fronte i cittadini comuni, i poveri "ladri di polli"? Bisogna avere fiducia nella magistratura, ci viene ripetuto, bisogna difendersi "nel" processo e non "dal" processo. Poi ascolti una requisitoria come quella della Boccassini, un vero e proprio compendio del 90% dei problemi della giustizia italiana, e un brivido ti corre lungo tutta la schiena. No, grazie.

UPDATE ore 17:15
Ma l'apice di inciviltà giuridica viene toccato a conclusione della requisitoria, con la richiesta di condanna, o meglio "la" condanna, pare di capire dall'emblematico lapsus della Boccassini, che nei confronti dell'imputato Berlusconi usa le parole «la procura lo condanna», anziché la formula di rito «ne richiede la condanna». Come se fosse lei, non i giudici, a emettere la sentenza (il video). E forse è davvero così...

Friday, May 10, 2013

Non una Convenzione, ma servono convinzioni per le riforme

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Nel suo discorso per la fiducia il premier Enrico Letta aveva addirittura evocato le sue dimissioni, nel caso in cui dopo 18 mesi avesse constatato uno stallo dei lavori della Convenzione per le riforme. Ebbene, la Convenzione potrebbe non nascere nemmeno, stando alle ultime indiscrezioni. D'altra parte, perché correre il rischio di avvitarsi sul nome di chi dovrebbe presiederla? Quagliariello già vede crescere esponenzialmente la centralità del suo ministero, che senza Convenzione diventerebbe il vero e proprio motore del processo di riforme, naturalmente in collegamento con le commissioni parlamentari competenti.

Ma più importante della sede e delle formule è la volontà politica. Più che una "Convenzione", per le riforme servono convinzioni salde. Convinzione della necessità di fare sul serio, stavolta, volontà di cambiare il sistema, di superare inefficienze e farraginosità dei meccanismi decisionali; e convinzioni su dove, verso quale forma di governo si vuole approdare.

Il governo Letta, partito con i fattori di debolezza di cui abbiamo scritto qualche giorno fa, ha un solo modo per durare: fare cose. Se si ferma, se si limita a chiacchierare delle cose da fare, è destinato a cadere. E' ancora presto per parlare di inconcludenza dopo il rinvio alla prossima settimana del decreto su Imu e Cig in deroga - in fondo qualche giorno per un approfondimento tecnico ci sta tutto - ma certo restano tutte le incognite di un esecutivo che sembra nato più per scongiurare il ritorno alle urne a giugno, e per non fare uno sgarbo al presidente Napolitano appena rieletto, che sulla base di un accordo politico - nel senso di politiche da attuare - tra Pd e Pdl.

Non importa che sia un governo di legislatura, ma da alcuni segnali - il "mini-rinvio" della rata Imu, la Convenzione già tramontata, la ricerca delle coperture finanziarie nelle pieghe del bilancio anziché lavorare ad una vera e propria svolta di politica fiscale - si intuisce un programma troppo poco ambizioso e, di conseguenza, un orizzonte temporale ristretto. Ancora non è intellegibile la vera natura del governo Letta: se balneare, giusto il tempo di passare l'estate, o se davvero di "larghe intese". Più probabilmente la verità è che la sua identità è in fieri. Nessuno dei due principali azionisti della strana maggioranza - Pd e Pdl - ha ancora le idee chiare sulla sua missione e, quindi, la sua durata, ma nemmeno si pongono limiti a priori. Uno spazio di manovra che Letta e i suoi ministri non dovrebbero esitare a sfruttare.

Il Pd è la chiave di tutto: perché se il Cav non avrebbe dubbi a sostenere un processo riformatore, ripagato dalla legittimazione da parte dei suoi avversari e dell'establishment, e dal ruolo alla De Gaulle italiano che potrebbe vantare, più incerto è se il Pd sia davvero disposto a legittimarlo, se sia sincera in Letta, e condivisa nel suo partito, la volontà di pacificazione, o se invece si punta semplicemente a superare l'estate, magari incassando una riformicchia elettorale prima di tornare al voto, come suggerito da D'Alema nei giorni scorsi.

Se la via delle riforme costituzionali verrà seriamente intrapresa, allora la legge elettorale non potrà che arrivare a coronamento del processo "ri-costituente". Pretendere, invece, di cominciare dalla riforma del sistema di voto può voler dire che si ha in mente un governo semi-balneare e non di "larghe intese", una tregua e non una vera pacificazione. Peccato che, parafrasando le parole attribuite a Kissinger sull'Europa, in questo momento a voler parlare con il Pd non si sa nemmeno chi chiamare. Mancano interlocutori attendibili, in grado di assumere impegni ai quali tutto il partito si senta vincolato.

Dunque, in queste prime settimane in cui Pd e Pdl sembrano più che altro studiarsi a vicenda, sta a Letta incardinare la rotta delle riforme, economiche e costituzionali, impegnare i gruppi parlamentari, e occupare il dibattito politico, sui contenuti. Se tergiversa, se temporeggia, rischia di soccombere al ritorno dei rispettivi tatticismi. Deve rendere al più presto visibile, a portata di mano, la prospettiva di vere, sostanziali riforme, così da rendere il più possibile costoso politicamente affossarla in nome del ritorno alla logica dello scontro e della demonizzazione dell'avversario. Ma ciò implica, naturalmente, che il Pd decida definitivamente cosa vuol essere: se una forza di governo aperta a ricevere la fiducia della maggioranza degli italiani, o se un'incattivita forza identitaria chiusa nel recinto ideologico e lamentoso di un 20% di cittadini.

Thursday, May 09, 2013

Imu, la stangata continua (e raddoppia)

Anche su L'Opinione e Notapolitica

Ieri abbiamo scoperto... anzi, abbiamo avuto la conferma, che il governo tecnico guidato da Mario Monti è stato molto poco "tecnico", piuttosto dilettantesco, nella scrittura delle leggi. E' durissima, infatti, la relazione della Corte dei Conti sui provvedimenti degli ultimi tre mesi del 2012 - legge di stabilità e decreto sviluppo - con il governo Monti ancora nella pienezza dei suoi poteri. Scarsa attendibilità delle stime sugli effetti finanziari; previsioni di gettito «ottimistiche»; coperture «inaffidabili» e addirittura «improprie», testi «disorganici» ed eterogenei. E la legge di stabilità che di fatto «non realizza la manovra».

Ma resta l'Imu l'eredità più pesante lasciata dal governo Monti. La drammatica ristrettezza di spazi di manovra fiscale in cui ci troviamo è ben rappresentata dalle indiscrezioni di queste ore sui primi atti che dovrebbero uscire dal Consiglio dei ministri convocato per le 18: i soldi per il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga arriveranno probabilmente da fondi stanziati per la formazione e i salari di produttività. E quanto all'Imu, per la sospensione della rata di giugno si parla solo di un "mini-rinvio" di 3 mesi, al 16 settembre. E ovviamente solo sulla prima casa.

Di cui si parla fin troppo, è vero, considerando che rappresenta una parte minoritaria del gettito complessivo (4 miliardi su 24), ma forse perché è la tassa più odiosa, dal momento che gli italiani hanno sostenuto, e molti ancora stanno sostenendo, grandi sacrifici per pagare i loro mutui, con redditi e/o risparmi già abbondantemente tassati. Ma non va dimenticato che l'Imu pesa sulla nostra economia soprattutto per la parte che grava - direttamente, o indirettamente a causa dei canoni di affitto sempre più proibitivi - sui capannoni e gli immobili industriali o commerciali. A ricordarcelo oggi è il Sole24Ore: sulle imprese volteggia la scure di una ulteriore doppia stangata Imu già prevista a legislazione vigente.

Quest'anno, infatti, il moltiplicatore su cui si basa il calcolo dell'imposta passa da 60 a 65, un aumento dell'8,33%. Inoltre, a differenza dell'anno scorso, nel 2013 il gettito derivante dall'applicazione dell'aliquota standard su questa tipologia di immobili, fissata al 7,6 per mille, andrà interamente allo Stato centrale. Dunque, i Comuni che nel 2012 avevano applicato un'aliquota inferiore, dovranno adeguarsi al 7,6 per mille, non potendo certo incidere negativamente sulla riserva statale. E se riterranno di avere necessità di ricavare anche risorse proprie dall'imposta, saranno liberi di aumentare l'aliquota fino al 10,6 per mille. Rispetto a 12 mesi fa, calcola sempre il Sole24Ore, le imprese dovranno sostenere aumenti del 51,1%, del 106%, e addirittura del 187%, a seconda delle città.

Come si vede, quando la pressione fiscale complessiva raggiunge livelli così insopportabili come in Italia, si fa sempre più fatica a distinguere chi e cosa esattamente si va a colpire: l'Imu è una tassa patrimoniale, perché calcolata in base al valore dell'immobile che si possiede, ma alla fine è sempre con il proprio reddito personale, o con i ricavi d'impresa, che si paga. Quale rendita viene colpita? Non si colpiscono, piuttosto, capacità di consumi e d'investimenti? «Nessuno ha mai visto una casa pagare le tasse. A saldare i conti col fisco sono sempre persone in carne ed ossa, le quali di norma lo fanno attingendo ai propri redditi», ha scritto Alberto Mingardi su La Stampa.

Come abbiamo osservato ieri, dunque, i nostri problemi vanno ben oltre i 4 miliardi dell'Imu sulla prima casa. L'inasprimento della tassazione sugli immobili avrebbe dovuto permettere un generale riequilibrio del carico fiscale, orientato a favorire la crescita, quindi doveva essere compensato almeno in parte da un minor prelievo dai redditi e dalle attività produttive. Noi italiani, d'altronde, nel novembre 2011 pagavamo sugli immobili meno tasse degli altri europei. Con questi argomenti veniva giustificata la stangata dell'Imu dall'ex premier Monti, dai suoi ministri e da molti "autorevoli" economisti-commentatori.

Peccato che ora - ma qui si sapeva come sarebbe andata a finire - ci ritroviamo con l'imposizione sugli immobili tra le più alte d'Europa, ma non s'è visto alcun "riequilibrio" su altri fronti di imposta, sul lavoro e sull'impresa. I 24 miliardi di Imu sono serviti tutti a fare cassa e nessun taglio alla spesa postumo (o recupero di evasione fiscale) è stato dirottato a ridurre altre tasse. All'enorme sacco di Stato ai danni di cittadini e imprese si sono semplicemente sommati 24 miliardi. Questi 24 miliardi - tagliando l'Irap o tagliando l'Imu - vanno restituiti se si vuole allentare il cappio al collo della nostra economica. Non serve a molto ora chiedersi quali tasse valga la pena tagliare, il problema è la volontà e la capacità di tagliare la spesa pubblica.

Wednesday, May 08, 2013

Tagliare Imu o Irap? Un falso dilemma

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Abolire l'Imu sulla prima casa, o cominciare a tagliare il costo del lavoro, per esempio l'Irap? Un po' come chiedersi se sia preferibile un uovo oggi o una gallina domani, laddove l'abolizione dell'Imu sarebbe forse l'uovo e il taglio dell'Irap la gallina. Non c'è dubbio, infatti, che dal punto di vista razionale della teoria economica, a parità di risorse una riduzione del costo del lavoro avrebbe un effetto più virtuoso su crescita e occupazione. Sarebbe però un errore sia sottovalutare l'impatto recessivo dell'Imu - anche indiretto, psicologico - sulla domanda interna, sia sopravvalutare le cifre che vengono evocate.

Innanzitutto, se è vero che il versamento medio dell'Imu sulla prima casa è stato di 225 euro, è anche vero che dagli stessi dati ufficiali emerge che una fetta rilevante di popolazione, soprattutto nelle grandi città, ha pagato cifre ben oltre la media e che non si può stabilire una corrispondenza attendibile tra le fasce più ricche di contribuenti e coloro che hanno versato un'imposta anche molto superiore alla media. Se il 6,79% dei contribuenti ha pagato in media 961 euro, affinché il versamento medio di chi dichiara oltre i 120 mila euro (solo l'1,01%) possa fermarsi a quota 629 euro, molti di costoro devono aver pagato centinaia di euro in meno, e molte centinaia in più molti di coloro che dichiarano meno di 120 mila euro. Oltre all'aspetto numerico, poi, conta quello psicologico, dal momento che l'Imu pesa sui bilanci famigliari proprio in corrispondenza dell'inizio delle ferie estive (e i saldi) e del periodo natalizio, quando la propensione ai consumi potrebbe aumentare.

Se di 4 miliardi si tratta, che sia l'Imu o l'Irap ad essere tagliata, cambierebbe poco. Sollievo sì, ma probabilmente più psicologico che sostanziale. Più momentaneo che duraturo. L'Italia ha bisogno di tutt'altro shock fiscale per riconomiciare a crescere. Dunque, perché accapigliarsi tra abolizione dell'Imu sulla prima casa e taglio dell'Irap? Perché i due interventi dovrebbero essere in contrasto tra di loro? Si sa che le risorse sono per definizione scarse, anzi nel nostro caso persino inesistenti. Si sente quindi parlare di "coperta troppo corta", per cui ovunque la si tiri c'è sempre una parte che rimane scoperta. E se invece la coperta fosse lunga, addirittura troppo lunga, ma ci fosse qualcuno che la tira tutta dal suo lato?

Possiamo permetterci una spesa pubblica ormai oltre la metà del Pil? Su 800 miliardi di spesa pubblica l'anno (720 circa al netto degli interessi sul debito), può spaventare un taglio dell'1, del 2 o del 3%? E lo Stato non possiede asset vendibili per abbattere in tempi congrui di un 10 o 20% lo stock di debito pubblico, così da farci risparmiare miliardi di interessi l'anno? La sensazione è che come al solito la questione sia di volontà e capacità politica e che la scelta, posta in termini quasi esistenziali, tra Imu e Irap sia un falso dilemma.

Ci si meraviglia che tutto il dibattito sugli interventi più urgenti di politica economica ruoti attorno all'Imu sulla prima casa. Ma se da una parte è vero che il tema viene usato da Berlusconi e dal Pdl come cavallo di battaglia elettorale, dall'altra la strenua opposizione alla sua abolizione sembra altrettanto ideologica, e contribuisce anch'essa a conferire al tema una centralità, rispetto alle sorti del paese, che probabilmente non merita. Forse tutta questa resistenza per non concedere una vittoria al "caimano", ma bisognerebbe considerare che eliminando l'Imu sulla prima casa si priverebbe una volta per tutte Berlusconi di un formidabile strumento di propaganda elettorale (e 4 miliardi in più tra consumi e depositi in banca non fanno certo male all'economia).

Insomma, c'è un accanimento sproporzionato sull'Imu, ma bidirezionale, da parte di chi ne propone l'abolizione, ma anche da parte di chi vi si oppone, dal momento che la cifra di cui parliamo non può far tremare un bilancio da 800 miliardi annui. Davvero tra questi 800 non se ne possono trovare 4 da tagliare (lo 0,5%)? Qualcuno iniziò la campagna elettorale minacciando che se l'Imu fosse stata abolita, sarebbe dovuta essere reintrodotta molto presto ma raddoppiata. Quello stesso candidato durante la campagna avrebbe poi corretto il tiro ammettendo la possibilità, e l'opportunità, di un alleggerimento. Ebbene, in ogni caso a quelle minacce gli italiani non hanno creduto e tuttora non credono.

Per quanto riguarda l'Irap, da tutti gli economisti definita la tassa più recessiva e distorsiva che grava sulle attività produttive, si può cominciare a tagliarla sensibilmente senza rinunciare all'abolizione dell'Imu sulla prima casa. Si può fare sfoltendo un capitolo della spesa pubblica a sua volta distorsivo e per lo più improduttivo: quello dei sussidi alle imprese. Producendo quindi un effetto doppiamente virtuoso. Da quasi un anno, dal luglio scorso, è pronto il rapporto Giavazzi che individua ben 10 miliardi di tagli ai sussidi da destinare speficamente alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Perché non se ne parla più? Si può correggere, migliorare, ma dai sussidi per poche imprese (solo meglio rappresentate), non dall'Imu sulla prima casa, si possono prelevare le risorse per ridurre il costo del lavoro per tutte.