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Monday, July 25, 2016

Il Califfato di Erdogan con l'aiuto dell'Europa

Pubblicato su The Fielder

Il capo dell'Isis al-Baghdadi starà provando un pizzico di invidia per il presidente turco Erdogan, che sta riuscendo, lui sì, a metter su un vero Califfato, dentro la Nato e con un piede nell'Ue. Una battuta, ma non troppo... Considerando la rapidità con cui Erdogan, appena scampato al golpe, ha dato il via all'epurazione di massa cui assistiamo da giorni, è probabile che avesse pronte da tempo le liste di nomi da epurare e che i golpisti abbiano agito mossi dalla fretta e dalla disperazione, giocando il tutto per tutto nel tentativo di anticipare una purga comunque imminente.

A giochi fatti, e a denti stretti, il presidente Obama e i leader europei hanno espresso il loro sostegno al governo "democraticamente eletto", nonostante la deriva autoritaria e islamista nella Turchia di Erdogan fosse ormai chiara da anni. Si sono trincerati dietro un mero formalismo (dal momento che la democrazia non si esaurisce certo nel voto popolare), ma è stata la loro stessa incauta realpolitik a costringerli a tenersi buono (per l'accordo sui migranti e la guerra all'Isis) un partner imbarazzante e inaffidabile. La Turchia è altro, e guarda altrove, rispetto al Paese che nel dicembre 1999 il Consiglio europeo accettò come candidato all'adesione. La Turchia laica, kemalista, quasi democratica è morta e sepolta in poco più di dieci anni e proprio sotto lo sguardo benevolo dell'Europa.

Molti non se ne sono ancora accorti, o fingono di non accorgersene. La tesi continua a essere che in fondo è colpa nostra. Perché non abbiamo aperto le porte alla Turchia quando avremmo dovuto, li abbiamo "respinti", abbiamo fatto "i difficili" sui numerosi capitoli dei negoziati. Sarebbe quindi venuto meno un importante incentivo per proseguire sulla strada della democrazia e dello stato di diritto e ora rischiamo che la Turchia, delusa, rivolga altrove la propria attenzione geopolitica, alla Russia o all'Iran.

Dobbiamo smetterla con questa visione eurocentrica per cui "gli altri", Putin e adesso Erdogan, agiscono solo in reazione alla frustrazione delle loro presunte aspettative su di noi, e non secondo loro ambizioni geopolitiche. Giuste o sbagliate, agiscono indipendentemente da cosa fa e dice l'Europa.

E' questo purtroppo uno dei frutti avvelenati dell'ideologia europeista. La convinzione che l'Unione europea fosse un progetto inevitabilmente destinato a magnifiche sorti e progressive ha alimentato, a cavallo degli anni 2000, un vero e proprio delirio di onnipotenza. C'è stato, in effetti, un momento in cui il progetto europeo emanava un "soft power" tale da attrarre e indurre miglioramenti nei Paesi candidati all'adesione o all'associazione. Ma quel periodo, in cui l'Ue sembrava potesse trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse, è ampiamente alle nostre spalle. Se rientrava nella "mission" europea l'adesione dei Paesi dell'Europa orientale appena liberatisi dal giogo sovietico, per una vera riunificazione del continente, fu un clamoroso abbaglio pensare che si potesse includere anche la Turchia, sulla base dei suoi stretti legami con l'Occidente e la natura laica delle sue istituzioni.

L'ancoraggio di Ankara all'Occidente, attraverso la sua appartenenza alla Nato, si deve principalmente alle circostanze della Guerra Fredda e alla modernizzazione kemalista. Ma crollata l'Unione sovietica, venuti meno i vincoli della Guerra Fredda, era logico aspettarsi che rivolgesse altrove la sua attenzione geopolitica, non appena avesse avuto forza e consapevolezza. E in nemmeno due decenni anche la laicizzazione forzata di Ataturk si è sciolta come neve al sole, rivelandosi effimera e superficiale rispetto alla più profonda identità religiosa e culturale islamica del Paese, che ha attraversato il kemalismo come un fiume carsico per poi riemergere prepotentemente.

Dopo il crollo sovietico, come ha spiegato il prof. Alessandro Grossato, orientalista della Facoltà teologica del Triveneto, in un saggio apparso nel 2010 sulla "Rivista di Politica", l'Islam ha ripreso a manifestarsi e a diffondersi dai Balcani alla Turchia, dal Caucaso all'Asia centrale, fino alla comunità uigura nello Xinjang cinese, grazie all'opera di confraternite sufi come la Naqshbandiyya. Molto attiva in Turchia dai tempi di Ataturk, questa confraternita, praticando l'arte della dissimulazione, in arabo taqîya, ovvero tenere nascosta la propria identità islamica, ha giocato un ruolo centrale nella sopravvivenza dell'islam turco, ponendo le basi per la sua rinascita anche politica quando le circostanze lo hanno permesso. Attraverso movimenti culturali e fondazioni caritatevoli, la Naqshbandiyya ha coltivato la futura base elettorale di quelle che saranno, di lì a qualche decennio, le prime formazioni politiche dichiaratamente islamiche, nonché la classe dirigente, riuscendo persino a infiltrare, grazie alla perfetta applicazione dell'arte della dissimulazione, alcuni dei propri affiliati ai vertici dello Stato (come il due volte primo ministro ed ex presidente Turgut Özal).

Nel 1995, Necmettin Erbakan, conduce per la prima volta alla vittoria, in regolari elezioni, un partito dichiaratamente islamico, il "Partito del Benessere". Ma dimenticando le regole della taqîya Erbakan manifesta fin da subito le sue intenzioni di liquidare il kemalismo, spingendo le forze armate al golpe "morbido" del 1997. Ma ormai il processo si era messo in moto. Nel novembre del 2002, complici le cattive condizioni di salute dell'anziano primo ministro Ecevit e la grave crisi politica e sociale del Paese, i militari non possono impedire al partito di Erdogan, l'Akp, solo apparentemente più moderato del precedente di Erbakan, di partecipare alle elezioni. Le vittorie del 2002 e del 2007 sono tali da rendere impraticabile un golpe "morbido".

E qui veniamo al rapporto strumentale di Erdogan con l'Unione europea (e con la democrazia) e al secondo, drammatico sbaglio delle élite europee. Erdogan (e prima di lui Turgut Özal, che nel 1987 inoltrò la domanda formale di adesione alla Ue) ha capito che il processo di integrazione nell'Ue poteva rappresentare un mezzo per scardinare il sistema kemalista e favorire la rinascita dell'islam turco, sia sul piano religioso che su quello politico. Proprio le riforme fortemente richieste dall'Ue quale condizione preliminare per avviare il processo di adesione - libertà d'espressione, apertura democratica, fine dell'ingerenza delle forze armate nella politica - erano la migliore garanzia per i partiti e i movimenti culturali islamici contro la spada di Damocle che le forze armate e la magistratura avrebbero potuto ancora calare sulle loro teste per salvare il sistema kemalista. Sempre in un'ottica eurocentrica, agli occhi degli europei era il ruolo dei militari, non l'islam politico, ad essere incompatibile con una Turchia democratica. Che svista!

Diversa la sorte del governo islamista di Morsi in Egitto, anch'esso democraticamente eletto ma fatto fuori dal golpe del generale Al-Sisi. L'errore di Morsi è stato quello di gettare subito la maschera, procedere a un'islamizzazione a tappe forzate, tra l'altro dimostrando una totale imperizia economica. Erdogan è stato molto più abile: si è presentato come moderato (salutavamo il suo Akp come il corrispettivo islamico della democrazia cristiana, ricordate?), ha dissimulato, ha garantito anni di crescita economica sostenuta e senza precedenti. E quando il golpe è arrivato, era ormai troppo tardi perché potesse riuscire. Ci ha messo un decennio, ma ora può permettersi di abbandonare almeno in parte la pratica della dissimulazione e raccoglierne i frutti.

Erdogan si è servito della democrazia (e dell'Europa) come un tram: "Quando arrivi alla tua fermata, scendi", ebbe a dire lui stesso durante il suo mandato da sindaco di Istanbul dal 1994 al 1997. Una volta sdoganato l'islam politico, rafforzato il suo potere, liquidato il kemalismo, ora che il processo di islamizzazione delle istituzioni è compiuto non ne ha più bisogno. E anche dall'Ue ha ottenuto tutto ciò che gli serviva. Non c'è motivo per cui ora debba temere la minaccia di un "no" a un'adesione che non ha mai voluto e che rischierebbe anzi di inquinare l'identità islamica della nuova Turchia e di legargli le mani rispetto alle nuove ambizioni geopolitiche.

Sciagurato anche il recente accordo sui migranti che l'Ue, Berlino in testa, ha negoziato con Ankara, di fatto appaltando a Erdogan la sicurezza dei confini dell'Europa. Nelle sue mani il rubinetto del flusso di profughi che dalla Siria tentano di raggiungere l'Europa attraverso l'Egeo e la rotta balcanica può trasformarsi in una potente arma di ricatto.

Ma dove vuole arrivare Erdogan? All'interno, dunque, la rinascita islamica. Sul piano internazionale, un radicale riposizionamento geopolitico. Grazie all'indulgenza americana ed europea, finora l'appartenenza alla Nato e il negoziato per l'ingresso nell'Ue non hanno impedito a Erdogan di proiettare sempre più l'influenza della Turchia in tutt'altre direzioni, ma è chiaro che il nuovo ruolo di Ankara nel mondo passa per la progressiva emancipazione dall'Occidente. Il primo segnale già nel 2003, quando Erdogan rifiutò il passaggio attraverso il territorio turco della Quarta divisione di fanteria americana verso il fronte settentrionale iracheno.

L'importanza strategica della Turchia deriva dalla sua particolare collocazione geografica, crocevia tra Europa e Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale, ma anche dalle sue identità culturali (quella islamica e quella turcofona) e dall'eredità ottomana. Tutti elementi che fino ad ora Erdogan è riuscito a combinare con un equilibrismo quasi perfetto.

Innanzitutto, l'appartenenza islamica, quindi i vicini Paesi arabi, in particolare Siria, Iraq e palestinesi, ma anche i lontani Qatar e Arabia Saudita, e persino l'Iran sciita. Il punto è che tutte le sue abili e spesso contraddittorie manovre si spiegano con l'intenzione di sfruttare qualsiasi opportunità - e la cosiddetta "primavera araba" ne ha offerte molte - per far emergere la Turchia come Paese guida e modello per il mondo sunnita al posto dei declinanti Egitto e Arabia Saudita.

La gestione della crisi siriana è emblematica delle sue doti di equilibrismo, del saper tirare al massimo la corda senza spezzarla. Fin tanto che la priorità dell'Occidente sembrava essere quella di sbarazzarsi del regime di Assad, ha permesso agli aerei russi di raggiungere la base siriana di Tartous, senza che la Nato potesse far nulla. Fino all'estate scorsa ha negato l'utilizzo della base Nato di Incirlik per bombardare l'Isis. Poi l'abbattimento del jet russo e le accuse di Mosca sul suo flirt con l'Isis in funzione anti-Assad e anti-curda. Ha ostacolato il processo politico di Ginevra, cercando di escludere i curdi e di includere gruppi islamisti. Infine, proprio nei mesi precedenti il tentato golpe, e quando Usa e Russia hanno finalmente iniziato a collaborare in funzione anti-Isis, rischiando di finire isolato si è riallineato. Un prezzo l'ha pagato: l'Isis ha punito la sua ambiguità con l'attentato all'aeroporto Ataturk di Istanbul.

Il protagonismo turco nella crisi siriana ha l'obiettivo di mostrarsi al mondo sunnita come potenza regionale in grado di contenere, e se possibile respingere l'influenza iraniana, in ascesa in tutta l'area dall'Iraq alla Siria e al Libano, e di giocare alla pari con Usa e Russia (nonché ovviamente di debellare la minaccia curda). Né va dimenticato il tentativo di giocare un ruolo sul futuro della martoriata Libia. E già da anni, l'appoggio senza precedenti di Ankara alla causa palestinese, e soprattutto a quella di Gaza (e, quindi, di Hamas), con le conseguenti tensioni con Israele, aveva garantito di per sé una forte legittimazione da parte di tutte le masse arabe.

Ma Erdogan ha saputo allo stesso tempo instaurare rapporti di buon vicinato, e di relativa collaborazione, anche con Teheran. Il presidente iraniano Rouhani ha salutato la sconfitta del golpe molto più calorosamente di Obama e dei leader europei. E oltre ai rapporti economici, nonostante si trovino su fronti contrapposti nella crisi siriana, i due Paesi collaborano su singole questioni come quella curda e sul nucleare. Ricordiamo le operazioni militari congiunte turco-iraniane contro la guerriglia curda lungo il confine tra i due Paesi. E il sostegno di Ankara a una soluzione diplomatica sul nucleare iraniano, riconoscendo a Teheran il diritto a dotarsi del nucleare civile. Chissà, un giorno potrebbe servire che Teheran ricambi il favore...

Ora Stati Uniti ed Europa non devono commettere l'ennesimo errore, non devono farsi prendere dall'ansia di corteggiare Erdogan, rafforzandolo, per paura di spingerlo nelle braccia russe o iraniane. Erdogan non vuole affatto finirci. Gioca alternativamente la carta Nato e la prospettiva europea nei confronti della Russia, e la carta Putin per dimostrare a Stati Uniti e Ue che ha un'alternativa rispetto all'alleanza occidentale. L'importante è mettersi in mezzo, sempre, giocando da imprevedibile guastatore o indispensabile alleato. Ma in realtà non vuole legarsi a nessuno. Prende ciò che può da entrambi i forni per rafforzarsi internamente e per scalare posizioni sul piano internazionale. Non vede la sua Turchia come membro dell'Ue, ma neppure dell'Unione eurasiatica (l'unione economica tra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia). Entrambe le membership sarebbero incompatibili con il ruolo di potenza egemone che intende esercitare in Medio Oriente e nel nuovo spazio eurasiatico, perché dovrebbe rispondere delle sue azioni in un caso a Bruxelles, nell'altro a Mosca.

Il riavvicinamento alla Russia non significa quindi che Erdogan voglia sposarsi a Putin, né d'altra parte Putin intende accoglierlo a braccia aperte. Primo, perché il livello di fiducia è ancora troppo basso: Putin non si fida. Non scordiamoci che Mosca ha accusato esplicitamente Ankara di fornire appoggio all'Isis, ha denunciato l'estrema permeabilità del confine turco per i terroristi, nonché gli strani commerci di petrolio che dalla Siria attraversavano tutta la Turchia fino al Mediterraneo. Per la Russia sarebbe già positivo e utile se la Turchia si emancipasse dall'Occidente, restando un elemento separato. Ma questo non significa che il Cremlino si fiderà di Ankara. Anche perché sulla questione siriana nel frattempo si è ammorbidita la posizione americana ed è partito un vero dialogo tra Washington e Mosca. Inoltre, le ambizioni di Erdogan vanno oltre il Medio Oriente, si estendono a tutta la vasta area turcofona dell'Asia centrale. Il che confligge con la sfera di influenza russa. Proprio nell'area eurasiatica i due sono destinati a confliggere molto più che incontrarsi (il che non esclude progetti comuni se e quando convengano a entrambi).

Insomma, dal mondo sunnita del Medio Oriente (dalla Libia al Golfo persico) a quello turcofono fino al Mar Caspio e al rapporto dialogico con l'Europa (non da Paese candidato all'adesione ma da pari a pari), l'area verso la quale la Turchia di Erdogan sta tentando di proiettare la sua influenza ricorda sempre più quella compresa e integrata nel Califfato ottomano.

Già nell'estate del 2011, su Newsweek lo storico Niall Ferguson segnalava tra le ambizioni di Erdogan quella di far "rivivere l'Impero ottomano", intravedendo "buone ragioni" per sospettare che sognasse di "trasformare la Turchia in modi che Solimano il Magnifico avrebbe apprezzato", cioè in un "nuovo impero musulmano in Medio Oriente". E ricordava come nel 1998 Erdogan fu imprigionato per aver recitato i versi di un poeta panturco di inizio secolo: "Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati". Emblematiche anche le sue parole dopo la vittoria alle elezioni del 2011: "Sarajevo ha vinto oggi quanto Istanbul; Beirut quanto Izmir; Damasco quanto Ankara; Ramallah, Nablus, Jenin, la Cisgiordania, Gerusalemme hanno vinto quanto Diyarbakir". "La sua ambizione, sembra chiaro - scriveva Ferguson - è tornare all'era pre-Ataturk, quando la Turchia era non solo musulmana militante, ma anche una superpotenza regionale".

Dunque, si pone eccome il tema dell'espulsione, o quanto meno della sospensione della Turchia dalla Nato e degli accordi con l'Unione europea: è in gioco la condivisione dei sistemi di difesa della Nato con un governo islamista il cui sistema di alleanze è quanto meno troppo variabile e spregiudicato. E l'Europa? Si può permettere una potenza islamista alle proprie porte? La Turchia di Erdogan, e in generale l'islam politico, è incompatibile con i valori e gli interessi occidentali? Urgono risposte coraggiose.

Monday, July 11, 2016

L'America lacerata di Obama: le divisioni razziali rischiano di incendiare la corsa alla Casa Bianca

Pubblicato su Ofcs Report

Dallas è ancora una volta per gli Stati Uniti crocevia della storia e insieme catalizzatore di conflitti. Con la presidenza di Barack Obama, il primo presidente nero, si riteneva chiusa per sempre la questione razziale e suggellata la riconciliazione tra bianchi e neri. D’altronde, cosa più dell’elezione di un presidente nero può rappresentare l’effettiva parità di condizioni e opportunità? Eppure, gli episodi di violenza di questi ultimi anni e di questi giorni, sembrano riaprire ferite mai davvero rimarginate. Il presidente che più di ogni altro avrebbe dovuto unire l’America, rischia di lasciarla più divisa e rancorosa che mai. Molti neri rimproverano a Obama di non difendere la “sua gente”. Molti bianchi lo accusano di alimentare il risentimento dei neri e persino di legittimarne la violenza.

Il fenomeno che emerge invece inequivocabilmente dai numeri e che riguarda tutti i cittadini americani senza distinzioni di pelle, è proprio quello degli abusi e delle uccisioni ingiustificate da parte della polizia, che secondo le statistiche potrebbero essere una su quattro.

Ma l’America non è più quella degli anni ’60: le leggi segregazioniste sono un lontano ricordo. L’uguaglianza davanti alla legge è piena e anzi è stata introdotta in molti ambiti una “discriminazione positiva“: quote, sussidi e programmi pubblici volti a favorire l’integrazione e una uguaglianza anche sostanziale. La questione razziale però sembra aver cambiato pelle. Oggi ha a che fare più con l’ideologia, i risentimenti reciproci, i fantasmi del passato.

Osservando freddamente le statistiche, balza agli occhi un grave problema di violenza della polizia, ma non un problema di razzismo. Secondo dati del 2015 riportati dal Washington Post, il 26% delle vittime della polizia è di colore.

Essendo le persone di colore il 13% della popolazione americana, in proporzione si può dire che muoiono più neri per mano dei poliziotti, che non persone di altre etnie. Tuttavia, è anche vero che pur essendo il 13% della popolazione, i neri commettono il 24% di tutti i crimini violenti e quasi la stessa quantità di omicidi commessi dai bianchi. La presenza di agenti di colore nella polizia è del 12%, quindi perfettamente proporzionata alla popolazione afro-americana. Non si possono certo escludere uccisioni per motivi razziali da parte di qualche agente, ma vanno dimostrate singolarmente, caso per caso. Non si possono desumere dalle statistiche, né dalla compresenza di una vittima di colore e di un’uccisione ingiustificata.

Anziché “Black Lives Matter“, sembrerebbe più appropriato un movimento “All Lives Matter“. Le vite dei neri sembrano importare solo quando vengono tolte dai poliziotti, ha osservato l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, ricordando che accade 50 volte di più che una giovane vita di colore, venga spezzata da un giovane anch’esso di colore. “Quando dici le vite dei neri importano, questo è intrinsecamente razzista e anti-americano. Le vite dei neri importano. Le vite dei bianchi importano. Le vite degli asiatici importano. Le vite degli ispanici importano”.

Per otto anni Obama ha focalizzato la sua attenzione sul controllo delle armi e sulla questione razziale, sottovalutando invece il problema dell’eccessiva violenza della polizia in molti Stati. Commentando le violenze di Ferguson nel 2015, ha sposato le tesi di Blm, riconoscendo “un problema specifico che riguarda la comunità afroamericana e non le altre”, un “problema specifico” di violenza delle autorità contro i neri. Anche nel commentare gli ultimi episodi, da Varsavia, in Polonia, Obama ha, senza esitazioni, attribuito ad attitudini razziste le uccisioni in Louisiana e Minnesota (“symptomatic of a broader set of racial disparities that exist in our criminal-justice system”) senza preoccuparsi che tali fossero realmente le attitudini degli agenti coinvolti, mentre ha omesso qualsiasi riferimento al movente razzista nel caso degli agenti uccisi a Dallas, nonostante fosse dichiarato esplicitamente dall’omicida (voleva “uccidere bianchi, specialmente poliziotti bianchi”).

Un doppio standard che solleva dubbi sulla capacità di giudizio del presidente, rischia di alimentare le divisioni e allontana l’analisi dal vero problema: le uccisioni ingiustificate della polizia. Ogni volta che un afroamericano viene ucciso da un poliziotto si tratta di un caso di razzismo, mentre il tema vero di una violenza generalizzata e sempre più fuori controllo della polizia passa in secondo piano.

Difficile dire come la questione razziale impatterà sulla corsa alla Casa Bianca. Di sicuro un impatto lo avrà. Da una parte, proprio in questi giorni, il presidente Obama ha iniziato a partecipare agli eventi elettorali di Hillary Clinton, la quale ha quindi deciso di puntare forte sulla continuità. E il suo messaggio dopo i fatti di questi giorni è all’America bianca: “I bianchi devono sforzarsi di più di ascoltare quando gli afroamericani parlano delle barriere che incontrano”. Da subito Donald Trump si è presentato come il paladino dell’America bianca, interpretando la voglia di riscatto dei bianchi impoveriti che non ne possono più del “politicamente corretto”. Da decenni non si affrontavano due candidati alla Casa Bianca così agli antipodi su un tema incendiario come le divisioni razziali: una miscela esplosiva.

L'emailgate non è chiuso, le tre bugie di Hillary

Pubblicato su Ofcs Report

La media dei sondaggi della scorsa settimana vede stabile il vantaggio di Hillary Clinton (+4,5%) a livello nazionale. Rasmussen è l’unico istituto che attribuisce a Donald Trump un lieve vantaggio (+2, in calo dal +4 della settimana precedente), mentre Reuters/Ipsos sono i più generosi con la Clinton (+11). Dal punto di vista politico, Trump è ancora alle prese con i difficili rapporti con la leadership del Partito repubblicano. E per ridurre al minimo il rischio di imprevisti alla Convention di Cleveland del 18 luglio che dovrebbe incoronarlo, prosegue il suo lavoro “diplomatico”. La settimana scorsa ha incontrato molti parlamentari del partito. E a giorni lo attende la delicatissima scelta del suo vice.

Hillary Clinton ha ottenuto il tanto sospirato endorsement di Bernie Sanders. Ma la chiusura di un problema rischia di aprirne un altro: nel tentativo di inseguire e conquistare i supporter del suo ex sfidante, rischia infatti di spostare troppo a sinistra l’asse della sua campagna. I due staff hanno lavorato sodo per raggiungere un’intesa tra i due ex avversari e ne è uscita la piattaforma programmatica più di sinistra della storia del Partito democratico. Il socialista Sanders avrebbe ottenuto “almeno l’80%” dei suoi punti, secondo il suo staff, tra cui l’inserimento nel programma della sua proposta di paga minima oraria di 15 dollari, indicizzati all’inflazione. E in tema di sanità pubblica, ha così apprezzato la proposta di Hillary da definirla “un passo importante verso l’estensione dell’assicurazione sanitaria e dell’accesso alle cure mediche per milioni di americani”.

Su un altro fronte, se la Clinton ha certamente potuto tirare un sospiro di sollievo alla decisione dell’Fbi di non proporre la sua incriminazione per il caso “emailgate“, ossia l’utilizzo di account e-mail e server privati durante il suo mandato di segretario di Stato, tuttavia l’immagine di candidata esperta e affidabile in contrapposizione a Trump ha subito un duro colpo e le polemiche la accompagneranno fino a novembre. Non tanto perché il Dipartimento di Stato riaprirà, dopo averla sospesa in aprile per non interferire con l’Fbi, l’indagine interna sul caso (un atto dovuto che difficilmente avrà conseguenze), ma perché le bugie di Hillary sono emerse chiaramente dall’audizione del direttore dell’Fbi, James Comey, al Congresso americano. Comey ha negato che la Clinton abbia mentito all’Fbi, ma ha confermato che alcune sue dichiarazioni e spiegazioni fornite lo scorso ottobre alla Commissione parlamentare sull’attacco di Bengasi non erano vere. Ha ribadito che la Clinton “certamente avrebbe dovuto sapere di non poter inviare informazioni classificate” su un server privato di posta elettronica, con il rischio che potessero finire in mani sbagliate: “Come ho detto, questa è la definizione di negligente. Credo che lei sia stata estremamente imprudente. Ho pensato che è stata negligente. Questo è ciò che ho potuto stabilire. Quello che non possiamo stabilire è se ha agito con il necessario intento criminale”.

Su tre questioni, durante uno scambio prolungato tra Comey e il deputato repubblicano Trey Gowdy, è emerso che Hillary non ha detto il vero. Il direttore dell’Fbi ha confermato che informazioni riservate sono passate sul server privato della Clinton, nonostante lei avesse negato che fossero stati inviati o ricevuti elementi contrassegnati come classificati. Alla domanda se corrisponda al vero la testimonianza della Clinton secondo cui “nessun materiale classificato è stato spedito ad alcuno per e-mail”, Comey ha risposto: “No, c’era materiale classificato inviato via e-mail”. Così come non è vero che la Clinton, come lei stessa aveva affermato, ha usato un solo dispositivo per le sue e-mail di lavoro durante il mandato da segretario: “Ha usato più dispositivi”, ha risposto Comey. E non è vero che ha restituito tutte le e-mail legate al suo lavoro al Dipartimento di Stato. “No, abbiamo trovato e-mail legate al lavoro, migliaia che non sono state restituite”, ha risposto ancora il direttore dell’Fbi. “Che le abbiano cancellate, o che qualcosa sia successo quando è cambiato server – ha aggiunto Comey – non c’è dubbio che le e-mail di lavoro sono state rimosse elettronicamente dal sistema”. Per una bugia su un rapporto sessuale al marito Bill è andata molto peggio.

Tuesday, July 05, 2016

Hillary "graziata" dall'FBI: corsa in salita per la Casa Bianca

Pubblicato su Ofcs Report

Hillary Clinton è la prima candidata donna alla Casa Bianca, ma riuscirà anche ad essere la prima donna a varcarne la soglia da presidente? Sì, stando ai sondaggi e alle analisi che circolavano solo tre mesi fa, secondo cui Donald Trump sarebbe stato l’unico candidato, tra i molti repubblicani, contro cui la Clinton avrebbe vinto facilmente a novembre. Oggi questo scenario, evocato soprattutto dagli sfidanti di Trump alle primarie repubblicane, sembra appartenere ad un’altra era politica. Certo, dopo il quasi sorpasso di fine maggio, la media dei sondaggi dà Hillary in vantaggio di 4,5 punti percentuali (44,8% a 40,3%) e saldamente in testa nella mappa dei grandi elettori dei singoli Stati (210 contro 164, con 164 ancora in bilico), ma il margine di sicurezza di 10 punti e più degli inizi è un lontano ricordo. E il sondaggio Rasmussen di fine giugno che attribuisce a Trump un vantaggio di 4 punti a livello nazionale è un campanello d’allarme. Come lo sono il sondaggio Gravis che registra un testa-a-testa (49 pari) in uno stato chiave come la Florida e quello SurveyUSA secondo cui l’elettorato di origini cubane sarebbe in maggioranza per Trump (45 a 34).

Almeno tre elementi indicano che la strada verso la Casa Bianca, per l’ex first lady, è ancora in salita e piena di incognite. Primo, il cosiddetto “emailgate“, l’inchiesta sull’utilizzo che Hillary ha fatto di account e-mail e server privati durante il suo mandato da segretario di Stato, su cui sabato scorso è stata interrogata per tre ore e mezza dall’FBI. Proprio ieri il direttore dell’FBI, James Comey, ha annunciato alla stampa la decisione di non incriminare la Clinton, ma le polemiche sul caso sono destinate ad accompagnarla per il resto della campagna elettorale. Comey ha parlato di “estrema negligenza” da parte della Clinton e del suo staff, che “avrebbero dovuto sapere che l’uso dei server privati era improprio”. Innanzitutto, è confermato che almeno 30mila e-mail sono passate su quei server, anche durante la drammatica crisi dell’attacco terroristico al consolato Usa di Bengasi, in cui ha perso la vita l’ambasciatore in Libia. Di queste, 110 contenevano informazioni classificate (8 top secret) e la Clinton non le ha consegnate spontaneamente, le ha dovute recuperare l’FBI in questo ultimo anno, anche se “non ci sono prove che le abbia cancellate volontariamente”. Inoltre, nel pieno dell’indagine l’inopportuno incontro tra Loretta Linch, capo del Dipartimento della giustizia (il ministro della giustizia Usa) e il marito di Hillary, l’ex presidente Bill Clinton. La Lynch si è vista costretta a fare mea culpa per un incontro che “comprensibilmente”, ha ammesso lei stessa, ha alimentato dubbi e polemiche che l’hanno indotta ad assicurare che accetterà “qualsiasi conclusione a cui giungerà l’FBI”. Non si sono fatti attendere gli attacchi di Trump: “Il direttore dell’FBI dice che la corrotta Hillary ha compromesso la sicurezza nazionale, ma nessuna incriminazione. Wow”, ha tuonato su Twitter. “Il sistema è corrotto. Petraeus ha avuto problemi per molto meno”, ha aggiunto.

Secondo, la forte resistenza dei sostenitori di Sanders a ricompattarsi dietro la Clinton. Trump ha persino fatto esplicito appello agli ex elettori del senatore del Vermont, facendo leva su importanti temi comuni, come la lotta anti-sistema e l’impoverimento della classe media causato dalla deindustrializzazione e dalla globalizzazione. Potrebbe essere più facile per Donald pescare voti a sinistra di Hillary di quanto lo sia per Hillary pescare a destra di Donald. Quel “Hillary Clinton non mi rappresenta” detto da una star della sinistra hollywoodiana come Susan Sarandon non è certo un bel segnale. Insomma, la Clinton potrebbe incontrare qualche problema a mobilitare la base, soprattutto più di sinistra, del suo partito. E nonostante Trump stia facendo di tutto per alienarsi il voto femminile, Hillary non sembra ancora sfondare proprio nel voto delle donne: le più anziane sono tra le sue più entusiaste sostenitrici, ma le più giovani alle primarie erano per Sanders e convincerle non sarà una passeggiata.

Ma la vera incognita che potrebbe decidere queste presidenziali è il possibile ritorno alle urne di milioni di americani che non votano da decenni per l’assenza di una vera alternativa all’establishment rappresentato dai due partiti tradizionali. E la Clinton rappresenta la quintessenza dello status quo a Washington, mentre Trump l’anti-sistema per eccellenza.

I media europei e americani dipingono Hillary Clinton come il candidato ragionevole e civilizzato in opposizione al folle demagogo Trump, ma rischiano di sottovalutare l’impopolarità di Hillary. Una delle tendenze che emerge con più forza dai sondaggi infatti è che sia Trump sia la Clinton fanno registrare gli indici di impopolarità più alti (circa il 60%) di qualsiasi altro candidato mai presentato dai due principali partiti. Tanto che per qualche analista ci sarebbe ancora lo spazio politico per un terzo candidato. Oltre il 30% dei loro sostenitori dichiara che la loro principale motivazione è l’avversione per l’altro candidato. La scelta, insomma, è per “il male minore”. Saranno di più gli americani motivati a votare contro Trump o contro Clinton?

Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth avverte che c’è una “nuova maggioranza silenziosa”, una fetta importante della classe media americana, a cui Trump non piace ma che è pronta a votarlo lo stesso, perché “ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct”. E’ un bullo, un demagogo, ma anche l’unico in grado di “preservare l’American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump”.

L’appello di Trump alla working class bianca, poco istruita e impoverita, potrebbe far presa in stati dove la delocalizzazione ha fatto più strage di posti di lavoro e di “identità industriale“, come Pennsylvania, Ohio e Michigan, tradizionalmente democratici e decisivi per la conquista dei grandi elettori. In questi stati il margine di vantaggio che i sondaggi attribuiscono a Hillary è già risicato.

Monday, July 04, 2016

L'Ue dopo la Brexit: la padella o la brace

Pubblicato su L'Intraprendente

"Adesso è il momento di essere pragmatici". In un'intervista al Welt Am Sonntag (edizione domenicale del Die Welt), Wolfgang Schäuble, il ministro tedesco delle finanze, delinea la sua idea di rilancio dell'Unione europea dopo il voto sulla Brexit. E nel farlo emergono due visioni contrapposte sul futuro dell'Ue.

"Se non tutti i 27 Stati membri vogliono mettersi insieme dall'inizio, allora inizieremo con pochi. E se la Commissione non collabora, allora prenderemo le questioni nelle nostre mani e risolveremo i problemi tra Governi", ha spiegato Schäuble. "Questo approccio intergovernativo si è dimostrato efficace durante la crisi dell'Eurozona. Siamo onesti - ha aggiunto - la domanda se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente in modo particolare. Alla gente interessa sapere se riusciamo a controllare il problema dei profughi. Contano i fatti, non le parole altisonanti". E ancora: "In Europa abbiamo troppo spesso pomposamente proclamato nuove iniziative non realizzate".

Dalle osservazioni di Schäuble emerge una netta linea di demarcazione, riguardo i futuri passi da far compiere all'Ue, rispetto alle fughe in avanti dei vertici di Commissione e Parlamento europeo, Juncker e Schulz. "In linea di principio, sono favorevole a una maggiore integrazione", ha spiegato Schäuble. "Ma non è il momento giusto per questo". Dopo il voto sulla Brexit, ha ribadito, "non è il momento per le grandi visioni. La situazione è così seria che dobbiamo smettere di fare i soliti giochetti europei e di Bruxelles". "Al momento, non riusciamo a modificare gli accordi. Le istituzioni dovrebbero piuttosto intervenire per la soluzione dei problemi. E se non dovessero riuscire, risolviamo noi questi problemi tra i governi al di fuori delle istituzioni". Non manca nelle parole di Schaeuble un'accusa diretta alla Commissione europea, inadempiente a suo avviso nel far rispettare le regole del rigore e dell'austerità. Come dire che i tedeschi non accetteranno mai di consegnare a Bruxelles i poteri di una unione fiscale.

Insomma, da una parte, c'è l'Unione europea a più velocità e a trazione tedesca (intergovernativa); dall'altra, l'integrazione per accentramento progressivo di poteri nella Commissione europea di Juncker (che ovviamente nessuno ha mai eletto), che però rischia di accelerare anziché placare le forze centrifughe, facendo saltare tutto.

Scegliete voi dove sta la padella e dove la brace tra queste due opzioni, ma di Stati Uniti d'Europa qui non se ne vedono nemmeno lontanamente. Dell'ideale federalista di cui molti sedicenti liberali nostrani si riempiono la bocca non c'è traccia. Né Churchill né Spinelli. Questa Europa non si sta avvicinando passo passo a quell'ideale... Difenderla, essere a favore di più integrazione in questo contesto, significa fare da stampella proprio a chi quell'ideale l'ha già ucciso. Si può nonostante tutto sostenere che all'Italia, per come è "sgovernata", convenga "più Europa". L'unica cosa che non potete fare, però, è provare a venderci che stiamo procedendo verso gli Stati Uniti d'Europa.

A Berlino e a Bruxelles, non a Londra e nelle campagne inglesi, abitano i veri nemici dell'Europa. La Brexit avrà forse il merito di fare chiarezza. Non nel senso di imporre agli amici britannici un aut-aut, un dentro o fuori, un tutto o niente. Ma nel senso di chiarire le opzioni reali che questa Unione europea ha di fronte. Tra la padella e la brace, appunto, teniamoci il mercato unico e azzeriamo il resto, provando a riscrivere i trattati.