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Friday, August 05, 2016

Clint colpisce ancora nel segno, come il suo "American Sniper"

Pubblicato su L'Intraprendente

No, non è un endorsement per Trump quello di Clint Eastwood nell'intervista a Esquire. Ci tiene a chiarirlo bene l'attore-regista 86enne. Ma al tempo stesso è molto più che un endorsement. E' una vera e propria analisi politica: semplice, lucida, dritta al punto. Direi precisa e spietata come il tiro di un cecchino, del suo "American Sniper".

Si capisce che Trump non lo entusiasma. "Posso capire da dove viene, ma non sono sempre d'accordo con lui. Ha detto un sacco di stupidaggini", spiega Eastwood citando come esempio l'attacco al giudice messicano che si occupa di una causa contro la Trump University: "E' una cosa stupida da dire... basare la tua opinione sul fatto che il tipo è nato da genitori messicani o cose così". Ma il regista guarda con disincanto alla politica e osserva che "di stupidaggini siamo pieni. Da entrambe le parti. Eppure tutti - la stampa e tutti gli altri, continuano a dire: 'Oh, questo è razzista', e fanno un gran baccano. Fatevene una fottuta ragione. E' un periodo storico triste". E aggiunge: "Tutti sono annoiati, tutti. E' noioso ascoltare tutta questa merda. E' noioso ascoltare questi candidati. Ci sono troppe sciocchezze in entrambi gli schieramenti".

Eppure, anche se la scelta è "dura", sta con Trump. Perché Hillary "seguirà le orme di Obama" ed è troppo importante fermare in tempo la deriva liberal e l'"europeizzazione" dell'America. E perché Trump almeno una cosa l'ha capita, dice "quello che gli passa per la testa" e se ne frega della "generazione delle fighette e dei leccaculo". Clint Eastwood ha colto di questa elezione ciò che l'"inviato collettivo", intere divisioni di analisti e commentatori, non vuole vedere: che la motivazione principale dei sostenitori di Trump non sta tanto nell'essere d'accordo con tutte le cose che dice, e forse nemmeno con la maggior parte di esse. Sta nel fatto che dice "ciò gli passa per la testa", che sfida apertamente il politicamente corretto di cui "segretamente tutti si stanno stancando", che non fa parte di quella "generazione di fighette e leccaculo", anzi la attacca frontalmente, che sta mandando al macero non solo l'America ma anche l'intero Occidente.

Ed è proprio ciò che abbiamo provato a spiegare in un articolo di alcune settimane fa: alla base di due fenomeni politici di successo così distanti geograficamente come la Brexit nel Regno Unito e Trump negli Stati Uniti, c'è il medesimo atto di ribellione nei confronti del politicamente corretto sotto qualsiasi forma si manifesti. Trump che prende a pugni il politicamente corretto, e per questo viene sanzionato moralmente, demonizzato dai suoi avversari e dai media, rappresenta un riscatto per quanti non ne possono più di sentirsi istruiti su come "non sta bene" pensare, parlare o comportarsi, e quindi si immedesimano in lui. Non si tratta di condividere questa o quella sua proposta, o l'intero suo programma. E in politica non c'è legame più difficile da spezzare dell'immedesimazione, dell'empatia, tra un leader e i suoi elettori.

Il Re è sempre più nudo, ormai la stima dei cittadini nei loro governanti è a livelli minimi ovunque, in Europa come negli Usa. La disillusione di poter effettuare una scelta sulla base di programmi e competenze porta alla scelta per immedesimazione ("è uno di noi"). Non importa quanto impreparato (tanto non lo era nemmeno chi ci era stato presentato come tale), bensì che come noi dica quello che pensa e sia bannato per questo dai benpensanti. Siamo ad un concetto "basic", quasi animalesco della rappresentanza, in molti casi prevalente persino rispetto all'interesse personale, ma non per questo estraneo ad essa.

E attenzione, perché la rivolta non è solo contro l'establishment politico. E' anche contro la stampa e i media, che invece di fare informazione producono e gestiscono una "narrazione" degli eventi, definendo il campo e i termini entro cui si deve svolgere il dibattito pubblico, la presentabilità o meno di concetti e personaggi. Insomma, un numero sempre maggiore di elettori si ribella al politicamente corretto visto come strumento di censura e coercizione. Vuole riprendere il controllo sulla politica, ma prim'ancora sul discorso pubblico, non accettando più di farsi istruire su ciò che è "rispettabile" o meno dire e pensare.

Difficile dire quanto quella di Trump sia una strategia o sia puro intuito. Probabilmente non lo porterà alla Casa Bianca, ma è grazie a questo che è riuscito ad arrivare dov'è ora contro ogni pronostico. Difficile anche capire se questa ribellione al politicamente corretto sia di tale portata e intensità da resistere alla pressione della condanna morale ("Trump e le cose che dice sono riprovevoli, quindi se lo appoggi non sei una persona decente, devi vergognarti") esercitata da uno schieramento di forze imponente: le macchine da guerra del Partito democratico, dei Clinton e di Obama; i media; gli opinion leader; il mondo accademico e quello dell'intrattenimento; persino pezzi grossi del Gop. Finora l'ondata di rifiuto del politicamente corretto che Trump ha saputo cavalcare è stata sorprendente, ma potrebbe aver raggiunto il suo limite, il punto di saturazione. Ma chi può dirlo con certezza?

Monday, August 01, 2016

Hillary corre per un terzo mandato di Obama

Pubblicato su Ofcs Report

Con l'incoronazione alle rispettive convention di Filadelfia e Cleveland è ufficialmente iniziata la corsa alla Casa Bianca di Hillary Clinton e Donald Trump. I due sono agli antipodi ma dalle convention è emerso almeno un aspetto che li accomuna: non sono riusciti ad unire il proprio partito. I NeverTrump hanno tentato in tutti i modi di creare scompiglio, così come i "sanderistas" che non si sono voluti piegare alla logica del compromesso. A Cleveland, a sorpresa Ted Cruz non ha "endorsato" Trump, ma è stato sommerso dai fischi, e si è parlato di convention disastrosa. Bernie Sanders al contrario ha "endorsato" Hillary, ma da alcuni settori della platea sono partiti i "boooo" e i "lock her up", le contestazioni dentro e fuori il centro congressi hanno accompagnato tutta la convention, eppure si è parlato di trionfo. La realtà è che sono state due convention inusualmente spigolose per i due nominati. Entrambi dovranno probabilmente fare i conti con una parte dell'elettorato potenziale dei loro partiti che non è disposto a seguirli. E d'altra parte i sondaggi parlano chiaro: entrambi continuano ad avere indici di fiducia ai minimi storici, inferiori al 40%. Secondo un sondaggio Bloomberg quasi la metà dei sostenitori di Sanders non sosterrà la candidata democratica: il 18% tende verso il libertario Johnson e ben il 22% addirittura verso Trump.

Le convention danno sempre una spinta nei sondaggi, se non altro per la visibilità. La notizia è che la spinta l'abbia avuta anche Trump, la cui convention era stata definita "disastrosa" dai grandi media. Per Douglas Schoen, ex consulente e sondaggista per entrambi i Clinton fino al 2000, Hillary sarebbe "sfavorita", nonostante gli osservatori abbiano giudicato la sua convention molto efficace: "Anche dopo la convention di Filadelfia, il 'momentum' della corsa per la Casa Bianca sembra indicare in direzione di Trump". "Non l'avresti mai detto ascoltando i media mainstream", che l'hanno bollato come "cupo", ma per Schoen il discorso di accettazione di Trump è stato un successo e il trend è favorevole al candidato repubblicano. Persino la Cnn ha registrato reazioni positive del pubblico al suo discorso e nei sondaggi ha preso il volo su Hillary, superandola di uno 0,9% nella media dei sondaggi di RCP. Certo, la partita resta aperta, anche Hillary ha ricevuto una spinta dalla sua convention e nella media dei sondaggi è già controsorpasso. Ma Schoen osserva che c'è stato un chiaro movimento verso Trump nell'ultimo mese. In pochi credevano che sarebbe riuscito a ottenere la nomination republicana e persino a passare in testa nei sondaggi. Ma c'è riuscito e sembra "avere dietro di sé l'umore della nazione", avverte.

In effetti, a dar retta all'"inviato collettivo" Trump doveva prima essere una bolla mediatica destinata a sgonfiarsi. Poi ci hanno raccontato che non sarebbe riuscito a conquistare la maggioranza assoluta dei delegati e avremmo assistito ad una "brokered convention"; poi che la leadership Gop stava lavorando a una candidatura alternativa; poi che i delegati si sarebbero ribellati; e infine che la convention è stata un "disastro". E tutto questo mentre ripetevano che era l'unico tra i candidati Gop contro cui Hillary avrebbe vinto facilmente. Tutte previsioni spazzate via.

Dalla Convention di Cleveland il messaggio di Trump è uscito rafforzato nonostante le sue presunte gaffe. Tra l'altro, come ha osservato il commentatore Charles Krauthammer, accusando Trump di aver invitato una potenza straniera a "violare la sicurezza nazionale" per la battuta sarcastica con la quale ha esortato la Russia a trovare le 30 mila e-mail sparite dai server personali di Hillary, la campagna della Clinton ha implicitamente ammesso che quelle e-mail non erano solo personali, ma anche di lavoro, se non classificate, contrariamente a quanto da lei affermato al Congresso e all'FBI.

La difficoltà nell'interpretare il "change", con i suoi 25 anni di politica alle spalle, e la popolarità di Barack Obama, ancora al 50%, hanno convinto Hillary a presentarsi come suo erede. Ma proporre agli americani un "terzo mandato" di Obama senza il carisma di Obama non è operazione priva di rischi. Oltre il 70% ritiene che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, di solito un indicatore sfavorevole per il partito alla Casa Bianca, e il 55% pensa che il Paese sia ancora in recessione. Nonostante il segno più del Pil, Obama è l'unico presidente che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato. Se non lo status quo, dalla Clinton ci si può aspettare il tentativo di implementare le stesse politiche che hanno prodotto crescita lenta, redditi stagnanti e un altissimo debito pubblico. Proprio la situazione che ha esasperato il ceto medio e le classi operaie che guardano a Trump. Se il marito Bill nel 1992, e lei stessa alle primarie del 2008, hanno corso da centristi, oggi l'agenda di Hillary è persino più progressista di quella di Obama, socialdemocratica "dalla culla alla tomba".

Uno dei punti forti di Hillary rispetto al suo avversario dovrebbe essere l'esperienza da segretario di Stato. Ma l'eredità di Obama in politica estera è quanto meno controversa e la Clinton c'è dentro fino al collo: dal ritiro dall'Iraq e le incertezze sulla Siria, che hanno lasciato il vuoto riempito dall'Isis e una crisi di rifugiati che destabilizza l'Europa (e probabilmente ha giocato un ruolo decisivo nella Brexit), fino al disastro libico, passando per l'accordo sul nucleare iraniano, le tensioni con Israele e la crisi ucraina. L'accusa rivolta a Trump di "intelligenza col nemico" semplicemente perché vuole normalizzare i rapporti con la Russia di Putin, soprattutto in funzione anti-Isis, è singolare se viene da chi otto anni fa proponeva di premere il pulsante "reset" nei rapporti con Mosca e sfotteva il repubblicano John McCain come residuato della Guerra Fredda. Sulle "connections" tra l'allora segretario di Stato Clinton e il Cremlino ai tempi del "reset" è istruttivo un articolo, apparso sul WSJ, di Peter Schweizer, autore del libro "Clinton Cash".

Con la loro riluttanza a discutere di terrorismo e Isis, la tendenza a parlare di sicurezza nazionale senza riuscire a menzionare l'islam radicale, e ad abusare invece di toni da Guerra Fredda nei confronti della Russia solo per attaccare Trump, i Dem rischiano di mostrarsi poco in sintonia con gli umori e le preoccupazioni degli americani. E Mosca ha risposto a muso duro alla Clinton, che ha apertamente accusato i servizi segreti russi per l'attacco hacker ai server del Comitato nazionale democratico. Da parte degli Stati Uniti non c'è stata alcuna protesta formale, attraverso nessun canale, quindi "non c'è nulla di concreto nelle sue accuse", è solo "retorica elettorale", ha risposto il portavoce Peskov.

"L'epoca della discordia". Così il WSJ ha definito gli anni di Obama. "Nel 2008 aveva detto di voler essere il contrario di Ronald Reagan, e lo è stato. Ha realizzato la maggior parte della sua agenda progressista ma lascia un'America angosciata dall'economia e più divisa di come l'aveva trovata". Così come in politica estera "ha realizzato l'obiettivo di ridurre gli impegni globali dell'America", ha "europeizzato" la spesa militare portandola dal 4,6% al 3% del Pil, lasciando però un mondo "mai così pericoloso dalla fine della Guerra Fredda". E la Clinton ha assecondato la ritirata globale di Obama. "Obama non lo ammetterà - conclude il WSJ - ma questa è la realtà che permette a Trump di insistere con la sua litania sul declino. Non avrebbe potuto se decine di milioni di americani non ci credessero".

Il racconto che invece piace molto ai media - Trump rappresenta la paura e Clinton la speranza - è puro spin elettorale. Ogni candidato cerca di far leva sulla paura contro l'avversario e di suscitare la speranza negli elettori facendo leva sulle proprie doti personali. Invece di smontare la linea isolazionista e protezionista di Trump nel merito, la campagna anti-Trump rischia di commettere gli stessi errori della campagna anti-Brexit: a forza di accusarlo di far leva sulla paura della gente, appariranno gli anti-Trump come coloro capaci di puntare solo sulla paura per l'avversario. Per molti elettori americani la scelta sarà questione di indole personale: un male noto o un salto nel vuoto?