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Thursday, October 20, 2016

Trump anti-sistema, Clinton presidenziale

Pubblicato su Ofcs Report

L'ultimo dibattito rafforza le immagini già note dei candidati

Il terzo e ultimo dibattito tv tra i due sfidanti per la Casa Bianca, Hillary Clinton e Donad Trump, l'ha vinto... il moderatore Chris Wallace di Fox News. E' stato infatti un dibattito più corretto dei primi due, più complesso e articolato, centrato più sui temi e moderato con imparzialità. Wallace ha posto domande e sollevato temi scomodi a entrambi, insistendo con entrambi per ottenere delle risposte. Dal focus group del sondaggista indipendente Frank Luntz è emerso un 14 a 12 per Trump. Tra i due quindi un sostanziale pareggio, che avvantaggia chi è avanti nei sondaggi, ovvero Hillary.

Sui mainstream media infurierà per giorni la polemica sul rifiuto di Trump di impegnarsi fin d'ora ad accettare il responso delle urne anche se a lui sfavorevole. Certo, uno strappo notevole per una democrazia abituata ad un fair play quasi ostentato (anche se spesso più di facciata e a urne chiuse). La sua risposta però può aver scandalizzato solo gli elettori che già nutrono un'opinione pessima di lui. Quanto agli altri, sarà anche apparsa sconveniente, sbagliata, ma certo l'argomento non è di quelli che possono infiammare il pubblico come sta infiammando i media e il mondo politico a Washington. E forse qualcuno ricorderà che nell'elezione del 2000 il democratico Al Gore ci mise più di un mese a concedere la vittoria a George W. Bush, dopo ricorsi e riconteggi...

In realtà, per Trump si è trattato di un autogol, forse l'unico errore commesso nel dibattito, ma per un altro motivo: non perché dovesse per forza assicurare fin d'ora di accettare la sconfitta, ma perché ha giocato il ruolo del perdente annunciato. Invece di abboccare alla provocazione avrebbe dovuto rispondere con un "non mi riguarda perché vincerò io, chiedetelo a Hillary".

Detto questo, anche in una democrazia come quella americana il rischio di elezioni truccate o comunque di gravi irregolarità dovrebbe essere preso terribilmente sul serio, ben più di qualche cyber-attacco russo. Come ha osservato l'editorialista George Will, "è difficile pensare a una ragione innocente per cui i Democratici spendono così tanto tempo, forze e denaro, risorse scarse, nel resistere ai tentativi di ripulire le liste elettorali, per rimuovere i morti, o per cui si battono così strenuamente contro leggi sul documento di identità degli elettori. Dicono che limiterebbe l'esercizio di un diritto fondamentale. La Corte Suprema ha detto che viaggiare è un diritto fondamentale ma nessuno pensa che mostrare un documento in aeroporto limiti questo fondamentale diritto". Will ha anche ricordato la condotta dell'Irs, l'agenzia fiscale americana, che in tre elezioni consecutive ha ritardato di riconoscere esenzioni fiscali ad associazioni conservatrici. Non si tratta di dietrologie, ma di distorsioni autorevolmente documentate.

Che Trump accetti o meno l'esito del voto è tutto sommato secondario. Ma la convinzione che il sistema sia "corrotto" potrebbe spingere a votare milioni di americani che non votano da decenni, e che dunque potrebbero fare la differenza lontano dagli sguardi dei sondaggi, o al contrario altrettanti elettori a non partecipare al voto.

Per il resto del confronto televisivo, su Trump sono piovuti attacchi personali già sentiti, mentre per la prima volta nei tre dibattiti Hillary Clinton è stata colpita duramente sulla sua fondazione. Si è trovata in grande difficoltà sia quando il moderatore ha posto la questione della facilità di accesso dei donatori al suo ufficio di segretario di Stato, sia quando Trump gli ha rinfacciato di parlare di diritti delle donne e dei gay pur accettando milioni di dollari da Paesi, come Arabia Saudita e Qatar, dove quei diritti sono calpestati.

E per la prima volta nei tre dibattiti hanno trovato finalmente centralità alcuni temi cari ai conservatori, come Corte Suprema, aborto, immigrazione, e più scomodi per Hillary, come secondo emendamento, aborto fino a termine gravidanza, wikileaks e emailgate. Nei giorni scorsi è emersa dai documenti della stessa FBI la prova delle pressioni del Dipartimento di Stato perché venissero rivalutate come non classificate e-mail classificate passate illegalmente per il server di posta elettronica della Clinton, alleggerendo così la posizione dell'ex segretario di Stato sotto indagine.

Sempre secondo le analisi di Luntz, Trump è apparso efficace sui temi economici, soprattutto sugli accordi commerciali come il Nafta, sui fallimenti della politica estera obamiana e sull'emailgate. Tra gli elettori indipendenti sono apparsi invece molto deboli gli attacchi di Hillary alla Russia, la risposta sulla sua fondazione e la proposta di un nuovo "stimolo" all'economia. Trump ha avuto gioco facile nel ricordare come l'Isis sia chiaramente frutto del vuoto lasciato dalle amministrazioni Obama, per effetto del ritiro dall'Iraq e delle indecisioni nella crisi siriana, e come Putin abbia "beffato" Barack e Hillary praticamente su tutti i fronti.

La sensazione è che l'improvviso anti-putinismo di Obama e della Clinton sia dovuto più a una frustrazione personale per le sberle prese in più teatri, dall'Est Europa al Medio Oriente fino alla Turchia, che a motivi ideali e strategici. Sia contro McCain nel 2008 che contro Romney nel 2012, Obama ridicolizzava le posizioni "aggressive" dei candidati repubblicani nei confronti della Russia e proponeva invece dialogo e cooperazione. Da segretario di Stato la Clinton è stata artefice del tentativo di "reset" con Mosca e la sua fondazione ha ricevuto fondi russi per aver facilitato l'accordo sulla compagnia "Uranium One", come documentato solo un anno fa dal New York Times (quando ancora la candidatura Trump non sembrava una cosa seria).

Da candidato anti-sistema quello di Trump è un appello agli elettori trasversale, che attraversa tutto lo spettro politico, a maggior ragione dopo il venir meno del sostegno dei vertici del Gop. Hillary Clinton ha confermato la sua agenda molto spostata a sinistra sui temi socio-economici e sui diritti civili, per conquistare i "sanderisti", ma la novità di questo dibattito è che per la prima volta si è rivolta anche ai conservatori, ricordando un attacco di Trump a Reagan nel 1987 e proponendo una no-fly zone in Siria, in contrasto con Obama e in sintonia con il senatore repubblicano McCain.

In ogni caso, se Trump dovesse perdere, come indica la maggior parte dei sondaggi, non sarà certo per i dibattiti televisivi. Anche da quest'ultimo scontro i due contendenti sono usciti rafforzando la loro ben nota immagine: Trump come candidato di rottura, anti-sistema, la Clinton più presidenziale. A ridurre le speranze di Trump sono altre tre circostanze. L'early-voting sembra stia premiando Hillary molto più di Obama quattro anni fa; nell'ultimo anno in Florida, stato decisivo per la conquista della Casa Bianca, si sono registrati 500 mila elettori come Democratici e solo 70 mila come Repubblicani. Ma soprattutto, l'unità del Partito repubblicano su Trump era importante come fattore di legittimazione e rassicurazione dell'elettorato. Il caos in cui è precipitato il Gop, con i vertici che di fatto, anche se non formalmente, gli hanno voltato le spalle, lo sta privando di quella "accettabilità" decisiva per far presa sugli elettori indecisi/indipendenti. Si prospetta, in caso di sconfitta, un durissimo scaricabarile tra il candidato e il "suo" partito.

Thursday, October 13, 2016

Per decine di milioni di americani l'Apocalisse si chiama Clinton

Pubblicato su L'Intraprendente

Altro che superamento delle divisioni. Durante il doppio mandato di Barack Obama la politica americana è a tal punto polarizzata che entrambi i candidati alla Casa Bianca dei principali partiti evocano addirittura l'inferno per descrivere l'avversario. Se Trump aveva paragonato Hillary Clinton al diavolo, dalle colonne del New York Times l'ex first lady lancia un drammatico appello agli elettori: "Sono l'ultima cosa che c'è fra voi e l'Apocalisse". E naturalmente l'accostamento Trump-Apocalisse è talmente piaciuto ai conformisti media italiani che è stato rilanciato su tutte le prime pagine, in edicola e online, senza alcun esercizio critico.

Se decine di milioni di americani sono pronte a preferire un salto nel buio con Trump, piuttosto che una collaudata e preparata ex segretario di Stato, forse qualche domanda è il caso di porsela. Forse è il caso di impegnarsi a spiegare ai lettori italiani che per metà degli americani - poco più o poco meno lo vedremo l'8 novembre - l'Apocalisse è il futuro prospettato loro da una presidenza Clinton dopo ben otto anni di Obama. Per questi elettori, che alle primarie repubblicane hanno fatto fuori tutti i candidati tradizionali del Gop scegliendo Trump, l'Apocalisse è rappresentata dal sistema-Clinton e da altri quattro anni dei Dem alla Casa Bianca. A tal punto che sembrano perdonare a Trump qualsiasi cosa. Per il 74% degli elettori repubblicani infatti il partito dovrebbe continuare a sostenere Trump nonostante le volgarità del video diffuso dal Washington Post, mentre solo per il 13% non dovrebbe.

E' con la vittoria della Clinton che questi milioni di elettori vedono evidentemente spalancarsi le porte dell'Apocalisse. L'Apocalisse che vedono è la deriva socialdemocratica che sta già mutando il dna del Paese. In generale sulle politiche socio-economiche e su temi come il possesso di armi, la deindustrializzazione, l'immigrazione, con Hillary alla Casa Bianca, dopo otto anni di Obama, temono un'ulteriore "europeizzazione" degli Stati Uniti. Deriva da fermare a qualsiasi costo, anche assumendosi il rischio di eleggere un candidato controverso e impreparato, una totale incognita come Trump.

L'impopolarità della Clinton anche a sinistra è tale che per restare in corsa ha dovuto fare appello al "popolo di Obama", in pratica proponendo agli americani un "terzo mandato" del presidente uscente, senza però averne il carisma, e ha dovuto spostarsi ulteriormente a sinistra per cercare di conquistarsi le simpatie dei "sanderisti". Peccato che oltre il 70% degli americani ritiene che il Paese stia andando nella direzione sbagliata, di solito un indicatore sfavorevole per il partito alla Casa Bianca, e il 55% pensa che il Paese sia ancora in recessione. Nonostante il segno più del Pil, Obama è l'unico presidente Usa che non ha mai centrato il 3% di crescita in almeno un anno di mandato. Dalla Clinton quindi ci si può aspettare il tentativo di implementare le stesse politiche che hanno prodotto crescita lenta, redditi stagnanti, fuga delle imprese e un altissimo debito pubblico. Proprio la situazione che ha esasperato il ceto medio e le classi operaie che guardano a Trump. Se il marito Bill nel 1992, e lei stessa alle primarie del 2008, hanno corso da centristi, oggi l'agenda di Hillary è persino più a sinistra di quella di Obama, socialdemocratica "dalla culla alla tomba".

Basti guardare ai piani fiscali agli antipodi dei due candidati. Secondo i dati del Tax Policy Center, riportati dal Wall Street Journal, il piano fiscale di Trump, accusato di favorire solo i più ricchi, offre al quintile centrale dei contribuenti americani un aumento di reddito al netto delle tasse nove volte superiore rispetto a quello che offre la Clinton (+1,8% contro +0,2%). Mentre Trump riduce le tasse a tutte le fasce di reddito, di fatto il piano della Clinton non offre alcuna riduzione di tasse ad alcuna fascia di reddito. Nessuna impresa e nessuna persona fisica pagherà meno tasse. E prevede un ulteriore gettito fiscale dalle tasche degli americani di ben 1,4 trilioni di dollari. Se non è questa una "Apocalisse fiscale", ci siamo vicini...

Uno dei punti forti di Hillary rispetto al suo avversario doveva essere l'esperienza da segretario di Stato. Ma l'eredità di Obama-Clinton in politica estera (dal ritiro dall'Iraq e le incertezze sulla Siria, che hanno lasciato il vuoto riempito dall'Isis e una crisi di rifugiati che destabilizza l'Europa, fino al caos libico, passando per l'accordo sul nucleare iraniano, le tensioni con Israele e l'avanzata della Russia) è talmente disastrosa da far apparire davvero vicina l'Apocalisse: un mondo "mai così pericoloso dalla fine della Guerra Fredda", ha scritto il WSJ. L'accusa rivolta a Trump di "intelligenza col nemico" semplicemente perché vuole normalizzare i rapporti con la Russia di Putin, soprattutto in funzione anti-Isis, non è credibile se viene da chi otto anni fa proponeva di premere il pulsante "reset" nei rapporti con Mosca e sfotteva il repubblicano McCain come residuato della Guerra Fredda. Sulle "connections" tra l'allora segretario di Stato Clinton e il Cremlino ai tempi del "reset" è istruttivo un articolo, apparso sul WSJ, di Peter Schweizer, autore del libro "Clinton Cash".

A far temere ancor di più una "Apocalisse clintoniana" ci sono poi le minacce alla Costituzione e il controllo delle istituzioni. Un tema cruciale emerso finalmente anche nel dibattito tv dell'altra notte è quello della Corte Suprema. Con Hillary alla Casa Bianca sarebbe lei a nominare il giudice mancante dopo la morte di Antonin Scalia e per la prima volta dai tempi di Nixon (1971) la Corte avrebbe una maggioranza progressista che potrebbe restare tale per decenni. La Clinton ha confermato i peggiori timori dei conservatori. Non ha mai menzionato le parole "rispetto della Costituzione", ha ammesso di voler cambiare "direzione" alla Corte, di voler scegliere una figura che vada oltre quella del rispettato giurista, qualcuno che "comprenda come funziona il mondo, che abbia esperienza di vita reale". Praticamente un attivista politico. Fondamentalmente ha lasciato intendere di volere una Corte "legislativa". E' in gioco quindi l'identità stessa dell'America dei prossimi 30 anni. Ci sono equilibri politici (nel partito e nel Paese) che si possono cambiare, ma non la maggioranza della Corte Suprema una volta messa nelle mani della Clinton. Per gli elettori repubblicani sarebbe una vera Apocalisse, perché la giurisprudenza della Corte può trasformare in profondità il Paese.

Per il WSJ, che non sostiene certo Trump, la decisione dell'FBI di non incriminare la Clinton per l'emailgate (ben il 56% degli americani non l'ha condivisa) puzza talmente di doppio standard da gettare un'ombra inquietante sulla tenuta dell'indipendenza e dell'imparzialità delle istituzioni e delle agenzie governative.

Un ruolo non indifferente nella percezione dell'"Apocalisse clintoniana" lo gioca poi il pensiero unico del politicamente corretto che domina i mainstream media, sempre più avvertito come una minaccia alla libertà d'espressione e anche alla funzione critica della stampa. Tempo fa dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth avvertiva che c'è una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana, a cui Trump non piace ma che è pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". È un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump".

"L'epoca della discordia", così il WSJ ha definito gli anni di Obama. E attenzione: una radicalizzazione che non è destinata ad arrestarsi. Con Obama si è radicalizzato il Partito democratico, diventato una socialdemocrazia europea degli anni '60. L'establishment repubblicano è rimasto moderato, ma non la base del partito. E se Trump dovesse perdere, c'è il forte rischio di ritrovarsi fra quattro anni con due candidati ancor più anti-sistema, ancor più "apocalittici", sia a destra che a sinistra.

Wednesday, October 12, 2016

Trump è ancora vivo, Hillary difende il suo vantaggio

Pubblicato su Ofcs Report

The Donald si rimette in piedi, ma è psicodramma nel Partito repubblicano che rischia l'implosione

Trump ha vinto il secondo dibattito tv come Hillary aveva vinto il primo, ovvero andando meglio delle aspettative. L'ex segretario di Stato era arrivata al primo dibattito in affanno per il malore mostrato in pubblico e il tentativo di nascondere la sua polmonite. Ci si aspettava che apparisse bollita e che potesse subire un colpo da ko dal suo avversario, invece non solo è rimasta in piedi ma si è mostrata combattiva e ha contrattaccato, mandando Trump in confusione nella seconda parte del confronto. Trump è arrivato al secondo dibattito nella bufera per il video diffuso dal WaPo e messo in discussione dal suo stesso partito. Poteva essere il definitivo ko, invece dopo un difficile momento iniziale ha reagito, è apparso più concentrato, ha costretto la Clinton sulla difensiva aleggiando dietro di lei come un falco sulla preda, dimostrando di non essere ancora morto.

A differenza del primo dibattito, stavolta Trump ha affondato il colpo su tutti i punti deboli di Hillary (politici e non, dall'emailgate al caos in Medio Oriente) e fatto leva su tutte le issues a cui la base repubblicana è sensibile. Ha fatto ricorso all'arma finale contro il sistema-Clinton, portando davanti alla stampa le donne che accusano Bill Clinton di molestie sessuali: un conto sono le parole, nei fatti il vero molestatore è Bill e Hillary una donna che intimidisce le vittime di stupro. Un momento bassissimo, certo, ma inevitabile dopo il colpo basso subito da The Donald. Da almeno due decenni l'elettorato conservatore sognava un candidato che tenesse testa senza complessi all'odiato clan Clinton. A questo punto Hillary ha preferito cambiare argomento, il tema è da sempre troppo scottante anche per i Clinton ed era più interessata a non rischiare di buttare al vento il suo vantaggio piuttosto che assestare il colpo del ko. Trump ha commesso a nostro avviso solo due errori: quando ha ammesso di non aver concordato col suo vice una posizione sulla crisi siriana e alla fine, quando riconoscendo alla Clinton di essere una "combattente" ha contraddetto i suoi stessi attacchi del dibattito precedente, quando l'aveva definita "unfit" perché debole e malata.

Meglio Trump anche per il focus group del sondaggista indipendente Frank Luntz: le preferenze per Hillary sono passate da 8 a 4 dopo il dibattito, quelle per Trump da 9 a 18. Hillary ha fornito le prevedibili risposte del politico navigato, Trump è apparso meno artefatto e più spontaneo. Per i commentatori Trump che minaccia Hillary di nominare un procuratore speciale per incriminarla è stato uno dei momenti più bassi del dibattito, mentre per i telespettatori uno dei migliori, anche perché il 56% degli americani non ha condiviso la scelta dell'FBI di non incriminarla per l'emailgate.

Ma si è trattato, appunto, di una vittoria rispetto alle aspettative. Invece di gettare la spugna Trump si è rimesso in piedi, consolidando il suo zoccolo duro di elettori convinti e allontanando la tentazione della leadership del suo partito di ritirargli ufficialmente l'appoggio. Insomma, una vittoria perché resta in corsa, ma è molto improbabile che sia riuscito a ridurre il distacco dall'avversaria e conquistare voti tra gli indecisi. Date le condizioni di partenza quasi disperate, non poteva fare di più. E' ancora indietro nei sondaggi, c'è sempre meno margine per una rimonta, ma gli stessi sondaggisti dubitano di essere davvero riusciti a intercettare il suo elettorato potenziale. C'è da chiedersi anche quanto colpi come quello dei giorni scorsi possano azzopparlo tra gli indecisi. Da una parte, le volgarità del video diffuso non possono essere liquidate come parole che non lo rappresentano; dall'altra, proprio perché coerenti con il suo personaggio, gli elettori potrebbero esserne non più di tanto scandalizzati.

L'unico uscito sconfitto dal dibattito è il Partito repubblicano. Che prima non è riuscito a costruire una valida alternativa interna a Trump, poi l'ha incoronato senza convinzione. E ora, a un mese dal voto, dopo un colpo basso confezionato dai suoi avversari, è ad un passo dallo scaricarlo (anche se dopo la vitalità mostrata da Trump in tv è arrivato il tweet di congratulazioni del suo vice, Mike Pence). Molti big del partito l'hanno comunque scomunicato e altri esponenti sarebbero pronti ad abbandonarlo, pensando alle loro poltrone di deputato o di senatore. Lo speaker alla Camera Paul Ryan ha confidato ai deputati che non difenderà più Trump ma si concentrerà sulla difesa dei seggi al Congresso. Ma è la migliore strategia per difenderli? Per il 74% degli elettori repubblicani il partito dovrebbe continuare a sostenere Trump nonostante le volgarità del video, mentre solo per il 13% non dovrebbe. Una sconfitta di Trump può quindi rivelarsi costosissima per il partito. Se perde, il Gop si libera di lui ma rischia di perdere anche il 74 per cento della base. Persa la Casa Bianca per 12 anni, e probabilmente anche le maggioranze al Congresso, rischia di liquefarsi.

Poi c'è la Corte Suprema, un tema cruciale emerso finalmente anche nel dibattito dell'altra notte. Con Hillary alla Casa Bianca sarebbe lei a nominare il giudice mancante dopo la morte di Antonin Scalia e per la prima volta dai tempi di Nixon (1971) la Corte avrebbe una maggioranza progressista che potrebbe restare tale per decenni. La Clinton ha confermato i peggiori timori dei conservatori. Senza mai menzionare le parole "rispetto della Costituzione", ha ammesso di voler cambiare "direzione" alla Corte, scegliendo una figura che vada oltre quella del rispettato giurista, qualcuno che "comprenda come funziona il mondo, che abbia esperienza di vita reale". Praticamente un attivista politico. Fondamentalmente ha lasciato intendere di volere una Corte "legislativa". E' in gioco quindi l'identità stessa dell'America dei prossimi 30 anni. Comunque vada Trump sarà una parentesi, ci sono equilibri politici (nel partito e nel Paese) che si possono modificare, ma non la maggioranza della Corte Suprema una volta messa nelle mani della Clinton. Gli elettori repubblicani sono determinati ad impedirlo ad ogni costo, anche se si chiama Trump. E in gran parte non perdonerebbero al partito una sconfitta determinata o aggravata da un tradimento ai suoi danni.

L'establishment Gop non è ancora in sintonia con la rabbia profonda che percorre i suoi elettori, non tanto per come va l'economia o il tasso di disoccupazione, ma per la deriva socialdemocratica che sta mutando il dna del Paese. Su temi come il possesso di armi, sulle politiche socio-economiche, con Hillary alla Casa Bianca dopo otto anni di Obama temono un'ulteriore "europeizzazione" degli Stati Uniti. Per molti va fermata a qualsiasi costo, anche assumendosi il rischio di eleggere un candidato controverso e impreparato come Trump. Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth avverte che c'è una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana, a cui Trump non piace ma che è pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump". La vera incognita è se questa maggioranza si manifesterà o no nelle urne, se torneranno a votare milioni di americani bianchi che non votano da decenni per l'assenza di una vera alternativa all'establishment rappresentato dai due partiti tradizionali.

Un'ultima nota sulla faziosità dei mainstream media. Per gli stessi media per i quali dopo il primo dibattito era importante mettere a verbale che lo aveva vinto ai punti la Clinton, oggi non importa più chi ha vinto, importa che il dibattito è stato bruttissimo, il peggiore di sempre, un duello velenoso e sporco. Tutto, pur di evitare di dire che l'altra sera ha vinto Trump...

Tuesday, October 11, 2016

Trump-Gop, una resa dei conti che non conviene a nessuno

Pubblicato su The Right Nation

La buona performance di Trump al secondo dibattito tv non è bastata a placare lo scontro interno al partito repubblicano sulla sua candidatura. Eppure, la vitalità mostrata da The Donald domenica sera aveva convinto il suo vice Mike Pence a postare subito dopo il confronto un tweet di congratulazioni, rinnovando l'impegno al suo fianco e archiviando così l'incidente del video diffuso dal WaPo. Tutto lasciava supporre che Trump fosse riuscito ad arrestare l'emorragia di defezioni e allontanare dalla leadership del partito la tentazione di revocargli l'appoggio. Tuttavia, all'indomani del dibattito lo speaker alla Camera Paul Ryan ha annunciato ai deputati che non difenderà più Trump ma si concentrerà sulla difesa dei seggi al Congresso, ricevendo da Trump una risposta piccata via twitter: "si occupi di ripianare il bilancio, di posti di lavoro e immigrazione illegale, invece di perdere tempo ad attaccare il candidato repubblicano". E ancora oggi: "difficile far meglio con zero aiuto da parte di Ryan e gli altri". E via con una serie di tweet sempre più velenosi all'indirizzo dei "traditori". Sempre lo speaker della Camera ha poi lasciato trapelare che è ancora possibile da qui al giorno del voto il ritiro ufficiale del suo appoggio a Trump.

Insomma, lo scontro Trump-leadership Gop ha oltrepassato i livelli di guardia e ad un mese dal voto non sembra favorire nessuno. Ma se Trump può sempre tornare alla sua vita da miliardario più o meno annoiato, a rischiare grosso sembra essere proprio il Partito repubblicano. Che prima non è riuscito a costruire una valida alternativa interna a Trump, poi l'ha incoronato senza convinzione. E ora, a un mese dal voto, dopo un colpo basso confezionato dai suoi avversari, è ad un passo dallo scaricarlo disorientando molti elettori. Molti big del partito l'hanno già scomunicato e altri esponenti sarebbero pronti ad abbandonarlo, pensando alle loro poltrone di deputato o di senatore. Anche lo speaker Ryan preferisce concentrarsi sulla difesa dei seggi al Congresso. Ma mollare Trump è davvero la migliore strategia per difenderli? Con il 74% degli elettori repubblicani secondo cui il partito dovrebbe continuare a sostenerlo anche dopo le volgarità sentite nel video, una sconfitta di Trump può rivelarsi costosissima per il partito.

"The Gop Meltdown" è il titolo di un editoriale di James Taranto sul WSJ, nel quale sottolinea che i leader del partito non sono in contrasto solo con Trump, "sono in contrasto con i loro elettori". "Il comportamento di Trump - osserva l'editorialista del WSJ - ha spesso esacerbato le divisioni, ma la sua nomination è soprattutto un effetto di tali divisioni. Un gran numero di elettori repubblicani ha bocciato i tradizionali candidati Gop - una maggioranza se si considera Cruz un candidato non convenzionale. Alcuni commentatori 'Nevertrump' sono stati espliciti nel prendersela con gli elettori per le attuali difficoltà del partito. Ma se i politici adottano questo approccio, non avranno un partito per lungo tempo". Lo stesso Taranto, sempre sul WSJ, alla fine di agosto si era chiesto "se Trump perde, il Gop può sopravvivere?", sollevando la questione della lealtà di partito. Il venir meno del sostegno al candidato ufficiale del partito, a colui che è uscito vincitore dal processo delle primarie, in palese violazione del "pledge" che fu giustamente imposto a Trump, rappresenta un pericoloso precedente, una minaccia di lungo termine per il Gop: in futuro, sia i candidati sconfitti alle primarie sia gli elettori potrebbero sentirsi svincolati dall'impegno a sostenere la nomination del partito, premessa perché tutto il meccanismo funzioni. Insomma, il partito rischia di fallire nella sua funzione fondamentale, quella di unire i propri elettori su una candidatura, anche alle prossime presidenziali.

Ma non c'è solo questo. Se Trump perde, il Gop si libera di lui all'istante, ma rischia di perdere anche il 74 per cento della base. E un partito che da 12 anni non conquista la Casa Bianca, che perde anche le maggioranze al Congresso (perché il mancato appoggio a Trump può fare la differenza tra una sconfitta di misura e una disfatta), non risulta proprio attraente, rischia di liquefarsi.

Poi c'è la Corte Suprema, un tema cruciale emerso finalmente anche nel dibattito dell'altra notte ma che la leadership del Gop sembra sorprendentemente sottovalutare. Con Hillary alla Casa Bianca sarebbe lei a nominare il giudice mancante dopo la morte di Antonin Scalia e per la prima volta dai tempi di Nixon (1971) la Corte avrebbe una maggioranza progressista che potrebbe restare tale per decenni. La Clinton ha confermato i peggiori timori dei conservatori. Senza mai menzionare le parole "rispetto della Costituzione", ha ammesso di voler cambiare "direzione" alla Corte, scegliendo una figura più vicina a un attivista politico che a un rispettato giurista. Fondamentalmente ha lasciato intendere di volere una Corte "legislativa". E' in gioco quindi l'identità stessa dell'America dei prossimi 30 anni. Comunque vada Trump sarà una parentesi, ci sono equilibri politici (nel partito e nel Paese) che si possono modificare, ma non la maggioranza della Corte Suprema una volta messa nelle mani della Clinton. Gli elettori repubblicani sono determinati ad impedirlo ad ogni costo, anche se si chiama Trump. In gran parte quindi non perdonerebbero al partito una sconfitta determinata o aggravata da un tradimento ai suoi danni. E lasciare a Trump l'alibi del mancato appoggio del partito per giustificare una sconfitta sarebbe un autogol.

L'establishment Gop mostra di non essere ancora in sintonia con la rabbia profonda che percorre i suoi elettori, non tanto per come va l'economia o il tasso di disoccupazione, ma per la deriva socialdemocratica che sta mutando il dna del Paese. Su temi come il possesso di armi, sulle politiche socio-economiche, sull'immigrazione, con Hillary alla Casa Bianca, dopo otto anni di Obama, temono un'ulteriore "europeizzazione" degli Stati Uniti. Per molti va fermata a qualsiasi costo, anche assumendosi il rischio di eleggere un candidato controverso e impreparato come Trump. Dalle colonne del Washington Post, lo scrittore Jim Ruth avverte che c'è una "nuova maggioranza silenziosa", una fetta importante della classe media americana, a cui Trump non piace ma che è pronta a votarlo lo stesso, perché "ha una sola qualità redimente: non è Hillary Clinton. Non vuole trasformare gli Stati Uniti in una democrazia sociale sul modello europeo, basata sul politically correct". E' un bullo, un demagogo, ma anche l'unico in grado di "preservare l'American way of life come la conosciamo. Per noi, il pensiero di altri quattro o otto anni di agenda progressista che inquini il sogno americano è anche più pericoloso per la sopravvivenza del Paese di quanto lo sia Trump".