Altro che immediato, altro che ritiro, Prodi fermi i bollenti ardori dei «super-ritiristi» della sua maggioranza, dice a Il Messaggero Emma Bonino: «Più che la "exit strategy", bisognerebbe definire in generale la "strategy". Senza considerare l'Iraq qualcosa di isolato rispetto a tutte le molte altre aree di tensione e di terrorismo. Serve una strategia per l'Iraq. Così come per l'Iran, la Palestina, l'Afghanistan... Sennò rischiamo di abbandonare l'islam pacifico e democratico al proprio destino».
La verità, sottolinea la Bonino, è che «il terrorismo non è la conseguenza, ma la causa dei mali che affliggono i palestinesi, gli iracheni e il resto del mondo!». Parole inequivocabili.
Dunque, come dice l'Unione sul programma, più Onu e più Europa? Neanche per idea. Trent'anni di storia e di attività del Partito Radicale Transnazionale testimoniano quanto i radicali abbiano investito e investano tuttora negli organismi internazionali, ma certo, «l'Onu non sta attraversando uno stato di salute ottimale». Ne ha parlato come sempre egregiamente Christian Rocca, ieri su Il Foglio: «L'Onu è il problema non la soluzione».
«Sarei cauta - spiega la Bonino - nel concedere deleghe in bianco a meccanismi multilaterali da tempo in crisi e con carenze intrinseche, che prescindono dagli strappi più o meno unilaterali di questa o quella grande potenza. In altre parole, io non mi amputerei in modo gratuito e preventivo di prerogative che vanno esercitate caso per caso».
Il giorno prima, sul Corriere della Sera, appariva un interessante articolo di Joseph Nye, il teorico del soft power, nel quale sgombrava il campo da alcuni luoghi comuni. E' vero, come ha scritto l'Economist, che «fino a poco tempo fa» Rumsfeld considerava questa attenzione al soft power come, diciamo, una debolezza, parte insomma dell'arrendevolezza della vecchia Europa davanti al terrorismo».
Ma è anche vero, ha osservato Nye, che «c'è un briciolo di verità nella sfiducia di Rumsfeld verso l'approccio europeo. L'Europa ha usato l'attrattiva dell'Unione per ottenere i risultati desiderati, così come gli Stati Uniti hanno sfruttato la supremazia militare per risolvere tutti i problemi. Ma è un errore fare eccessivo affidamento solo sull'hard power o sul soft power: di fatto, nell'abilità di combinare l'uno e l'altro sta il "potere intelligente"». Va sfatato inoltre il luogo comune di considerare la forza militare come sinonimo di hard power, poiché «la stessa risorsa può anche contribuìre al soft power».
Saturday, April 29, 2006
La notte dei fuori-legge della Repubblica
Cupe notti da fine Repubblica. Il tavolo dei bari deve saltare
A Villa Arzilla, dove un 87enne e un 73enne si sfidavano a un vecchio e nobile gioco di società, si sono fatte le ore piccole e i vecchietti hanno cominciato a dare i numeri. L'amara verità, la tristezza infinita di queste cupe notti da fine Repubblica, è che il nostro paese è nelle mani di un rincoglionito nella migliore delle ipotesi, di un furfante nella peggiore. Credo che neanche le neo-istituzioni parlamentari irachene abbiano conosciuto un tale suk, un tale mercato delle vacche, tante e tali irregolarità procedurali quante ne ha conosciute in un sol giorno il nostro Senato nel tentativo di eleggere il suo presidente.
Nel secondo scrutinio le tre schede su cui vi era scritto "Marini Francesco" andavano palesemente annullate, perché nessun membro del Senato si chiama "Francesco Marini", e quindi non dovevano portare alla ripetizione della votazione, ma alla semplice constatazione del non raggiungimento del quorum necessario all'elezione del presidente.
Nella lettura delle schede il presidente provvisorio Scalfaro commetteva inoltre un primo grave errore: uno dei tre "Marini Francesco" sfuggiva all'aula, perché Scalfaro, sbagliando, leggeva invece "Marini Franco". Poi l'ex presidente commetteva una seconda scorrettezza decidendo di rinviare di quasi due ore la ripetizione del secondo scrutinio, al solo scopo di facilitare il ritorno in aula dei senatori della "maggioranza" che si erano allontanati quando sembrava che ormai il risultato fosse acquisito.
Altre irregolarità, ancora più gravi, sono state commesse nella ripetizione del secondo scrutinio. Stavolta su una sola scheda risulta scritto il nome di "Marini Francesco", ma Scalfaro spaccia di nuovo all'aula che vi sia scritto "Marini Franco", mettendo a dura prova la fiducia dell'opposizione nel suo operato.
Come se non bastasse, capovolgendo la decisione presa nella votazione precedente, i segretari del seggio elettorale più importante d'Italia votano a maggioranza per l'attribuzione della scheda con su scritto "Marini Francesco" al candidato "Marini Franco", commmettendo un vero e proprio broglio elettorale. Infatti, dopo tutte le polemiche su quel nome sbagliato che faceva riferimento a un inesistente "Marini Francesco", è difficile pensare a distrazioni o a errori. Più facile immaginare che si sia trattato di "pizzini mafiosi" interni alla maggioranza, di senatori che offrivano il loro voto in cambio di qualcosa. Inoltre, i segretari del seggio hanno abbandonato l'aula, prendendo le loro decisioni di nascosto dagli altri senatori.
Scalfaro, tremante e visibilmente frastornato, ammettendo di aver letto una cosa per un'altra, ha insistito per procedere al terzo scrutinio nella giornata di sabato. Decisione contestatissima dai senatori del centrodestra, per i quali essendo i lavori sconfinati già a sabato, aggiornarli per il giorno successivo avrebbe dovuto significare aggiornarli a domenica.
Il senatore Castelli, prendendo la parola dopo la lettura del verbale, ha cortesemente invitato Scalfaro a valutare se fosse in grado di presiedere l'aula, ma l'anziano presidente, pur ammettendo di «sentirsi male» già da qualche ora, ha mostrato di non voler desistere, convocando una nuova seduta oggi stesso alle 10,30. A questo punto, bisogna vedere come reagirà il centrodestra, dopo che per tutta la giornata la "maggioranza" ha cercato di truccare l'esito delle votazioni.
Se a tutto questo indecoroso e desolante spettacolo sommiamo il fatto che costituito il seggio elettorale i senatori non potrebbero prendere la parola e che dal Senato sono stati esclusi, per la mancata corretta applicazione della lettera della legge elettorale, ben otto senatori di diverse liste regolarmente eletti, il panorama di illegalità che ci si presenta di fronte è totale e di stampo sudamericano.
A Villa Arzilla, dove un 87enne e un 73enne si sfidavano a un vecchio e nobile gioco di società, si sono fatte le ore piccole e i vecchietti hanno cominciato a dare i numeri. L'amara verità, la tristezza infinita di queste cupe notti da fine Repubblica, è che il nostro paese è nelle mani di un rincoglionito nella migliore delle ipotesi, di un furfante nella peggiore. Credo che neanche le neo-istituzioni parlamentari irachene abbiano conosciuto un tale suk, un tale mercato delle vacche, tante e tali irregolarità procedurali quante ne ha conosciute in un sol giorno il nostro Senato nel tentativo di eleggere il suo presidente.
Nel secondo scrutinio le tre schede su cui vi era scritto "Marini Francesco" andavano palesemente annullate, perché nessun membro del Senato si chiama "Francesco Marini", e quindi non dovevano portare alla ripetizione della votazione, ma alla semplice constatazione del non raggiungimento del quorum necessario all'elezione del presidente.
Nella lettura delle schede il presidente provvisorio Scalfaro commetteva inoltre un primo grave errore: uno dei tre "Marini Francesco" sfuggiva all'aula, perché Scalfaro, sbagliando, leggeva invece "Marini Franco". Poi l'ex presidente commetteva una seconda scorrettezza decidendo di rinviare di quasi due ore la ripetizione del secondo scrutinio, al solo scopo di facilitare il ritorno in aula dei senatori della "maggioranza" che si erano allontanati quando sembrava che ormai il risultato fosse acquisito.
Altre irregolarità, ancora più gravi, sono state commesse nella ripetizione del secondo scrutinio. Stavolta su una sola scheda risulta scritto il nome di "Marini Francesco", ma Scalfaro spaccia di nuovo all'aula che vi sia scritto "Marini Franco", mettendo a dura prova la fiducia dell'opposizione nel suo operato.
Come se non bastasse, capovolgendo la decisione presa nella votazione precedente, i segretari del seggio elettorale più importante d'Italia votano a maggioranza per l'attribuzione della scheda con su scritto "Marini Francesco" al candidato "Marini Franco", commmettendo un vero e proprio broglio elettorale. Infatti, dopo tutte le polemiche su quel nome sbagliato che faceva riferimento a un inesistente "Marini Francesco", è difficile pensare a distrazioni o a errori. Più facile immaginare che si sia trattato di "pizzini mafiosi" interni alla maggioranza, di senatori che offrivano il loro voto in cambio di qualcosa. Inoltre, i segretari del seggio hanno abbandonato l'aula, prendendo le loro decisioni di nascosto dagli altri senatori.
Scalfaro, tremante e visibilmente frastornato, ammettendo di aver letto una cosa per un'altra, ha insistito per procedere al terzo scrutinio nella giornata di sabato. Decisione contestatissima dai senatori del centrodestra, per i quali essendo i lavori sconfinati già a sabato, aggiornarli per il giorno successivo avrebbe dovuto significare aggiornarli a domenica.
Il senatore Castelli, prendendo la parola dopo la lettura del verbale, ha cortesemente invitato Scalfaro a valutare se fosse in grado di presiedere l'aula, ma l'anziano presidente, pur ammettendo di «sentirsi male» già da qualche ora, ha mostrato di non voler desistere, convocando una nuova seduta oggi stesso alle 10,30. A questo punto, bisogna vedere come reagirà il centrodestra, dopo che per tutta la giornata la "maggioranza" ha cercato di truccare l'esito delle votazioni.
Se a tutto questo indecoroso e desolante spettacolo sommiamo il fatto che costituito il seggio elettorale i senatori non potrebbero prendere la parola e che dal Senato sono stati esclusi, per la mancata corretta applicazione della lettera della legge elettorale, ben otto senatori di diverse liste regolarmente eletti, il panorama di illegalità che ci si presenta di fronte è totale e di stampo sudamericano.
Friday, April 28, 2006
I diciotto deputati della Rosa
Un paio di scelte discutibili mi lasciano con l'amaro in bocca
Ci avevo quasi preso con le mie ultime anticipazioni, pubblicate l'altro ieri in serata. Sedici su diciotto. Rispetto alle mie personalissime "proiezioni", in quota socialista non è stato eletto Casula (nella Circoscrizione Sardegna è stato eletto Villetti), ma Antinucci (nella circoscrizione Lazio 1). L'unica incertezza che avevo individuato tra gli eletti radicali, tra Mellano (dato al 55%) e Parachini (al 45%), si è risolta in favore di Mellano (eletto nella Circoscrizione Piemonte 2).
Ma la vera sorpresa, francamente impensabile, l'ha riservata la quota radicale. Con una scelta molto discutibile è rimasto fuori il costituzionalista Michele Ainis ed è invece rientrata tra gli eletti Donatella Poretti, membro di Giunta dell'Associazione Luca Coscioni.
Così, uno dei preziosi e sudatissimi (dopo dodici anni di attesa) sette seggi radicali (dai diciotto aggiudicati alla Rosa vanno sottratti i nove ai socialisti e i due agli ex-diesse Buglio e Turci) è stato assegnato, non si sa bene se in quota rosa (ma i radicali non erano contro le quote?), o in quota Ass. Coscioni (ma non erano contro il "manuale Cencelli"?), a un esponente, diciamo, non tra i più qualificati. Tra questi, oltre il già citato Ainis, si potevano effettuare scelte migliori. Per educazione non scendo in particolari, ma dico solo che il mio non è il solito pregiudizio su un nome sconosciuto. Per me non lo è.
Se un grande partito con decine e decine di eletti può anche permettersi di portare in Parlamento dirigenti di secondo, o terzo piano, ci saremmo aspettati dai radicali una maggiore attenzione per impiegare e valorizzare nei pochi seggi ottenuti le migliori energie umane a disposizione. Parachini, Maria Antonietta Coscioni, per citare due donne dell'Ass. Coscioni; De Lucia e Bacchi per Radicali italiani; Mecacci per il PRT; fino a Luigi Castaldi e Diego Galli, relegati in posizioni arretrate e persino a Irene Testa, totalmente esclusa. Se questa è la capacità di selezione, mi vengono molti dubbi se votare Rosa nel Pugno alle elezioni comunali o piuttosto andare al mare, che si respira aria migliore che tra Veltroni e Alemanno.
Comunque ecco i diciotto deputati della Rosa nel Pugno: Enrico Boselli, Roberto Villetti, Giacomo Mancini, Enrico Buemi, Angelo Piazza, Giovanni Crema, Rapisardo Antinucci, Gianfranco Schietroma, Lello Di Gioia, per quanto riguarda lo Sdi; Emma Bonino, Daniele Capezzone, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Sergio D'Elia, Bruno Mellano (che subentra a Marco Cappato destinato al PE al posto della Bonino), Donatella Poretti, Lanfranco Turci, Salvatore Buglio, per quanto riguarda i radicali.
Con un'altra decisione molto discutibile il mite Roberto Villetti viene indicato quale presidente del neo-gruppo della Rosa nel Pugno, mentre in quel ruolo avremmo visto meglio il combattivo Daniele Capezzone, o lo stesso Lanfranco Turci, scegliendo l'esperienza, che invece sarà solo vicepresidente.
Ci avevo quasi preso con le mie ultime anticipazioni, pubblicate l'altro ieri in serata. Sedici su diciotto. Rispetto alle mie personalissime "proiezioni", in quota socialista non è stato eletto Casula (nella Circoscrizione Sardegna è stato eletto Villetti), ma Antinucci (nella circoscrizione Lazio 1). L'unica incertezza che avevo individuato tra gli eletti radicali, tra Mellano (dato al 55%) e Parachini (al 45%), si è risolta in favore di Mellano (eletto nella Circoscrizione Piemonte 2).
Ma la vera sorpresa, francamente impensabile, l'ha riservata la quota radicale. Con una scelta molto discutibile è rimasto fuori il costituzionalista Michele Ainis ed è invece rientrata tra gli eletti Donatella Poretti, membro di Giunta dell'Associazione Luca Coscioni.
Così, uno dei preziosi e sudatissimi (dopo dodici anni di attesa) sette seggi radicali (dai diciotto aggiudicati alla Rosa vanno sottratti i nove ai socialisti e i due agli ex-diesse Buglio e Turci) è stato assegnato, non si sa bene se in quota rosa (ma i radicali non erano contro le quote?), o in quota Ass. Coscioni (ma non erano contro il "manuale Cencelli"?), a un esponente, diciamo, non tra i più qualificati. Tra questi, oltre il già citato Ainis, si potevano effettuare scelte migliori. Per educazione non scendo in particolari, ma dico solo che il mio non è il solito pregiudizio su un nome sconosciuto. Per me non lo è.
Se un grande partito con decine e decine di eletti può anche permettersi di portare in Parlamento dirigenti di secondo, o terzo piano, ci saremmo aspettati dai radicali una maggiore attenzione per impiegare e valorizzare nei pochi seggi ottenuti le migliori energie umane a disposizione. Parachini, Maria Antonietta Coscioni, per citare due donne dell'Ass. Coscioni; De Lucia e Bacchi per Radicali italiani; Mecacci per il PRT; fino a Luigi Castaldi e Diego Galli, relegati in posizioni arretrate e persino a Irene Testa, totalmente esclusa. Se questa è la capacità di selezione, mi vengono molti dubbi se votare Rosa nel Pugno alle elezioni comunali o piuttosto andare al mare, che si respira aria migliore che tra Veltroni e Alemanno.
Comunque ecco i diciotto deputati della Rosa nel Pugno: Enrico Boselli, Roberto Villetti, Giacomo Mancini, Enrico Buemi, Angelo Piazza, Giovanni Crema, Rapisardo Antinucci, Gianfranco Schietroma, Lello Di Gioia, per quanto riguarda lo Sdi; Emma Bonino, Daniele Capezzone, Maurizio Turco, Marco Beltrandi, Sergio D'Elia, Bruno Mellano (che subentra a Marco Cappato destinato al PE al posto della Bonino), Donatella Poretti, Lanfranco Turci, Salvatore Buglio, per quanto riguarda i radicali.
Con un'altra decisione molto discutibile il mite Roberto Villetti viene indicato quale presidente del neo-gruppo della Rosa nel Pugno, mentre in quel ruolo avremmo visto meglio il combattivo Daniele Capezzone, o lo stesso Lanfranco Turci, scegliendo l'esperienza, che invece sarà solo vicepresidente.
Recitare, a soggetto, in un pessimo spettacolo
Un ruolo di confine, da "irriconoscibili", per la Rosa nel Pugno
«Un pessimo spettacolo», l'ha definito, giorni fa, Sergio Romano sul Corriere della Sera e non sapremmo trovare parole più adeguate. Trascorse poche settimane dal voto - che ha consegnato all'Unione la Camera, grazie al premio di maggioranza scattato per soli 20 mila schede di differenza dalla CdL, e il Senato, ma con una maggioranza risicata - lo spettacolo offerto è stato penosissimo. Fiumi e fiumi di chiacchiere su chi dovesse scaldare questa o quella poltrona, liti da portinaie con picche e ripicche da primedonne coi baffi.
Dall'editoriale di Romano risuonano echi pannelliani contro i partiti, «dominati da oligarchie e da logiche di potere che non hanno alcun rapporto con le esigenze del Paese». Due cose ci aspettavamo da Prodi: che annunciasse al paese un governo «composto di persone serie e autorevoli» e i primi, urgenti, provvedimenti. Invece, no. «Invece di dare prova di serietà e unità, questa sparuta maggioranza si accapiglia sulla distribuzione delle poltrone e dà così l'impressione che sia questa, per l'appunto, l'occupazione preferita dei partiti».
Le polemiche si sono per di più concentrate sull'assegnazione delle cariche istituzionali, la seconda e la terza dello Stato, che ormai, denuncia Romano, sono divenute «centri di un potere parallelo... utili sale d'aspetto... una piattaforma che permette al titolare di valorizzare se stesso... coltivare le proprie ambizioni anche a scapito della maggioranza di cui sono espressione...».
Berlusconi vede comunisti dappertutto, e gli conviene vederli e farli vedere. D'altra parte i comunisti ci sono ed è bene non nasconderselo. A Prodi converrebbe non farli vedere troppo, non vantarsene, e invece (siamo nel 2006, a 17 anni dalla caduta del Muro) consegna al loro leader la terza carica dello Stato.
E quello che fa? Non contento, si mette a rilasciare interviste in cui espone un vero e proprio programma di governo, a 360°, come se fosse lui il capo della coalizione. E d'altronde è esattamente ciò che, indisturbato, ha fatto per tutta la campagna elettorale, contribuendo non poco alla spettacolare rimonta di Berlusconi. Al di là delle minacce a Mediaset, da notare la concezione totalitaria della televisione pubblica: «Penso che il carattere pubblico della Rai, di una Rai che lavora in direzione della cittadinanza, in direzione del popolo, sia uno strumento fondamentale anche di una nuova politica economica, non solo di una politica sociale».
Le premesse per una prima, immediata, rivincita elettorale di Berlusconi, già alle amministrative del 28 maggio, ci sono tutte.
Mentre accadeva tutto questo dov'era Romano Prodi? Ce lo siamo chiesti in molti, e tra gli altri anche Paolo Franchi. Prodi «tace praticamente su tutto, quasi fosse in apnea, mentre praticamente su tutto, e non solo sull'inedita, curiosissima contesa di Palazzo Madama, intervengono, a proposito e a sproposito, i partner, grandi e piccini». E' incredibile come «i giorni passino, la situazione si aggrovigli al limite del paradosso, e Prodi continui a non far sentire la sua voce».
Di indicare almeno quelle tre o quattro personalità cui affidare i ministeri chiave, e di delineare i primi obiettivi del nuovo esecutivo, come segnale di credibilità e autorevolezza, neanche se ne parla. Ma come «unire» il paese, se a ogni minima iniziativa del Professore - persino fare un nome o introdurre un tema - la coalizione rischia di deflagrare? Meglio tacere, meglio l'«apnea», se si è ostaggi delle divisioni interne.
Eppure, se Prodi non va alla montagna, è la montagna che va da Prodi. Così, magicamente, quei nodi che potrebbero mettere in crisi l'Unione prima ancora dell'insediamento si materializzano tutti insieme alla porta del suo studio. La legge Biagi, che la Cgil e la sinistra estrema vogliono vedere cancellare; la Tav, con la spinta ad agire da parte della Commissione europea e il ritorno alla carica dei localismi e dei movimenti; le truppe in Iraq, con l'attentato di ieri mattina con il quale i terroristi hanno voluto tastare il polso alla nuova maggioranza.
Un ruolo per la Rosa nel Pugno
Se questo è lo spettacolo, se questi sono i protagonisti, come può la Rosa nel Pugno conquistarsi la palma di migliore attore non protagonista? Che fare, insomma?
Innanzitutto, e la mozione uscita dalla Direzione va proprio in questo senso, non mollare sull'incredibile, forse preordinata, esclusione dal Senato. Le commissioni elettorali delle Corti d'Appello non si sono nemmeno disturbate a rileggere la legge elettorale, prendendo per buona la velina del Ministero degli Interni. Senza dubbio è la ferita più grave allo stato di diritto negli ultimi anni, perché non tocca qualche migliaia di firme, ma il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.
Una questione di legalità di cui investire direttamente i vertici dell'Unione. Anzi, farne un punto qualificante per i rapporti futuri. D'altronde, se il centrosinistra - dopo aver affossato l'amnistia votando come An e Lega, dopo essersi reso complice della discriminazione prevista da questa legge elettorale ai danni della Rosa - volesse perseverare nel voler escludere dal Senato radicali e socialisti, obiettivo manifesto dei Ds, promotori di decisive liste civetta; se questo fosse il totale disprezzo della legalità con il quale si ripresenta a governare il paese, allora non si potrebbe certo pretendere di cavare il sangue dalle rape. La legalità, insomma, prima di tutto. E si potrebbe cominciare a non votare Bertinotti alla presidenza della Camera, per esempio, continuando con una mobilitazione nonviolenta.
Si parla di un incarico di governo per Emma Bonino. A Pannella e Boselli, incontrati in settimana, Prodi ha chiesto di avanzare una proposta: la Difesa, ha deciso ieri in serata la Segreteria. Meglio gli Esteri, ma l'impressione è che Prodi non sia disposto ad andare più in là delle Politiche comunitarie, ministero senza portafogli. Nel caso in cui non ottenesse un ministero con portafogli dalla relativa autonomia, come per l'appunto la Difesa o gli Esteri, la Bonino, e la Rosa nel Pugno, dovrebbe tenersi ben alla larga da questa compagine governativa.
Trovarsi a gestire le briciole in un corpaccione ministeriale che fra qualche mese potrebbe venire congedato con disonore sarebbe imbarazzante. Pensiamo solo che alla Difesa, invece della Bonino, potrebbe finire Mastella. I nostri segreti militari nelle mani di Mastella, uno capace di dar via l'anima per una poltrona in più. D'Alema potrebbe finire per accettare gli Esteri, con il rischio di una politica di apertura nei confronti di Hamas. Si parla persino di un Ministero ad hoc (per i «Beni comuni») da affidare ai movimenti. Alla Giustizia, scartato Pisapia, l'unico presentabile di Rifondazione, è quasi sicura una rappresentante del Partito dei giudici: la Finocchiaro. Per non parlare delle mine vaganti clerico-solidariste Turco e Bindi.
Con uno scenario del genere meglio davvero neanche un sottosegretario e limitarsi ad appoggiare le misure di risanamento e le riforme di sviluppo che riuscirà a presentare Tommaso Padoa Schioppa, se sarà lui (almeno questo!) il ministro dell'Economia. I radicali d'altra parte offrirono un sostegno simile anche ad Amato nel '92. Se neanche TPS dovesse far parte della squadra di Prodi, se nessun incarico di responsabilità dovesse essere affidato alla Bonino, se neanche il rispetto della legalità smuovesse i vertici dell'Unione, allora non vedo come ci si possa ancora sentire "parte" della "maggioranza".
Non è il momento, insomma, di abbandonarsi alle ambizioni personali. Non si potrebbe lavorare all'alternativa prestando la propria opera e la propria immagine a un'alternanza che si candidasse alla mera gestione del declino. Un risultato elettorale migliore avrebbe potuto fare da volano alla Rosa, ma visti i numeri il nuovo soggetto nasce anemico e ha di fronte a sé una strada in salita. L'obiettivo principale dev'essere quello di acquisire forza, per potersi proporre come punto di aggregazione, di attrazione di un universo liberale, laico, socialista, radicale.
Obiettivo da perseguire connotandosi per le proprie iniziative politiche di stampo liberale, laico, riformatore e aprendo le contraddizioni in entrambe le coalizioni. Ne ha dato un esempio ieri Capezzone, intervendo su il Riformista con un lucido articolo nel quale invitava Prodi a prendere «il coraggio a due mani, e provare a dare un tono diverso, ambizioso, riformatore, ai primi atti di politica economica del Governo».
Completare, non cancellare, la Legge Biagi. Al meccanismo della cassa integrazione (concepito per sostenere settori non più trainanti) sostituire il "welfare to work" blairiano, «non solo più adeguato ai tempi, ma anche più "equo", perché tutela davvero chi oggi si trova "scoperto"... anziché sostenere imprese o settori decotti». Un sussidio (con somme che non incentivino a "galleggiare" tra tutela pubblica e lavoro nero) e, insieme, un'offerta di formazione per il tempo necessario al reinserimento, «sapendo bene che Blair ha potuto contenere le spese proprio perché ha saputo via via ridurre il numero di quanti usufruiscono di questi strumenti, e, soprattutto, il tempo per cui ne usufruiscono». Poi, le «riforme senza spesa» dell'agenda Giavazzi, l'abolizione degli ordini professionali e del valore legale del titolo di studio.
Insomma, l'invito a Prodi è di «tentare di dare un colpo d'acceleratore, assicurando alla propria azione un profilo liberale, riformatore, di mercato. Quello che l'Unione non può permettersi è considerare l'assetto corporativo italiano, l'"esistente italiano", come un dato ineluttabile, o - addirittura - alla stregua di un elemento di "governabilità" del sistema. In quel caso, resterebbe da "governare" soltanto il declino».
«Un pessimo spettacolo», l'ha definito, giorni fa, Sergio Romano sul Corriere della Sera e non sapremmo trovare parole più adeguate. Trascorse poche settimane dal voto - che ha consegnato all'Unione la Camera, grazie al premio di maggioranza scattato per soli 20 mila schede di differenza dalla CdL, e il Senato, ma con una maggioranza risicata - lo spettacolo offerto è stato penosissimo. Fiumi e fiumi di chiacchiere su chi dovesse scaldare questa o quella poltrona, liti da portinaie con picche e ripicche da primedonne coi baffi.
Dall'editoriale di Romano risuonano echi pannelliani contro i partiti, «dominati da oligarchie e da logiche di potere che non hanno alcun rapporto con le esigenze del Paese». Due cose ci aspettavamo da Prodi: che annunciasse al paese un governo «composto di persone serie e autorevoli» e i primi, urgenti, provvedimenti. Invece, no. «Invece di dare prova di serietà e unità, questa sparuta maggioranza si accapiglia sulla distribuzione delle poltrone e dà così l'impressione che sia questa, per l'appunto, l'occupazione preferita dei partiti».
Le polemiche si sono per di più concentrate sull'assegnazione delle cariche istituzionali, la seconda e la terza dello Stato, che ormai, denuncia Romano, sono divenute «centri di un potere parallelo... utili sale d'aspetto... una piattaforma che permette al titolare di valorizzare se stesso... coltivare le proprie ambizioni anche a scapito della maggioranza di cui sono espressione...».
Berlusconi vede comunisti dappertutto, e gli conviene vederli e farli vedere. D'altra parte i comunisti ci sono ed è bene non nasconderselo. A Prodi converrebbe non farli vedere troppo, non vantarsene, e invece (siamo nel 2006, a 17 anni dalla caduta del Muro) consegna al loro leader la terza carica dello Stato.
E quello che fa? Non contento, si mette a rilasciare interviste in cui espone un vero e proprio programma di governo, a 360°, come se fosse lui il capo della coalizione. E d'altronde è esattamente ciò che, indisturbato, ha fatto per tutta la campagna elettorale, contribuendo non poco alla spettacolare rimonta di Berlusconi. Al di là delle minacce a Mediaset, da notare la concezione totalitaria della televisione pubblica: «Penso che il carattere pubblico della Rai, di una Rai che lavora in direzione della cittadinanza, in direzione del popolo, sia uno strumento fondamentale anche di una nuova politica economica, non solo di una politica sociale».
Le premesse per una prima, immediata, rivincita elettorale di Berlusconi, già alle amministrative del 28 maggio, ci sono tutte.
Mentre accadeva tutto questo dov'era Romano Prodi? Ce lo siamo chiesti in molti, e tra gli altri anche Paolo Franchi. Prodi «tace praticamente su tutto, quasi fosse in apnea, mentre praticamente su tutto, e non solo sull'inedita, curiosissima contesa di Palazzo Madama, intervengono, a proposito e a sproposito, i partner, grandi e piccini». E' incredibile come «i giorni passino, la situazione si aggrovigli al limite del paradosso, e Prodi continui a non far sentire la sua voce».
Di indicare almeno quelle tre o quattro personalità cui affidare i ministeri chiave, e di delineare i primi obiettivi del nuovo esecutivo, come segnale di credibilità e autorevolezza, neanche se ne parla. Ma come «unire» il paese, se a ogni minima iniziativa del Professore - persino fare un nome o introdurre un tema - la coalizione rischia di deflagrare? Meglio tacere, meglio l'«apnea», se si è ostaggi delle divisioni interne.
Eppure, se Prodi non va alla montagna, è la montagna che va da Prodi. Così, magicamente, quei nodi che potrebbero mettere in crisi l'Unione prima ancora dell'insediamento si materializzano tutti insieme alla porta del suo studio. La legge Biagi, che la Cgil e la sinistra estrema vogliono vedere cancellare; la Tav, con la spinta ad agire da parte della Commissione europea e il ritorno alla carica dei localismi e dei movimenti; le truppe in Iraq, con l'attentato di ieri mattina con il quale i terroristi hanno voluto tastare il polso alla nuova maggioranza.
Un ruolo per la Rosa nel Pugno
Se questo è lo spettacolo, se questi sono i protagonisti, come può la Rosa nel Pugno conquistarsi la palma di migliore attore non protagonista? Che fare, insomma?
Innanzitutto, e la mozione uscita dalla Direzione va proprio in questo senso, non mollare sull'incredibile, forse preordinata, esclusione dal Senato. Le commissioni elettorali delle Corti d'Appello non si sono nemmeno disturbate a rileggere la legge elettorale, prendendo per buona la velina del Ministero degli Interni. Senza dubbio è la ferita più grave allo stato di diritto negli ultimi anni, perché non tocca qualche migliaia di firme, ma il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.
Una questione di legalità di cui investire direttamente i vertici dell'Unione. Anzi, farne un punto qualificante per i rapporti futuri. D'altronde, se il centrosinistra - dopo aver affossato l'amnistia votando come An e Lega, dopo essersi reso complice della discriminazione prevista da questa legge elettorale ai danni della Rosa - volesse perseverare nel voler escludere dal Senato radicali e socialisti, obiettivo manifesto dei Ds, promotori di decisive liste civetta; se questo fosse il totale disprezzo della legalità con il quale si ripresenta a governare il paese, allora non si potrebbe certo pretendere di cavare il sangue dalle rape. La legalità, insomma, prima di tutto. E si potrebbe cominciare a non votare Bertinotti alla presidenza della Camera, per esempio, continuando con una mobilitazione nonviolenta.
Si parla di un incarico di governo per Emma Bonino. A Pannella e Boselli, incontrati in settimana, Prodi ha chiesto di avanzare una proposta: la Difesa, ha deciso ieri in serata la Segreteria. Meglio gli Esteri, ma l'impressione è che Prodi non sia disposto ad andare più in là delle Politiche comunitarie, ministero senza portafogli. Nel caso in cui non ottenesse un ministero con portafogli dalla relativa autonomia, come per l'appunto la Difesa o gli Esteri, la Bonino, e la Rosa nel Pugno, dovrebbe tenersi ben alla larga da questa compagine governativa.
Trovarsi a gestire le briciole in un corpaccione ministeriale che fra qualche mese potrebbe venire congedato con disonore sarebbe imbarazzante. Pensiamo solo che alla Difesa, invece della Bonino, potrebbe finire Mastella. I nostri segreti militari nelle mani di Mastella, uno capace di dar via l'anima per una poltrona in più. D'Alema potrebbe finire per accettare gli Esteri, con il rischio di una politica di apertura nei confronti di Hamas. Si parla persino di un Ministero ad hoc (per i «Beni comuni») da affidare ai movimenti. Alla Giustizia, scartato Pisapia, l'unico presentabile di Rifondazione, è quasi sicura una rappresentante del Partito dei giudici: la Finocchiaro. Per non parlare delle mine vaganti clerico-solidariste Turco e Bindi.
Con uno scenario del genere meglio davvero neanche un sottosegretario e limitarsi ad appoggiare le misure di risanamento e le riforme di sviluppo che riuscirà a presentare Tommaso Padoa Schioppa, se sarà lui (almeno questo!) il ministro dell'Economia. I radicali d'altra parte offrirono un sostegno simile anche ad Amato nel '92. Se neanche TPS dovesse far parte della squadra di Prodi, se nessun incarico di responsabilità dovesse essere affidato alla Bonino, se neanche il rispetto della legalità smuovesse i vertici dell'Unione, allora non vedo come ci si possa ancora sentire "parte" della "maggioranza".
Non è il momento, insomma, di abbandonarsi alle ambizioni personali. Non si potrebbe lavorare all'alternativa prestando la propria opera e la propria immagine a un'alternanza che si candidasse alla mera gestione del declino. Un risultato elettorale migliore avrebbe potuto fare da volano alla Rosa, ma visti i numeri il nuovo soggetto nasce anemico e ha di fronte a sé una strada in salita. L'obiettivo principale dev'essere quello di acquisire forza, per potersi proporre come punto di aggregazione, di attrazione di un universo liberale, laico, socialista, radicale.
Obiettivo da perseguire connotandosi per le proprie iniziative politiche di stampo liberale, laico, riformatore e aprendo le contraddizioni in entrambe le coalizioni. Ne ha dato un esempio ieri Capezzone, intervendo su il Riformista con un lucido articolo nel quale invitava Prodi a prendere «il coraggio a due mani, e provare a dare un tono diverso, ambizioso, riformatore, ai primi atti di politica economica del Governo».
Completare, non cancellare, la Legge Biagi. Al meccanismo della cassa integrazione (concepito per sostenere settori non più trainanti) sostituire il "welfare to work" blairiano, «non solo più adeguato ai tempi, ma anche più "equo", perché tutela davvero chi oggi si trova "scoperto"... anziché sostenere imprese o settori decotti». Un sussidio (con somme che non incentivino a "galleggiare" tra tutela pubblica e lavoro nero) e, insieme, un'offerta di formazione per il tempo necessario al reinserimento, «sapendo bene che Blair ha potuto contenere le spese proprio perché ha saputo via via ridurre il numero di quanti usufruiscono di questi strumenti, e, soprattutto, il tempo per cui ne usufruiscono». Poi, le «riforme senza spesa» dell'agenda Giavazzi, l'abolizione degli ordini professionali e del valore legale del titolo di studio.
Insomma, l'invito a Prodi è di «tentare di dare un colpo d'acceleratore, assicurando alla propria azione un profilo liberale, riformatore, di mercato. Quello che l'Unione non può permettersi è considerare l'assetto corporativo italiano, l'"esistente italiano", come un dato ineluttabile, o - addirittura - alla stregua di un elemento di "governabilità" del sistema. In quel caso, resterebbe da "governare" soltanto il declino».
Thursday, April 27, 2006
I terroristi mettono alla prova l'Italia di Prodi
L'Unione posta bruscamente di fronte alla prova Iraq
Temevamo un attentato in Italia alla vigilia delle elezioni, per condizionarne l'esito, ma non c'è stato. L'attentato di questa mattina a Nassiryia, costato la vita a tre militari italiani e uno rumeno, è il modo dei terroristi di tastare il polso al nuovo governo italiano. Ci auguriamo che Prodi non sia così stupido da non averlo capito.
Ora c'è da aspettarsi che i soliti sciacalli ricomincino con i loro cori per il ritiro subito, «senza se e senza ma», e i loro "9, 99, 999 Nassiryia". Vanno respinti in modo netto da Prodi e dagli altri leader della coalizione, ma i primi a esprimersi in tal senso sono stati solo Rutelli ed Emma Bonino. I terroristi sperano infatti di trovare nel prossimo governo di sinistra un ventre molle e un polso tremante. In ogni caso tenteranno ancora di giocare sulle sue contraddizioni interne. Servirebbe lo spirito dell'Euston Manifesto.
Per una sinistra capace di interpretare - come dice De Giovanni - «un'idea alta dell'Occidente», di un Occidente «che non è pentito di ciò che è». Per una sinistra capace di affermare il diritto/dovere di ingerenza e più concretamente impegnata nella promozione globale della democrazia. La via per il Partito democratico passa inevitabilmente per la riscoperta delle radici anti-totalitarie della sinistra democratica; per combattere l'islamismo con la stessa tenacia di Roosevelt contro il nazifascismo, e di Truman e Kennedy contro il comunismo.
Un pensiero forte e commosso ai caduti, di cui onoreremo la memoria innanzitutto non rendendo vano il loro estremo sacrificio.
Temevamo un attentato in Italia alla vigilia delle elezioni, per condizionarne l'esito, ma non c'è stato. L'attentato di questa mattina a Nassiryia, costato la vita a tre militari italiani e uno rumeno, è il modo dei terroristi di tastare il polso al nuovo governo italiano. Ci auguriamo che Prodi non sia così stupido da non averlo capito.
Ora c'è da aspettarsi che i soliti sciacalli ricomincino con i loro cori per il ritiro subito, «senza se e senza ma», e i loro "9, 99, 999 Nassiryia". Vanno respinti in modo netto da Prodi e dagli altri leader della coalizione, ma i primi a esprimersi in tal senso sono stati solo Rutelli ed Emma Bonino. I terroristi sperano infatti di trovare nel prossimo governo di sinistra un ventre molle e un polso tremante. In ogni caso tenteranno ancora di giocare sulle sue contraddizioni interne. Servirebbe lo spirito dell'Euston Manifesto.
Per una sinistra capace di interpretare - come dice De Giovanni - «un'idea alta dell'Occidente», di un Occidente «che non è pentito di ciò che è». Per una sinistra capace di affermare il diritto/dovere di ingerenza e più concretamente impegnata nella promozione globale della democrazia. La via per il Partito democratico passa inevitabilmente per la riscoperta delle radici anti-totalitarie della sinistra democratica; per combattere l'islamismo con la stessa tenacia di Roosevelt contro il nazifascismo, e di Truman e Kennedy contro il comunismo.
Un pensiero forte e commosso ai caduti, di cui onoreremo la memoria innanzitutto non rendendo vano il loro estremo sacrificio.
Arrestati i leader dell'opposizione bielorussa
Il leader dell'opposizione bielorussa Alyaksandr Milinkevich è stato arrestato. Le forze di polizia lo hanno prelevato senza alcun mandato dall'ufficio del giornale indipendente Belarusy i rynok, al quale aveva rilasciato un'intervista. Arrestati anche altri due esponenti dell'opposizione, il comunista Kalyakin e il laburista Bukhvostau. Tutti sarebbero accusati di aver organizzato manifestazioni non autorizzate nella giornata del ventennale di Chernobyl.
Aggiornamenti da Charter '97 e Publius Pundit.
Aggiornamenti da Charter '97 e Publius Pundit.
Zapatero a capo dell'esercito delle dodici scimmie
Pare che il Gruppo Socialista al Congresso spagnolo abbia proposto di riconoscere «diritti umani» agli scimpanzé e alle altre "grandi scimmie" così simili all'uomo. Ma cosa c'è di vero in questa bizzarra notizia? Il Corriere della Sera la riporta senza esagerazioni e prova a spiegare il perché delle tante polemiche suscitate.
Innanzitutto, va detto che non si tratta di un progetto di legge, ma di una richiesta del Parlamento al Governo. Il Governo Zapatero, che sembra orientato ad accoglierla, è chiamato a riconoscere alle "grandi scimmie" alcuni «diritti fondamentali». A impegnarsi cioè, in Spagna e in sede internazionale, a proteggerle da «maltrattamenti, schiavitù, tortura, morte, estinzione».
Fin qui nulla di particolarmente clamoroso. L'iniziativa rientra nell'ambito della tutela delle specie animali.
Il problema è che la proposta socialista, com'è già accaduto in altri casi, è accompagnata da una cornice ideologica. Perché - viene infatti da chiedersi - si parla solo di "grandi scimmie"? La spiegazione sta nel fatto che la richiesta nasce come adesione al «Progetto Grande Scimmia», iniziativa di una omonima associazione, che prevede «l'inclusione immediata degli antropoidi non umani in una comunità di uguali» e, di conseguenza, «la protezione morale e legale di cui godono solo gli esseri umani».
Stando così le cose è naturale che la proposta socialista perda credibilità e le critiche appaiano pienamente giustificate. Bisognerebbe accertare quanto sulla carta le intenzioni dei deputati socialisti coincidano con i piani di questa stramba associazione animalista, che ricorda il fanatismo cieco, quanto ingenuo, della piccola organizzazione capeggiata da Brad Pitt nel film "L'esercito delle dodici scimmie".
Il deputato verde Francisco Garrido, che fa parte del gruppo socialista ed è il presentatore della proposta, e il ministro dell'Ambiente Cristina Narbona hanno cercato di smorzare le polemiche spiegando che non si tratta di riconoscere «diritti umani», ma di assicurare protezione e trattamenti «umani» alle scimmie.
Ma se di questo si tratta, perché si parla solo di scimmie e non di tutte le altre specie animali? E i poveri tori spagnoli, per esempio? Che non si debbano arrecare inutili sofferenze agli animali è un principio condivisibile, di minima umanità direi, ma applicabile nei confronti di tutte le specie, altrimenti rischiamo di trovarci in presenza di altro. Insistere infatti a giustificare la proposta con la prossimità evolutiva e genetica delle scimmie all'uomo non fa che aumentare i dubbi. Se poi ci si mette anche un responsabile del Progetto a rivendicare che «noi siamo gli ambasciatori, i rappresentanti delle grandi scimmie, la loro voce», allora il quadro non può che farsi ridicolo.
Amnesty international si dice «sorpresa» che si lotti per «i diritti umani» delle scimmie quando oggi «non si riconoscono a molte persone». E in particolare il governo spagnolo ha da questo punto di vista molto da giustificare visti i suoi ottimi rapporti con le dittature sudamericane.
Questa sacralizzazione degli scimpanzè, volerli equiparare alle persone, somiglia troppo a un'altra sacralizzazione: quella degli embrioni umani, equiparati anch'essi a persone. Così si pretende che né embrioni, né animali siano utilizzati nei laboratori di ricerca. Chi crede nella sacralità degli uni su quali basi può opporsi alla sacralità degli altri, avendo presente la vicinanza genetica? Spesso coloro che si fanno promotori di queste sacralizzazioni, dal carattere supremamente materialista e scientista, sono gli stessi che si distraggono con troppa facilità quando ci sono in gioco i diritti di persone in carne e ossa, umane ictu oculi. Vale per i diritti delle donne, come per gli iracheni e le irachene abbandonati al loro destino dalle truppe spagnole.
Non si dovrebbe parlare di diritti, per animali o embrioni umani, ma di doveri che i cittadini hanno nei loro confronti. Sembra una sottigliezza linguistica, ma non è così. Troppo spesso nella bulimia di diritti della società contemporanea tendiamo a dimenticare che diritti e doveri appartengono agli individui, alla loro peculiare soggettività di persone.
Finora l'unico merito di Zapatero, rispetto al vecchiume della sinistra italiana, è di non aver disfatto le riforme liberali di Aznar in economia, tanto che la Spagna continuerà a crescere anche quest'anno a livelli quasi doppi rispetto alla media europea. E' disastrosa invece la sua politica estera, a cominciare dalla resa all'islamismo continuando con la special relationship con le dittature sudamericane. Ad alto rischio la sua apertura al dialogo con l'Eta e condotta con spirito ideologico l'istituzione del matrimonio gay, che Blair in Gran Bretagna ha introdotto senza operazioni di pulizia linguistica e culturale nei provvedimenti legislativi.
Innanzitutto, va detto che non si tratta di un progetto di legge, ma di una richiesta del Parlamento al Governo. Il Governo Zapatero, che sembra orientato ad accoglierla, è chiamato a riconoscere alle "grandi scimmie" alcuni «diritti fondamentali». A impegnarsi cioè, in Spagna e in sede internazionale, a proteggerle da «maltrattamenti, schiavitù, tortura, morte, estinzione».
Fin qui nulla di particolarmente clamoroso. L'iniziativa rientra nell'ambito della tutela delle specie animali.
Il problema è che la proposta socialista, com'è già accaduto in altri casi, è accompagnata da una cornice ideologica. Perché - viene infatti da chiedersi - si parla solo di "grandi scimmie"? La spiegazione sta nel fatto che la richiesta nasce come adesione al «Progetto Grande Scimmia», iniziativa di una omonima associazione, che prevede «l'inclusione immediata degli antropoidi non umani in una comunità di uguali» e, di conseguenza, «la protezione morale e legale di cui godono solo gli esseri umani».
Stando così le cose è naturale che la proposta socialista perda credibilità e le critiche appaiano pienamente giustificate. Bisognerebbe accertare quanto sulla carta le intenzioni dei deputati socialisti coincidano con i piani di questa stramba associazione animalista, che ricorda il fanatismo cieco, quanto ingenuo, della piccola organizzazione capeggiata da Brad Pitt nel film "L'esercito delle dodici scimmie".
Il deputato verde Francisco Garrido, che fa parte del gruppo socialista ed è il presentatore della proposta, e il ministro dell'Ambiente Cristina Narbona hanno cercato di smorzare le polemiche spiegando che non si tratta di riconoscere «diritti umani», ma di assicurare protezione e trattamenti «umani» alle scimmie.
Ma se di questo si tratta, perché si parla solo di scimmie e non di tutte le altre specie animali? E i poveri tori spagnoli, per esempio? Che non si debbano arrecare inutili sofferenze agli animali è un principio condivisibile, di minima umanità direi, ma applicabile nei confronti di tutte le specie, altrimenti rischiamo di trovarci in presenza di altro. Insistere infatti a giustificare la proposta con la prossimità evolutiva e genetica delle scimmie all'uomo non fa che aumentare i dubbi. Se poi ci si mette anche un responsabile del Progetto a rivendicare che «noi siamo gli ambasciatori, i rappresentanti delle grandi scimmie, la loro voce», allora il quadro non può che farsi ridicolo.
Amnesty international si dice «sorpresa» che si lotti per «i diritti umani» delle scimmie quando oggi «non si riconoscono a molte persone». E in particolare il governo spagnolo ha da questo punto di vista molto da giustificare visti i suoi ottimi rapporti con le dittature sudamericane.
Questa sacralizzazione degli scimpanzè, volerli equiparare alle persone, somiglia troppo a un'altra sacralizzazione: quella degli embrioni umani, equiparati anch'essi a persone. Così si pretende che né embrioni, né animali siano utilizzati nei laboratori di ricerca. Chi crede nella sacralità degli uni su quali basi può opporsi alla sacralità degli altri, avendo presente la vicinanza genetica? Spesso coloro che si fanno promotori di queste sacralizzazioni, dal carattere supremamente materialista e scientista, sono gli stessi che si distraggono con troppa facilità quando ci sono in gioco i diritti di persone in carne e ossa, umane ictu oculi. Vale per i diritti delle donne, come per gli iracheni e le irachene abbandonati al loro destino dalle truppe spagnole.
Non si dovrebbe parlare di diritti, per animali o embrioni umani, ma di doveri che i cittadini hanno nei loro confronti. Sembra una sottigliezza linguistica, ma non è così. Troppo spesso nella bulimia di diritti della società contemporanea tendiamo a dimenticare che diritti e doveri appartengono agli individui, alla loro peculiare soggettività di persone.
Finora l'unico merito di Zapatero, rispetto al vecchiume della sinistra italiana, è di non aver disfatto le riforme liberali di Aznar in economia, tanto che la Spagna continuerà a crescere anche quest'anno a livelli quasi doppi rispetto alla media europea. E' disastrosa invece la sua politica estera, a cominciare dalla resa all'islamismo continuando con la special relationship con le dittature sudamericane. Ad alto rischio la sua apertura al dialogo con l'Eta e condotta con spirito ideologico l'istituzione del matrimonio gay, che Blair in Gran Bretagna ha introdotto senza operazioni di pulizia linguistica e culturale nei provvedimenti legislativi.
Nomination radicalsocialiste/2
Aggiornamento delle mie personalissime "proiezioni" sui nominativi dei 18 eletti della Rosa nel Pugno alla Camera dei deputati.
In quota radicale: Bonino (sarà Cappato a prendere il suo posto al Parlamento europeo), Capezzone, Turco , Beltrandi, D'Elia, Turci, Buglio, Ainis e probabilmente Mellano (55%) o Parachini (45%).
In quota Sdi: Boselli, Villetti, Mancini, Buemi, Piazza, Crema, Schietroma, Di Gioia e Casula.
In quota radicale: Bonino (sarà Cappato a prendere il suo posto al Parlamento europeo), Capezzone, Turco , Beltrandi, D'Elia, Turci, Buglio, Ainis e probabilmente Mellano (55%) o Parachini (45%).
In quota Sdi: Boselli, Villetti, Mancini, Buemi, Piazza, Crema, Schietroma, Di Gioia e Casula.
Wednesday, April 26, 2006
I fascisti dell'antifascismo
La sinistra incapace di fare i conti con se stessa. I "democratici" sotto il ricatto dei "compagni che sbagliano"
Le solite gesta dei fascisti dell'antifascismo hanno caratterizzato anche quest'anno la giornata della Liberazione. «Rabbia e vergogna» dall'ambasciatore israeliano Ehud Gol per gli atti d'intolleranza contro la Brigata ebraica e per le bandiere israeliane date alle fiamme. Mentre la contestazione se non altro tornerà utile a Letizia Moratti, al corteo insieme al padre deportato, lanciandola ulteriormente verso il Comune di Milano. Da parte nostra un in bocca al lupo.
Ineccepibile il commento di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere di oggi. «Penosamente inadeguati» le reazioni degli esponenti del centrosinistra, «limitatisi tutti (con la sola, felice eccezione, oltre che della Rosa nel pugno e di Mastella, di Bruno Ferrante, concorrente con la Moratti nella prossima elezione a sindaco di Milano) a un formale rincrescimento». Eppure proprio essi non perdono occasione per rinfacciare ai politici di centrodestra di non partecipare ai festeggiamenti della Liberazione. «Più inadeguata delle altre, per l'evidente importanza della sua figura, la reazione di Romano Prodi».
L'occasione era invece propizia per affermare «che la democrazia italiana non sa che farsene dell'antifascismo dei faziosi e dei violenti; che la nostra democrazia non sa che farsene di quell'antifascismo che — come ha scritto coraggiosamente il direttore di Liberazione Piero Sansonetti — non capisce che "una cosa è cacciare i nazisti e un'altra è cacciare Berlusconi", che la democrazia italiana non sa che farsene — e non vuole avere niente a che fare — con l'antifascismo che non esita a strumentalizzare le grandi, drammatiche pagine della storia nazionale e i valori più alti del nostro patto costituzionale per sfogare i suoi poveri livori politici, per celare le sue pochezze, all'occasione per maramaldeggiare».
Infine, ottimo consiglio di Della Loggia ai "costituenti" del partito "democratico": «Finché l'antifascismo dei democratici non saprà prendere le distanze dall'antifascismo "militante", da questa sua contraffazione intollerante e violenta, e non saprà farlo a voce alta, esso sarà sempre vittima, anche elettorale, del suo ricatto politico. È così, mi chiedo, è mostrando una simile timidezza ideologica che si crede di poter costruire il Partito democratico? Sul punto di andare al governo con un'esiguissima maggioranza parlamentare, i gruppi dirigenti del centrosinistra commetterebbero un grave errore a non capire che è proprio su questioni come questa che essi si giocano la possibilità di convincere e di raccogliere intorno a sé una parte del Paese più vasta di quella che li ha votati».
Avevamo detto qualcosa del genere in una recente lettera al Riformista.
Diversa la reazione indignata lasciata da Ingrao sempre al Corriere. La condanna degli atti di intolleranza è netta, ma i toni sono quelli del padrone di casa della festa di Liberazione che accoglie gli ospiti ritardatari.
Ingrao adesso si dice convertito, come Bertinotti, alla nonviolenza. «Sia pure in tempi molto recenti e in età molto avanzata, io ho fatto una scelta precisa, quella della non violenza». A questi convertiti dell'ultima ora però dovremmo chiedere quale sia la differenza - sempre che la vedano - tra pacifismo e nonviolenza. Insomma perché, da pacifisti, sentono l'esigenza di dirsi nonviolenti? Intendono i due termini come sinonimi o ne apprezzano le differenze e optano per la nonviolenza? Tanto per capire se la loro è un'appropriazione indebita e truffaldina di terminologia politica o vera e propria conversione culturale. Temiamo sia vera la prima ipotesi.
Le solite gesta dei fascisti dell'antifascismo hanno caratterizzato anche quest'anno la giornata della Liberazione. «Rabbia e vergogna» dall'ambasciatore israeliano Ehud Gol per gli atti d'intolleranza contro la Brigata ebraica e per le bandiere israeliane date alle fiamme. Mentre la contestazione se non altro tornerà utile a Letizia Moratti, al corteo insieme al padre deportato, lanciandola ulteriormente verso il Comune di Milano. Da parte nostra un in bocca al lupo.
Ineccepibile il commento di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere di oggi. «Penosamente inadeguati» le reazioni degli esponenti del centrosinistra, «limitatisi tutti (con la sola, felice eccezione, oltre che della Rosa nel pugno e di Mastella, di Bruno Ferrante, concorrente con la Moratti nella prossima elezione a sindaco di Milano) a un formale rincrescimento». Eppure proprio essi non perdono occasione per rinfacciare ai politici di centrodestra di non partecipare ai festeggiamenti della Liberazione. «Più inadeguata delle altre, per l'evidente importanza della sua figura, la reazione di Romano Prodi».
L'occasione era invece propizia per affermare «che la democrazia italiana non sa che farsene dell'antifascismo dei faziosi e dei violenti; che la nostra democrazia non sa che farsene di quell'antifascismo che — come ha scritto coraggiosamente il direttore di Liberazione Piero Sansonetti — non capisce che "una cosa è cacciare i nazisti e un'altra è cacciare Berlusconi", che la democrazia italiana non sa che farsene — e non vuole avere niente a che fare — con l'antifascismo che non esita a strumentalizzare le grandi, drammatiche pagine della storia nazionale e i valori più alti del nostro patto costituzionale per sfogare i suoi poveri livori politici, per celare le sue pochezze, all'occasione per maramaldeggiare».
Infine, ottimo consiglio di Della Loggia ai "costituenti" del partito "democratico": «Finché l'antifascismo dei democratici non saprà prendere le distanze dall'antifascismo "militante", da questa sua contraffazione intollerante e violenta, e non saprà farlo a voce alta, esso sarà sempre vittima, anche elettorale, del suo ricatto politico. È così, mi chiedo, è mostrando una simile timidezza ideologica che si crede di poter costruire il Partito democratico? Sul punto di andare al governo con un'esiguissima maggioranza parlamentare, i gruppi dirigenti del centrosinistra commetterebbero un grave errore a non capire che è proprio su questioni come questa che essi si giocano la possibilità di convincere e di raccogliere intorno a sé una parte del Paese più vasta di quella che li ha votati».
Avevamo detto qualcosa del genere in una recente lettera al Riformista.
Diversa la reazione indignata lasciata da Ingrao sempre al Corriere. La condanna degli atti di intolleranza è netta, ma i toni sono quelli del padrone di casa della festa di Liberazione che accoglie gli ospiti ritardatari.
Ingrao adesso si dice convertito, come Bertinotti, alla nonviolenza. «Sia pure in tempi molto recenti e in età molto avanzata, io ho fatto una scelta precisa, quella della non violenza». A questi convertiti dell'ultima ora però dovremmo chiedere quale sia la differenza - sempre che la vedano - tra pacifismo e nonviolenza. Insomma perché, da pacifisti, sentono l'esigenza di dirsi nonviolenti? Intendono i due termini come sinonimi o ne apprezzano le differenze e optano per la nonviolenza? Tanto per capire se la loro è un'appropriazione indebita e truffaldina di terminologia politica o vera e propria conversione culturale. Temiamo sia vera la prima ipotesi.
Questa matta voglia di Autorità
«... che ci sia qualcuno a presidiare la distinzione del bene e del male, laicamente o religiosamente».
E' questa, ormai l'abbiamo capito, l'unica preoccupazione di Giuliano Ferrara. Il suo è un problema personale, di ordine psicologico. Capita, soprattutto a una certa età, quando se ne sono viste tante, se ne sono fatte altrettante, e non si sa più a cosa aggrapparsi. E' quel male di vivere dei deboli che non sanno darsi da sé dei principi, che si sentono sballottati dai venti di dottrina e praticare l'autodeterminazione gli costa fatica. Dunque, invocano una qualche autorità esterna - sia il Papa o il Duce non fa differenza - a guidarli e a porre dei limiti. Passati per la "Chiesa" comunista, sono in cerca di un'altra Chiesa cui affidarsi. A loro tutta la mia solidarietà, ma non tentino di sottoporre a quelle Chiese anche noi, che ci sentiamo liberi e responsabili di distinguere il bene dal male per ciò che ci riguarda, e che riteniamo che la politica non sia il luogo del giudizio ultimo sul bene e sul male. Ferrara usa suggestive figure retoriche, i laici sarebbero i «creduloni incapaci di dubbio» nella scienza, ma propone vecchie soluzioni: ci vuole un'autorità a presidio. Come se quella ci garantisse tutti sul bene e sul male.
Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, osserva che «in nessun altro Paese del mondo libero esistono i "laici"». Lamenta che si faccia dell'essere laico un'«identità politica». Questione di punti di vista. Che "laico" sia «un'etichetta vuota, una categoria usurata, il melanconico residuo di una stagione estinta», può essere affermazione condivisibile se si intende superata una lettura della nostra società laici vs. cattolici; se siamo consapevoli che laico e credente sono sinonimi. E la politica dovrebbe finalmente prenderne atto. Ma il problema è che molti cercano ancora di darsi un'identità politica cattolica per farsi riconoscere oltretevere. Sì, i laici sono «esausti», di vedere irrisolta la questione romana, di dover faticare per lo «svaticanamento» dell'Italia.
Non esistono morali o dottrine laiche da imporre, ma esiste un'"etica" politica laica, nel senso di un codice di condotta politica, di una concezione del diritto e del potere, per la quale non si impongono ai cittadini modelli etici. Negli altri paesi del mondo libero è così: la laicità fa parte dell'etica politica. Quella di una «crociata laica» può apparire una frase a effetto, ma per avere una crociata ci vuole qualcuno che voglia imporre la sua croce. E per i laici/credenti la politica non dovrebbe imporre modelli etici.
E' questa, ormai l'abbiamo capito, l'unica preoccupazione di Giuliano Ferrara. Il suo è un problema personale, di ordine psicologico. Capita, soprattutto a una certa età, quando se ne sono viste tante, se ne sono fatte altrettante, e non si sa più a cosa aggrapparsi. E' quel male di vivere dei deboli che non sanno darsi da sé dei principi, che si sentono sballottati dai venti di dottrina e praticare l'autodeterminazione gli costa fatica. Dunque, invocano una qualche autorità esterna - sia il Papa o il Duce non fa differenza - a guidarli e a porre dei limiti. Passati per la "Chiesa" comunista, sono in cerca di un'altra Chiesa cui affidarsi. A loro tutta la mia solidarietà, ma non tentino di sottoporre a quelle Chiese anche noi, che ci sentiamo liberi e responsabili di distinguere il bene dal male per ciò che ci riguarda, e che riteniamo che la politica non sia il luogo del giudizio ultimo sul bene e sul male. Ferrara usa suggestive figure retoriche, i laici sarebbero i «creduloni incapaci di dubbio» nella scienza, ma propone vecchie soluzioni: ci vuole un'autorità a presidio. Come se quella ci garantisse tutti sul bene e sul male.
Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, osserva che «in nessun altro Paese del mondo libero esistono i "laici"». Lamenta che si faccia dell'essere laico un'«identità politica». Questione di punti di vista. Che "laico" sia «un'etichetta vuota, una categoria usurata, il melanconico residuo di una stagione estinta», può essere affermazione condivisibile se si intende superata una lettura della nostra società laici vs. cattolici; se siamo consapevoli che laico e credente sono sinonimi. E la politica dovrebbe finalmente prenderne atto. Ma il problema è che molti cercano ancora di darsi un'identità politica cattolica per farsi riconoscere oltretevere. Sì, i laici sono «esausti», di vedere irrisolta la questione romana, di dover faticare per lo «svaticanamento» dell'Italia.
Non esistono morali o dottrine laiche da imporre, ma esiste un'"etica" politica laica, nel senso di un codice di condotta politica, di una concezione del diritto e del potere, per la quale non si impongono ai cittadini modelli etici. Negli altri paesi del mondo libero è così: la laicità fa parte dell'etica politica. Quella di una «crociata laica» può apparire una frase a effetto, ma per avere una crociata ci vuole qualcuno che voglia imporre la sua croce. E per i laici/credenti la politica non dovrebbe imporre modelli etici.
Monday, April 24, 2006
La Chiesa plebe di Dio
Le prese di posizione del Cardinale Carlo Maria Martini, nella sua intervista-colloquio con Ignazio Marino sull'Espresso, non sono affato notevoli per il merito delle questioni. Non ce ne facciamo niente delle sue "concessioni" da porporato. Anzi, ce n'è a sufficienza da far cadere le braccia nel sentire ancora discutere se sia o meno consentito l'uso del preservativo nel caso di una coppia in cui uno dei partner sia affetto da Aids. Anche Martini, così applaudito dai progressisti, si rivela, come il resto dei gerarchi vaticani, in modo sconvolgente lontano anni luce dalla realtà.
Eppure, di «notevole» in Martini, osservava Alberto Melloni sabato scorso sul Corriere, sembra esserci un metodo, una sorta di «possibilismo», quella formula dubitativa che lo stesso giorno emblematicamente Ferrara non esitava a bollare come «una resa culturale» nel suo editoriale "Sua Eminenza gioca in difesa".
Ferrara rimprovera a Martini di calcare «zone di frontiera o zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene», e «l'assenza pressoché totale di una visione d'insieme». Martini, nella critica di Ferrara, sarebbe reo di non praticare il «giudizio», ma il «distinguo». Insomma, se un pastore non indica subito, senza esitazione, quale sia il «vero bene» (ammesso che Martini abbia esitato), ma mostra di dubitare, allora non piace, non serve, anzi nuoce alla battaglia. Come se sui temi che coinvolgono scienza e morale si possa fare di tutta l'erba un fascio e ci si possa permettere di non fare distinguo.
Quindi, a fronte di un Papa Ratzinger «sempre limpidamente assertivo, [che] non teme di nominare e di giudicare, la cifra di Martini è invece sempre dubitativa...», mero «tatticismo», azzarda Ferrara.
Melloni invece intravede addirittura due diverse concezioni della Chiesa. Consapevole che ormai non solo preti e fedeli, ma anche i vescovi «usano criteri di sapienza sia nel passare sulle ferite della vita sia nel toccare una sfera su certe questioni che la stragrande maggioranza dei cattolici regola più col lume della coscienza che con una pura consultazione del catechismo», Martini sembra «indicare con l'autorità d'un pastore, un modo d'essere della Chiesa, che non si appaga di principi, ma si cura del cammino concreto di una Chiesa di popolo».
Quindi, da una parte chi, come Ratzinger, pensa che il futuro della chiesa dipenda da «minoranze creative» perfettamente aderenti e coerenti alla dottrina ufficiale. Delle avanguardie pure che dovrebbero preservare la Chiesa - una Chiesa di razza - e fare argine rispetto alla debolezza d'un popolo cristiano confuso dalla dittatura del relativismo e dagli inganni della scienza. A tali minoranze è richiesta una disciplina alta ed è volto principalmente il magistero. Non c'è da chiedersi, usa dire Ratzinger riguardo al futuro della Chiesa, quanti saranno i cristiani nel mondo, ma se vi saranno ancora "veri" cristiani. E' ciò che fa di quella ratzingeriana una visione cupa e pessimista, volta a curare un nocciolo duro di fedelissimi in grado di dare battaglia.
Dall'altra, il discorso di Martini, che invece sembra presupporre che la Chiesa sia «plebe di Dio nella quale abitano tutti i problemi che, a un primo sguardo, potrebbero apparire problemi altrui. Nella chiesa di plebe tutta la debolezza - ma anche tutto il bene - dell'umanità è già dentro». A questa Chiesa i preti offrono una cura pastorale, per quanto imperfetta, mentre più contraddittorio appare il ruolo delle gerarchie.
Eppure, di «notevole» in Martini, osservava Alberto Melloni sabato scorso sul Corriere, sembra esserci un metodo, una sorta di «possibilismo», quella formula dubitativa che lo stesso giorno emblematicamente Ferrara non esitava a bollare come «una resa culturale» nel suo editoriale "Sua Eminenza gioca in difesa".
Ferrara rimprovera a Martini di calcare «zone di frontiera o zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene», e «l'assenza pressoché totale di una visione d'insieme». Martini, nella critica di Ferrara, sarebbe reo di non praticare il «giudizio», ma il «distinguo». Insomma, se un pastore non indica subito, senza esitazione, quale sia il «vero bene» (ammesso che Martini abbia esitato), ma mostra di dubitare, allora non piace, non serve, anzi nuoce alla battaglia. Come se sui temi che coinvolgono scienza e morale si possa fare di tutta l'erba un fascio e ci si possa permettere di non fare distinguo.
Quindi, a fronte di un Papa Ratzinger «sempre limpidamente assertivo, [che] non teme di nominare e di giudicare, la cifra di Martini è invece sempre dubitativa...», mero «tatticismo», azzarda Ferrara.
Melloni invece intravede addirittura due diverse concezioni della Chiesa. Consapevole che ormai non solo preti e fedeli, ma anche i vescovi «usano criteri di sapienza sia nel passare sulle ferite della vita sia nel toccare una sfera su certe questioni che la stragrande maggioranza dei cattolici regola più col lume della coscienza che con una pura consultazione del catechismo», Martini sembra «indicare con l'autorità d'un pastore, un modo d'essere della Chiesa, che non si appaga di principi, ma si cura del cammino concreto di una Chiesa di popolo».
Quindi, da una parte chi, come Ratzinger, pensa che il futuro della chiesa dipenda da «minoranze creative» perfettamente aderenti e coerenti alla dottrina ufficiale. Delle avanguardie pure che dovrebbero preservare la Chiesa - una Chiesa di razza - e fare argine rispetto alla debolezza d'un popolo cristiano confuso dalla dittatura del relativismo e dagli inganni della scienza. A tali minoranze è richiesta una disciplina alta ed è volto principalmente il magistero. Non c'è da chiedersi, usa dire Ratzinger riguardo al futuro della Chiesa, quanti saranno i cristiani nel mondo, ma se vi saranno ancora "veri" cristiani. E' ciò che fa di quella ratzingeriana una visione cupa e pessimista, volta a curare un nocciolo duro di fedelissimi in grado di dare battaglia.
Dall'altra, il discorso di Martini, che invece sembra presupporre che la Chiesa sia «plebe di Dio nella quale abitano tutti i problemi che, a un primo sguardo, potrebbero apparire problemi altrui. Nella chiesa di plebe tutta la debolezza - ma anche tutto il bene - dell'umanità è già dentro». A questa Chiesa i preti offrono una cura pastorale, per quanto imperfetta, mentre più contraddittorio appare il ruolo delle gerarchie.
Saturday, April 22, 2006
Il partito etico di Ossicini
Nell'intervento di Adriano Ossicini (Europa, 21 aprile) vi è la più limpida dimostrazione di quanto siano fondate le preoccupazioni di chi teme che il Partito democratico nascente possa ridursi a una riedizione del compromesso storico tra post-democristiani e post-comunisti. E' un vero e proprio manifesto, molto lucido, che non saprei come definire se non catto-comunista. I confini di questo partito "democratico" dovrebbero essere eticamente definibili. Ossicini teorizza un partito etico, prim'ancora che lo stato etico, riservato all'incontro delle «esperienze» di cui Ds e Margherita sono portatori, quelle del Pci e della Dc, dice espressamente.
Ancora più inquietante il fatto che l'approccio etico venga esteso all'economia, tanto da ritenere che persino le «istanze morali della polemica anti-capitalistica del marxismo» possano approdare in un partito democratico. Chiederei a Ossicini se non ritenga che anche Bertinotti e Diliberto possano far parte del suo partito "democratico", che a me ricorda più l'inganno delle democrazie popolari.
Ancora più inquietante il fatto che l'approccio etico venga esteso all'economia, tanto da ritenere che persino le «istanze morali della polemica anti-capitalistica del marxismo» possano approdare in un partito democratico. Chiederei a Ossicini se non ritenga che anche Bertinotti e Diliberto possano far parte del suo partito "democratico", che a me ricorda più l'inganno delle democrazie popolari.
Friday, April 21, 2006
Libertà, Laicità, Occidente
«Noi siamo per una cultura della libertà come tema portante, carico di senso della vita di oggi. Significa primato della libertà su tutto, significa che solo uomini liberi possono essere uomini uguali»
Ho sempre creduto che il progetto della Rosa nel Pugno, di una forza politica liberale, laica, socialista, radicale, avesse solide basi teoriche, intendo dal punto di vista della filosofia politica. Soprattutto nella convizione, già espressa parecchie volte su questo blog, che caduto il Muro ed esauritasi l'esperienza delle socialdemocrazie vi fossero porte spalancate per una sinistra liberale, per l'ircocervo liberalsocialista. Così lo chiamava Benedetto Croce quando però non c'erano le condizioni storiche che consentissero alla sinistra di essere liberale.
I problemi maggiori vengono invece quando dalla teoria scendiamo sul terreno della pratica, della realizzazione di questo ambizioso progetto. Servono le volontà, le capacità, gli uomini giusti, e le congiunture politiche adatte.
Comunque, se avete un'oretta di tempo libero vi consiglio di ascoltarvi la "lezione" che ha tenuto l'altro giorno Biagio De Giovanni alla Direzione della Rosa nel Pugno, per meglio capire le basi teoriche, le prospettive e le ambizioni (perché ci vogliono anche quelle) del nuovo soggetto. Che riescano a realizzarle con il materiale dato è tutta un'altra storia.
Il berlusconismo. Tutta questa campagna elettorale si è giocata sul «presupposto cedimento del berlusconismo» e invece Berlusconi ha tenuto. Chiedersi perché è una domanda «centrale» per De Giovanni. L'Italia di Berlusconi «non è l'Italia degli evasori o delle tv». Non bisogna sottovalutare un «grande fenomeno politico che permane»: c'è un'Italia che «teme una certa rappresentazione della sinistra e quando essa sembra prevalere scatta una reazione di rigetto». Senza questo non si spiega la rimonta delle ultime due settimane. C'è una «maggioranza silenziosa» che ha percepito che una parte corrispondeva ai propri interessi e l'altra gli andava contro. In Berlusconi più che nella sinistra, sbagliando o meno, essa comunque vede «una qualche aspirazione alla cultura dell'individualismo e della libertà», alla "rivoluzione liberale", anche se poi è fallita.
A questa Italia «dobbiamo rispondere», non ha alcun senso «il muro contro muro». La Rosa nel Pugno deve discutere di se stessa, del proprio rapporto con il sistema italiano», ma deve farlo da «forza che nasce dibattendo democraticamente al proprio interno».
Il "fuoco amico". Deve dare al «fuoco amico» che ha subito in queste settimane e continua a subire «risposte forti», capaci di affrontare «sia il problema storico-ideale sia quello politico». Nell'Italia del declino - che si calcola non tanto in punti di Pil, ma si rivela nella mancanza di progettualità economica e civile, di sviluppo ideale - e nell'accentuarsi di tensioni oligarchiche, c'è un gran bisogno di «crescita di culture politiche, che può avvenire nella distinzione, nel conflitto, che se è dialettica politica produce politica».
Nella storia di oggi «la cultura del socialismo ha bisogno della cultura del radicalismo della libertà» e viceversa. Occorre dare una «forza innovativa al tema della riforma dello stato sociale, al tema dei diritti civili e dei doveri»; trovare quella «sintesi, difficile e complessa, tra solidarietà sociale e diritti individuali, ragione profonda per lo stare insieme di queste tradizioni, che da sole rischiano di perdersi».
Blair e Zapatero. Al contrario di quanto ha scritto il Prof. Cofranceso sul Riformista, c'è una «radicale differenza» tra Fassino, Rutelli e D'Alema da una parte, e Blair e Zapatero dall'altra. Blair «ha innestato nel vecchio labour un'idea nuova»; Zapatero «ha spinto sui diritti una società che già aveva avuto con Aznar lo sviluppo economico e continua ad averlo». Nel richiamarsi a questi leader politici, «esempi viventi delle potenzialità della sintesi tra riforma liberale e socialista», la Rosa nel Pugno dovrebbe proporli «meno come slogan e più come analisi».
Laicità e stato di diritto. «Le battaglie radicali hanno come propri punti di riferimento la legalità, lo stato di diritto, la laicità, tutti temi di modernizzazione della società. Ma una laicità non intesa come indebolimento secolaristico della libertà, bensì come qualcosa che nella libertà riesce a immettere il nucleo profondo di una religione civile».
Il «fuoco amico» c'è perché «questi temi non piacciono alla vecchia sinistra consolidata». De Giovanni parla di una sinistra «consolidata», ma direbbe pure «ossificata», perché su una varietà di temi, in nome dell'unità, si chiude in «una logica di compromesso continuo di cui non si vede mai il punto di uscita».
Stato liberale. De Giovanni vede una relazione tra stato sociale e stato di diritto. Dunque, tra il tema della giustizia sociale e quello della libertà individuale. Oggi siamo arrivati a un punto in cui «la corporativizzazione dello stato sociale mette in discussione conquiste fondamentali dello stato di diritto», cioè dello stato liberale.
Il Partito democratico. Riguardo il dibattito sul partito democratico, De Giovanni ricorda che i radicali sono degli «antesignani» dell'idea di «una sinistra che possa federare ispirazioni diverse, in grado di ampliare i propri confini», mantenendoli però chiusi alla sinistra antagonista, che sottolinea essere «legata a cascami di vecchia storia e a un certo infantilismo ideale».
La Rosa nel Pugno, che non deve pensare a se stessa come a una «sommatoria», ma mantenere una «dialettica politica aperta», deve ribadire «la critica al rischio dell'ulivismo», precisando i termini della sua critica. Va bene che il partito democratico non dev'essere fatto di post-democristiani e post-comunisti, ma occorre «entrare nel merito». E quindi criticare i Ds per il loro «neocentralismo, conservatorismo corporativo, nel dibattito sulla riforma dello stato sociale» e per la permanenza di «elite dirigenti troppo consolidate», e la Margherita per lo spostamento culturale del suo asse.
La questione vaticana. In Italia, spiega De Giovanni, esiste «una questione vaticana, non una questione cattolica». Il problema è «dare voce ai cattolici in modo che emergano come non subordinati all'invadenza della questione vaticana: dobbiamo avere la forza di distinguere tra questione cattolica e questione vaticana, e spingere a favore degli elementi di cattolicesimo liberale».
Al di là del vecchio clericalismo. Poi De Giovanni approfondisce la sua analisi dei rapporti fra Chiesa e Stato, fra Chiesa e politica. «Il nostro modo di concepire una cultura politica moderna è di non poter accettare l'idea che la Chiesa sia la depositaria dei valori. Se entriamo nella logica che la società moderna non ha più valori, e che per poter parlare di valori debba riferirsi a chi li ha nel suo archivio, è un errore profondissimo, è un tipo di subordinazione che va al di là, e in modo più profondo, del vecchio clericalismo».
Dunque, assistiamo a un neo-clericalismo nella politica, sembra affermare De Giovanni. Che riguarda anche i Ds. Cita, infatti, le parole di Cafagna, per il quale se una volta il Pci «si faceva forte dell'ombra del Cremlino», oggi rischia di «farsi forte dell'ombra del Vaticano». I comunisti italiani rimasero «impigliati in una ibridazione sterile, fra rivoluzionarismo ideologico (meramente attendista e affidato, finché fu possibile, all'ingannevole mito sovietico) e realismo "istituzionale"». Da qui il "grigiore" che De Giovanni ravvisa nella odierna versione post-comunista dell'istituzionalismo di derivazione berlingueriana, definibile come sterilità.
Quello di oggi è un tipo di clericalismo qualitativamente diverso a quello del passato. «In un passato relativamente moderno non è mai venuta fuori così chiaramente in alcuni l'idea che non essendo più la società moderna capace di produrre valori e principi essa si debba affidare alla Chiesa». Invece, «le società secolarizzate sono le società democratiche. Democrazia e secolarizzazione sono venute fuori insieme e persino il cristianesimo vi ha contribuito». Occorre portare avanti il «tentativo difficilissimo di far penetrare il senso di queste distinzioni».
Una cultura della libertà. Ed ecco, infine, i principi ispiratori del progetto della Rosa nel Pugno, di una sinistra liberale: «Noi siamo per una cultura della libertà come tema portante, carico di senso della vita di oggi. Significa primato della libertà su tutto, significa che solo uomini liberi possono essere uomini uguali». La libertà «non come affermazione astratta e ideologica», ma «può entrare nel tessuto della vita concreta, anche nell'economia, che ha bisogno della riscoperta della sua vitalità».
L'Occidente. Altro principio cardinale, «un'interpretazione alta dell'Occidente», di un'Occidente «che non è pentito di ciò che è». Il professore è amareggiato per quanti suoi studenti esprimono oggi un'idea del «pentitismo dell'Occidente», per il quale «tutto quello che ha fatto e fa l'Occidente è male e quello che viene da altrove è bene. Occorre quindi, nella sinistra, che «riaffermiamo un'idea alta dell'occidente».
Attenzione però a non confondere l'interpretazione «alta» di De Giovanni con quella di Marcello Pera. Anzi, quella dell'ex presidente del Senato rischia di essere un'interpretazione dell'Occidente che anch'essa lo tradisce. Infatti, quest'idea molto diffusa in ambienti cattolici, e persino liberalconservatori, «che le società secolarizzate siano senza valori è un altro modo per far defluire l'Occidente da se stesso». La critica anti-secolarista si pone al pari della critica anti-capitalistica, «elemento distintivo della cultura della sinistra antagonista».
«Il nostro problema è l'italia, non è un problema settario, è come introdurre elementi di una religione civile».
Ho sempre creduto che il progetto della Rosa nel Pugno, di una forza politica liberale, laica, socialista, radicale, avesse solide basi teoriche, intendo dal punto di vista della filosofia politica. Soprattutto nella convizione, già espressa parecchie volte su questo blog, che caduto il Muro ed esauritasi l'esperienza delle socialdemocrazie vi fossero porte spalancate per una sinistra liberale, per l'ircocervo liberalsocialista. Così lo chiamava Benedetto Croce quando però non c'erano le condizioni storiche che consentissero alla sinistra di essere liberale.
I problemi maggiori vengono invece quando dalla teoria scendiamo sul terreno della pratica, della realizzazione di questo ambizioso progetto. Servono le volontà, le capacità, gli uomini giusti, e le congiunture politiche adatte.
Comunque, se avete un'oretta di tempo libero vi consiglio di ascoltarvi la "lezione" che ha tenuto l'altro giorno Biagio De Giovanni alla Direzione della Rosa nel Pugno, per meglio capire le basi teoriche, le prospettive e le ambizioni (perché ci vogliono anche quelle) del nuovo soggetto. Che riescano a realizzarle con il materiale dato è tutta un'altra storia.
Il berlusconismo. Tutta questa campagna elettorale si è giocata sul «presupposto cedimento del berlusconismo» e invece Berlusconi ha tenuto. Chiedersi perché è una domanda «centrale» per De Giovanni. L'Italia di Berlusconi «non è l'Italia degli evasori o delle tv». Non bisogna sottovalutare un «grande fenomeno politico che permane»: c'è un'Italia che «teme una certa rappresentazione della sinistra e quando essa sembra prevalere scatta una reazione di rigetto». Senza questo non si spiega la rimonta delle ultime due settimane. C'è una «maggioranza silenziosa» che ha percepito che una parte corrispondeva ai propri interessi e l'altra gli andava contro. In Berlusconi più che nella sinistra, sbagliando o meno, essa comunque vede «una qualche aspirazione alla cultura dell'individualismo e della libertà», alla "rivoluzione liberale", anche se poi è fallita.
A questa Italia «dobbiamo rispondere», non ha alcun senso «il muro contro muro». La Rosa nel Pugno deve discutere di se stessa, del proprio rapporto con il sistema italiano», ma deve farlo da «forza che nasce dibattendo democraticamente al proprio interno».
Il "fuoco amico". Deve dare al «fuoco amico» che ha subito in queste settimane e continua a subire «risposte forti», capaci di affrontare «sia il problema storico-ideale sia quello politico». Nell'Italia del declino - che si calcola non tanto in punti di Pil, ma si rivela nella mancanza di progettualità economica e civile, di sviluppo ideale - e nell'accentuarsi di tensioni oligarchiche, c'è un gran bisogno di «crescita di culture politiche, che può avvenire nella distinzione, nel conflitto, che se è dialettica politica produce politica».
Nella storia di oggi «la cultura del socialismo ha bisogno della cultura del radicalismo della libertà» e viceversa. Occorre dare una «forza innovativa al tema della riforma dello stato sociale, al tema dei diritti civili e dei doveri»; trovare quella «sintesi, difficile e complessa, tra solidarietà sociale e diritti individuali, ragione profonda per lo stare insieme di queste tradizioni, che da sole rischiano di perdersi».
Blair e Zapatero. Al contrario di quanto ha scritto il Prof. Cofranceso sul Riformista, c'è una «radicale differenza» tra Fassino, Rutelli e D'Alema da una parte, e Blair e Zapatero dall'altra. Blair «ha innestato nel vecchio labour un'idea nuova»; Zapatero «ha spinto sui diritti una società che già aveva avuto con Aznar lo sviluppo economico e continua ad averlo». Nel richiamarsi a questi leader politici, «esempi viventi delle potenzialità della sintesi tra riforma liberale e socialista», la Rosa nel Pugno dovrebbe proporli «meno come slogan e più come analisi».
Laicità e stato di diritto. «Le battaglie radicali hanno come propri punti di riferimento la legalità, lo stato di diritto, la laicità, tutti temi di modernizzazione della società. Ma una laicità non intesa come indebolimento secolaristico della libertà, bensì come qualcosa che nella libertà riesce a immettere il nucleo profondo di una religione civile».
Il «fuoco amico» c'è perché «questi temi non piacciono alla vecchia sinistra consolidata». De Giovanni parla di una sinistra «consolidata», ma direbbe pure «ossificata», perché su una varietà di temi, in nome dell'unità, si chiude in «una logica di compromesso continuo di cui non si vede mai il punto di uscita».
Stato liberale. De Giovanni vede una relazione tra stato sociale e stato di diritto. Dunque, tra il tema della giustizia sociale e quello della libertà individuale. Oggi siamo arrivati a un punto in cui «la corporativizzazione dello stato sociale mette in discussione conquiste fondamentali dello stato di diritto», cioè dello stato liberale.
Il Partito democratico. Riguardo il dibattito sul partito democratico, De Giovanni ricorda che i radicali sono degli «antesignani» dell'idea di «una sinistra che possa federare ispirazioni diverse, in grado di ampliare i propri confini», mantenendoli però chiusi alla sinistra antagonista, che sottolinea essere «legata a cascami di vecchia storia e a un certo infantilismo ideale».
La Rosa nel Pugno, che non deve pensare a se stessa come a una «sommatoria», ma mantenere una «dialettica politica aperta», deve ribadire «la critica al rischio dell'ulivismo», precisando i termini della sua critica. Va bene che il partito democratico non dev'essere fatto di post-democristiani e post-comunisti, ma occorre «entrare nel merito». E quindi criticare i Ds per il loro «neocentralismo, conservatorismo corporativo, nel dibattito sulla riforma dello stato sociale» e per la permanenza di «elite dirigenti troppo consolidate», e la Margherita per lo spostamento culturale del suo asse.
La questione vaticana. In Italia, spiega De Giovanni, esiste «una questione vaticana, non una questione cattolica». Il problema è «dare voce ai cattolici in modo che emergano come non subordinati all'invadenza della questione vaticana: dobbiamo avere la forza di distinguere tra questione cattolica e questione vaticana, e spingere a favore degli elementi di cattolicesimo liberale».
Al di là del vecchio clericalismo. Poi De Giovanni approfondisce la sua analisi dei rapporti fra Chiesa e Stato, fra Chiesa e politica. «Il nostro modo di concepire una cultura politica moderna è di non poter accettare l'idea che la Chiesa sia la depositaria dei valori. Se entriamo nella logica che la società moderna non ha più valori, e che per poter parlare di valori debba riferirsi a chi li ha nel suo archivio, è un errore profondissimo, è un tipo di subordinazione che va al di là, e in modo più profondo, del vecchio clericalismo».
Dunque, assistiamo a un neo-clericalismo nella politica, sembra affermare De Giovanni. Che riguarda anche i Ds. Cita, infatti, le parole di Cafagna, per il quale se una volta il Pci «si faceva forte dell'ombra del Cremlino», oggi rischia di «farsi forte dell'ombra del Vaticano». I comunisti italiani rimasero «impigliati in una ibridazione sterile, fra rivoluzionarismo ideologico (meramente attendista e affidato, finché fu possibile, all'ingannevole mito sovietico) e realismo "istituzionale"». Da qui il "grigiore" che De Giovanni ravvisa nella odierna versione post-comunista dell'istituzionalismo di derivazione berlingueriana, definibile come sterilità.
Quello di oggi è un tipo di clericalismo qualitativamente diverso a quello del passato. «In un passato relativamente moderno non è mai venuta fuori così chiaramente in alcuni l'idea che non essendo più la società moderna capace di produrre valori e principi essa si debba affidare alla Chiesa». Invece, «le società secolarizzate sono le società democratiche. Democrazia e secolarizzazione sono venute fuori insieme e persino il cristianesimo vi ha contribuito». Occorre portare avanti il «tentativo difficilissimo di far penetrare il senso di queste distinzioni».
Una cultura della libertà. Ed ecco, infine, i principi ispiratori del progetto della Rosa nel Pugno, di una sinistra liberale: «Noi siamo per una cultura della libertà come tema portante, carico di senso della vita di oggi. Significa primato della libertà su tutto, significa che solo uomini liberi possono essere uomini uguali». La libertà «non come affermazione astratta e ideologica», ma «può entrare nel tessuto della vita concreta, anche nell'economia, che ha bisogno della riscoperta della sua vitalità».
L'Occidente. Altro principio cardinale, «un'interpretazione alta dell'Occidente», di un'Occidente «che non è pentito di ciò che è». Il professore è amareggiato per quanti suoi studenti esprimono oggi un'idea del «pentitismo dell'Occidente», per il quale «tutto quello che ha fatto e fa l'Occidente è male e quello che viene da altrove è bene. Occorre quindi, nella sinistra, che «riaffermiamo un'idea alta dell'occidente».
Attenzione però a non confondere l'interpretazione «alta» di De Giovanni con quella di Marcello Pera. Anzi, quella dell'ex presidente del Senato rischia di essere un'interpretazione dell'Occidente che anch'essa lo tradisce. Infatti, quest'idea molto diffusa in ambienti cattolici, e persino liberalconservatori, «che le società secolarizzate siano senza valori è un altro modo per far defluire l'Occidente da se stesso». La critica anti-secolarista si pone al pari della critica anti-capitalistica, «elemento distintivo della cultura della sinistra antagonista».
«Il nostro problema è l'italia, non è un problema settario, è come introdurre elementi di una religione civile».
Thursday, April 20, 2006
Direzione della Rosa nel Pugno. Una giornata infuocata
Si è infiammata stamattina la Direzione nazionale della Rosa nel Pugno, quando, poco dopo l'inizio dei lavori, è intervenuto Marco Pannella. La riunione stava andando via liscia come l'olio, anche troppo. Una tranquilla e svelta chiacchieratina, senza sedute notturne, con interventi brevi e i "big" che si presentano in ritardo di ore - pur con tutti i problemi che ci sarebbero da affrontare. Ma soprattutto il dilagante atteggiamento, ben poco deliberativo e "di lotta", di chi si sente la poltrona sotto il culo, ormai appagato. E invece, ha tuonato il vecchio leone, c'è poco da starsene comodi, ci hanno escluso dal Senato con un'iniziativa preordinata delle oligarchie. «Io non ci sto», ha ripetuto più volte.
Per «eleganza», ha confessato Pannella, non ha parlato finora, perché coinvolto in prima persona in quanto capolista. Ma il leader radicale forse si aspettava, e ne aveva tutti i motivi, che fosse qualcun altro a sollevare la questione in tutta la sua gravità, proponendo adeguate forme di lotta. Invece nulla, neanche da parte dei radicali. E ieri, quel disarmante Boselli a Porta a Porta, capace solo di ripetere «abbiamo vinto», come il più fedele dei prodiani, deve aver convinto Pannella che fosse il momento di riprendere in mano il timone.
Le Corti d'Appello, allineandosi all'interpretazione del Ministero degli Interni, hanno disapplicato la legge elettorale nella sua letteralità. Il "buco" denunciato nei ricorsi c'è, ammesso persino in sede deliberante e comprovato da alcuni resoconti parlamentari: laddove nessuna coalizione raggiunga il 55% niente sbarramento per le liste al di sotto del 3. Ma tutti sanno quanto sia delicato il Senato. Non sia mai che si lasci una maggioranza nelle mani di 4 senatori radicalsocialisti guidati da Pannella. E' cosa da evitare assolutamente, su questo convengono destra e sinistra, con un occhio oltretevere.
L'Unione su questo tace, forse è «connivente», e continua a marginalizzare la Rosa nel Pugno, mostrandosi al paese con il volto di Bertinotti, o di D'Alema, destinati ai vertici delle istituzioni. Così, avverte Pannella, si offrono a Berlusconi formidabili argomenti su cui costruire, già il 28 maggio, la rivincita elettorale: l'Unione "in mano ai comunisti" e i radicali "utili idioti". Fauto alla presidenza della Camera, Emma usciere. Anche a tutto questo, Pannella «non ci sta».
Eppure, tutto questo sembra non interessare più di tanto i socialisti, che ogni tanto s'appisolano. Nelle interviste ai tg di ieri sera e nei dibattiti serali (Boselli a Porta a Porta) non è venuta fuori, neanche è stata citata, l'esclusione dal Senato. «Abbiamo vinto», non fanno che ripetere a loro stessi i leader dell'Unione, con Boselli che si associa pedissequamente. Dopo aver visto la puntata di ieri sera verrebbe da chiedersi a che gioco stia giocando il segretario dello Sdi. Non è che è arrivata una telefonatina conciliante da Prodi? Ma "vinto de' che'?", polemizza Pannella, che in un quadrimestre «quello capace di tutto» ha recuperato ben 12 punti, grazie anche all'ostilità e all'ostracismo con cui è stata trattata la Rosa nel Pungo, risultata alla fine decisiva?
I socialisti mostrano di non aver compreso la gravità della ferita inferta allo stato di diritto. Altro che qualche firma in più da raccogliere, violando la legge che loro stessi hanno approvato ti escludono dal Senato, guarda caso il ramo del Parlamento politicamente decisivo di questa legislatura. Villetti si dice d'accordo con «le condanne morali di Pannella», ma sbaglia approccio. Non c'è nessuna "questione morale" in gioco, reagisce Pannella gridando dal fondo della sala: «Ma quale morale? Mai fatto condanne morali, mica sono Riccardo Lombardi...». Replica l'umile Villetti: «Volevo dire che sono d'accordo quando contesti chi non rispetta la legge». E ribatte Pannella: «Contesto chi commette i reati e lo fa "fottendosene". Tu confondi lo stato etico con lo stato di diritto».
Quello di Pannella stamane è stato un cazziatone in piena regola. Ai socialisti, cui sembra d'improvviso tornata la preoccupazione di non creare troppi pensieri a Prodi, sperando di ottenere chissà cosa in questo modo; ma anche ai radicali, che rischiano di sentirsi appagati del risultato ottenuto, come quella squadra che in vantaggio di 1 a 0 rientra dall'intervallo con la mente altrove e le gambe molli.
A Pannella non importa se «qui o altrove», specifica, cioè se con la Direzione o da semplice militante, lui andrà fino in fondo, all'esclusione dal Senato non si rassegna, come non ci sta a farsi marginalizzare nell'Unione.
Nonostante tutto, la costruzione del nuovo partito laico, liberale, socialista, radicale, va avanti e viene dato mandato alla Segreteria di individuare tappe e obiettivi.
Alla fine, uno straordinario Pannella vince su tutti i fronti. La mozione conclusiva contiene tutti i nodi politici che ha sollevato. E' durissima sull'esclusione dal Senato, laddove «denuncia l'aggressione contro i diritti civili e politici dei cittadini realizzata ai danni degli elettori italiani attraverso il tentativo di escludere gli eletti della Rosa nel Pugno dal Senato, e si impegna a mettere in atto ogni forma di lotta istituzionale e politica per ottenere il ripristino della legalità, facendone punto qualificante anche del dialogo in corso con l'Unione e i suoi vertici, finora del tutto omissivi se non conniventi».
Durissima anche con i vertici dell'Unione, cui si chiede di «superare una lunga fase di ostilità, ostracismo, non comunicazione. La Rosa nel Pugno è stata decisiva per l'alternanza e il successo elettorale della coalizione; è impegnata per un governo forte e sicuro guidato da Romano Prodi; ma giudica inconcepibile che, sin dalla sua nascita, sia stata vissuta come un'insidia, e non, invece, come un'opportunità di rinnovamento della sinistra, sia sui diritti civili che sull'innovazione economica e sociale. E per queste stesse ragioni la Rosa nel Pugno intende partecipare al dibattito e alla discussione sul futuro Partito Democratico da costruire».
Il leader radicale prevale anche sugli altri temi caldi del dibattito interno, che non poco attrito hanno creato tra componente radicale e socialista. Alle prossime amministrative del 28 maggio ci saranno liste con il simbolo della Rosa nel Pugno, ma i gruppi consiliari non avranno la denominazione "Rosa nel Pugno" e gli eletti non potranno avere incarichi nella nuova forma-partito. Allargamento della Segreteria, a Lanfranco Turci e Biagio De Giovanni, e della Direzione, integrata con 54 nuovi membri.
Ma chissà se il nuovo partito avrebbe retto a questa giornata infuocata se non vi fossero state le amministrative alle porte.
Per «eleganza», ha confessato Pannella, non ha parlato finora, perché coinvolto in prima persona in quanto capolista. Ma il leader radicale forse si aspettava, e ne aveva tutti i motivi, che fosse qualcun altro a sollevare la questione in tutta la sua gravità, proponendo adeguate forme di lotta. Invece nulla, neanche da parte dei radicali. E ieri, quel disarmante Boselli a Porta a Porta, capace solo di ripetere «abbiamo vinto», come il più fedele dei prodiani, deve aver convinto Pannella che fosse il momento di riprendere in mano il timone.
Le Corti d'Appello, allineandosi all'interpretazione del Ministero degli Interni, hanno disapplicato la legge elettorale nella sua letteralità. Il "buco" denunciato nei ricorsi c'è, ammesso persino in sede deliberante e comprovato da alcuni resoconti parlamentari: laddove nessuna coalizione raggiunga il 55% niente sbarramento per le liste al di sotto del 3. Ma tutti sanno quanto sia delicato il Senato. Non sia mai che si lasci una maggioranza nelle mani di 4 senatori radicalsocialisti guidati da Pannella. E' cosa da evitare assolutamente, su questo convengono destra e sinistra, con un occhio oltretevere.
L'Unione su questo tace, forse è «connivente», e continua a marginalizzare la Rosa nel Pugno, mostrandosi al paese con il volto di Bertinotti, o di D'Alema, destinati ai vertici delle istituzioni. Così, avverte Pannella, si offrono a Berlusconi formidabili argomenti su cui costruire, già il 28 maggio, la rivincita elettorale: l'Unione "in mano ai comunisti" e i radicali "utili idioti". Fauto alla presidenza della Camera, Emma usciere. Anche a tutto questo, Pannella «non ci sta».
Eppure, tutto questo sembra non interessare più di tanto i socialisti, che ogni tanto s'appisolano. Nelle interviste ai tg di ieri sera e nei dibattiti serali (Boselli a Porta a Porta) non è venuta fuori, neanche è stata citata, l'esclusione dal Senato. «Abbiamo vinto», non fanno che ripetere a loro stessi i leader dell'Unione, con Boselli che si associa pedissequamente. Dopo aver visto la puntata di ieri sera verrebbe da chiedersi a che gioco stia giocando il segretario dello Sdi. Non è che è arrivata una telefonatina conciliante da Prodi? Ma "vinto de' che'?", polemizza Pannella, che in un quadrimestre «quello capace di tutto» ha recuperato ben 12 punti, grazie anche all'ostilità e all'ostracismo con cui è stata trattata la Rosa nel Pungo, risultata alla fine decisiva?
I socialisti mostrano di non aver compreso la gravità della ferita inferta allo stato di diritto. Altro che qualche firma in più da raccogliere, violando la legge che loro stessi hanno approvato ti escludono dal Senato, guarda caso il ramo del Parlamento politicamente decisivo di questa legislatura. Villetti si dice d'accordo con «le condanne morali di Pannella», ma sbaglia approccio. Non c'è nessuna "questione morale" in gioco, reagisce Pannella gridando dal fondo della sala: «Ma quale morale? Mai fatto condanne morali, mica sono Riccardo Lombardi...». Replica l'umile Villetti: «Volevo dire che sono d'accordo quando contesti chi non rispetta la legge». E ribatte Pannella: «Contesto chi commette i reati e lo fa "fottendosene". Tu confondi lo stato etico con lo stato di diritto».
Quello di Pannella stamane è stato un cazziatone in piena regola. Ai socialisti, cui sembra d'improvviso tornata la preoccupazione di non creare troppi pensieri a Prodi, sperando di ottenere chissà cosa in questo modo; ma anche ai radicali, che rischiano di sentirsi appagati del risultato ottenuto, come quella squadra che in vantaggio di 1 a 0 rientra dall'intervallo con la mente altrove e le gambe molli.
A Pannella non importa se «qui o altrove», specifica, cioè se con la Direzione o da semplice militante, lui andrà fino in fondo, all'esclusione dal Senato non si rassegna, come non ci sta a farsi marginalizzare nell'Unione.
Nonostante tutto, la costruzione del nuovo partito laico, liberale, socialista, radicale, va avanti e viene dato mandato alla Segreteria di individuare tappe e obiettivi.
Alla fine, uno straordinario Pannella vince su tutti i fronti. La mozione conclusiva contiene tutti i nodi politici che ha sollevato. E' durissima sull'esclusione dal Senato, laddove «denuncia l'aggressione contro i diritti civili e politici dei cittadini realizzata ai danni degli elettori italiani attraverso il tentativo di escludere gli eletti della Rosa nel Pugno dal Senato, e si impegna a mettere in atto ogni forma di lotta istituzionale e politica per ottenere il ripristino della legalità, facendone punto qualificante anche del dialogo in corso con l'Unione e i suoi vertici, finora del tutto omissivi se non conniventi».
Durissima anche con i vertici dell'Unione, cui si chiede di «superare una lunga fase di ostilità, ostracismo, non comunicazione. La Rosa nel Pugno è stata decisiva per l'alternanza e il successo elettorale della coalizione; è impegnata per un governo forte e sicuro guidato da Romano Prodi; ma giudica inconcepibile che, sin dalla sua nascita, sia stata vissuta come un'insidia, e non, invece, come un'opportunità di rinnovamento della sinistra, sia sui diritti civili che sull'innovazione economica e sociale. E per queste stesse ragioni la Rosa nel Pugno intende partecipare al dibattito e alla discussione sul futuro Partito Democratico da costruire».
Il leader radicale prevale anche sugli altri temi caldi del dibattito interno, che non poco attrito hanno creato tra componente radicale e socialista. Alle prossime amministrative del 28 maggio ci saranno liste con il simbolo della Rosa nel Pugno, ma i gruppi consiliari non avranno la denominazione "Rosa nel Pugno" e gli eletti non potranno avere incarichi nella nuova forma-partito. Allargamento della Segreteria, a Lanfranco Turci e Biagio De Giovanni, e della Direzione, integrata con 54 nuovi membri.
Ma chissà se il nuovo partito avrebbe retto a questa giornata infuocata se non vi fossero state le amministrative alle porte.
La soluzione a portata di democristiano
Forse non servono tante ipotesi fantasiose e balletti sui nuovi assetti istituzionali e sul problema della tenuta della maggioranza prodiana al Senato. Forse l'incertezza è destinata a concludersi con la più banale, e quindi sfuggita agli occhi dei più, operazione di stampo trasformistico. La novità di oggi è che Marco Follini si smarca dal suo partito e annuncia il suo dissenso: non parteciperà al Consiglio Nazionale dell'Udc.
Che sia il primo passo che porterà l'Unione ad avere una maggioranza più solida al Senato (+7/8), o per lo meno a una non-belligeranza? Che Prodi abbia trovato chi democristianamente accorre in suo aiuto? Vedremo... e vedremo quale sarà il prezzo, ma in fondo il precedente già c'è: sempre al Senato, ma nel '94, quella volta fu in soccorso del I Governo Berlusconi.
Fonte: Repubblica.it
Che sia il primo passo che porterà l'Unione ad avere una maggioranza più solida al Senato (+7/8), o per lo meno a una non-belligeranza? Che Prodi abbia trovato chi democristianamente accorre in suo aiuto? Vedremo... e vedremo quale sarà il prezzo, ma in fondo il precedente già c'è: sempre al Senato, ma nel '94, quella volta fu in soccorso del I Governo Berlusconi.
Fonte: Repubblica.it
Un problema di antropologia politica
Caro direttore, secondo Cafagna la Rosa nel Pugno doveva capire che «in Italia non si può governare, repubblicanamente e democraticamente, senza cattolici, senza una parte cattolica».
Non ho ancora capito perché il "cattolico" e il "laico" debbano essere identità che si parlano, si accordano, governano pure insieme, ma rimangono distinte. Anche etimologicamente non lo sono: il laico si distingue dal chierico, non dal credente. Di più: nel vissuto reale delle persone laico e credente sono sinonimi ed entrambi si contrappongono a clericale, che non è né credente, né laico.
Dunque, in politica ci sono liberali di religione cattolica, ma sono liberali. Socialdemocratici di religione cattolica, ma sono socialdemocratici. Conservatori di religione cattolica, ma sono conservatori. Persino comunisti di religione cattolica, ma sono comunisti. Voglio dire: impariamo a usare in politica le categorie della politica. Ciò non significa governare «senza cattolici», ma liberarli dal doversi riconoscere come parte, fazione, costituita sulla base di un'identità religiosa anziché politica; liberarli dall'invadenza di una questione che non è cattolica, ma vaticana. Stare cioè in politica come rappresentanti di una "patria" vaticana.
In tutta l'Europa continentale l'impegno politico dei cristiani ha preso la forma di partiti confessionali (perché dall'altra parte c'erano i comunisti), ma ancora oggi fatichiamo a liberarci di questo residuo del '900. Perché dobbiamo arrenderci a un bipolarismo composto di partiti post-confessionali e post-ideologici?
Cafagna avverte che una forza politica che voglia raccogliere la tradizione socialista può anche «allearsi con il solidarismo cattolico e con il cattolicesimo liberaldemocratico, ma non può vantaggiosamente "fondersi" con questi in uno stesso partito, senza amputarsi e snaturarsi». Noi vorremmo che potesse. E' il dilemma del Partito democratico. «Ciò almeno - aggiunge Cafagna - finché non si sarà completamente "americanizzata" l'antropologia politica di questo nostro paese».
Ecco, direi a Cafagna, invece dovremmo proprio cercare di "americanizzarla" l'antropologia politica del nostro paese. Ecco perché siamo naturalmente portati verso un Partito democratico ma allo stesso tempo sappiamo che non può nascere - se non come somma di post-democristiani e post-comunisti - se la laicità non è tra i suoi principi costitutivi, se il contributo dei cattolici è quello di «una parte cattolica» e non di singoli "democratici" che fanno politica e sono anche di religione cattolica.
Proprio alla Rosa nel Pugno si chiede di prendere atto di uno status quo della cultura politica italiana (non si può governare «senza una parte cattolica») il cui cambiamento dovrebbe essere tra gli obiettivi della sua azione e ragion d'essere? La politica può avere ambizioni o deve servire a gestire l'esistente?
Non ho ancora capito perché il "cattolico" e il "laico" debbano essere identità che si parlano, si accordano, governano pure insieme, ma rimangono distinte. Anche etimologicamente non lo sono: il laico si distingue dal chierico, non dal credente. Di più: nel vissuto reale delle persone laico e credente sono sinonimi ed entrambi si contrappongono a clericale, che non è né credente, né laico.
Dunque, in politica ci sono liberali di religione cattolica, ma sono liberali. Socialdemocratici di religione cattolica, ma sono socialdemocratici. Conservatori di religione cattolica, ma sono conservatori. Persino comunisti di religione cattolica, ma sono comunisti. Voglio dire: impariamo a usare in politica le categorie della politica. Ciò non significa governare «senza cattolici», ma liberarli dal doversi riconoscere come parte, fazione, costituita sulla base di un'identità religiosa anziché politica; liberarli dall'invadenza di una questione che non è cattolica, ma vaticana. Stare cioè in politica come rappresentanti di una "patria" vaticana.
In tutta l'Europa continentale l'impegno politico dei cristiani ha preso la forma di partiti confessionali (perché dall'altra parte c'erano i comunisti), ma ancora oggi fatichiamo a liberarci di questo residuo del '900. Perché dobbiamo arrenderci a un bipolarismo composto di partiti post-confessionali e post-ideologici?
Cafagna avverte che una forza politica che voglia raccogliere la tradizione socialista può anche «allearsi con il solidarismo cattolico e con il cattolicesimo liberaldemocratico, ma non può vantaggiosamente "fondersi" con questi in uno stesso partito, senza amputarsi e snaturarsi». Noi vorremmo che potesse. E' il dilemma del Partito democratico. «Ciò almeno - aggiunge Cafagna - finché non si sarà completamente "americanizzata" l'antropologia politica di questo nostro paese».
Ecco, direi a Cafagna, invece dovremmo proprio cercare di "americanizzarla" l'antropologia politica del nostro paese. Ecco perché siamo naturalmente portati verso un Partito democratico ma allo stesso tempo sappiamo che non può nascere - se non come somma di post-democristiani e post-comunisti - se la laicità non è tra i suoi principi costitutivi, se il contributo dei cattolici è quello di «una parte cattolica» e non di singoli "democratici" che fanno politica e sono anche di religione cattolica.
Proprio alla Rosa nel Pugno si chiede di prendere atto di uno status quo della cultura politica italiana (non si può governare «senza una parte cattolica») il cui cambiamento dovrebbe essere tra gli obiettivi della sua azione e ragion d'essere? La politica può avere ambizioni o deve servire a gestire l'esistente?
Wednesday, April 19, 2006
Tre condizioni per il Partito democratico
Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, con la lista dell'Ulivo anemica al 31 per cento, i Ds (lontani dal 20) e la Margherita (sotto l'11) che arrancano, la Rosa ferma al 2,5, il "motore riformista" rischia di incepparsi alla prima accelerata della sinistra massimalista, che invece ha fatto il pieno di voti, estremizzando l'asse politico della coalizione. Questo esito da una parte accresce l'urgenza del Partito democratico, dall'altra pone tre condizioni per la sua nascita: 1) non sia la somma di post comunisti e post democristiani, ma includa la cultura laica e liberale; 2) si passi subito a un sistema elettorale maggioritario; 3) si abbia il coraggio, come nel resto d'Europa, di fare a meno dell'alleanza con i comunisti, che volentieri si prestano al ruolo di antagonisti che la destra gli attribuisce, a scapito però della credibilità del "motore riformista" come alternativa di governo. Parte dei consensi sarebbe recuperata da sinistra, da quanti farebbero confluire il loro voto su chi avrebbe chance reali di battere la destra. Ma una parte decisiva verrebbe da quel centro politico dell'elettorato, quel ceto medio produttivo e modernizzatore che i riformisti anche stavolta non hanno potuto conquistare. Una leadership lungimirante doveva progettare tutto ciò anni fa, ma rinviare ancora vorrebbe dire pagare un conto più salato.
Caro direttore, con la lista dell'Ulivo anemica al 31 per cento, i Ds (lontani dal 20) e la Margherita (sotto l'11) che arrancano, la Rosa ferma al 2,5, il "motore riformista" rischia di incepparsi alla prima accelerata della sinistra massimalista, che invece ha fatto il pieno di voti, estremizzando l'asse politico della coalizione. Questo esito da una parte accresce l'urgenza del Partito democratico, dall'altra pone tre condizioni per la sua nascita: 1) non sia la somma di post comunisti e post democristiani, ma includa la cultura laica e liberale; 2) si passi subito a un sistema elettorale maggioritario; 3) si abbia il coraggio, come nel resto d'Europa, di fare a meno dell'alleanza con i comunisti, che volentieri si prestano al ruolo di antagonisti che la destra gli attribuisce, a scapito però della credibilità del "motore riformista" come alternativa di governo. Parte dei consensi sarebbe recuperata da sinistra, da quanti farebbero confluire il loro voto su chi avrebbe chance reali di battere la destra. Ma una parte decisiva verrebbe da quel centro politico dell'elettorato, quel ceto medio produttivo e modernizzatore che i riformisti anche stavolta non hanno potuto conquistare. Una leadership lungimirante doveva progettare tutto ciò anni fa, ma rinviare ancora vorrebbe dire pagare un conto più salato.
Gli imperdibili di questa stagione
I due migliori telefilm di questa stagione - a parte l'ormai affermatissimo ed esilerante Friends - vanno in onda su Fox: sono Grey's Anatomy, serie delicata, divertente, romantica quanto basta (tutti i venerdì alle 21,00; repliche sabato e lunedì), e Battlestar Galactica, remake della famosa saga fantascientifica, dalla trama avvincente, i toni epici e ottimi effetti speciali (sabato alle 21,00, in replica domenica e durante la settimana).
Da non perdere.
Da non perdere.
Le vie del Quirinale passano per il Colle Laterano
«Le vie del Quirinale non sono infinite ma passano anche per il Laterano. Grande regista il cardinale Camillo Ruini. E non si parli in maniera scontata d'ingerenza, per favore. Dopo aver ambedue gli schieramenti inseguito il voto cattolico, adesso sia Cdl che l'Unione tendono l'orecchio per capire quale può essere Oltretevere il candidato più gradito alla successione di Carlo Azeglio Ciampi».
La disinvoltura con la quale in questo retroscena del Riformista si invita a non parlare «in maniera scontata d'ingerenza» mentre si apprende che il capo dei vescovi italiani presenterebbe alla classe politica una sua rosa di candidati per il Quirinale è la migliore conferma della fondatezza delle nostre preoccupazioni. Siamo noi a essere anticlericali o loro a essere clericali?
Oggi Ciampi non farebbe parte di quella rosa perché per la Cei il presidente ideale è colui che sa parlare di «sana laicità» e non solo di pura e semplice «laicità». In pole position quindi troviamo Giuliano Amato, il Pera di sinistra, che è già andato oltre, sostenendo tempo fa che il credente ha certamente «una marcia in più».
Quello che ci vuole è un presidente consapevole che fra l'Italia e la Chiesa esistono «vincoli particolarissimi, che sarebbe gravemente dannoso tentare di indebolire e spezzare». Indubbiamente «particolarissimi», come il concordato e l'8 per mille.
A nulla sarebbe valso invece il gran movimento di Marcello Pera, che non sarebbe tra i preferiti: la Santa Sede non mette le proprie armate dietro il primo ateo devoto che scalpita.
La disinvoltura con la quale in questo retroscena del Riformista si invita a non parlare «in maniera scontata d'ingerenza» mentre si apprende che il capo dei vescovi italiani presenterebbe alla classe politica una sua rosa di candidati per il Quirinale è la migliore conferma della fondatezza delle nostre preoccupazioni. Siamo noi a essere anticlericali o loro a essere clericali?
Oggi Ciampi non farebbe parte di quella rosa perché per la Cei il presidente ideale è colui che sa parlare di «sana laicità» e non solo di pura e semplice «laicità». In pole position quindi troviamo Giuliano Amato, il Pera di sinistra, che è già andato oltre, sostenendo tempo fa che il credente ha certamente «una marcia in più».
Quello che ci vuole è un presidente consapevole che fra l'Italia e la Chiesa esistono «vincoli particolarissimi, che sarebbe gravemente dannoso tentare di indebolire e spezzare». Indubbiamente «particolarissimi», come il concordato e l'8 per mille.
A nulla sarebbe valso invece il gran movimento di Marcello Pera, che non sarebbe tra i preferiti: la Santa Sede non mette le proprie armate dietro il primo ateo devoto che scalpita.
Prodi garantisce su Hamas
Berlusconi è stato davvero a un passo dal rivincere le elezioni. All'indomani del voto Prodi ebbe a dichiarare che rispetto al governo uscente si sarebbe impegnato «direttamente a livello europeo per definire una nuova posizione nei confronti del nuovo governo palestinese». Se solo Prodi avesse pronunciato la sua apertura di credito nei confronti di Hamas una decina di giorni fa, ricevendo subito in cambio come «segnale d'apertura» un attentato come quello di lunedì, la frittata sarebbe stata fatta e quei 20 mila voti di differenza più che andati.
Il presidente del Consiglio in pectore ci promette mesi di gaffe. Ma se quelle di Berlusconi ci hanno fatto talvolta sorridere, quelle del Professore rischiano di farci piangere amaro. Ci chiediamo: Prodi parla di testa sua o si avvale di consulenti che gli scrivono i testi sul fisco e la politica estera?
Israele si è ritirato unilateralmente da Gaza, ha fatto ed è disposto a fare importanti concessioni in Cisgiordania. Con la vittoria di Kadima è stata emarginata la destra. Cos'altro si vuole? Non è l'ora di pretendere dei passi dai palestinesi?
Il presidente del Consiglio in pectore ci promette mesi di gaffe. Ma se quelle di Berlusconi ci hanno fatto talvolta sorridere, quelle del Professore rischiano di farci piangere amaro. Ci chiediamo: Prodi parla di testa sua o si avvale di consulenti che gli scrivono i testi sul fisco e la politica estera?
Israele si è ritirato unilateralmente da Gaza, ha fatto ed è disposto a fare importanti concessioni in Cisgiordania. Con la vittoria di Kadima è stata emarginata la destra. Cos'altro si vuole? Non è l'ora di pretendere dei passi dai palestinesi?
Tuesday, April 18, 2006
Radicali: torsione o continuità?
JimMomo s'inserisce nel dibattito sui radicali della Rosa nel Pugno con questo articolo apparso su Il Foglio di oggi. Chi segue questo blog l'ha potuto leggere già nei giorni scorsi.
Mi ha preceduto, nell'edizione di sabato, Massimo Bordin, che ha posto l'accento sulla «torsione che inquieta» i presunti radicali "veri", che avrebbe provocato la crisi di rigetto in quanti, affezionati alla politica radicale dell'ultimo decennio, non avrebbero digerito l'incontro con i socialisti dello Sdi e l'essere i «giapponesi» di Prodi. L'elettore tipo radicale è davvero così berlusconiano? Le ragioni richiamate da Della Vedova e Christian Rocca per spiegare la parziale erosione dell'elettorato radicale degli ultimi 10-15 anni appaiono fondate.
Se lo zoccolo duro che segue l'iniziativa politica radicale anche nei momenti di maggiori ristrettezze di risorse economiche e mediatiche sembra quantificabile in un 2 per cento, non bisogna però dimenticare che quello radicale, essendo per lo più d'opinione, è un voto altamente volatile e non identitario. Tra le principali preoccupazioni di Pannella & Co. non c'è quella di mantenere nel corso degli anni la medesima tipologia di elettorato. Il ricambio, parziale o totale, viene vissuto più come ricchezza che come problema. Certo, a condizione che il bilancio entrate/uscite sia di segno positivo.
Bordin fa bene a ricordare che «il "decennio" radicale non si caratterizza per una scelta di campo [dalla parte di Berlusconi, n.d.r.], che non c'è stata, ma per una serie di posizioni politiche». Tuttavia, sembra contraddire se stesso quando tiene a far notare che oggi «la conversione di linea è innegabile». Ma se l'iniziativa radicale del decennio scorso non può essere ridotta a una «scelta di campo», in che termini possiamo parlare oggi di «conversione di linea»? Non certo nei termini di una scelta di campo di segno opposto a quella, solo presunta, berlusconiana.
Quella che a molti sembra una scelta di campo prodiana in realtà non lo è. E' possibile che Pannella abbia dimenticato, o sottovalutato, il fascio di poteri corporativi e conservatori che il centrosinistra raccoglie intorno a sé? No. Infatti, anche in questi giorni, continua a denunciare la «gestione introversa delle oligarchie di destra, di sinistra, di centro, che rappresentano in modo chiaro la metastasi ovunque del tumore antidemocratico contro lo stato di diritto e la democrazia italiana».
Valutare la politica radicale, o per lo meno quella pannelliana, nell'ottica di scelte di campo che possono soddisfare o meno le nostre pulsioni più viscerali, le nostre simpatie e antipatie per Prodi o Berlusconi, è fuorviante. Se si condivide l'analisi di fondo di Pannella - l'Italia che «non è una democrazia e non è uno stato di diritto»; la partitocrazia divenuta ormai oligarchia - allora non si dovrebbe faticare a vedere nella Rosa nel Pugno la nuova casa dell'alternativa strategica laica e liberale, e nell'apparentamento con L'Unione il campo di battaglia dov'è praticabile oggi - tra le mille difficoltà che il leader radicale per primo non intende accantonare - la lotta per la Riforma (con la erre maiuscola) della sinistra, quindi del paese.
Il problema semmai è che questa analisi di fondo, dell'assenza di democrazia e stato di diritto, non ha mai convinto pienamente Della Vedova, né molti all'interno dell'area radicale. E anche chi ne è razionalmente convinto fatica a tenere a mente il contesto "truccato" nel quale si gioca e a inquadrarvi l'azione radicale.
In un comitato di Radicali italiani del gennaio 2005, avviando l'iniziativa dell'"ospitalità", Pannella la definiva un «atto necessario per la conquista di segmenti di legalità nella vita e nell'attività delle istituzioni, e, insieme, per il recupero alle istituzioni della presenza e dell'apporto radicale». Non per una «scelta di campo» i radicali tentavano ancora la strada dell'accordo con il centrodestra, ma rispondendo a un vero e proprio «stato di necessità». Anni di lotte nonviolente e referendarie per impedire che lo Stato italiano assumesse il carattere di illegalità permanente che oggi lo contraddistingue hanno prodotto risultati impensabili, ma oggi, ritiene Pannella, non avrebbe più senso continuare a "resistere" affinché questo stato d'illegalità non si incardini. Esso ormai è un fatto compiuto.
In un "regime" costantemente fuori-legge, in una realtà oligarchica «articolata in due poli antropologicamente uniti», è solo dall'interno di uno di essi che si può sperare di assicurare alle istituzioni l'apporto dei radicali e di tenere aperto un fronte di lotta laico e liberale. Al di là del privilegio partitocratico non c'è lotta politica, ma mera testimonianza. Occorre allora, spiegava Pannella, «pagare i prezzi necessari, anche nobili», cercare «di farci accettare da questo sistema in modo da riprendere forza», senza sottovalutare il rischio drammatico che il sistema possa neutralizzarci. Torsione o continuità, oggi, rispetto all'analisi di allora?
In quel comitato erano palpabili l'euforia dei "dellavedoviani" e lo scoramento dell'anima movimentista dell'area radicale. Pannella stesso era consapevole che la sua analisi dell'assenza di democrazia e stato di diritto in Italia non appartenesse al vissuto e al pensiero di molti che auspicavano l'intesa con l'uno o l'altro polo. Da parte di costoro prendere per buona quella premessa conveniva per prenderne le sue conseguenze pratiche di un'alleanza elettorale.
Torsione o continuità, dunque? Parlerei piuttosto di evoluzione, ma se proprio fossi costretto a scegliere mi verrebbe da indicare continuità. Spesso ai radicali viene rimproverato di oscillare fra destra e sinistra, ma sarebbe il caso di prendere in considerazione le oscillazioni altrui rispetto alle proposte di riforma radicali. Quanto tutti i partiti della CdL si sono discostati da ciò che erano 5 o, ancor di più, 10 anni fa? Qualcuno dubita forse che se Pannella ottenesse il tanto sospirato confronto con Bertinotti sarebbe capace di attaccare con l'articolo 18, la trattenuta d'imposta e tutte le altre belle e utili riforme liberiste che Bordin crede ormai una volta per tutte alle spalle?
Mi ha preceduto, nell'edizione di sabato, Massimo Bordin, che ha posto l'accento sulla «torsione che inquieta» i presunti radicali "veri", che avrebbe provocato la crisi di rigetto in quanti, affezionati alla politica radicale dell'ultimo decennio, non avrebbero digerito l'incontro con i socialisti dello Sdi e l'essere i «giapponesi» di Prodi. L'elettore tipo radicale è davvero così berlusconiano? Le ragioni richiamate da Della Vedova e Christian Rocca per spiegare la parziale erosione dell'elettorato radicale degli ultimi 10-15 anni appaiono fondate.
Se lo zoccolo duro che segue l'iniziativa politica radicale anche nei momenti di maggiori ristrettezze di risorse economiche e mediatiche sembra quantificabile in un 2 per cento, non bisogna però dimenticare che quello radicale, essendo per lo più d'opinione, è un voto altamente volatile e non identitario. Tra le principali preoccupazioni di Pannella & Co. non c'è quella di mantenere nel corso degli anni la medesima tipologia di elettorato. Il ricambio, parziale o totale, viene vissuto più come ricchezza che come problema. Certo, a condizione che il bilancio entrate/uscite sia di segno positivo.
Bordin fa bene a ricordare che «il "decennio" radicale non si caratterizza per una scelta di campo [dalla parte di Berlusconi, n.d.r.], che non c'è stata, ma per una serie di posizioni politiche». Tuttavia, sembra contraddire se stesso quando tiene a far notare che oggi «la conversione di linea è innegabile». Ma se l'iniziativa radicale del decennio scorso non può essere ridotta a una «scelta di campo», in che termini possiamo parlare oggi di «conversione di linea»? Non certo nei termini di una scelta di campo di segno opposto a quella, solo presunta, berlusconiana.
Quella che a molti sembra una scelta di campo prodiana in realtà non lo è. E' possibile che Pannella abbia dimenticato, o sottovalutato, il fascio di poteri corporativi e conservatori che il centrosinistra raccoglie intorno a sé? No. Infatti, anche in questi giorni, continua a denunciare la «gestione introversa delle oligarchie di destra, di sinistra, di centro, che rappresentano in modo chiaro la metastasi ovunque del tumore antidemocratico contro lo stato di diritto e la democrazia italiana».
Valutare la politica radicale, o per lo meno quella pannelliana, nell'ottica di scelte di campo che possono soddisfare o meno le nostre pulsioni più viscerali, le nostre simpatie e antipatie per Prodi o Berlusconi, è fuorviante. Se si condivide l'analisi di fondo di Pannella - l'Italia che «non è una democrazia e non è uno stato di diritto»; la partitocrazia divenuta ormai oligarchia - allora non si dovrebbe faticare a vedere nella Rosa nel Pugno la nuova casa dell'alternativa strategica laica e liberale, e nell'apparentamento con L'Unione il campo di battaglia dov'è praticabile oggi - tra le mille difficoltà che il leader radicale per primo non intende accantonare - la lotta per la Riforma (con la erre maiuscola) della sinistra, quindi del paese.
Il problema semmai è che questa analisi di fondo, dell'assenza di democrazia e stato di diritto, non ha mai convinto pienamente Della Vedova, né molti all'interno dell'area radicale. E anche chi ne è razionalmente convinto fatica a tenere a mente il contesto "truccato" nel quale si gioca e a inquadrarvi l'azione radicale.
In un comitato di Radicali italiani del gennaio 2005, avviando l'iniziativa dell'"ospitalità", Pannella la definiva un «atto necessario per la conquista di segmenti di legalità nella vita e nell'attività delle istituzioni, e, insieme, per il recupero alle istituzioni della presenza e dell'apporto radicale». Non per una «scelta di campo» i radicali tentavano ancora la strada dell'accordo con il centrodestra, ma rispondendo a un vero e proprio «stato di necessità». Anni di lotte nonviolente e referendarie per impedire che lo Stato italiano assumesse il carattere di illegalità permanente che oggi lo contraddistingue hanno prodotto risultati impensabili, ma oggi, ritiene Pannella, non avrebbe più senso continuare a "resistere" affinché questo stato d'illegalità non si incardini. Esso ormai è un fatto compiuto.
In un "regime" costantemente fuori-legge, in una realtà oligarchica «articolata in due poli antropologicamente uniti», è solo dall'interno di uno di essi che si può sperare di assicurare alle istituzioni l'apporto dei radicali e di tenere aperto un fronte di lotta laico e liberale. Al di là del privilegio partitocratico non c'è lotta politica, ma mera testimonianza. Occorre allora, spiegava Pannella, «pagare i prezzi necessari, anche nobili», cercare «di farci accettare da questo sistema in modo da riprendere forza», senza sottovalutare il rischio drammatico che il sistema possa neutralizzarci. Torsione o continuità, oggi, rispetto all'analisi di allora?
In quel comitato erano palpabili l'euforia dei "dellavedoviani" e lo scoramento dell'anima movimentista dell'area radicale. Pannella stesso era consapevole che la sua analisi dell'assenza di democrazia e stato di diritto in Italia non appartenesse al vissuto e al pensiero di molti che auspicavano l'intesa con l'uno o l'altro polo. Da parte di costoro prendere per buona quella premessa conveniva per prenderne le sue conseguenze pratiche di un'alleanza elettorale.
Torsione o continuità, dunque? Parlerei piuttosto di evoluzione, ma se proprio fossi costretto a scegliere mi verrebbe da indicare continuità. Spesso ai radicali viene rimproverato di oscillare fra destra e sinistra, ma sarebbe il caso di prendere in considerazione le oscillazioni altrui rispetto alle proposte di riforma radicali. Quanto tutti i partiti della CdL si sono discostati da ciò che erano 5 o, ancor di più, 10 anni fa? Qualcuno dubita forse che se Pannella ottenesse il tanto sospirato confronto con Bertinotti sarebbe capace di attaccare con l'articolo 18, la trattenuta d'imposta e tutte le altre belle e utili riforme liberiste che Bordin crede ormai una volta per tutte alle spalle?
Non confondere democrazia e geopolitica
Uno dei miei blog preferiti, riportando la notizia dell'accordo del fronte arancione Yushchenko-Tymoshenko in Ucraina, avverte i sedicenti "realisti" che la politica «non basta studiarla, bisogna anche sentirla. Ma quello, come il coraggio, uno non se lo può dare».
La completa analisi della situazione ucraina fatta da Mario Sechi per Emporion rischia di cadere in un clamoroso equivoco laddove si apre, e si conclude, con un giudizio sulla "rivoluzione arancione" che si fonda su parametri distorti. Leggiamo:
Se l'indubbia influenza russa avesse di nuovo impedito lo svolgimento di elezioni libere, allora Sechi e gli altri commentatori avrebbero ragione. Ma per quanto sia deleterio il successo dei filo-russi, comunque al 30%, oggi il loro peso politico si misura con consensi reali, non con la forza. Le elezioni, per oltre 2 mila osservatori, sono state libere e corrette. Oggi alternanza, libera espressione della volontà popolare, dialettica parlamentare, istituzionalizzazione delle crisi, danno sostanza alla democrazia ucraina. Certo, è ancora fragile ed esposta a influenze esterne, ma un ritorno al passato appare improbabile. Tra l'altro, uno studio dell'autorevole Freedom House dimostra che è tipico delle rivoluzioni nonviolente che il fronte democratico si divida una volta avviata la transizione alla democrazia. Le forze civiche e politiche che avevano fatto fronte comune contro il regime si presentano divise alle elezioni, ma ciò non pregiudica il processo democratico, è anzi fisiologico.
Se invece la nostra preoccupazione fosse squisitamente geopolitica, cioè sottrarre l'Ucraina all'influenza russa, allora il problema è un altro: è l'Europa che, totalmente priva di qualsiasi politica estera, con facilità tende una mano e con altrettanta facilità la ritira. E' vero che l'emancipazione dalla Russia è un processo molto complicato, che non può avvenire con le sole forze nazionali, ma non è pensabile - per la loro storia, la cultura e la posizione geografica - che a Kiev, o a Minsk, si governi contro o senza Mosca. L'importante è che i rapporti e gli equilibri, più o meno svantaggiosi per l'una o l'altra parte, non costituiscano un protettorato de facto, come rischiava d'essere prima della "rivolzione arancione".
Dunque, anche qui il problema, a lungo termine, è la democrazia in Russia. Solo con una Russia compiutamente democratica le ex repubbliche sovietiche potranno essere sicure di intrattenervi buoni rapporti di interdipendenza, e non di subalternità, che non mettano a rischio il loro assetto democratico.
La completa analisi della situazione ucraina fatta da Mario Sechi per Emporion rischia di cadere in un clamoroso equivoco laddove si apre, e si conclude, con un giudizio sulla "rivoluzione arancione" che si fonda su parametri distorti. Leggiamo:
La storia è piena di rivoluzioni che durano lo spazio di un mattino e quella "arancione" in Ucraina, sotto molti aspetti, è destinata ad esser catalogata tra le meteore. La strada verso la democrazia è lastricata di buone intenzioni e clamorosi errori, il prossimo governo ucraino dovrà fare un grande sforzo di realismo per evitare di finire tra le braccia di una distruttiva utopia. I paesi ex satelliti dell'Unione Sovietica infatti sono ancora attratti dall'enorme forza gravitazionale della Russia e il risultato delle ultime elezioni ucraine ne è la testimonianza. Chi prevedeva una vittoria schiacciante dei partiti della rivoluzione arancione ha lasciato la posta sul banco, chi pensava a un'affermazione dei filo-russi dopo le tensioni sulla crisi energetica ha fatto male i conti al gasometro, chi continua a vagheggiare l'Ucraina sganciata dall'influenza di Mosca si illude.Il successo della "rivoluzione arancione", la tenuta della debole democrazia ucraina, viene qui misurata con il grado dell'influenza russa su Kiev. E' l'equivoco di fondo che ha accomunato molte delle migliori analisi, che sembrano confondere piani diversi. L'esito della rivoluzione democratica coincide con le sorti elettorali di uno dei suoi artefici? A mio avviso no. Sognavamo un'Ucraina democratica o solo filo-occidentale? O tutt'e due le cose? Occorre avere presenti queste domande prima di valutare lo stato di salute della democrazia arancione.
(...)
La democrazia non è un fatto cromatico, meglio prender atto che la rivoluzione arancione si è un po' sbiadita, perché pensare di far uscire subito Kiev dall'area di influenza russa per ora è una chimera.
Se l'indubbia influenza russa avesse di nuovo impedito lo svolgimento di elezioni libere, allora Sechi e gli altri commentatori avrebbero ragione. Ma per quanto sia deleterio il successo dei filo-russi, comunque al 30%, oggi il loro peso politico si misura con consensi reali, non con la forza. Le elezioni, per oltre 2 mila osservatori, sono state libere e corrette. Oggi alternanza, libera espressione della volontà popolare, dialettica parlamentare, istituzionalizzazione delle crisi, danno sostanza alla democrazia ucraina. Certo, è ancora fragile ed esposta a influenze esterne, ma un ritorno al passato appare improbabile. Tra l'altro, uno studio dell'autorevole Freedom House dimostra che è tipico delle rivoluzioni nonviolente che il fronte democratico si divida una volta avviata la transizione alla democrazia. Le forze civiche e politiche che avevano fatto fronte comune contro il regime si presentano divise alle elezioni, ma ciò non pregiudica il processo democratico, è anzi fisiologico.
Se invece la nostra preoccupazione fosse squisitamente geopolitica, cioè sottrarre l'Ucraina all'influenza russa, allora il problema è un altro: è l'Europa che, totalmente priva di qualsiasi politica estera, con facilità tende una mano e con altrettanta facilità la ritira. E' vero che l'emancipazione dalla Russia è un processo molto complicato, che non può avvenire con le sole forze nazionali, ma non è pensabile - per la loro storia, la cultura e la posizione geografica - che a Kiev, o a Minsk, si governi contro o senza Mosca. L'importante è che i rapporti e gli equilibri, più o meno svantaggiosi per l'una o l'altra parte, non costituiscano un protettorato de facto, come rischiava d'essere prima della "rivolzione arancione".
Dunque, anche qui il problema, a lungo termine, è la democrazia in Russia. Solo con una Russia compiutamente democratica le ex repubbliche sovietiche potranno essere sicure di intrattenervi buoni rapporti di interdipendenza, e non di subalternità, che non mettano a rischio il loro assetto democratico.
Saturday, April 15, 2006
D'Alema e Marini già in regìa
Su la Repubblica ha risposto per le rime anche Boselli, ma alla provocazione di D'alema, «poverino, è distratto», non si poteva rispondere meglio di quanto ha fatto Pannella sul Corriere di ieri. Quelli di D'Alema, che non vuole i radicali ma i socialisti li tenta con il sottopotere, che inciucia con Berlusconi, sono i «soliti metodi dell'oligarchia dominante».
E mi raccomando, non vi sfugga questo fondamentale passaggio dell'intervista, inedito sulla stampa ma non nuovo a chi ascolta Radio Radicale: «Ho detto sorridendo "sarò l'ultimo giapponese dell'utopia prodiana". Se poi quella scompare... Beh, è un altro problema».
Mentre Prodi punta sempre più i piedi come un bambino capriccioso che vuole il giocattolo tutto per sé convinto di saperlo usare, D'Alema e Berlusconi si scambiano "pizzini". E Paolo Mieli, fino a poco tempo fa odiato da entrambi, fa da intermediario. Sulla scena intanto si riaffaccia guarda caso anche Franco Marini, tessitore libero della Margherita. Dev'essere un brutto incubo per Prodi vedere riformarsi, già pochi giorni dopo il voto, la diabolica coppia D'Alema-Marini che lo disarcionò nel '98. "Così presto?", deve aver pensato.
L'affare si fa tremendamente serio, troppo per lasciarlo nelle mani del curato.
Possibile che Prodi non si renda conto che con il Senato spaccato a metà non può governare e che mostrare i muscoli adesso è controproducente? Quando verrà il momento - perché verrà - gli costerà più caro aprire il dialogo. E' improbabile che si arrivi a una Grosse Koalition, perché in Italia la politica è troppo lacerata, ma i leader del centrosinistra, tutti tranne Prodi a quanto pare, comprendono che fra uno o al massimo due anni il ritorno alle urne sarà inevitabile e che vi sono due modi per arrivarci: lo scontro permanente e l'instabilità cronica, esiziali per la sinistra, perché se le vedrà addebitate dagli elettori, oppure un'amministrazione provvisoria del paese, guidata da un Prodi mansueto e tenuto sotto controllo, che faccia poche e convenute cose urgenti con la non-belligeranza dell'opposizione.
Prodi sembra ancora immerso in un mondo tutto suo, una torre d'avorio fatta di giubilo e orgoglio, ma D'Alema e Marini sono già all'opera, ai posti di comando del centrosinistra. Il Professore è già isolato, e sconfitto, ben più dello sconfitto ufficiale, Berlusconi, che pure ha i suoi problemi interni.
E mi raccomando, non vi sfugga questo fondamentale passaggio dell'intervista, inedito sulla stampa ma non nuovo a chi ascolta Radio Radicale: «Ho detto sorridendo "sarò l'ultimo giapponese dell'utopia prodiana". Se poi quella scompare... Beh, è un altro problema».
Mentre Prodi punta sempre più i piedi come un bambino capriccioso che vuole il giocattolo tutto per sé convinto di saperlo usare, D'Alema e Berlusconi si scambiano "pizzini". E Paolo Mieli, fino a poco tempo fa odiato da entrambi, fa da intermediario. Sulla scena intanto si riaffaccia guarda caso anche Franco Marini, tessitore libero della Margherita. Dev'essere un brutto incubo per Prodi vedere riformarsi, già pochi giorni dopo il voto, la diabolica coppia D'Alema-Marini che lo disarcionò nel '98. "Così presto?", deve aver pensato.
L'affare si fa tremendamente serio, troppo per lasciarlo nelle mani del curato.
Possibile che Prodi non si renda conto che con il Senato spaccato a metà non può governare e che mostrare i muscoli adesso è controproducente? Quando verrà il momento - perché verrà - gli costerà più caro aprire il dialogo. E' improbabile che si arrivi a una Grosse Koalition, perché in Italia la politica è troppo lacerata, ma i leader del centrosinistra, tutti tranne Prodi a quanto pare, comprendono che fra uno o al massimo due anni il ritorno alle urne sarà inevitabile e che vi sono due modi per arrivarci: lo scontro permanente e l'instabilità cronica, esiziali per la sinistra, perché se le vedrà addebitate dagli elettori, oppure un'amministrazione provvisoria del paese, guidata da un Prodi mansueto e tenuto sotto controllo, che faccia poche e convenute cose urgenti con la non-belligeranza dell'opposizione.
Prodi sembra ancora immerso in un mondo tutto suo, una torre d'avorio fatta di giubilo e orgoglio, ma D'Alema e Marini sono già all'opera, ai posti di comando del centrosinistra. Il Professore è già isolato, e sconfitto, ben più dello sconfitto ufficiale, Berlusconi, che pure ha i suoi problemi interni.
Friday, April 14, 2006
Quel grandissimo figlio di p.
E' la politica, bellezza, mi si potrebbe legittimamente rispondere se definissi D'Alema uno sciacallo, un grande figlio di p. Sarà, ma il baffino, che abbiamo visto oltremodo nervoso in campagna elettorale (non è da lui), forse per le vicende Unipol, che abbiamo visto trionfante ai primi exit poll, è politico scaltro ma sopravvalutato. Il cinismo e l'arroganza alla fine si pagano.
Questo il suo sputo inacidito in faccia ai radicali, dalle colonne del Corriere di oggi (si parla del Partito Democratico, e se le porte debbano essere aperte anche alla Rosa nel Pugno):
«Aperte a tutta l'area socialista, che fu parte fondativa di questo progetto. Mi pare che la Rosa nel Pugno fosse solo un cartello elettorale».
Astuto si inserisce tra socialisti e radicali per separare il grano e il loglio, facendo leva sulla delusione per un risultato elettorale della Rosa inferiore alle aspettative. C'era da aspettarselo, ma a questo punto non resta che attendere la replica, che spetta Boselli, che speriamo sollecita.
Le difficoltà saranno molte, perché con una percentuale del 2,6% alla Rosa i Ds hanno tirato un sospiro di sollievo: nessuna erosione di consenso sul fianco della laicità. Semmai, voti Ds sono emigrati verso Rifondazione al Senato. Dunque, la battuta di D'Alema potrebbe rsappresentare più d'una tentazione tra i vertici Ds: far pagare cara ai radicali la lesa maestà e perdonare gli incauti socialisti.
I radicalsocialisti non dovranno mai dimenticare il contesto in cui sono chiamati ad operare e per fortuna Pannella ha ben chiaro che «gli ostacoli e i problemi sono tantissimi, per quel che mi riguarda sono determinatissimo nel non ignorarli, nel non accantonarli».
Se la provocazione di d'Alema dovesse rivelarsi una politica, ci sarebbe da passare all'opposizione, almeno come approccio mentale. Altro che Ministeri e incarichi di governo alla Rosa nel Pugno. Aspettiamo di vedere i nomi, se all'Economia vanno Monti o Padoa Schioppa, o se la Bonino può finire agli Esteri. Solo con un governo di altissimo profilo, nel programma e negli uomini, Prodi può sperare di superare i limiti della ridotta maggioranza al Senato. Al di fuori di queste ipotesi, il lavoro da fare è troppo e troppo importante per immischiarsi nel governicchio del prodino.
Questo il suo sputo inacidito in faccia ai radicali, dalle colonne del Corriere di oggi (si parla del Partito Democratico, e se le porte debbano essere aperte anche alla Rosa nel Pugno):
«Aperte a tutta l'area socialista, che fu parte fondativa di questo progetto. Mi pare che la Rosa nel Pugno fosse solo un cartello elettorale».
Astuto si inserisce tra socialisti e radicali per separare il grano e il loglio, facendo leva sulla delusione per un risultato elettorale della Rosa inferiore alle aspettative. C'era da aspettarselo, ma a questo punto non resta che attendere la replica, che spetta Boselli, che speriamo sollecita.
Le difficoltà saranno molte, perché con una percentuale del 2,6% alla Rosa i Ds hanno tirato un sospiro di sollievo: nessuna erosione di consenso sul fianco della laicità. Semmai, voti Ds sono emigrati verso Rifondazione al Senato. Dunque, la battuta di D'Alema potrebbe rsappresentare più d'una tentazione tra i vertici Ds: far pagare cara ai radicali la lesa maestà e perdonare gli incauti socialisti.
I radicalsocialisti non dovranno mai dimenticare il contesto in cui sono chiamati ad operare e per fortuna Pannella ha ben chiaro che «gli ostacoli e i problemi sono tantissimi, per quel che mi riguarda sono determinatissimo nel non ignorarli, nel non accantonarli».
Se la provocazione di d'Alema dovesse rivelarsi una politica, ci sarebbe da passare all'opposizione, almeno come approccio mentale. Altro che Ministeri e incarichi di governo alla Rosa nel Pugno. Aspettiamo di vedere i nomi, se all'Economia vanno Monti o Padoa Schioppa, o se la Bonino può finire agli Esteri. Solo con un governo di altissimo profilo, nel programma e negli uomini, Prodi può sperare di superare i limiti della ridotta maggioranza al Senato. Al di fuori di queste ipotesi, il lavoro da fare è troppo e troppo importante per immischiarsi nel governicchio del prodino.
Thursday, April 13, 2006
L'Udc vuole giocare in proprio
Avreste mai scommesso che l'Udc dicesse no all'ipotesi di Grande Coalizione preconizzata invece da Berlusconi, quello che divide il paese? Non bisogna fare l'errore di pensare che la CdL si sia ricompattata intorno al suo vecchio leader dopo la prova di forza delle lezioni. Certo, la figura del Cav. ha ricevuto nuova linfa, sarebbe inopportuno e impensabile cominciare da oggi a logorarla quando ha riguadagnato una tale popolarità. Ma non bisogna illudersi. Udc e An torneranno presto a mettere in discussione la leadership berlusconiana e un primo segnale lo stanno fornendo in questi giorni, bocciando, proprio loro, l'ipotesi della Grande Coalizione e dissociandosi dalla linea del premier sul "riconteggio" e le presunte irregolarità.
La verifica dei voti (non si tratta di un vero e proprio riconteggio) va fatta, eccome. Tanto più che il Prodino mi sembra nervosetto. Le frettolose dichiarazioni di vittoria, il suo ossessivo ribadire che il governo si farà, che è tutto a posto e che Berlusconi se ne deve solo andare a casa, sono una patente dimostrazione di insicurezza. E l'impressione è che in quei convulsi giorni a cavallo di quando diede del matto a un ascoltatore a Radio Anch'io, gli altri leader dell'Unione si siano in realtà convinti che il matto sia lui e che fosse meglio sbarazzarsene alla miglior occasione.
La verifica dei voti, dicevamo, va fatta con la massima cura. Le schede contestate e quelle annullate. E' in gioco, direbbero i radicali, la legalità del processo elettorale nella sua ultima e più delicata fase: il conteggio dei voti. Legalità che dev'esser rispettata anche nel caso di leggi elettorali «porcata». Anche perché purtroppo un certo malcostume nei conteggi in Italia è piuttosto diffuso e praticato soprattutto dalle forze politiche con maggiore controllo territoriale locale.
Mi piacerebbe sentirglielo dire anche oggi, ai radicali, che è in gioco la legalità, invece di unirsi al coro di chi, non avendo la minima percezione di come sia fluida la situazione, invita Berlusconi a farsi da parte. Per il momento ha qualcosa da dire sui risultati elettorali anche la Rosa nel Pugno, che ha presentato un ricorso contro l'esclusione dal Senato.
Tornando all'Udc. Non è che siano contrari a una Grande Coalizione, è che sono contrari che se ne faccia artefice Berlusconi. Vogliono giocarsi in proprio i rapporti con il centrosinistra. Vogliono sfilarsi dalla leadership berlusconiana ed è più facile farlo dall'opposizione. Non accetteranno mai di dar vita a una casa dei moderati di cui sia Berlusconi il fondatore. Vogliono fondarla ed egemonizzarla loro. Staremo a vedere, ma qualcosa mi dice che finché ci sarà il Cav. nessun partito unico nascerà nel centrodestra, o comunque l'Udc farà di tutto per sfuggire dal momento della decisione.
La verifica dei voti (non si tratta di un vero e proprio riconteggio) va fatta, eccome. Tanto più che il Prodino mi sembra nervosetto. Le frettolose dichiarazioni di vittoria, il suo ossessivo ribadire che il governo si farà, che è tutto a posto e che Berlusconi se ne deve solo andare a casa, sono una patente dimostrazione di insicurezza. E l'impressione è che in quei convulsi giorni a cavallo di quando diede del matto a un ascoltatore a Radio Anch'io, gli altri leader dell'Unione si siano in realtà convinti che il matto sia lui e che fosse meglio sbarazzarsene alla miglior occasione.
La verifica dei voti, dicevamo, va fatta con la massima cura. Le schede contestate e quelle annullate. E' in gioco, direbbero i radicali, la legalità del processo elettorale nella sua ultima e più delicata fase: il conteggio dei voti. Legalità che dev'esser rispettata anche nel caso di leggi elettorali «porcata». Anche perché purtroppo un certo malcostume nei conteggi in Italia è piuttosto diffuso e praticato soprattutto dalle forze politiche con maggiore controllo territoriale locale.
Mi piacerebbe sentirglielo dire anche oggi, ai radicali, che è in gioco la legalità, invece di unirsi al coro di chi, non avendo la minima percezione di come sia fluida la situazione, invita Berlusconi a farsi da parte. Per il momento ha qualcosa da dire sui risultati elettorali anche la Rosa nel Pugno, che ha presentato un ricorso contro l'esclusione dal Senato.
Tornando all'Udc. Non è che siano contrari a una Grande Coalizione, è che sono contrari che se ne faccia artefice Berlusconi. Vogliono giocarsi in proprio i rapporti con il centrosinistra. Vogliono sfilarsi dalla leadership berlusconiana ed è più facile farlo dall'opposizione. Non accetteranno mai di dar vita a una casa dei moderati di cui sia Berlusconi il fondatore. Vogliono fondarla ed egemonizzarla loro. Staremo a vedere, ma qualcosa mi dice che finché ci sarà il Cav. nessun partito unico nascerà nel centrodestra, o comunque l'Udc farà di tutto per sfuggire dal momento della decisione.
Più mercato è la risposta a chi ha di meno
Le politiche liberali anche le più eque
Angelo Panebianco ritorna sull'analisi di Ostellino, di qualche giorno fa: il Nord «produttivo e modernizzatore» ha scelto di nuovo Berlusconi, quasi per disperazione. Non si può, fa notare Panebianco alla sinistra, «liquidare l'Italia del centrodestra come un aggregato di ceti illiberali, l'Italia del "particulare" contrapposta all'Italia delle grandi idealità (quella di sinistra), continuare a descrivere un'Italia antropologicamente e moralmente inferiore».
Il liberista che meglio sa parlare alla sinistra è però Oscar Giannino, dalle colonne del Riformista. Non si può pensare che la metà del paese si sia schierata a «difesa della "roba" di Berlusconi», né tanto meno che si sia «rimbambita» guardando le sue tv. «Quando nel centrosinistra e nei grandi giornali che le sono vicini la si pianterà con questo topos, sarà sempre troppo tardi. Al contrario, per noi poveri liberisti mosche bianche, quella metà del paese accorsa alle urne, quel Nord che dal Piemonte al Friuli torna a respingere il centrosinistra, ha un significato che suona come una incredibile manifestazione di vitalità, è un patrimonio di valore straordinario».
E' un paese che non vuiole evadere il fisco, ma vuole «meno tasse, uno Stato più leggero, un'impresa piccola e media che non si riconosce nelle rottamazioni di Stato e nelle deroghe al pensionamento a spese dei contribuenti garantite ai grandi gruppi». Un ceto medio che «identifica lo Stato con la qualità dei servizi offerti in cambio delle tasse estorte, non con il numero di posti pubblici garantiti nella scuola, nelle università e negli ospedali. Gente che ha anche molto poco, ma crede che l'ascensore sociale si attivi premiando il merito e consentendo alle famiglie di scegliere tra più offerte in concorrenza a prezzi calanti e non a tutela dei monopolisti...»
E' questa fetta di delusi da Berlusconi che per "disperazione" sono tornati in parte a votarlo dopo aver visto il vero volto di Prodi, il curato bonario che vuole «organizzare» lui, dall'alto, la felicità, «l'enorme serbatoio per una grande battaglia a favore della scelta degli individui e del mercato, contro le collettività e la mano pubblica: è un mercato richiesto non a vantaggio di chi ha già di più, ma per moltiplicare le chanche di chi ha di meno».
A licenziare i leader del centrosinistra è anche Luca Ricolfi, che mi piace sempre di più. Scrive che «da tantissimo tempo, l'elettorato italiano dà un giudizio dell'opposizione ancora più negativo di quello che dà sul governo» e che «questi dirigenti dell'Unione hanno fatto di tutto per perdere le elezioni», elencando gli errori:
Angelo Panebianco ritorna sull'analisi di Ostellino, di qualche giorno fa: il Nord «produttivo e modernizzatore» ha scelto di nuovo Berlusconi, quasi per disperazione. Non si può, fa notare Panebianco alla sinistra, «liquidare l'Italia del centrodestra come un aggregato di ceti illiberali, l'Italia del "particulare" contrapposta all'Italia delle grandi idealità (quella di sinistra), continuare a descrivere un'Italia antropologicamente e moralmente inferiore».
Il liberista che meglio sa parlare alla sinistra è però Oscar Giannino, dalle colonne del Riformista. Non si può pensare che la metà del paese si sia schierata a «difesa della "roba" di Berlusconi», né tanto meno che si sia «rimbambita» guardando le sue tv. «Quando nel centrosinistra e nei grandi giornali che le sono vicini la si pianterà con questo topos, sarà sempre troppo tardi. Al contrario, per noi poveri liberisti mosche bianche, quella metà del paese accorsa alle urne, quel Nord che dal Piemonte al Friuli torna a respingere il centrosinistra, ha un significato che suona come una incredibile manifestazione di vitalità, è un patrimonio di valore straordinario».
E' un paese che non vuiole evadere il fisco, ma vuole «meno tasse, uno Stato più leggero, un'impresa piccola e media che non si riconosce nelle rottamazioni di Stato e nelle deroghe al pensionamento a spese dei contribuenti garantite ai grandi gruppi». Un ceto medio che «identifica lo Stato con la qualità dei servizi offerti in cambio delle tasse estorte, non con il numero di posti pubblici garantiti nella scuola, nelle università e negli ospedali. Gente che ha anche molto poco, ma crede che l'ascensore sociale si attivi premiando il merito e consentendo alle famiglie di scegliere tra più offerte in concorrenza a prezzi calanti e non a tutela dei monopolisti...»
E' questa fetta di delusi da Berlusconi che per "disperazione" sono tornati in parte a votarlo dopo aver visto il vero volto di Prodi, il curato bonario che vuole «organizzare» lui, dall'alto, la felicità, «l'enorme serbatoio per una grande battaglia a favore della scelta degli individui e del mercato, contro le collettività e la mano pubblica: è un mercato richiesto non a vantaggio di chi ha già di più, ma per moltiplicare le chanche di chi ha di meno».
A licenziare i leader del centrosinistra è anche Luca Ricolfi, che mi piace sempre di più. Scrive che «da tantissimo tempo, l'elettorato italiano dà un giudizio dell'opposizione ancora più negativo di quello che dà sul governo» e che «questi dirigenti dell'Unione hanno fatto di tutto per perdere le elezioni», elencando gli errori:
«Sapevano che Prodi non era il loro leader più popolare, eppure hanno imposto lui. Sapevano che in tanti avrebbero voluto veder nascere il Partito democratico, eppure ne hanno ancora una volta rimandato la nascita... Sapevano che l'elettorato rimprovera al centrosinistra soprattutto l'assenza di concretezza, eppure hanno scritto il programma più lungo e astratto che la storia repubblicana ricordi. Sapevano che gli italiani sono preoccupati per l'economia, eppure li hanno spaventati con ogni sorta di annuncio e contro-annuncio sulle tasse. Sapevano che sul fisco, sullo Stato sociale, sulla legge Biagi, sui Pacs, agli italiani sarebbe piaciuto conoscere le vere intenzioni del futuro governo prima del voto, eppure hanno preferito rimandare tutto a dopo, tenendosi le mani libere. Sapevano che a molti elettori piacerebbe conoscere in anticipo il nome del futuro ministro dell'Economia, e invece l'unica cosa che hanno fatto intendere è che sul nome di Mario Monti ci sono veti e perplessità di ogni specie. Sapevano che in tanti aspettavamo un grande motivo per votarli, eppure l'unico motivo che hanno saputo indicarci è il fumoso slogan della "serietà al governo"».Insomma, per farla breve, «il volto dell'Unione, specie da quando ha cominciato a parlare di tasse, è stato così inquietante e foriero di incertezza da convincere molti a tornare alle urne nonostante la delusione per il quinquennio berlusconiano».
Un profilo più completo e riconoscibile all'etica laica
Due editoriali perfettamente contrapposti, quello di Carlo Cardia su Il Foglio, che partendo dall'insuccesso della Rosa nel Pugno sostiene che la laicità non sia un problema avvertito dai cittadini, e di Gian Enrico Rusconi, di tutt'altro avviso: «E' in gioco l'etica pubblica che è di interesse generale e che forze politiche del centrosinistra hanno eluso durante la campagna elettorale. Con reticenze e un po' di cattiva coscienza. L'etica pubblica si esprime laicamente in normative che non potranno soddisfare tutti i cittadini. Ma nessun cittadino deve trovarsi in posizione di svantaggio (o addirittura di sofferenza) perché non condivide le convinzioni di una presunta "maggioranza morale"».
Sotto la «mannaia ideologica dell'accusa di "relativismo" si è intimidito e stravolto il valore della pluralità degli stili morali di vita che è il modo concreto di realizzare il principio (condiviso apparentemente da tutti) della libertà di coscienza». La questione laica dunque «potrebbe esplodere in modo incontrollabile e distruttivo più di quanto non si sospetti».
La Rosa nel Pugno dovrebbe impegnarsi a dare un profilo più completo e riconoscibile all'etica laica. La laicità dei radicali non è certo anti-religiosa, non significa imbavagliare i vescovi o mettere in discussione minimamente la libertà d'espressione. Vuol dire abolire per il Vaticano, come per i sindacati o qualsiasi altra "corporazione", tutti i privilegi da parastato. Ma il concetto di laicità non va fatto valere solo nei confronti delle pretese confessionali, ma ovunque si manifesti il paternalismo di Stato e il moralismo legislativo.
Sotto la «mannaia ideologica dell'accusa di "relativismo" si è intimidito e stravolto il valore della pluralità degli stili morali di vita che è il modo concreto di realizzare il principio (condiviso apparentemente da tutti) della libertà di coscienza». La questione laica dunque «potrebbe esplodere in modo incontrollabile e distruttivo più di quanto non si sospetti».
La Rosa nel Pugno dovrebbe impegnarsi a dare un profilo più completo e riconoscibile all'etica laica. La laicità dei radicali non è certo anti-religiosa, non significa imbavagliare i vescovi o mettere in discussione minimamente la libertà d'espressione. Vuol dire abolire per il Vaticano, come per i sindacati o qualsiasi altra "corporazione", tutti i privilegi da parastato. Ma il concetto di laicità non va fatto valere solo nei confronti delle pretese confessionali, ma ovunque si manifesti il paternalismo di Stato e il moralismo legislativo.
Il buon nome e la faccia dei radicali della Rosa
All'articolo di ieri di Christian Rocca sul «fallimento» elettorale, «clamoroso e ampiamente meritato», della Rosa nel Pugno risponde con un serrato e puntuale intervento Daniele Capezzone: «Si continua a parlare di Silvio Berlusconi in modo a mio avviso astratto, come se "Berlusconi" fosse un'entità virtuale, un "luogo" non visitato e non visitabile, o, ancora di più, uno "spazio" a cui consegnare le proprie speranze».
Si potrebbe a questo punto obiettare che «l'attuale centrosinistra è ben lontano da un livello adeguato di volontà e - soprattutto - di capacità riformatrici e liberali». Vero, ma qui giungiamo al vero nodo. Il problema di certi commenti astiosi nei confronti dei radicali, quasi gongolanti per l'insuccesso della Rosa nel Pugno, è che scaturiscono da un retropensiero che andrebbe discusso. L'incontro con lo Sdi, e il conseguente apparentarsi con il centrosinistra, sarebbe stato un «errore». Chiariamoci allora: si rimprovera ai radicali l'insuccesso elettorale o un «errore» strategico? Sono due critiche diverse e spesso si cerca di far passare la seconda attraverso la prima.
Parlare di «errore» implica che tra diverse opzioni politiche, almeno due, tutte più o meno praticabili, i radicali abbiano scelto quella dalle minori prospettive. In questo caso si sottintendono tre opzioni: allearsi con il centrodestra; entrare nell'Unione, ma senza la coppia di fatto con lo Sdi; andare alle elezioni da soli. Chi volesse sostenere che la strada intrapresa si sia rivelata sbagliata, dovrebbe dimostrare la praticabilità di una alternativa, o sostenere addirittura che fosse preferibile l'inazione.
Nel centrodestra ogni spazio per i radicali era chiuso, ormai l'ha ammesso anche Berlusconi che, stando a quanto riportato dalle cronache, ha confessato il suo rammarico per aver sbagliato a non dedicarsi con più attenzione all'alleanza con i radicali, che ha riconosciuto essere determinanti. «Sapete - si è giustificato - che avevo contro l'Udc», e ha aggiunto che da «una serie di ambasciate d'Oltretevere si arguiva che da quelle parti un'alleanza del genere non sarebbe stata gradita». E se non è ingerenza questa! I radicali da soli sarebbero stati difficilmente accolti nell'Unione, come dimostra il veto alle regionali dell'anno scorso, e comunque ancor più ostracizzati. Di andar da soli neanche a parlarne (2001 docet).
Allora dai Rocca e dai Diaconale mi sarei aspettato editoriali post-elettorali che, pur continuando a elencare i motivi di compatibilità dei radicali con il centrodestra, molti condivisibili, puntassero l'indice nei confronti di Berlusconi e della miopia degli alleati, che hanno fatto di tutto - attraverso scelte politiche e candidature - per espungere non solo Pannella & Bonino, ma qualunque forza liberale e libertaria dalla coalizione.
Sento già balenare nell'aria l'obiezione. "E' naturale, se non ci fosse stata la deriva "laicista" dei radicali e se Pannella non avesse optato per una linea libertaria che esaltava i contrasti con il centrodestra..." Ma ammesso e non concesso che nella destra italiana non abbia cittadinanza un partito laico e libertario, non scordiamoci che da quando Berlusconi è sceso in campo, per tutti questi dodici anni, i radicali erano lì, con la loro «piattaforma elettorale liberale e liberista», pronti al dialogo, a fare tratti di strada insieme. Ricordiamo i referendum sull'articolo 18 e la separazione delle carriere, definiti «comunisti» da Berlusconi; il dialogo che vi fu per le regionali del 2000, un anno prima dalle politiche; i "contratti" con il governo che Pannella proponeva di stipulare su singole iniziative; e ancora, un anno fa, l'iniziativa dell'"ospitalità", l'ultima occasione non colta. C'è sempre qualcosa o qualcuno che convince Berlusconi che l'accordo "non conviene".
Nel frattempo, andrebbe ricordato che i liberali della CdL si sono guardati bene dallo spendere la loro autorevolezza per aprire uno spazio ai radicali, per convincere Berlusconi. Come pure andrebbe registrato che alcuni radicali la strada della CdL l'hanno tentata anche in queste elezioni, andando incontro a un fallimento sul quale non vedo altrettante attente analisi. I radicali "veri", così li ha chiamati Berlusconi, anche a volerli votare era persino impossibile trovarli, perché neanche quelli Berlusconi ha avuto la grazia di "ospitare". Così, i radicali che come Rocca non ce l'hanno fatta a votare le liste della Rosa chi hanno eletto al posto Pannella? L'operazione che Berlusconi ha compiuto con il movimento di Della Vedova è sotto gli occhi di tutti e l'avrebbe tentata anche con Pannella & Bonino: offrire qualche seggio, ma inglobare l'elettorato radicale in Forza Italia.
Ci troviamo d'accordo con Filippo Facci dunque, quando scrive che «quei commentatori che ora si compiacciono di un voto radicale giudicato comunque inferiore alle aspettative (forse le loro) personalmente mi paiono stucchevoli, e fanno il paio con chi ha fatto di tutto per mortificare ogni pulsione libertaria che pure nel centrodestra c'è, e continuerà a esserci. La sostanza è che a sinistra hanno Emma Bonino e noi Bruno Tabacci».
Riguardo la laicità, cadono in contraddizione Della Vedova & Co., che non riescono a vedere nel Vaticano, al pari dei sindacati, una corporazione che vive di privilegi, invece che una "lobby" legittima in un contesto liberale, come dovrebbe essere.
Ebbene, è comprensibile che il simpatizzante radicale visceralmente allergico a Prodi e alla sinistra non ce l'abbia fatta a sostenerne, seppure indirettamente, la vittoria. Rispetto a questi voti mancati Christian Rocca espone molte buone ragioni che sicuramente hanno determinato una parziale erosione di elettorato radicale degli ultimi 10-15 anni. E' stato sottovalutato l'impatto dello slogan statalista sulla scuola pubblica concesso allo Sdi ed erano fuori luogo i toni scontatamente anti-berlusconiani che a volte si sono sommati ai tanti cori già esistenti e, come si sa, controproducenti, senza aggiungere nulla in chiave "radicale".
Tuttavia, il politico ha il dovere di ragionare in altri termini: da una parte di percorrere le strade praticabili nelle condizioni date, dall'altra di fare tutto il possibile per convincere l'elettore delle ragioni della sua scelta. Fallire nel primo compito vuol dire commettere un «errore» strategico; fallire il secondo spiega un insuccesso elettorale. Ammettendo pure che si assolvano al meglio questi due compiti, rimangono variabili imponderabili.
Il risultato della Rosa è nettamente deludente, perché la percentuale del 2,5 per cento è inferiore alla somma degli zoccoli duri radicale e socialista, ma non credo che sia composto da voti socialisti. Se soprattutto al Nord i radicali hanno perso i voti dei loro simpatizzanti più liberisti, anche i socialisti al Sud hanno disatteso le aspettative. Le indubbie doti da vero combattente di Berlusconi e la totale incapacità di Prodi nelle ultime fasi della campagna, giocate proprio sui temi sensibili a molti radicali, non hanno sicuramente giovato.
Tuttavia, non si può disconoscere il risultato positivo del ritorno dei radicali in Parlamento con un numero di seggi cui da tempo non erano abituati. Di una necessità "disperata", grazie alla loro abilità politica, hanno fatto virtù e speranza concreta, di nuovo sfuggendo alle maglie della partitocrazia. Alla Rosa nel Pugno si possono fare mille contestazioni, ma occorre riconoscergli di aver saputo, in questi mesi, aprire nel centrosinistra contraddizioni laiche e liberali - sia nei confronti del compromessino storico Ds-Margherita, sia della sinistra comunista - che nessuna forza liberale ha saputo aprire nel centrodestra. Ora la sfida è se sapranno tenere aperti questi fronti anche con la loro attività parlamentare. Qui si giocano il nome e la faccia. Vogliamo scommettere?
Si potrebbe a questo punto obiettare che «l'attuale centrosinistra è ben lontano da un livello adeguato di volontà e - soprattutto - di capacità riformatrici e liberali». Vero, ma qui giungiamo al vero nodo. Il problema di certi commenti astiosi nei confronti dei radicali, quasi gongolanti per l'insuccesso della Rosa nel Pugno, è che scaturiscono da un retropensiero che andrebbe discusso. L'incontro con lo Sdi, e il conseguente apparentarsi con il centrosinistra, sarebbe stato un «errore». Chiariamoci allora: si rimprovera ai radicali l'insuccesso elettorale o un «errore» strategico? Sono due critiche diverse e spesso si cerca di far passare la seconda attraverso la prima.
Parlare di «errore» implica che tra diverse opzioni politiche, almeno due, tutte più o meno praticabili, i radicali abbiano scelto quella dalle minori prospettive. In questo caso si sottintendono tre opzioni: allearsi con il centrodestra; entrare nell'Unione, ma senza la coppia di fatto con lo Sdi; andare alle elezioni da soli. Chi volesse sostenere che la strada intrapresa si sia rivelata sbagliata, dovrebbe dimostrare la praticabilità di una alternativa, o sostenere addirittura che fosse preferibile l'inazione.
Nel centrodestra ogni spazio per i radicali era chiuso, ormai l'ha ammesso anche Berlusconi che, stando a quanto riportato dalle cronache, ha confessato il suo rammarico per aver sbagliato a non dedicarsi con più attenzione all'alleanza con i radicali, che ha riconosciuto essere determinanti. «Sapete - si è giustificato - che avevo contro l'Udc», e ha aggiunto che da «una serie di ambasciate d'Oltretevere si arguiva che da quelle parti un'alleanza del genere non sarebbe stata gradita». E se non è ingerenza questa! I radicali da soli sarebbero stati difficilmente accolti nell'Unione, come dimostra il veto alle regionali dell'anno scorso, e comunque ancor più ostracizzati. Di andar da soli neanche a parlarne (2001 docet).
Allora dai Rocca e dai Diaconale mi sarei aspettato editoriali post-elettorali che, pur continuando a elencare i motivi di compatibilità dei radicali con il centrodestra, molti condivisibili, puntassero l'indice nei confronti di Berlusconi e della miopia degli alleati, che hanno fatto di tutto - attraverso scelte politiche e candidature - per espungere non solo Pannella & Bonino, ma qualunque forza liberale e libertaria dalla coalizione.
Sento già balenare nell'aria l'obiezione. "E' naturale, se non ci fosse stata la deriva "laicista" dei radicali e se Pannella non avesse optato per una linea libertaria che esaltava i contrasti con il centrodestra..." Ma ammesso e non concesso che nella destra italiana non abbia cittadinanza un partito laico e libertario, non scordiamoci che da quando Berlusconi è sceso in campo, per tutti questi dodici anni, i radicali erano lì, con la loro «piattaforma elettorale liberale e liberista», pronti al dialogo, a fare tratti di strada insieme. Ricordiamo i referendum sull'articolo 18 e la separazione delle carriere, definiti «comunisti» da Berlusconi; il dialogo che vi fu per le regionali del 2000, un anno prima dalle politiche; i "contratti" con il governo che Pannella proponeva di stipulare su singole iniziative; e ancora, un anno fa, l'iniziativa dell'"ospitalità", l'ultima occasione non colta. C'è sempre qualcosa o qualcuno che convince Berlusconi che l'accordo "non conviene".
Nel frattempo, andrebbe ricordato che i liberali della CdL si sono guardati bene dallo spendere la loro autorevolezza per aprire uno spazio ai radicali, per convincere Berlusconi. Come pure andrebbe registrato che alcuni radicali la strada della CdL l'hanno tentata anche in queste elezioni, andando incontro a un fallimento sul quale non vedo altrettante attente analisi. I radicali "veri", così li ha chiamati Berlusconi, anche a volerli votare era persino impossibile trovarli, perché neanche quelli Berlusconi ha avuto la grazia di "ospitare". Così, i radicali che come Rocca non ce l'hanno fatta a votare le liste della Rosa chi hanno eletto al posto Pannella? L'operazione che Berlusconi ha compiuto con il movimento di Della Vedova è sotto gli occhi di tutti e l'avrebbe tentata anche con Pannella & Bonino: offrire qualche seggio, ma inglobare l'elettorato radicale in Forza Italia.
Ci troviamo d'accordo con Filippo Facci dunque, quando scrive che «quei commentatori che ora si compiacciono di un voto radicale giudicato comunque inferiore alle aspettative (forse le loro) personalmente mi paiono stucchevoli, e fanno il paio con chi ha fatto di tutto per mortificare ogni pulsione libertaria che pure nel centrodestra c'è, e continuerà a esserci. La sostanza è che a sinistra hanno Emma Bonino e noi Bruno Tabacci».
Riguardo la laicità, cadono in contraddizione Della Vedova & Co., che non riescono a vedere nel Vaticano, al pari dei sindacati, una corporazione che vive di privilegi, invece che una "lobby" legittima in un contesto liberale, come dovrebbe essere.
Ebbene, è comprensibile che il simpatizzante radicale visceralmente allergico a Prodi e alla sinistra non ce l'abbia fatta a sostenerne, seppure indirettamente, la vittoria. Rispetto a questi voti mancati Christian Rocca espone molte buone ragioni che sicuramente hanno determinato una parziale erosione di elettorato radicale degli ultimi 10-15 anni. E' stato sottovalutato l'impatto dello slogan statalista sulla scuola pubblica concesso allo Sdi ed erano fuori luogo i toni scontatamente anti-berlusconiani che a volte si sono sommati ai tanti cori già esistenti e, come si sa, controproducenti, senza aggiungere nulla in chiave "radicale".
Tuttavia, il politico ha il dovere di ragionare in altri termini: da una parte di percorrere le strade praticabili nelle condizioni date, dall'altra di fare tutto il possibile per convincere l'elettore delle ragioni della sua scelta. Fallire nel primo compito vuol dire commettere un «errore» strategico; fallire il secondo spiega un insuccesso elettorale. Ammettendo pure che si assolvano al meglio questi due compiti, rimangono variabili imponderabili.
Il risultato della Rosa è nettamente deludente, perché la percentuale del 2,5 per cento è inferiore alla somma degli zoccoli duri radicale e socialista, ma non credo che sia composto da voti socialisti. Se soprattutto al Nord i radicali hanno perso i voti dei loro simpatizzanti più liberisti, anche i socialisti al Sud hanno disatteso le aspettative. Le indubbie doti da vero combattente di Berlusconi e la totale incapacità di Prodi nelle ultime fasi della campagna, giocate proprio sui temi sensibili a molti radicali, non hanno sicuramente giovato.
Tuttavia, non si può disconoscere il risultato positivo del ritorno dei radicali in Parlamento con un numero di seggi cui da tempo non erano abituati. Di una necessità "disperata", grazie alla loro abilità politica, hanno fatto virtù e speranza concreta, di nuovo sfuggendo alle maglie della partitocrazia. Alla Rosa nel Pugno si possono fare mille contestazioni, ma occorre riconoscergli di aver saputo, in questi mesi, aprire nel centrosinistra contraddizioni laiche e liberali - sia nei confronti del compromessino storico Ds-Margherita, sia della sinistra comunista - che nessuna forza liberale ha saputo aprire nel centrodestra. Ora la sfida è se sapranno tenere aperti questi fronti anche con la loro attività parlamentare. Qui si giocano il nome e la faccia. Vogliamo scommettere?
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