Il Corriere dà Gianfranco Fini «impegnato nel lanciare la "fase due" del suo percorso politico». Dopo essersi differenziato dalla destra tradizionalista e dal partito di cui è cofondatore, cui rimprovera di essere rimasto indietro nella riflessione politica, su temi quali la bioetica, l'immigrazione e la cittadinanza, la legalità, vorrebbe aggiungere ad essi anche l'economia. Sono curioso di vedere quindi come si comporterà domani alla tavola rotonda organizzata da Benedetto Della Vedova, dall'emblematico titolo "Placata la bufera, torniano al libero mercato".
Se anche in economia vorrà distanziarsi dall'attuale linea del governo, Fini non potrà che convergere sulle posizioni liberiste dellavedoviane. Il che lo porrebbe in competizione con un altro personaggio politico che, come lui, mira alla successione di Berlusconi: il ministro Giulio Tremonti. I presupposti, insomma, per una svolta "liberista" di Fini, sembrerebbero esserci tutti e aspettiamo con ansia l'evento.
Ma se così fosse, sarebbe ancora più clamorosa di quelle sulla bioetica e l'immigrazione, visto che solo pochi mesi fa - non anni - Fini sposava l'anti-mercatismo viscerale del ministro dell'Economia, superandolo anzi in rigore. E d'un colpo contraddirebbe i freni statalisti posti per anni, da leader di An, al governo Berlusconi. E' passato per lo più inosservato, ma al convegno di Gubbio Fini ha definito «geniale» l'intuizione della «lotta al mercatismo». E passi, fin qui siamo al ministro Tremonti, ma poi è andato oltre, accusandolo di non fare abbastanza: «Bisogna tradurla» la lotta al mercatismo e «non credo che l'ultima Finanziaria sia stata un esempio di lotta alle degenerazioni del mercato», ha aggiunto. E sembrava proprio Bersani quando ha accusato il governo di negare la crisi, o quando ha lamentato che «nell'ultima Finanziaria c'è ben poco di politiche autenticamente di solidarietà sociale».
Friday, February 26, 2010
Thursday, February 25, 2010
Rischio nuovi cedimenti
Le iniziative giudiziarie delle ultime settimane, unite alla solita ondata di limacciose intercettazioni - quelle che hanno coinvolto Balducci (figura trasversale degli appalti pubblici), Bertolaso e Verdini (su cui gli elementi emersi sono debolissimi), poi Scaglia (per il quale sembra valere il teorema "non poteva non sapere") e il senatore Di Girolamo (semi-sconosciuto e già scaricato dal Pdl), ma anche amministratori locali di diverso colore politico - non sembrano di per sé prefigurare una nuova Tangentopoli, né minacciare il consenso del governo e di Berlusconi. Eppure, la politica è sulla difensiva, c'è la corsa a farsi vedere dalla parte dei "moralizzatori". La questione morale, confinata fino ad oggi nell'Italia dei Valori, nella sinistra radicale e solo in parte nel Pd, viene ripresa anche a destra. E fa breccia, persino nel berlusconismo, il tema dell'incandidabilità. Un clima - in questo sì simile a quello di Tangentopoli - che rischia di produrre nuovi cedimenti della politica nei confronti della magistratura.
Si stabilisca per legge l'incandidabilità dei condannati in via definitiva, si sente invocare da più parti [va ricordato che già oggi le sentenze di condanna per i reati di corruzione possono includere - e nella maggior parte dei casi la includono - la pena accessoria dell'esclusione dall'elettorato passivo. E' il giudice a stabilirlo]. D'Alema ha provato ad andare oltre, chiedendosi se sia davvero necessario aspettare sentenze passate in giudicato. Lo stesso Berlusconi, e Fini, ritengono di "buon senso" che obbedendo a una sorta di codice etico interno i partiti si impegnino a non candidare indagati o rinviati a giudizio.
Dovrebbe essere quasi scontato in un Paese normale, ma non dimentichiamoci che il problema della magistratura politicizzata non si è improvvisamente dissolto. E il paradosso è che mentre si discute di riforme in grado di riequilibrare i rapporti tra politica e giustizia, saltati dall'abolizione dell'immunità parlamentare sull'onda di Tangentopoli, il rischio è di fare passi nella direzione opposta, concedendo spazi di manovra ancora più ampi ai magistrati politicizzati. Basti l'esempio dell'approvazione in prima lettura alla Camera di una legge che prevede il carcere per il candidato che si avvalga della propaganda di un "sorvegliato speciale" e di "voti mafiosi". Una legge molto scivolosa, come spiega Pecorella.
Si pone certamente un problema di selezione e reclutamento della classe politica, ma non va risolto a colpi di leggi-manifesto e di campagne moralizzatrici. Riguardo l'opacità delle relazioni fra gruppi di affari e personale politico, Angelo Panebianco fa notare, oggi sul Corriere della Sera, che «le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche». E comunque l'architrave del "sistema gelatinoso" è «l'economia parassitaria» (che cioè vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese, ma non solo.
Un altro esempio di reazione schizofrenica della politica è quando si denunciano clientelismi e sostegni mafiosi e poi si sostiene il ritorno alle preferenze. Meglio il collegio uninominale, che non è del tutto al riparo dai quei fenomeni, ma quanto meno consente alla stampa e all'opinione pubblica di esercitare uno "screening" più accurato sui candidati, essendo questi ridotti a due (massimo tre) per collegio.
Il rischio è che tutto si riduca a nuovi esiziali cedimenti della politica alla magistratura politicizzata. L'impegno da parte dei partiti a non candidare indagati o rinviati a giudizio, o una legge che sancisca l'incandidabiltà dei condannati, possono alimentare l'appetito di protagonismo di certi magistrati dal grilletto facile, mettersi nelle mani di certe procure, concedergli un vero e proprio diritto al vaglio delle candidature, un po' come il controllo esercitato sui candidati dal Consiglio dei guardiani in Iran. Attenzione.
Si stabilisca per legge l'incandidabilità dei condannati in via definitiva, si sente invocare da più parti [va ricordato che già oggi le sentenze di condanna per i reati di corruzione possono includere - e nella maggior parte dei casi la includono - la pena accessoria dell'esclusione dall'elettorato passivo. E' il giudice a stabilirlo]. D'Alema ha provato ad andare oltre, chiedendosi se sia davvero necessario aspettare sentenze passate in giudicato. Lo stesso Berlusconi, e Fini, ritengono di "buon senso" che obbedendo a una sorta di codice etico interno i partiti si impegnino a non candidare indagati o rinviati a giudizio.
Dovrebbe essere quasi scontato in un Paese normale, ma non dimentichiamoci che il problema della magistratura politicizzata non si è improvvisamente dissolto. E il paradosso è che mentre si discute di riforme in grado di riequilibrare i rapporti tra politica e giustizia, saltati dall'abolizione dell'immunità parlamentare sull'onda di Tangentopoli, il rischio è di fare passi nella direzione opposta, concedendo spazi di manovra ancora più ampi ai magistrati politicizzati. Basti l'esempio dell'approvazione in prima lettura alla Camera di una legge che prevede il carcere per il candidato che si avvalga della propaganda di un "sorvegliato speciale" e di "voti mafiosi". Una legge molto scivolosa, come spiega Pecorella.
Si pone certamente un problema di selezione e reclutamento della classe politica, ma non va risolto a colpi di leggi-manifesto e di campagne moralizzatrici. Riguardo l'opacità delle relazioni fra gruppi di affari e personale politico, Angelo Panebianco fa notare, oggi sul Corriere della Sera, che «le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche». E comunque l'architrave del "sistema gelatinoso" è «l'economia parassitaria» (che cioè vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese, ma non solo.
Un altro esempio di reazione schizofrenica della politica è quando si denunciano clientelismi e sostegni mafiosi e poi si sostiene il ritorno alle preferenze. Meglio il collegio uninominale, che non è del tutto al riparo dai quei fenomeni, ma quanto meno consente alla stampa e all'opinione pubblica di esercitare uno "screening" più accurato sui candidati, essendo questi ridotti a due (massimo tre) per collegio.
Il rischio è che tutto si riduca a nuovi esiziali cedimenti della politica alla magistratura politicizzata. L'impegno da parte dei partiti a non candidare indagati o rinviati a giudizio, o una legge che sancisca l'incandidabiltà dei condannati, possono alimentare l'appetito di protagonismo di certi magistrati dal grilletto facile, mettersi nelle mani di certe procure, concedergli un vero e proprio diritto al vaglio delle candidature, un po' come il controllo esercitato sui candidati dal Consiglio dei guardiani in Iran. Attenzione.
Wednesday, February 24, 2010
L'errore madornale di Bonino è un dazio a Pannella
Con l'intervista di oggi a la Repubblica Pannella ha gelato il Pd: «Assolutamente no», gli elettori del Lazio «non possono avere la certezza di poter votare Emma. Quello che faremo non lo sappiamo noi e non lo può sapere nessun altro». La Bonino, dunque, potrebbe ancora decidere di ritirarsi dalla partita a causa delle illegalità nelle procedure elettorali denunciate dai radicali. Bersani, che porta la responsabilità di aver convinto il suo partito a sostenere la candidatura della leader radicale, ovviamente non può far altro che negare che ci sia un "caso Bonino", sostenere i radicali in una battaglia per la legalità «che merita ascolto», e garantire l'impegno degli amministratori locali del Pd per l'autenticazione delle firme a sostegno delle loro liste. Ma a questo punto esige una conferma della candidatura e la Bonino, pur non rinunciando al suo sciopero (per potersi guardare allo specchio e dire di aver «fatto di tutto per i diritti dei cittadini»), sembra volerlo rassicurare, dicendosi «persona leale» («se prendo un impegno lo porto a termine»). Parole che sembrano smentire l'ipotesi ritiro evocata (o forse minacciata) da Pannella.
Sabato, alla scadenza della presentazione delle liste, sarà tutto finito. Ma bisognerà vedere con quali strascichi nei rapporti con il Pd e quantificare i danni sulla campagna elettorale. Nel Pd infatti c'è chi ritiene che la battaglia legalitaria come tratto più riconoscibile della campagna possa risultare efficace nel momento in cui s'impongono fragorosamente all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale inchieste su corruzione e riciclaggio. Ho sempre creduto invece che insistere sul profilo radicale della Bonino, già piuttosto marcato, avrebbe considerevolmente ridotto la sua capacità di mobilitazione dell'elettorato di centrosinistra e di attrazione di quello di centrodestra, in un modo che potrebbe risultare determinante, visto il testa a testa che risulta dagli ultimi sondaggi.
C'è da dire che la Bonino non è mai stata realmente in vantaggio. Se nelle prime settimane risultava dai sondaggi sopra alla sua avversaria di qualche punto era perché la Polverini era ancora poco nota. Ma quando gli elettori hanno cominciato a capire che era lei la candidata del centrodestra, l'illusione è finita e i margini tra le due candidate si sono avvicinati a quelli che dividono le due coalizioni. La mia personale previsione è che la Polverini vincerà di 4-5 punti (a meno di clamorosi autogol).
Ho fin dall'inizio sostenuto che la principale difficoltà della Bonino in questa campagna sarebbe stata quella di ottenere il totale e convinto appoggio da parte di tutto il Pd e dei partiti di sinistra, riuscire a mobilitare tutte le forze interne, e che per questo non avrebbe avuto alcun bisogno di insistere sul suo "brand" d'origine, già sufficientemente noto, perché se lo avesse fatto sarebbe emersa quella "diversità radicale" che rischia anzi di alimentare i malumori nei confronti della sua candidatura e alienarle sia i voti moderati che quelli di sinistra. «Non credo che commetterà questo errore», scrivevo alcune settimane fa. Mai avrei pensato che potesse caderci, eppure eccoci qua, sia pure per far piacere a Pannella, mosso evidentemente dall'invidia ma in difficoltà anche per una linea che traballa sempre di più.
Rivelatore un passaggio della sua intervista di oggi a la Repubblica: «Sia chiaro: la Bonino è la Bonino, non è mica una di loro. E' solo un'alleata che testimonia, con la sua candidatura, una virata positiva del Partito democratico». La Bonino è la candidata di tutto il centrosinistra, voluta dal Pd, e quale miglior modo, per rimarcare la sua identità radicale, se non farle mettere in gioco la sua campagna pur di prendere parte all'ennesima battaglia nonviolenta e legalitaria dei suoi compagni e di aiutare il suo partitino nella dura lotta delle liste minori in cerca di visibilità? La denuncia del "regime" e della non-democrazia italiana - almeno nei termini assunti negli ultimi anni, che portano Pannella a minacciare addirittura di restituire il passaporto e di andare in esilio all'estero - stenta a sembrare credibile al cospetto della carriera della Bonino: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza del Lazio. E' questa stonatura a preoccupare Pannella e lo sciopero della sete è un dazio che Emma (e il Pd) deve pagare per attenuarla.
Sabato, alla scadenza della presentazione delle liste, sarà tutto finito. Ma bisognerà vedere con quali strascichi nei rapporti con il Pd e quantificare i danni sulla campagna elettorale. Nel Pd infatti c'è chi ritiene che la battaglia legalitaria come tratto più riconoscibile della campagna possa risultare efficace nel momento in cui s'impongono fragorosamente all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale inchieste su corruzione e riciclaggio. Ho sempre creduto invece che insistere sul profilo radicale della Bonino, già piuttosto marcato, avrebbe considerevolmente ridotto la sua capacità di mobilitazione dell'elettorato di centrosinistra e di attrazione di quello di centrodestra, in un modo che potrebbe risultare determinante, visto il testa a testa che risulta dagli ultimi sondaggi.
C'è da dire che la Bonino non è mai stata realmente in vantaggio. Se nelle prime settimane risultava dai sondaggi sopra alla sua avversaria di qualche punto era perché la Polverini era ancora poco nota. Ma quando gli elettori hanno cominciato a capire che era lei la candidata del centrodestra, l'illusione è finita e i margini tra le due candidate si sono avvicinati a quelli che dividono le due coalizioni. La mia personale previsione è che la Polverini vincerà di 4-5 punti (a meno di clamorosi autogol).
Ho fin dall'inizio sostenuto che la principale difficoltà della Bonino in questa campagna sarebbe stata quella di ottenere il totale e convinto appoggio da parte di tutto il Pd e dei partiti di sinistra, riuscire a mobilitare tutte le forze interne, e che per questo non avrebbe avuto alcun bisogno di insistere sul suo "brand" d'origine, già sufficientemente noto, perché se lo avesse fatto sarebbe emersa quella "diversità radicale" che rischia anzi di alimentare i malumori nei confronti della sua candidatura e alienarle sia i voti moderati che quelli di sinistra. «Non credo che commetterà questo errore», scrivevo alcune settimane fa. Mai avrei pensato che potesse caderci, eppure eccoci qua, sia pure per far piacere a Pannella, mosso evidentemente dall'invidia ma in difficoltà anche per una linea che traballa sempre di più.
Rivelatore un passaggio della sua intervista di oggi a la Repubblica: «Sia chiaro: la Bonino è la Bonino, non è mica una di loro. E' solo un'alleata che testimonia, con la sua candidatura, una virata positiva del Partito democratico». La Bonino è la candidata di tutto il centrosinistra, voluta dal Pd, e quale miglior modo, per rimarcare la sua identità radicale, se non farle mettere in gioco la sua campagna pur di prendere parte all'ennesima battaglia nonviolenta e legalitaria dei suoi compagni e di aiutare il suo partitino nella dura lotta delle liste minori in cerca di visibilità? La denuncia del "regime" e della non-democrazia italiana - almeno nei termini assunti negli ultimi anni, che portano Pannella a minacciare addirittura di restituire il passaporto e di andare in esilio all'estero - stenta a sembrare credibile al cospetto della carriera della Bonino: commissaria europea con Berlusconi, ministro del governo Prodi, ora vicepresidente del Senato e candidata del centrosinistra alla presidenza del Lazio. E' questa stonatura a preoccupare Pannella e lo sciopero della sete è un dazio che Emma (e il Pd) deve pagare per attenuarla.
Friday, February 19, 2010
Dov'è l'imbroglio
Il «sottobosco paraistituzionale», come lo definisce oggi Massimo Franco sul Corriere, o il sistema «gelatinoso», espressione coniata dall'architetto Paolo Desideri e raccolta in una intercettazione del 2007, esiste, a prescindere dal consumarsi o meno di fatti penalmente rilevanti. Si tratta di comportamenti politicamente disdicevoli, che però sono quasi sempre trasversali, come provano le stesse figure di Balducci & soci, funzionari apprezzati da governi e amministrazioni locali in modo bipartisan.
E' un contesto tipico italiano, quello delle commistioni tra politica e affari quando ci sono "torte" da spartire. La politica "maneggia" e crea "vie gelatinose", corsie privilegiate per permettere alle imprese "amiche" di aggiudicarsi succulenti appalti. Non è detto che in tutto questo si violino in modo dimostrabile le procedure o si prendano delle mazzette, perché il compenso reciproco di una rete clientelare va ben oltre qualche migliaio di euro, che al contrario sarebbe una pistola fumante pericolosamente vistosa.
Dov'è allora il problema? Che per colpire politicamente Berlusconi, finora rivelatosi immune agli attacchi frontali diretti contro la sua persona, si prendono di mira i suoi più stretti collaboratori, non si esita a sfregiare due innegabili successi della sua "politica del fare" - ma in realtà, per una volta, successi dello Stato - facendo credere alla gente che questo sistema «gelatinoso» può essere circoscritto alle emergenze gestite dalla Protezione civile - o può addirittura esserne il frutto - e non riguarda, invece, anche la normalità degli appalti pubblici in Italia. Un'operazione o ingenua, a voler pensar bene, o in malafede. Almeno per dovere di cronaca, ogni volta che si scrive o si parla di sistema «gelatinoso» bisognerebbe ricordare che si fa riferimento a un'espressione nata durante le conversazioni intercettate tra alcuni architetti e imprenditori convinti di aver partecipato a gare d'appalto pilotate da Veltroni e Rutelli. Non dico che ciò sia vero, dico solo che giornalisticamente è lì che nasce quel termine e andrebbe ricordato ogni volta che si pretende di associarlo a Bertolaso.
Credo che difficilmente si troveranno mazzette, ma il sistema esiste e chi vive e lavora a Roma sa bene come, *grazie a chi*, si lavora nell'ambito delle commesse pubbliche o dell'edilizia. E questo nella normalità, non nelle emergenze o nei cosiddetti "Grandi Eventi". Quindi, finiamola, per colpire Bertolaso - e tramite lui Berlusconi - di dire che la "gelatina" la producono le norme e procedure eccezionali di protezione civile, o il superego del suo capo.
Laddove si gestiscono torte enormi di denaro pubblico, guarda un po', si riescono a far lavorare le ditte amiche. In modi legali o ai limiti della legalità. Lo sanno tutti, facciamocene una ragione. Come tutelare la cittadinanza? Bisogna riconoscere - laicamente - che c'è un solo modo. Che non è quello di appesantire le procedure, nell'illusione che fatta la legge più severa non si trovi l'inganno. Anzi, più sono astruse e farraginose, più garantiscono ai malintenzionati spazi di manovra coperti. E rimane il problema di chi è chiamato da noi cittadini a "fare", a farle per davvero le cose utilizzando i soldi pubblici.
Si potrebbe cominciare intanto per diminuire drasticamente l'enorme torta che mettiamo nelle mani dello Stato, la spesa pubblica. E poi, semplificare prima, per concentrare più risorse ed energie a controllare - e a punire - successivamente. L'interesse pubblico è che l'opera sia effettivamente realizzata, in tempi e costi ragionevoli. Ma che sia realizzata, che ci sia qualcosa di tangibile. Quindi, si *deve* poter fare, rispettando poche e semplici regole, responsabilizzanti. Perché in questo modo, non appesantendo di costi il processo, possiamo investire più soldi in controlli a tappeto e più efficaci.
E' un contesto tipico italiano, quello delle commistioni tra politica e affari quando ci sono "torte" da spartire. La politica "maneggia" e crea "vie gelatinose", corsie privilegiate per permettere alle imprese "amiche" di aggiudicarsi succulenti appalti. Non è detto che in tutto questo si violino in modo dimostrabile le procedure o si prendano delle mazzette, perché il compenso reciproco di una rete clientelare va ben oltre qualche migliaio di euro, che al contrario sarebbe una pistola fumante pericolosamente vistosa.
Dov'è allora il problema? Che per colpire politicamente Berlusconi, finora rivelatosi immune agli attacchi frontali diretti contro la sua persona, si prendono di mira i suoi più stretti collaboratori, non si esita a sfregiare due innegabili successi della sua "politica del fare" - ma in realtà, per una volta, successi dello Stato - facendo credere alla gente che questo sistema «gelatinoso» può essere circoscritto alle emergenze gestite dalla Protezione civile - o può addirittura esserne il frutto - e non riguarda, invece, anche la normalità degli appalti pubblici in Italia. Un'operazione o ingenua, a voler pensar bene, o in malafede. Almeno per dovere di cronaca, ogni volta che si scrive o si parla di sistema «gelatinoso» bisognerebbe ricordare che si fa riferimento a un'espressione nata durante le conversazioni intercettate tra alcuni architetti e imprenditori convinti di aver partecipato a gare d'appalto pilotate da Veltroni e Rutelli. Non dico che ciò sia vero, dico solo che giornalisticamente è lì che nasce quel termine e andrebbe ricordato ogni volta che si pretende di associarlo a Bertolaso.
Credo che difficilmente si troveranno mazzette, ma il sistema esiste e chi vive e lavora a Roma sa bene come, *grazie a chi*, si lavora nell'ambito delle commesse pubbliche o dell'edilizia. E questo nella normalità, non nelle emergenze o nei cosiddetti "Grandi Eventi". Quindi, finiamola, per colpire Bertolaso - e tramite lui Berlusconi - di dire che la "gelatina" la producono le norme e procedure eccezionali di protezione civile, o il superego del suo capo.
Laddove si gestiscono torte enormi di denaro pubblico, guarda un po', si riescono a far lavorare le ditte amiche. In modi legali o ai limiti della legalità. Lo sanno tutti, facciamocene una ragione. Come tutelare la cittadinanza? Bisogna riconoscere - laicamente - che c'è un solo modo. Che non è quello di appesantire le procedure, nell'illusione che fatta la legge più severa non si trovi l'inganno. Anzi, più sono astruse e farraginose, più garantiscono ai malintenzionati spazi di manovra coperti. E rimane il problema di chi è chiamato da noi cittadini a "fare", a farle per davvero le cose utilizzando i soldi pubblici.
Si potrebbe cominciare intanto per diminuire drasticamente l'enorme torta che mettiamo nelle mani dello Stato, la spesa pubblica. E poi, semplificare prima, per concentrare più risorse ed energie a controllare - e a punire - successivamente. L'interesse pubblico è che l'opera sia effettivamente realizzata, in tempi e costi ragionevoli. Ma che sia realizzata, che ci sia qualcosa di tangibile. Quindi, si *deve* poter fare, rispettando poche e semplici regole, responsabilizzanti. Perché in questo modo, non appesantendo di costi il processo, possiamo investire più soldi in controlli a tappeto e più efficaci.
Thursday, February 18, 2010
E' la "green economy", bellezza
La notizia che l'amministrazione Obama ha deciso di investire oltre 8 miliardi di dollari per la costruzione di due nuove centrali nucleari dopo 30 anni sembra essere passata quasi inosservata nel nostro Paese, tutto impantanato nel fango dei processi mediatici. Uno stanziamento che parrebbe destinato addirittura a triplicarsi, secondo il Wall Street Journal, che riferisce di fondi per 54 miliardi pronti ad entrare nel prossimo Bilancio federale. E' la "green economy", bellezza. E chi è consapevole che non basta "green", ci vuole anche "economy", cioè sviluppo, sa che il nucleare non può mancare tra i pilastri dell'"economia verde". Quando pensa all'energia pulita, in grado cioè per lo meno di non aggravare l'inquinamento atmosferico e l'effetto serra, e per chi ci crede il surriscaldamento globale, il presidente Usa ha in mente anche il nucleare, al contrario dei nostri ambientalisti da strapazzo ma anche della nostra sinistra che si proclama "di governo".
«E' un problema bipartisan, non riguarda una parte o l'altra, ma il futuro di un Paese in termini di sviluppo, occupazione e ambiente», spiega il segretario per l'Energia Usa, Steve Chu, al Financial Times. «Non possiamo permettere che le divergenze frenino il progresso», osserva Obama: «Su un tema che condiziona la nostra economia, la nostra sicurezza e il futuro del pianeta non possiamo restare bloccati dall'annoso dibattito tra destra e sinistra, imprenditori e ambientalisti».
Prevale invece da noi un ambientalismo irresponsabile, anticapitalista e antimodernista, direi reazionario e superstizioso. La scelta di Obama metterà senz'altro in imbarazzo il Pd, che ha appena deciso di puntare sul "no" al nucleare in questa campagna per le regionali. In imbarazzo quindi tutti i candidati presidente, come Emma Bonino, chiamati a conciliare il loro tabù antinuclearista con l'ammirazione per Obama. Difficile però che i loro avversari di centrodestra riescano ad approfittarne appieno, visto l'imbarazzo con cui a loro volta hanno accolto i primi decisi passi del governo sulla via del ritorno al nucleare.
Nel Pd il dibattito interno si svolge su tutto tranne che su temi, come il nucleare, su cui dovrebbe svolgersi, quindi è inutile aspettarsi ripercussioni. E' più facile che la sinistra cominci a ripudiare Obama piuttosto che cambi idea sul nucleare.
«E' un problema bipartisan, non riguarda una parte o l'altra, ma il futuro di un Paese in termini di sviluppo, occupazione e ambiente», spiega il segretario per l'Energia Usa, Steve Chu, al Financial Times. «Non possiamo permettere che le divergenze frenino il progresso», osserva Obama: «Su un tema che condiziona la nostra economia, la nostra sicurezza e il futuro del pianeta non possiamo restare bloccati dall'annoso dibattito tra destra e sinistra, imprenditori e ambientalisti».
Prevale invece da noi un ambientalismo irresponsabile, anticapitalista e antimodernista, direi reazionario e superstizioso. La scelta di Obama metterà senz'altro in imbarazzo il Pd, che ha appena deciso di puntare sul "no" al nucleare in questa campagna per le regionali. In imbarazzo quindi tutti i candidati presidente, come Emma Bonino, chiamati a conciliare il loro tabù antinuclearista con l'ammirazione per Obama. Difficile però che i loro avversari di centrodestra riescano ad approfittarne appieno, visto l'imbarazzo con cui a loro volta hanno accolto i primi decisi passi del governo sulla via del ritorno al nucleare.
Nel Pd il dibattito interno si svolge su tutto tranne che su temi, come il nucleare, su cui dovrebbe svolgersi, quindi è inutile aspettarsi ripercussioni. E' più facile che la sinistra cominci a ripudiare Obama piuttosto che cambi idea sul nucleare.
Pazzo per la Corea del Nord
Enzo Reale ha pubblicato sul suo blog, 1972, la quarta e ultima puntata della sua intervista ad Alejandro Cao de Benós, catalano e ad oggi l'unico funzionario occidentale nel governo della super blindata Corea del Nord. Prendetevi un po' di tempo per la lettura integrale dell'intervista, ne vale la pena. Qui la prima, la seconda e la terza parte.
Tuesday, February 16, 2010
Uno tsunami di mistificazioni
Par condicio, «sistema gelatinoso», Protezione civile Spa, una mistificazione al giorno e centrodestra all'angolo
Più o meno mi pare sia andata così: un'inchiesta nata a Firenze tre anni fa su magagne fiorentine, versante Pd, di intercettazione in intercettazione (con il solito, discutibile metodo dello "strascico" o "a cascata", per cui finiscono intercettati i conoscenti dei conoscenti dei conoscenti, e così via, dell'intercettato iniziale) arriva a sfiorare Bertolaso, a torto o a ragione l'eroe, il simbolo di quel "governo del fare" tanto caro a Berlusconi, che può vantare tra i pochi successi fino ad ora interamente o quasi a lui ascrivibili le pronte risposte alle emergenze dell'Aquila e dei rifiuti in Campania, proprio grazie a Bertolaso. Visto che con il premier le hanno tentate tutte, senza scalfire il consenso di cui gode, provano a macchiare l'immagine di Bertolaso e della Protezione civile, "monumenti" viventi della "politica del fare" e del decisionismo di matrice berlusconiana.
Sui quattro arrestati in effetti c'è qualche indizio pesante, ma la sensazione è che Bertolaso sia stato tirato in mezzo letteralmente per i capelli, per dare in pasto all'opinione pubblica una figura di spicco, così da colpire il governo alla vigilia delle elezioni regionali, perché da soli gli arresti di Balducci e De Santis, uomini di Rutelli o al più trasversali, sarebbero passati quasi inosservati.
Tanto ci siamo assuefatti a questa giustizia politica e ad orologeria che un paio di particolari rischiano di sfuggirci. Prima di tutto, rimango convinto che non sia normale, e comunque non rassicurante sotto il profilo delle garanzie, che una procura proceda con arresti e avvisi di garanzia pur sapendo di essere territorialmente incompetente, tanto che il giorno dopo trasmette gli atti ad un'altra. Non so - e neanche il diretto interessato pare saperlo - se la parte di inchiesta riguardante Bertolaso rimarrà a Firenze o andrà a Perugia. Mentre lor signori si decidono, una conseguenza certa è che passerà del tempo - prezioso sia politicamente che personalmente - prima che Bertolaso possa vedere un giudice per provare a scrollarsi un po' di fango di dosso, come implora in questi giorni («Voglio essere sentito al più presto dai magistrati per chiarire e dimostrare la mia estraneità alle accuse. Il problema, però, è che ancora non si sa qual è la procura competente»).
Incredibile inoltre come i magistrati di Firenze, in collaborazione con i soliti gruppi editoriali e l'accoppiata Pd-IdV, il gatto e la volpe, siano riusciti a mettere in conto a Bertolaso e alla Protezione civile espressioni-chiave dell'inchiesta, come «sistema gelatinoso» e «cricca», che abbiamo letto sui giornali e sentito in tv a ripetizione in questi giorni. Ebbene, quanti sanno che tali espressioni emergono per la prima volta nelle intercettazioni a disposizione della procura di Firenze dal 2007, e che non si riferiscono a Bertolaso, né alla Protezione civile, ma a Veltroni e a Rutelli? Magari gli intercettati vaneggiavano, ma perché la «ripassata» con Francesca e il bikini di Monica escono subito sui giornali, e le intercettazioni in cui si parla degli appalti acchittati da Veltroni e Rutelli rimangono sepolte per quasi tre anni? E perché, quando escono, il «sistema gelatinoso» e la «cricca» diventano quelli di Bertolaso?
L'impressione è che anche stavolta l'ondata mediatico-giudiziaria si ritorcerà contro chi l'ha aizzata e cavalcata. Certo, forse riusciranno a mobilitare il popolo arrabbiato e frustrato della sinistra, ma otterranno anche l'effetto uguale e contrario, cioè di mobilitare il ben più compassato popolo di centrodestra, che com'è noto è solito snobbare le elezioni regionali e amministrative, a meno di una forte politicizzazione nazionale e una polarizzazione su Berlusconi.
Un altro effetto, più immediato, dell'attacco a Bertolaso è lo stralcio dal decreto emergenze della "Protezione civile servizi Spa", su cui governo e maggioranza hanno ceduto principalmente per le divisioni emerse al loro interno. Ma anche qui è andata in scena una gigantesca mistificazione che il centrodestra non ha saputo arginare sul piano della comunicazione. C'è voluto lo stesso Bertolaso, infatti, per spiegare che non si trattava di "privatizzare" la Protezione civile, come in malafede sostenevano le opposizioni e la solita stampa (di qualche ora fa l'ennesimo sondaggio), ma di affiancarle una struttura «aggiuntiva», «di servizio» appunto, «per rendere la Protezione civile, quella vera, più agile, più funzionale e più concentrata sulle vere attività di propria competenza».
Anzi, dirò di più. Proprio alla luce del rischio corruzione, che molti hanno evocato anche nella maggioranza per affondare la Spa, una società privata di servizi di cui la Protezione civile avrebbe potuto avvalersi come "general contractor" avrebbe offerto maggiori garanzie. Più agevole, infatti, tenere sotto controllo i costi avendo a che fare con un unico interlocutore e non con una miriade di gare pubbliche e ditte appaltatrici. Ma la possibilità di un dibattito nel merito è stata del tutto travolta dall'inchiesta e dalla malafede del circo politico-mediatico-giudiziario, esattamente come avvenuto sul regolamento della Vigilanza che ha esteso la par condicio ai talk show politici, e non li ha soppressi, come invece è stato ripetuto per giorni a reti unificate. Ma di questo ho già parlato.
Abbiamo assistito quindi, in questi giorni, oltre che alla solita giustizia politicizzata, al trionfo dell'ipocrisia e dell'arroganza: prima sulla par condicio; poi sulla Protezione civile. Si è approfittato dell'inchiesta che con tempismo perfetto ha coinvolto Bertolaso, e si è fatto leva demagogicamente su singoli episodi di corruzione, per scaricare la propria invidia politica contro quel poco che bene o male ha funzionato. Pur di ergersi a campioni di moralità pubblica quali non si è, ci si tiene aggrappati a procedure burocratiche a danno dell'efficienza e della rapidità d'azione (e in definitiva anche della trasparenza) che pure all'occasione si esigono eccome dalla Protezione civile e dal governo. D'altronde, per esempio, trattare come emergenze i "Grandi Eventi", per consentire alla Protezione civile di realizzare opere in tempi brevi, è stata una politica anche del governo Prodi, e dell'allora ministro Bersani, che oggi si finge scandalizzato.
Più o meno mi pare sia andata così: un'inchiesta nata a Firenze tre anni fa su magagne fiorentine, versante Pd, di intercettazione in intercettazione (con il solito, discutibile metodo dello "strascico" o "a cascata", per cui finiscono intercettati i conoscenti dei conoscenti dei conoscenti, e così via, dell'intercettato iniziale) arriva a sfiorare Bertolaso, a torto o a ragione l'eroe, il simbolo di quel "governo del fare" tanto caro a Berlusconi, che può vantare tra i pochi successi fino ad ora interamente o quasi a lui ascrivibili le pronte risposte alle emergenze dell'Aquila e dei rifiuti in Campania, proprio grazie a Bertolaso. Visto che con il premier le hanno tentate tutte, senza scalfire il consenso di cui gode, provano a macchiare l'immagine di Bertolaso e della Protezione civile, "monumenti" viventi della "politica del fare" e del decisionismo di matrice berlusconiana.
Sui quattro arrestati in effetti c'è qualche indizio pesante, ma la sensazione è che Bertolaso sia stato tirato in mezzo letteralmente per i capelli, per dare in pasto all'opinione pubblica una figura di spicco, così da colpire il governo alla vigilia delle elezioni regionali, perché da soli gli arresti di Balducci e De Santis, uomini di Rutelli o al più trasversali, sarebbero passati quasi inosservati.
Tanto ci siamo assuefatti a questa giustizia politica e ad orologeria che un paio di particolari rischiano di sfuggirci. Prima di tutto, rimango convinto che non sia normale, e comunque non rassicurante sotto il profilo delle garanzie, che una procura proceda con arresti e avvisi di garanzia pur sapendo di essere territorialmente incompetente, tanto che il giorno dopo trasmette gli atti ad un'altra. Non so - e neanche il diretto interessato pare saperlo - se la parte di inchiesta riguardante Bertolaso rimarrà a Firenze o andrà a Perugia. Mentre lor signori si decidono, una conseguenza certa è che passerà del tempo - prezioso sia politicamente che personalmente - prima che Bertolaso possa vedere un giudice per provare a scrollarsi un po' di fango di dosso, come implora in questi giorni («Voglio essere sentito al più presto dai magistrati per chiarire e dimostrare la mia estraneità alle accuse. Il problema, però, è che ancora non si sa qual è la procura competente»).
Incredibile inoltre come i magistrati di Firenze, in collaborazione con i soliti gruppi editoriali e l'accoppiata Pd-IdV, il gatto e la volpe, siano riusciti a mettere in conto a Bertolaso e alla Protezione civile espressioni-chiave dell'inchiesta, come «sistema gelatinoso» e «cricca», che abbiamo letto sui giornali e sentito in tv a ripetizione in questi giorni. Ebbene, quanti sanno che tali espressioni emergono per la prima volta nelle intercettazioni a disposizione della procura di Firenze dal 2007, e che non si riferiscono a Bertolaso, né alla Protezione civile, ma a Veltroni e a Rutelli? Magari gli intercettati vaneggiavano, ma perché la «ripassata» con Francesca e il bikini di Monica escono subito sui giornali, e le intercettazioni in cui si parla degli appalti acchittati da Veltroni e Rutelli rimangono sepolte per quasi tre anni? E perché, quando escono, il «sistema gelatinoso» e la «cricca» diventano quelli di Bertolaso?
L'impressione è che anche stavolta l'ondata mediatico-giudiziaria si ritorcerà contro chi l'ha aizzata e cavalcata. Certo, forse riusciranno a mobilitare il popolo arrabbiato e frustrato della sinistra, ma otterranno anche l'effetto uguale e contrario, cioè di mobilitare il ben più compassato popolo di centrodestra, che com'è noto è solito snobbare le elezioni regionali e amministrative, a meno di una forte politicizzazione nazionale e una polarizzazione su Berlusconi.
Un altro effetto, più immediato, dell'attacco a Bertolaso è lo stralcio dal decreto emergenze della "Protezione civile servizi Spa", su cui governo e maggioranza hanno ceduto principalmente per le divisioni emerse al loro interno. Ma anche qui è andata in scena una gigantesca mistificazione che il centrodestra non ha saputo arginare sul piano della comunicazione. C'è voluto lo stesso Bertolaso, infatti, per spiegare che non si trattava di "privatizzare" la Protezione civile, come in malafede sostenevano le opposizioni e la solita stampa (di qualche ora fa l'ennesimo sondaggio), ma di affiancarle una struttura «aggiuntiva», «di servizio» appunto, «per rendere la Protezione civile, quella vera, più agile, più funzionale e più concentrata sulle vere attività di propria competenza».
Anzi, dirò di più. Proprio alla luce del rischio corruzione, che molti hanno evocato anche nella maggioranza per affondare la Spa, una società privata di servizi di cui la Protezione civile avrebbe potuto avvalersi come "general contractor" avrebbe offerto maggiori garanzie. Più agevole, infatti, tenere sotto controllo i costi avendo a che fare con un unico interlocutore e non con una miriade di gare pubbliche e ditte appaltatrici. Ma la possibilità di un dibattito nel merito è stata del tutto travolta dall'inchiesta e dalla malafede del circo politico-mediatico-giudiziario, esattamente come avvenuto sul regolamento della Vigilanza che ha esteso la par condicio ai talk show politici, e non li ha soppressi, come invece è stato ripetuto per giorni a reti unificate. Ma di questo ho già parlato.
Abbiamo assistito quindi, in questi giorni, oltre che alla solita giustizia politicizzata, al trionfo dell'ipocrisia e dell'arroganza: prima sulla par condicio; poi sulla Protezione civile. Si è approfittato dell'inchiesta che con tempismo perfetto ha coinvolto Bertolaso, e si è fatto leva demagogicamente su singoli episodi di corruzione, per scaricare la propria invidia politica contro quel poco che bene o male ha funzionato. Pur di ergersi a campioni di moralità pubblica quali non si è, ci si tiene aggrappati a procedure burocratiche a danno dell'efficienza e della rapidità d'azione (e in definitiva anche della trasparenza) che pure all'occasione si esigono eccome dalla Protezione civile e dal governo. D'altronde, per esempio, trattare come emergenze i "Grandi Eventi", per consentire alla Protezione civile di realizzare opere in tempi brevi, è stata una politica anche del governo Prodi, e dell'allora ministro Bersani, che oggi si finge scandalizzato.
Monday, February 15, 2010
Il piano B (se c'è) stenta a prendere forma
Sia Parigi che Mosca, e Washington probabilmente seguirà a momenti, hanno smentito Teheran riguardo una nuova proposta da parte occidentale sul trasferimento dell'uranio all'estero per l'arricchimento al 20%. Evidentemente, una mossa da parte degli iraniani volta a far credere che non sono isolati e che l'Occidente non si è alzato dal tavolo nonostante i "cazzotti" subiti. Propaganda, insomma, resa però verosimile dall'approccio morbido e accondiscendente fin qui seguito. Non si può del tutto escludere in effetti che una trattativa prosegua sotto banco.
Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, da Doha denuncia che la Repubblica islamica si sta avviando «verso una dittatura militare», con le imprese controllate dai pasdaran che «soppiantano» le istituzioni governative. Un'evoluzione già in atto da tempo e che probabilmente ha giocato un ruolo nel convincere pezzi di establishment a contestare l'autorità di Ahmadinejad e Khamenei.
Nel frattempo, l'Occidente potrebbe finalmente aver deciso di giocare in pressing anche sui diritti umani. All'inutile Consiglio Onu per i diritti umani, infatti, i rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Italia e altri Paesi hanno messo l'Iran sul banco degli imputati per la violenta repressione dell'opposizione. In particolare, l'ambasciatrice italiana si è schierata contro la candidatura di Teheran a far parte del Consiglio per il periodo 2010-2013, in quanto «non coerente» per la sua situazione interna. Tramite il suo rappresentante, l'Iran, difeso anche da Cuba e Nicaragua, ha bollato tutto come pressioni strumentali sul dossier nucleare. Non ha torto, ma c'è da augurarsi che sia solo un primo passo.
Se migliaia di persone rischiano di beccarsi una pallottola in corpo pur di manifestare contro il regime nel suo giorno più simbolico, quando le misure di sicurezza sono ai massimi livelli e gli squadristi mobilitati in massa, allora siamo davvero in presenza di una situazione potenzialmente rivoluzionaria che dovrebbe far riflettere l'Occidente, Stati Uniti in testa, anche in relazione alla sua strategia sul nucleare. Le proteste della scorsa settimana hanno avuto luogo non solo a Teheran, ma anche in altre importanti città (Tabriz, Shiraz e Isfahan). Dalle poche notizie giunte, anche perché il regime ha bloccato Internet, anche stavolta la repressione ha colpito molto duramente, con cariche, arresti e morti. Aggredite anche le figure più in vista dell'opposizione, come Karroubi e Khatami, e i loro parenti. Ma tutto questo sembra non fiaccare la determinazione del movimento.
Nei giorni scorsi, all'avvio dell'arricchimento dell'uranio al 20% da parte di Teheran, l'amministrazione Obama ha voluto dare un segnale, adottando sanzioni unilaterali nei confronti di quattro compagnie e un generale legati ai pasdaran. A prescindere dal processo per nuove sanzioni Onu, che purtroppo è ancora agli stadi iniziali. Obama sta infatti tentando di incassare almeno il premio di consolazione della fallita strategia dell'engagement, cioè l'aver dimostrato al mondo che è l'Iran, e non sono gli Stati Uniti, a non volere il dialogo. Il che dovrebbe aiutarlo a convincere i Paesi più scettici, come Russia e Cina, a seguire l'Occidente sulla via delle sanzioni. La comunità internazionale «ha fatto i salti mortali» per portare l'Iran a un «dialogo costruttivo», ha sottolineato Obama, ribadendo che «non è accettabile» che l'Iran si doti di armi atomiche. In poche settimane quindi, intima, deve scattare «un significativo regime di sanzioni». «Questa Casa Bianca ha fatto più di ogni altra amministrazione» per tendere la mano a Teheran, gli ha fatto eco il segretario alla Difesa, Robert Gates, spiegando anche lui che gli Usa premono per arrivare a nuove sanzioni «nell'arco di settimane, non di mesi».
Ma le discussioni sulle nuove sanzioni sono ancora «in una fase molto iniziale», ammettono fonti dell'amministrazione Usa. Fallito l'engagement, se il piano "B" di Obama sono le sanzioni, per ora non si vede come possa convincere Pechino, né quale sia l'obiettivo ultimo. E se l'Occidente fosse per la prima volta nella posizione di mettere il regime, grazie alla sua instabilità, con le spalle al muro: resa sul nucleare o muerte alla rivoluzione?
Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, da Doha denuncia che la Repubblica islamica si sta avviando «verso una dittatura militare», con le imprese controllate dai pasdaran che «soppiantano» le istituzioni governative. Un'evoluzione già in atto da tempo e che probabilmente ha giocato un ruolo nel convincere pezzi di establishment a contestare l'autorità di Ahmadinejad e Khamenei.
Nel frattempo, l'Occidente potrebbe finalmente aver deciso di giocare in pressing anche sui diritti umani. All'inutile Consiglio Onu per i diritti umani, infatti, i rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Italia e altri Paesi hanno messo l'Iran sul banco degli imputati per la violenta repressione dell'opposizione. In particolare, l'ambasciatrice italiana si è schierata contro la candidatura di Teheran a far parte del Consiglio per il periodo 2010-2013, in quanto «non coerente» per la sua situazione interna. Tramite il suo rappresentante, l'Iran, difeso anche da Cuba e Nicaragua, ha bollato tutto come pressioni strumentali sul dossier nucleare. Non ha torto, ma c'è da augurarsi che sia solo un primo passo.
Se migliaia di persone rischiano di beccarsi una pallottola in corpo pur di manifestare contro il regime nel suo giorno più simbolico, quando le misure di sicurezza sono ai massimi livelli e gli squadristi mobilitati in massa, allora siamo davvero in presenza di una situazione potenzialmente rivoluzionaria che dovrebbe far riflettere l'Occidente, Stati Uniti in testa, anche in relazione alla sua strategia sul nucleare. Le proteste della scorsa settimana hanno avuto luogo non solo a Teheran, ma anche in altre importanti città (Tabriz, Shiraz e Isfahan). Dalle poche notizie giunte, anche perché il regime ha bloccato Internet, anche stavolta la repressione ha colpito molto duramente, con cariche, arresti e morti. Aggredite anche le figure più in vista dell'opposizione, come Karroubi e Khatami, e i loro parenti. Ma tutto questo sembra non fiaccare la determinazione del movimento.
Nei giorni scorsi, all'avvio dell'arricchimento dell'uranio al 20% da parte di Teheran, l'amministrazione Obama ha voluto dare un segnale, adottando sanzioni unilaterali nei confronti di quattro compagnie e un generale legati ai pasdaran. A prescindere dal processo per nuove sanzioni Onu, che purtroppo è ancora agli stadi iniziali. Obama sta infatti tentando di incassare almeno il premio di consolazione della fallita strategia dell'engagement, cioè l'aver dimostrato al mondo che è l'Iran, e non sono gli Stati Uniti, a non volere il dialogo. Il che dovrebbe aiutarlo a convincere i Paesi più scettici, come Russia e Cina, a seguire l'Occidente sulla via delle sanzioni. La comunità internazionale «ha fatto i salti mortali» per portare l'Iran a un «dialogo costruttivo», ha sottolineato Obama, ribadendo che «non è accettabile» che l'Iran si doti di armi atomiche. In poche settimane quindi, intima, deve scattare «un significativo regime di sanzioni». «Questa Casa Bianca ha fatto più di ogni altra amministrazione» per tendere la mano a Teheran, gli ha fatto eco il segretario alla Difesa, Robert Gates, spiegando anche lui che gli Usa premono per arrivare a nuove sanzioni «nell'arco di settimane, non di mesi».
Ma le discussioni sulle nuove sanzioni sono ancora «in una fase molto iniziale», ammettono fonti dell'amministrazione Usa. Fallito l'engagement, se il piano "B" di Obama sono le sanzioni, per ora non si vede come possa convincere Pechino, né quale sia l'obiettivo ultimo. E se l'Occidente fosse per la prima volta nella posizione di mettere il regime, grazie alla sua instabilità, con le spalle al muro: resa sul nucleare o muerte alla rivoluzione?
Tutti a scuola... di residui ideologici
Ecco la paccottiglia ideologica che finisce nelle mani degli studenti nelle nostre scuole pubbliche, mentre continua l'inganno del «pluralismo educativo».
Su il Velino:
Il testo di studio per le scuole superiori "Geografia dei continenti extraeuropei", a cura di Gianni e Francesca Sofri, è farcito di errori e omissioni tali da lasciare sbigottiti. Questo libro edito da Zanichelli, che annovera tra le sue firme anche autori come Lucia Annunziata ed Enrico Deaglio, in ossequio all'interdisciplinarità degli studi non si occupa solo di geografia, ma è corredato da ampie dissertazioni storiche sui Paesi di cui si occupa. Purtroppo, proprio in questa parte storica si trovano gravissimi errori, oltre a omissioni e inesattezze tali da porre il dubbio che talvolta intenda indirizzare gli studenti a favore di un certo credo ideologico. Ad esempio...
LEGGI TUTTO
Su il Velino:
Il testo di studio per le scuole superiori "Geografia dei continenti extraeuropei", a cura di Gianni e Francesca Sofri, è farcito di errori e omissioni tali da lasciare sbigottiti. Questo libro edito da Zanichelli, che annovera tra le sue firme anche autori come Lucia Annunziata ed Enrico Deaglio, in ossequio all'interdisciplinarità degli studi non si occupa solo di geografia, ma è corredato da ampie dissertazioni storiche sui Paesi di cui si occupa. Purtroppo, proprio in questa parte storica si trovano gravissimi errori, oltre a omissioni e inesattezze tali da porre il dubbio che talvolta intenda indirizzare gli studenti a favore di un certo credo ideologico. Ad esempio...
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Friday, February 12, 2010
Diavolo d'un riscaldamento globale
Questa mattina a Roma ci siamo svegliati sotto un'abbondante e intensa nevicata. Fiocchi giganti che dopo circa tre ore cominciano ad attecchire sui tetti, sulle tende di giornalai e negozi, e sulle vie pedonali del centro. Sono passato per Piazza Venezia e Via del Corso che sembrava una bufera. Paesaggio spettacolare volgendo lo sguardo verso Colosseo, Piazza Montecitorio e Quirinale. Nei bar e sui mezzi pubblici non si parla d'altro, eccitazione delle scolaresche. Era dal 1986 che non nevicava così a Roma, un evento eccezionale che corona un inverno tra i più piovosi e rigidi degli ultimi anni.
Dev'essere senz'altro colpa di questo surriscaldamento globale di cui tanto si parla. A parte Roma, ictu oculi è stato uno degli inverni più rigidi e nevosi in tutta Europa, nel Nord America, fino in Cina. Ci spiegheranno che non inverte la tendenza al riscaldamento del pianeta, ma intanto lo registriamo. Se è per ridurre le emissioni di CO2 nelle nostre città, siamo d'accordo, non può farci che bene, ma ancora non ce la beviamo quella che rischia di passare alla storia come la più grande balla del secolo.
Dev'essere senz'altro colpa di questo surriscaldamento globale di cui tanto si parla. A parte Roma, ictu oculi è stato uno degli inverni più rigidi e nevosi in tutta Europa, nel Nord America, fino in Cina. Ci spiegheranno che non inverte la tendenza al riscaldamento del pianeta, ma intanto lo registriamo. Se è per ridurre le emissioni di CO2 nelle nostre città, siamo d'accordo, non può farci che bene, ma ancora non ce la beviamo quella che rischia di passare alla storia come la più grande balla del secolo.
Thursday, February 11, 2010
"Par condicio" tranne che nei talk amici
L'arroganza del Pd e dei superpagati anchormen politici Rai (da Vespa a Santoro passando per Floris), che si comportano come fossero a casa propria, non conosce limiti. Questa storia del regolamento approvato dalla Commissione di Vigilanza per la campagna elettorale che sospenderebbe a loro dire le trasmissioni di approfondimento politico è emblematica. Una premessa indispensabile: per me la par condicio è una legge stupida, demenziale. Una trasmissione, che sia talk show o una tribuna, in cui debbano essere presenti, e con lo stesso spazio, i rappresentanti di tutti i partiti, fino all'ultimo partitino dell'1%, non soddisfa affatto il diritto dei cittadini a essere informati, bensì crea solo confusione e realizza l'opposto dell'idea del "conoscere per deliberare".
Mi sembra sbagliata anche la vecchia idea di Berlusconi secondo cui il tempo a disposizione delle forze politiche debba essere suddiviso proporzionalmente alla loro percentuale elettorale (cosicché il Pdl avrebbe il 38 e il Pd il 26%). Per essere efficace l'informazione politica in tv, si dovrebbe tener conto delle specificità del mezzo televisivo e arrivare a una sintesi delle posizioni politiche più rilevanti nella società, concedendo eguale spazio e tempo - adesso sì - in duelli testa-a-testa a quei candidati e coalizioni politiche (due e in qualche caso tre) che si contendono effettivamente il governo e il controllo degli organi legislativi delle istituzioni per le quali si vota. Assurdo, poi, che siano vietati gli spot televisivi, dando vita così allo scempio dei manifesti che vediamo nelle nostre città. Al contrario, io abolirei i manifesti.
Detto questo, però, non si può non sottolineare che proprio il centrosinistra ha imposto la par condicio e dimostra davvero un'incredibile faccia tosta ora ad opporsi all'estensione di quelle stesse regole anche ai talk show politici, che finora hanno goduto di una deroga in ragione di una capziosissima distinzione tra "comunicazione" e "informazione" politica. Eventualmente la par condicio si può cambiare, ma va applicata a tutti. Ha ragione Beltrandi quando fa notare che la rivolta del Pd e degli anchormen dimostra che la grande maggioranza di questi talk è condotta da giornalisti di sinistra.
E' falso inoltre che il regolamento impone alla Rai di sospendere queste trasmissioni nei 30 giorni prima del voto. In realtà, lascia aperte ai conduttori tre opzioni: rispettare le regole della par condicio; ospitare al proprio interno uno spazio di tribuna; spostarsi nel palinsesto lasciando per un mese il "prime time" alle tribune. Nulla di così tremendo, a meno che non pretendano di avere loro stessi uno spazio autogestito in piena campagna elettorale per attaccare i loro nemici politici. Falso anche che il regolamento sia un favore a Mediaset. Per prassi infatti l'Agcom applica, nello stabilire le regole elettorali per le tv commerciali, il modello fissato dalla Vigilanza per la Rai.
Mi sembra sbagliata anche la vecchia idea di Berlusconi secondo cui il tempo a disposizione delle forze politiche debba essere suddiviso proporzionalmente alla loro percentuale elettorale (cosicché il Pdl avrebbe il 38 e il Pd il 26%). Per essere efficace l'informazione politica in tv, si dovrebbe tener conto delle specificità del mezzo televisivo e arrivare a una sintesi delle posizioni politiche più rilevanti nella società, concedendo eguale spazio e tempo - adesso sì - in duelli testa-a-testa a quei candidati e coalizioni politiche (due e in qualche caso tre) che si contendono effettivamente il governo e il controllo degli organi legislativi delle istituzioni per le quali si vota. Assurdo, poi, che siano vietati gli spot televisivi, dando vita così allo scempio dei manifesti che vediamo nelle nostre città. Al contrario, io abolirei i manifesti.
Detto questo, però, non si può non sottolineare che proprio il centrosinistra ha imposto la par condicio e dimostra davvero un'incredibile faccia tosta ora ad opporsi all'estensione di quelle stesse regole anche ai talk show politici, che finora hanno goduto di una deroga in ragione di una capziosissima distinzione tra "comunicazione" e "informazione" politica. Eventualmente la par condicio si può cambiare, ma va applicata a tutti. Ha ragione Beltrandi quando fa notare che la rivolta del Pd e degli anchormen dimostra che la grande maggioranza di questi talk è condotta da giornalisti di sinistra.
E' falso inoltre che il regolamento impone alla Rai di sospendere queste trasmissioni nei 30 giorni prima del voto. In realtà, lascia aperte ai conduttori tre opzioni: rispettare le regole della par condicio; ospitare al proprio interno uno spazio di tribuna; spostarsi nel palinsesto lasciando per un mese il "prime time" alle tribune. Nulla di così tremendo, a meno che non pretendano di avere loro stessi uno spazio autogestito in piena campagna elettorale per attaccare i loro nemici politici. Falso anche che il regolamento sia un favore a Mediaset. Per prassi infatti l'Agcom applica, nello stabilire le regole elettorali per le tv commerciali, il modello fissato dalla Vigilanza per la Rai.
Wednesday, February 10, 2010
Svolta filorussa in Ucraina. Ora Mosca vorrà stravincere?
L'ormai acquisita vittoria del filorusso Yanukovich alle presidenziali in Ucraina significa che la rivoluzione arancione è stata definitivamente sconfitta e che non è servita a nulla? E' innegabile che molte delle aspettative che di allora sono rimaste disattese. Non ho mai creduto però che i successi e l'eredità della rivoluzione arancione fossero legati alla sorte politica dei due leader che si trovarono alla sua guida. Quindi, la fine della presidenza Yushenko e la sconfitta della Timoshenko non segnano sic et simpliciter la sconfitta della rivoluzione arancione.
Ad anni di distanza resta una tappa importante, forse decisiva e irreversibile, nel cammino dell'Ucraina verso la democrazia e una piena autodeterminazione. Un processo di tutta evidenza non ancora concluso e che non si può meccanicamente misurare con l'avvicinamento del Paese all'Occidente o alla Russia. Non tutto è andato perso. Sembra, infatti, stando agli osservatori dell'Ocse, che le elezioni questa volta siano state sostanzialmente corrette, che non ci siano stati brogli rilevanti. E forse un altro effetto positivo di quella "rivoluzione" è aver costretto Yanukovich ad assumere un profilo più moderato, più "ucraino" e filoeuropeo, e ad attenuare, sia pure solo in superficie, il suo legame con la Russia.
Yanukovich terrà il Paese lontano dalla Nato. Ma perché, la Nato ha forse dimostrato di volere diversamente? Il nuovo presidente però sembra aver abbandonato la sua intransigenza filorussa e la concezione dell'Ucraina come stato satellite di Mosca, e aver sposato una linea pragmatica rispetto al posizionamento del suo Paese tra Occidente e Russia, riconoscendo l'importanza di una riconciliazione nazionale tra le due parti del Paese, quella che si sente "europea" e quella che si sente "russa", sulla base del compromesso "Ue sì, Nato no". Si rende conto infatti dei vantaggi di una futura integrazione dell'Ucraina nell'Ue, e sembra intenzionato ad andare avanti su quella strada, senza compromettere i rapporti con Mosca, che in questi termini sembra disposta a dar sfogo alla vocazione filoeuropea e occidentale che rimane forte almeno in una metà degli ucraini.
Difficile distinguere le colpe del mancato definitivo posizionamento dell'Ucraina nella sfera occidentale, a totale scapito dell'influenza russa. Mi pare evidente che Yushenko e Timoshenko abbiano entrambi fallito alla prova della leadership, soprattutto nel dare stabilità al nuovo assetto politico che si era creato all'indomani della rivoluzione arancione. E' anche vero, come loro attenuante, che Mosca ce l'ha messa tutta per destabilizzarlo e c'è riuscita, complice l'indifferenza e la passività europea e, ultimamente, anche americana. La responsabilità dell'Occidente - e dell'Europa in particolare - è senz'altro quella di aver evocato una prospettiva, senza aver avuto il coraggio di perseguirla coerentemente e concretizzarla, sfidando l'ira di Mosca.
Trascorsi i giorni ed evaporato l'entusiasmo della rivoluzione arancione, Ue e Usa hanno buttato al vento l'occasione, non offrendo sponde concrete alle aspirazioni filoeuropee e occidentali della parte di Ucraina uscita in quel momento vittoriosa. A sancire il disimpegno la decisione in sede Nato di non mettere in agenda l'adesione di Kiev all'alleanza. Rimane una domanda: sarà un disimpegno bilaterale quello nei confronti dell'Ucraina, cioè sia occidentale che russo? Staremo a vedere, ma ne dubito.
Ad anni di distanza resta una tappa importante, forse decisiva e irreversibile, nel cammino dell'Ucraina verso la democrazia e una piena autodeterminazione. Un processo di tutta evidenza non ancora concluso e che non si può meccanicamente misurare con l'avvicinamento del Paese all'Occidente o alla Russia. Non tutto è andato perso. Sembra, infatti, stando agli osservatori dell'Ocse, che le elezioni questa volta siano state sostanzialmente corrette, che non ci siano stati brogli rilevanti. E forse un altro effetto positivo di quella "rivoluzione" è aver costretto Yanukovich ad assumere un profilo più moderato, più "ucraino" e filoeuropeo, e ad attenuare, sia pure solo in superficie, il suo legame con la Russia.
Yanukovich terrà il Paese lontano dalla Nato. Ma perché, la Nato ha forse dimostrato di volere diversamente? Il nuovo presidente però sembra aver abbandonato la sua intransigenza filorussa e la concezione dell'Ucraina come stato satellite di Mosca, e aver sposato una linea pragmatica rispetto al posizionamento del suo Paese tra Occidente e Russia, riconoscendo l'importanza di una riconciliazione nazionale tra le due parti del Paese, quella che si sente "europea" e quella che si sente "russa", sulla base del compromesso "Ue sì, Nato no". Si rende conto infatti dei vantaggi di una futura integrazione dell'Ucraina nell'Ue, e sembra intenzionato ad andare avanti su quella strada, senza compromettere i rapporti con Mosca, che in questi termini sembra disposta a dar sfogo alla vocazione filoeuropea e occidentale che rimane forte almeno in una metà degli ucraini.
Difficile distinguere le colpe del mancato definitivo posizionamento dell'Ucraina nella sfera occidentale, a totale scapito dell'influenza russa. Mi pare evidente che Yushenko e Timoshenko abbiano entrambi fallito alla prova della leadership, soprattutto nel dare stabilità al nuovo assetto politico che si era creato all'indomani della rivoluzione arancione. E' anche vero, come loro attenuante, che Mosca ce l'ha messa tutta per destabilizzarlo e c'è riuscita, complice l'indifferenza e la passività europea e, ultimamente, anche americana. La responsabilità dell'Occidente - e dell'Europa in particolare - è senz'altro quella di aver evocato una prospettiva, senza aver avuto il coraggio di perseguirla coerentemente e concretizzarla, sfidando l'ira di Mosca.
Trascorsi i giorni ed evaporato l'entusiasmo della rivoluzione arancione, Ue e Usa hanno buttato al vento l'occasione, non offrendo sponde concrete alle aspirazioni filoeuropee e occidentali della parte di Ucraina uscita in quel momento vittoriosa. A sancire il disimpegno la decisione in sede Nato di non mettere in agenda l'adesione di Kiev all'alleanza. Rimane una domanda: sarà un disimpegno bilaterale quello nei confronti dell'Ucraina, cioè sia occidentale che russo? Staremo a vedere, ma ne dubito.
Tuesday, February 09, 2010
Le attenzioni dei Basiji ci onorano
Finalmente l'Italia sul regime iraniano ha una posizione chiara ed ecco che riceviamo lo stesso trattamento riservato agli altri grandi Paesi europei. Oggi infatti, anche la nostra ambasciata a Teheran, come quella francese, la tedesca e l'olandese, ma spesso anche quella britannica, ha subito l'avvertimento mafioso del regime. Al grido «morte all'Italia, morte a Berlusconi», come ha riferito questo pomeriggio alle commissioni esteri il ministro Frattini, le milizie Basiji hanno tentato di assalire la nostra ambasciata a Teheran a colpi di pietre. A disperdere i miliziani, travestiti da civili, è stata la polizia iraniana. Ma è sempre il regime, che con una mano aggredisce e con l'altra fa vedere di voler mantenere una parvenza di legalità, che decide se e quando fermare i miliziani. Oggi ci ha mafiosamente ricordato di poter aggredire quando vuole la nostra ambasciata, facendoci capire di non aver voluto affondare il colpo.
Che siano state le parole nette pronunciate da Berlusconi durante la sua visita in Israele, o la nota congiunta Usa-Ue di ieri sulle violazioni dei diritti umani in Iran, o la tensione crescente sul programma nucleare a innescare la reazione delle squadracce del regime contro la nostra ambasciata, poco importa. C'è da salutare con orgoglio, come una novità e persino un salto di qualità della nostra politica estera, il fatto che finalmente non ci vengono risparmiate le violenze di un regime terrorista come quello iraniano solo in ragione della nostra ben nota ambiguità, come accadeva con i palestinesi e fino ad oggi anche con l'Iran.
Che siano state le parole nette pronunciate da Berlusconi durante la sua visita in Israele, o la nota congiunta Usa-Ue di ieri sulle violazioni dei diritti umani in Iran, o la tensione crescente sul programma nucleare a innescare la reazione delle squadracce del regime contro la nostra ambasciata, poco importa. C'è da salutare con orgoglio, come una novità e persino un salto di qualità della nostra politica estera, il fatto che finalmente non ci vengono risparmiate le violenze di un regime terrorista come quello iraniano solo in ragione della nostra ben nota ambiguità, come accadeva con i palestinesi e fino ad oggi anche con l'Iran.
L'Iran tira il suo cazzotto, l'Occidente all'angolo
Ci sarebbe da ridere se la situazione non volgesse al drammatico, ripensando a come media e ministri degli Esteri avevano accolto la settimana scorsa l'ennesima finta «apertura» di Ahmadinejad sul nucleare. Il balletto continua e pochi giorni dopo Teheran ha deciso di assestare il «cazzotto». Ahmadinejad l'aveva preannunciato nei giorni scorsi, e dopo la notifica formale di ieri all'Aiea, ecco l'annuncio ufficiale dell'avvio del processo di arricchimento dell'uranio al 20%, mentre Khamenei nel frattempo torna a minacciare l'Occidente e l'opposizione al regime.
L'Iran dunque rinnova la sua sfida e la comunità internazionale - l'Occidente - a questo punto è di fronte a un test di credibilità. Non procedere in tempi brevi a nuove sanzioni sarebbe un segnale deleterio. Tuttavia, se la Russia sembra ormai disponibile, evidentemente appagata dalla rinuncia Usa allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca, rimane l'ostacolo della Cina. Può essere anche l'irremovibilità cinese sulla questione iraniana ad aver indotto Washington ad alzare la tensione con Pechino nelle ultime settimane. Ma sono proprio curioso di vedere come l'auspicio espresso oggi (sanzioni «entro qualche settimana, non mesi») dal segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, possa coniugarsi con il veto cinese.
Teheran potrebbe aver deciso di forzare la situazione vedendo l'Occidente all'angolo, nell'impossibilità di imporre sanzioni efficaci a causa della copertura cinese, e comunque molto lontano persino dal considerare l'opzione militare. Insomma, almeno per ora agli occhi iraniani la minaccia non è credibile e a Teheran devono essersi convinti che una volta avviato l'arricchimento al 20 per cento del loro uranio al 3,5, dai 5+1 arriverà un'offerta migliore per ottenerne la sospensione.
Intanto, Usa e Ue, per la prima volta congiuntamente e così esplicitamente, condannano le violazioni dei diritti umani in Iran. Una nota formale, che suona però come un avvertimento al regime. Le potenze occidentali potrebbero davvero schierarsi attivamente - almeno a parole, ma sarebbe già qualcosa - al fianco degli oppositori. E' vero, la strategia dell'engagement ha reso evidente il fatto che sia l'Iran a non voler collaborare. Ma ora? Dopo mesi di controproposte più simili a provocazioni, segnali contraddittori, aperture e chiusure, sarebbe ora di svegliarsi e di dimostrare a Teheran risolutezza. Un fardello che pesa interamente sulle spalle di Obama, mentre si rafforza il sospetto che alla fine si voglia addossare a Israele l'onere di compiere il lavoro "sporco".
L'Iran dunque rinnova la sua sfida e la comunità internazionale - l'Occidente - a questo punto è di fronte a un test di credibilità. Non procedere in tempi brevi a nuove sanzioni sarebbe un segnale deleterio. Tuttavia, se la Russia sembra ormai disponibile, evidentemente appagata dalla rinuncia Usa allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica Ceca, rimane l'ostacolo della Cina. Può essere anche l'irremovibilità cinese sulla questione iraniana ad aver indotto Washington ad alzare la tensione con Pechino nelle ultime settimane. Ma sono proprio curioso di vedere come l'auspicio espresso oggi (sanzioni «entro qualche settimana, non mesi») dal segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, possa coniugarsi con il veto cinese.
Teheran potrebbe aver deciso di forzare la situazione vedendo l'Occidente all'angolo, nell'impossibilità di imporre sanzioni efficaci a causa della copertura cinese, e comunque molto lontano persino dal considerare l'opzione militare. Insomma, almeno per ora agli occhi iraniani la minaccia non è credibile e a Teheran devono essersi convinti che una volta avviato l'arricchimento al 20 per cento del loro uranio al 3,5, dai 5+1 arriverà un'offerta migliore per ottenerne la sospensione.
Intanto, Usa e Ue, per la prima volta congiuntamente e così esplicitamente, condannano le violazioni dei diritti umani in Iran. Una nota formale, che suona però come un avvertimento al regime. Le potenze occidentali potrebbero davvero schierarsi attivamente - almeno a parole, ma sarebbe già qualcosa - al fianco degli oppositori. E' vero, la strategia dell'engagement ha reso evidente il fatto che sia l'Iran a non voler collaborare. Ma ora? Dopo mesi di controproposte più simili a provocazioni, segnali contraddittori, aperture e chiusure, sarebbe ora di svegliarsi e di dimostrare a Teheran risolutezza. Un fardello che pesa interamente sulle spalle di Obama, mentre si rafforza il sospetto che alla fine si voglia addossare a Israele l'onere di compiere il lavoro "sporco".
Monday, February 08, 2010
Avatar, banalità in 3D
Ieri ho visto un film in cui il protagonista è riuscito a volare di nuovo sul grande uccello di nonno. Ironia a parte, ho trovato Avatar un'esperienza unica per il 3D e gli effetti speciali, per i paesaggi e i combattimenti spettacolari. Ma la storia e i dialoghi insopportabilmente sciatti. Un'accozzaglia di triti e ritriti miti ecologisti, banalità ambientaliste, pacifiste e anticapitaliste. Evidenti le forzature per arrivare a un esito scontato. Macchiette, più che personaggi, prive di qualsiasi complessità. Nessuno sforzo di immaginazione nelle forme di vita intelligente extraterrestri, il popolo dei Naavi, dalle reazioni e i tic umanissimi al limite della parodia. Sconfortante poi, come a Hollywood non si siano ancora liberati del fantasma di George W. Bush, a tal punto da dover richiamare le sue nefandezze nella memoria dello spettatore, inserendo qui e là qualche riferimento, implicito ma inequivocabile. Dovessi dargli un voto darei 5 (un punto in più per il 3D e gli effetti speciali).
Friday, February 05, 2010
L'errore più grave di Obama
Assolutamente condivisibile quanto scrive oggi Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera, di Obama, sottolineando che «la distratta negligenza con cui il presidente ha trattato gli storici alleati europei dell'America nel suo primo anno di governo è stata forse uno dei suoi più gravi errori politici». Certo, gli europei continuano a mancare della «coesione necessaria per parlare al mondo con una sola voce» e «di nerbo quando si tratta di concorrere con l'America a fronteggiare le minacce». E' pur sempre la "vecchia Europa", e pesano senz'altro i no tedeschi e francesi alla richiesta di un maggiore impegno in Afghanistan.
«Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto "unilateralista" del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza» per l'America. Con la differenza che nonostante il suo "unilateralismo", Bush di amici sinceri in Europa ne aveva molti, anche se non a Parigi, Berlino e Bruxelles.
Perso nella sua visione irenica, inebriato dall'esaltazione che da subito ha avuto intorno, santificato ancor prima di fare miracoli, si è illuso che bastasse la potenza evocativa della sua elezione, il suo ampio sorriso e una mano tesa, come dopo una partita di baseball, non solo per risolvere i motivi di tensione con avversari e nemici degli Usa, ma persino per costituire un nuovo ordine mondiale in cui risultassero annullate le differenze tra sistemi politici diversi tra di loro. Dunque, mentre vagheggiava di stabilire un rapporto privilegiato con la Cina, di "resettare" i rapporti con la Russia, di risolvere con le buone la questione nucleare con Teheran, Obama ha allentato il legame transatlantico, ha inquietato le altre democrazie alleate dell'America nel mondo, soprattutto nel sudest asiatico.
Panebianco cita Robert Kagan, che in un recente articolo ha criticato la visione di Obama, «che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America». Obama invece ha cercato intese "realistiche", dimostratesi irrealistiche, «con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti».
E dimostrano che la natura dei regimi è un fattore imprescindibile di cui tenere conto nelle relazioni tra gli stati, che pesa in modo decisivo sulle possibilità di trovare quella convergenza di interessi, e persino un equilibrio per una coesistenza pacifica. La lezione che americani ed europei dovrebbero trarre da questo primo anno dell'"era" Obama è che per raggiungere certi obiettivi - diciamo di fondo e di lungo periodo - devono ricominciare a muoversi sulla scena mondiale come comunità, una comunità di democrazie.
Ci affidiamo quindi alla conclusione di Panebianco:
«Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto "unilateralista" del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza» per l'America. Con la differenza che nonostante il suo "unilateralismo", Bush di amici sinceri in Europa ne aveva molti, anche se non a Parigi, Berlino e Bruxelles.
Perso nella sua visione irenica, inebriato dall'esaltazione che da subito ha avuto intorno, santificato ancor prima di fare miracoli, si è illuso che bastasse la potenza evocativa della sua elezione, il suo ampio sorriso e una mano tesa, come dopo una partita di baseball, non solo per risolvere i motivi di tensione con avversari e nemici degli Usa, ma persino per costituire un nuovo ordine mondiale in cui risultassero annullate le differenze tra sistemi politici diversi tra di loro. Dunque, mentre vagheggiava di stabilire un rapporto privilegiato con la Cina, di "resettare" i rapporti con la Russia, di risolvere con le buone la questione nucleare con Teheran, Obama ha allentato il legame transatlantico, ha inquietato le altre democrazie alleate dell'America nel mondo, soprattutto nel sudest asiatico.
Panebianco cita Robert Kagan, che in un recente articolo ha criticato la visione di Obama, «che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America». Obama invece ha cercato intese "realistiche", dimostratesi irrealistiche, «con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti».
E dimostrano che la natura dei regimi è un fattore imprescindibile di cui tenere conto nelle relazioni tra gli stati, che pesa in modo decisivo sulle possibilità di trovare quella convergenza di interessi, e persino un equilibrio per una coesistenza pacifica. La lezione che americani ed europei dovrebbero trarre da questo primo anno dell'"era" Obama è che per raggiungere certi obiettivi - diciamo di fondo e di lungo periodo - devono ricominciare a muoversi sulla scena mondiale come comunità, una comunità di democrazie.
Ci affidiamo quindi alla conclusione di Panebianco:
«La grande forza dell'America, dopo la seconda guerra mondiale, è sempre consistita nel fatto che, pur trattando e negoziando con le tirannie, essa non perdeva di vista l'importanza del suo rapporto privilegiato con le altre democrazie, europee in primo luogo. L'Amministrazione Obama sembra non averlo capito. Per giunta, e nonostante le tante magagne dell'Europa, quale altro vero alleato l'America potrebbe mai trovare per contrastare la minaccia del terrorismo islamico?... Forse il declino della potenza americana è inarrestabile, come molti ritengono, a causa del deterioramento della forza economica che la sosteneva e dell'emergere di altre potenze. Forse, come pensano altri, non c'è nulla di già scritto, di predeterminato, in queste faccende. E' però plausibile aspettarsi un'accelerazione del declino se la dirigenza americana penserà di poter fare a meno di quel rapporto con l'Europa che per tanto tempo ha contribuito ad assicurare a noi la libertà e agli Stati Uniti il primato».
Thursday, February 04, 2010
Non c'è contraddizione, stavolta
Ieri i siti Internet, oggi giornali, blog e i soliti commentatori, si sono esercitati nell'evidenziare come Berlusconi sia caduto in una palese contraddizione prima, alla Knesset, definendo «giusta» la reazione israeliana ai missili di Hamas, e poi, durante la conferenza stampa di due ore dopo con Abu Mazen, paragonando le vittime palestinesi dell'operazione israeliana a Gaza alle vittime della Shoah. Detta così la contraddizione c'è tutta, ma solo perché come spesso accade è questa la rappresentazione che se ne vuole dare, ignorando le sottigliezze e le sfumature politico-diplomatiche che però, in questi casi, hanno molto valore.
Sì, il premier ha il dono o il difetto (a seconda dei punti di vista) di voler a tutti i costi compiacere il proprio interlocutore, chiunque esso sia. E gli capita, soprattutto in Italia, di contraddirsi nell'arco di poche ore. Ma questa volta, a leggere ciò che veramente Berlusconi ha detto ieri, si vedrà che non c'è alcuna contraddizione. Ecco le due frasi.
Alla Knesset: «... Come il nostro voto contrario al rapporto Goldstone, che intendeva criminalizzare Israele per la sua giusta reazione ai missili di Hamas lanciati da Gaza».
Alla conferenza stampa con Abu Mazen: «Sempre quando alla pace si sostituisce la guerra, e alla ragionevolezza la violenza, sempre lì viene meno l'umanità. Com'è giusto piangere le vittime della Shoah, è giusto manifestare dolore per quanto accaduto a Gaza».
Definendo «giusta» la reazione di Israele ai missili di Hamas Berlusconi ha dato una valutazione strettamente politica, ha riconosciuto il suo diritto a difendersi, mentre manifestando «dolore» per le vittime di Gaza ha abilmente aggirato una domanda spinosa spostando il discorso sul piano "umanitario", politico - direi diplomatico - solo nel senso di non mostrare indifferenza di fronte alle autorità e alla stampa palestinesi. Dove c'è guerra e c'è morte, la compassione non si nega a nessuno. Questo ha voluto dire, ma ciò non toglie che l'operazione israeliana fosse giustificata.
C'è non tanto un paragone, quanto un accostamento - a mio avviso comunque inopportuno - tra Shoah e Gaza, ma siamo sempre su un piano "umanitario" e non politico in senso stretto. Mettendo insieme le due frasi si potrebbe sintetizzare così il pensiero di Berlusconi: Israele aveva il diritto di reagire ai missili di Hamas, ma questo non ci impedisce di addolorarci anche per i morti palestinesi. Detto questo, capisco l'esigenza di molti di far rientrare il Cav. nello stereotipo. In molte occasioni si contraddice, non in questa.
Almeno nelle parole non c'è contraddizione neanche sulla presenza di Eni in Iran. Berlusconi ha spiegato che Eni ha congelato gli investimenti futuri. E' comprensibile che il governo iraniano smentisca, ma non vedo perché bisognerebbe credere agli iraniani addirittura più che a Berlusconi. La dichiarazione di Eni sembra confermare le parole del premier: «E' in corso lo sfruttamento di due campi petroliferi in Iran in base a contratti del 2000 e 2001. Non sono stati stipulati nuovi contratti». Una posizione che Eni aveva annunciato (insieme a Total) già nel 2008: «In Iran il gruppo rispetterà i contratti già in essere, ma non ne firmerà di nuovi». Se sia vero, o se semplicemente siano in corso «trattative», come le chiama Teheran, non possiamo saperlo, ma di certo nelle dichiarazioni non c'è contraddizione, a meno di non voler credere a priori agli iraniani, comunque senza alcuna possibilità di verifica.
La politica di questo governo sulla questione nucleare iraniana è costellata di passi falsi, ambiguità ed errori, che hanno creato motivi di tensione con gli Usa. Prima la manovra fallita per essere accettati nel gruppo 5+1; poi il patetico tentativo di giocare un proprio ruolo, autonomo, di mediazione; il tutto condito da dichiarazioni improvvide di Frattini, che rivelavano uno scrupolo di troppo per la sorte dei nostri rapporti commerciali con Teheran, allarmando Washington. Rapporti importanti li intrattengono anche Francia e Germania, membri del 5+1. Non vi hanno rinunciato finora, ma sono pronti ad appoggiare (e a rispettare) tutte le sanzioni che si renderanno necessarie. E l'Italia si adeguerà.
Negli ultimi tempi - e con le parole inequivoche pronunciate dal premier durante la sua visita in Israele - per fortuna si va definendo una posizione più chiara, più in linea con gli sforzi americani e vicina agli interessi israeliani. A vedere come hanno accolto ieri Berlusconi, gli israeliani - che non sono così stupidi - se ne devono essere accorti, con buona pace dei nostri Gramellini. Chi meglio di loro - Eni o non Eni, Gaza o non Gaza - può giudicare da che parte sta Berlusconi?
UPDATE ore 15:56
Scaroni conferma il "disimpegno": «Avevamo firmato il contratto al tempo di Rafsanjani, quando non si parlava di sanzioni nei riguardi dell'Iran: il primo contratto è già quasi terminato, stiamo ormai solo fornendo assistenza; il secondo terminerà a marzo e poi ci limiteremo a fornire assistenza anche in questo caso. Non faremo nuovi contratti per il futuro».
Sì, il premier ha il dono o il difetto (a seconda dei punti di vista) di voler a tutti i costi compiacere il proprio interlocutore, chiunque esso sia. E gli capita, soprattutto in Italia, di contraddirsi nell'arco di poche ore. Ma questa volta, a leggere ciò che veramente Berlusconi ha detto ieri, si vedrà che non c'è alcuna contraddizione. Ecco le due frasi.
Alla Knesset: «... Come il nostro voto contrario al rapporto Goldstone, che intendeva criminalizzare Israele per la sua giusta reazione ai missili di Hamas lanciati da Gaza».
Alla conferenza stampa con Abu Mazen: «Sempre quando alla pace si sostituisce la guerra, e alla ragionevolezza la violenza, sempre lì viene meno l'umanità. Com'è giusto piangere le vittime della Shoah, è giusto manifestare dolore per quanto accaduto a Gaza».
Definendo «giusta» la reazione di Israele ai missili di Hamas Berlusconi ha dato una valutazione strettamente politica, ha riconosciuto il suo diritto a difendersi, mentre manifestando «dolore» per le vittime di Gaza ha abilmente aggirato una domanda spinosa spostando il discorso sul piano "umanitario", politico - direi diplomatico - solo nel senso di non mostrare indifferenza di fronte alle autorità e alla stampa palestinesi. Dove c'è guerra e c'è morte, la compassione non si nega a nessuno. Questo ha voluto dire, ma ciò non toglie che l'operazione israeliana fosse giustificata.
C'è non tanto un paragone, quanto un accostamento - a mio avviso comunque inopportuno - tra Shoah e Gaza, ma siamo sempre su un piano "umanitario" e non politico in senso stretto. Mettendo insieme le due frasi si potrebbe sintetizzare così il pensiero di Berlusconi: Israele aveva il diritto di reagire ai missili di Hamas, ma questo non ci impedisce di addolorarci anche per i morti palestinesi. Detto questo, capisco l'esigenza di molti di far rientrare il Cav. nello stereotipo. In molte occasioni si contraddice, non in questa.
Almeno nelle parole non c'è contraddizione neanche sulla presenza di Eni in Iran. Berlusconi ha spiegato che Eni ha congelato gli investimenti futuri. E' comprensibile che il governo iraniano smentisca, ma non vedo perché bisognerebbe credere agli iraniani addirittura più che a Berlusconi. La dichiarazione di Eni sembra confermare le parole del premier: «E' in corso lo sfruttamento di due campi petroliferi in Iran in base a contratti del 2000 e 2001. Non sono stati stipulati nuovi contratti». Una posizione che Eni aveva annunciato (insieme a Total) già nel 2008: «In Iran il gruppo rispetterà i contratti già in essere, ma non ne firmerà di nuovi». Se sia vero, o se semplicemente siano in corso «trattative», come le chiama Teheran, non possiamo saperlo, ma di certo nelle dichiarazioni non c'è contraddizione, a meno di non voler credere a priori agli iraniani, comunque senza alcuna possibilità di verifica.
La politica di questo governo sulla questione nucleare iraniana è costellata di passi falsi, ambiguità ed errori, che hanno creato motivi di tensione con gli Usa. Prima la manovra fallita per essere accettati nel gruppo 5+1; poi il patetico tentativo di giocare un proprio ruolo, autonomo, di mediazione; il tutto condito da dichiarazioni improvvide di Frattini, che rivelavano uno scrupolo di troppo per la sorte dei nostri rapporti commerciali con Teheran, allarmando Washington. Rapporti importanti li intrattengono anche Francia e Germania, membri del 5+1. Non vi hanno rinunciato finora, ma sono pronti ad appoggiare (e a rispettare) tutte le sanzioni che si renderanno necessarie. E l'Italia si adeguerà.
Negli ultimi tempi - e con le parole inequivoche pronunciate dal premier durante la sua visita in Israele - per fortuna si va definendo una posizione più chiara, più in linea con gli sforzi americani e vicina agli interessi israeliani. A vedere come hanno accolto ieri Berlusconi, gli israeliani - che non sono così stupidi - se ne devono essere accorti, con buona pace dei nostri Gramellini. Chi meglio di loro - Eni o non Eni, Gaza o non Gaza - può giudicare da che parte sta Berlusconi?
UPDATE ore 15:56
Scaroni conferma il "disimpegno": «Avevamo firmato il contratto al tempo di Rafsanjani, quando non si parlava di sanzioni nei riguardi dell'Iran: il primo contratto è già quasi terminato, stiamo ormai solo fornendo assistenza; il secondo terminerà a marzo e poi ci limiteremo a fornire assistenza anche in questo caso. Non faremo nuovi contratti per il futuro».
Wednesday, February 03, 2010
Grazie per il fatto stesso di esistere
Un trionfo l'intervento di Berlusconi alla Knesset, che ricorda quello del 2006 al Congresso Usa. Come in quella occasione ha pronunciato un discorso incisivo e ispirato. La sicurezza di Israele e il suo diritto di esistere («come stato ebraico») «una scelta etica e un imperativo morale»; l'espansione della democrazia, «a tutti i popoli della terra, nelle forme possibili», e la difesa della libertà, «come bisogno insopprimibile di ogni uomo». Queste le due premesse ideali, i principi guida, da cui a cascata derivano tutte le posizioni espresse dal premier nel suo discorso.
Non può che essere netta e rigorosa, dunque, la posizione sulla minaccia nucleare iraniana, su cui non è consentito alcun cedimento. Berlusconi si è impegnato ad agire presso la comunità internazionale per «impedire e sconfiggere i disegni iraniani», ha chiesto «sanzioni efficaci», avvertendo Teheran che «gli sforzi di dialogo non possono essere frustrati dalla logica dell'inganno e della perdita di tempo». Ha definito il popolo ebraico «un fratello maggiore» e quindi rinnovato il suo «sogno e auspicio» di vedere Israele «membro a pieno titolo dell'Unione europea», in quanto «stato libero e democratico in tutto eguale alle democrazie europee».
La centralità dei principi della democrazia e della libertà nel suo discorso emerge anche dal passaggio in cui Berlusconi ringrazia Israele per il solo fatto di esistere: è in quanto «più grande esempio di democrazia e libertà in Medio Oriente», e in qualità di «simbolo della possibilità di far vivere la democrazia anche al di fuori dei confini dell'Occidente», che «noi liberali di tutto il mondo vi ringraziamo per il fatto stesso di esistere». E' vero, l'esistenza dello Stato di Israele va ben oltre il valore dell'autodeterminazione del popolo ebraico, interessa e parla a tutto il mondo di uno sviluppo in democrazia e libertà.
Notevole anche la consapevolezza della sfida posta dal terrorismo al vivere civile e democratico nel mondo post-11 settembre. Nessuna ambiguità e nessuna equivalenza da parte del premier, che non teme di definire «giusta» la reazione di Israele ai missili di Hamas lanciati da Gaza, cosa che ha subito scandalizzato i "benpensanti" di Repubblica. E ricorda che l'Italia «si macchiò dell'infamia delle leggi razziali», ma anche che «il popolo italiano trovò la forza di riscattarsi attraverso la lotta di liberazione dal nazifascismo». Oggi quella guidata da Berlusconi è un'Italia molto diversa, anche da quella filoaraba e filopalestinese degli anni '70 e '80 (e di D'Alema): Netanyahu lo riconosce a Berlusconi: «Sotto la tua guida l'Italia è diventato un Paese leader morale contro negazionismo e antisemitismo».
Non può che essere netta e rigorosa, dunque, la posizione sulla minaccia nucleare iraniana, su cui non è consentito alcun cedimento. Berlusconi si è impegnato ad agire presso la comunità internazionale per «impedire e sconfiggere i disegni iraniani», ha chiesto «sanzioni efficaci», avvertendo Teheran che «gli sforzi di dialogo non possono essere frustrati dalla logica dell'inganno e della perdita di tempo». Ha definito il popolo ebraico «un fratello maggiore» e quindi rinnovato il suo «sogno e auspicio» di vedere Israele «membro a pieno titolo dell'Unione europea», in quanto «stato libero e democratico in tutto eguale alle democrazie europee».
La centralità dei principi della democrazia e della libertà nel suo discorso emerge anche dal passaggio in cui Berlusconi ringrazia Israele per il solo fatto di esistere: è in quanto «più grande esempio di democrazia e libertà in Medio Oriente», e in qualità di «simbolo della possibilità di far vivere la democrazia anche al di fuori dei confini dell'Occidente», che «noi liberali di tutto il mondo vi ringraziamo per il fatto stesso di esistere». E' vero, l'esistenza dello Stato di Israele va ben oltre il valore dell'autodeterminazione del popolo ebraico, interessa e parla a tutto il mondo di uno sviluppo in democrazia e libertà.
Notevole anche la consapevolezza della sfida posta dal terrorismo al vivere civile e democratico nel mondo post-11 settembre. Nessuna ambiguità e nessuna equivalenza da parte del premier, che non teme di definire «giusta» la reazione di Israele ai missili di Hamas lanciati da Gaza, cosa che ha subito scandalizzato i "benpensanti" di Repubblica. E ricorda che l'Italia «si macchiò dell'infamia delle leggi razziali», ma anche che «il popolo italiano trovò la forza di riscattarsi attraverso la lotta di liberazione dal nazifascismo». Oggi quella guidata da Berlusconi è un'Italia molto diversa, anche da quella filoaraba e filopalestinese degli anni '70 e '80 (e di D'Alema): Netanyahu lo riconosce a Berlusconi: «Sotto la tua guida l'Italia è diventato un Paese leader morale contro negazionismo e antisemitismo».
Tuesday, February 02, 2010
Internet, Taiwan, Dalai Lama. Con la Cina è vera svolta?
Terzo segnale in meno di due settimane di un cambio di atteggiamento dell'amministrazione Obama nei confronti della Cina? Una decina di giorni fa il solenne discorso di Hillary Clinton sulla libertà di Internet, che chiamava in causa direttamente Pechino per la censura del web. Poi, la vendita delle armi a Taiwan. Oggi, nonostante l'avvertimento preventivo e perentorio dei cinesi, il presidente Obama annuncia che incontrerà il Dalai Lama durante la sua prossima visita negli Usa. Il leader spirituale tibetano partirà infatti alla volta degli Stati Uniti il 16 febbraio e dovrebbe rimanervi per dieci giorni. Stamani Pechino aveva avvertito Washington che un incontro tra il presidente e il Dalai Lama «minerebbe seriamente» le relazioni tra i due Paesi. «Ci opponiamo fermamente a un simile incontro», ha dichiarato alla stampa un alto responsabile del Partito comunista cinese.
Fonti della Casa Bianca rivelano però che il presidente Obama aveva già informato Hu Jintao della sua intenzione lo scorso novembre, durante la visita a Pechino. Evidentemente il regime ha voluto comunque rimarcare il proprio dissenso. Ovviamente il gesto più concreto dei tre rimane la vendita a Taiwan di armi "difensive" per un valore di 6,4 miliardi di dollari, che ha portato Pechino a minacciare sanzioni nei confronti delle aziende Usa coinvolte. In questo modo gli Usa dimostrano concretamente che a dispetto delle ipotesi di un G2 con la Cina non hanno intenzione di abbandonare i loro alleati storici nel sudest asiatico solo per accattivarsi la benevolenza del nuovo presunto "partner".
Fonti della Casa Bianca rivelano però che il presidente Obama aveva già informato Hu Jintao della sua intenzione lo scorso novembre, durante la visita a Pechino. Evidentemente il regime ha voluto comunque rimarcare il proprio dissenso. Ovviamente il gesto più concreto dei tre rimane la vendita a Taiwan di armi "difensive" per un valore di 6,4 miliardi di dollari, che ha portato Pechino a minacciare sanzioni nei confronti delle aziende Usa coinvolte. In questo modo gli Usa dimostrano concretamente che a dispetto delle ipotesi di un G2 con la Cina non hanno intenzione di abbandonare i loro alleati storici nel sudest asiatico solo per accattivarsi la benevolenza del nuovo presunto "partner".
L'Opa di Mousavi sul movimento "verde"
Con l'intervista apparsa sul suo sito, Kaleme.org, in occasione del 31mo anniversario dalla caduta della dinastia Pahlevi, Mousavi sembra voler lanciare un'Opa sul movimento "verde", e candidarsi a divenirne il leader. Per portarlo dove lo vedremo. Le sue parole infatti lo pongono sempre più non solo all'opposizione del presidente Ahmadinejad, suo avversario alle presidenziali del giugno scorso, ma del regime stesso, accusato di aver tradito i principi della rivoluzione che portò alla caduta della dittatura dello Scià. La rivoluzione del 1979 «ha fallito il suo obiettivo» di estirpare la dittatura in Iran. «Non credo più che la rivoluzione abbia rimosso tutte quelle strutture che possono portare alla tirannia e alla dittatura. Oggi si possono riconoscere le radici e i fattori che sono all'origine della dittatura, così come la resistenza contro un ritorno alla dittatura. Mettere a tacere i mass media, riempire le prigioni ed uccidere brutalmente gente che chiede in modo pacifico il rispetto dei propri diritti sono cose che mostrano come le radici della tirannia e della dittatura dell'epoca della monarchia esistono ancora... Non credo che la rivoluzione abbia raggiunto i suoi obiettivi». «Per preservare la libertà e la democrazia - spiega - è necessario cambiare la Costituzione».
Ricordando che Ahmadinejad definì l'estate scorsa «polvere e sterpaglia» i manifestanti scesi nelle piazze per protestare contro i risultati delle elezioni che lo vedevano rieletto, Mousavi ha ammonito che «quella interpretazione dell'Islam che definisce la gente "polvere e sterpaglia" e crea divisioni tra il popolo è influenzata dalla cultura della monarchia». L'eredità migliore, «più preziosa», delle proteste del 1979 che portarono alla rivoluzione islamica vivono oggi nell'«opposizione della gente alla menzogna, all'imbroglio e alla corruzione». Il Paese corre il rischio di essere riportato «ad un dispotismo peggiore di quello di prima della rivoluzione», perché «il dispotismo esercitato in nome della religione è il peggiore possibile». Ma «il movimento verde - assicura - non abbandonerà la sua lotta pacifica... finché i diritti del popolo non saranno rispettati».
Ricordando che Ahmadinejad definì l'estate scorsa «polvere e sterpaglia» i manifestanti scesi nelle piazze per protestare contro i risultati delle elezioni che lo vedevano rieletto, Mousavi ha ammonito che «quella interpretazione dell'Islam che definisce la gente "polvere e sterpaglia" e crea divisioni tra il popolo è influenzata dalla cultura della monarchia». L'eredità migliore, «più preziosa», delle proteste del 1979 che portarono alla rivoluzione islamica vivono oggi nell'«opposizione della gente alla menzogna, all'imbroglio e alla corruzione». Il Paese corre il rischio di essere riportato «ad un dispotismo peggiore di quello di prima della rivoluzione», perché «il dispotismo esercitato in nome della religione è il peggiore possibile». Ma «il movimento verde - assicura - non abbandonerà la sua lotta pacifica... finché i diritti del popolo non saranno rispettati».
Monday, February 01, 2010
Ennesimo delirio di onnipotenza giudiziaria
Un singolo giudice è forse un potere dello Stato, tale da potersi contrapporre nei suoi atti a una sentenza della Corte costituzionale? Può un giudice, nelle motivazioni di una sua sentenza, criticare nero su bianco il pronunciamento della Consulta al quale si è dovuto attenere per emetterla? E può, nelle motivazioni, emettere una condanna «morale» nei confronti di imputati dichiarati «non perseguibili»? O non sono forse, tutte queste, materie tutt'al più per un articolo, o per un saggio da scrivere separatamente e in un secondo tempo, ma in nessuno modo da introdurre in un atto ufficiale?
Il giudice Oscar Magi, nelle motivazioni della sentenza sul caso Abu Omar, depositate oggi, ci tiene a manifestare tutto il suo dissenso rispetto alla sentenza della Corte costituzionale che, confermando l'esistenza del segreto di Stato, lo ha «costretto» a prosciogliere l'ex direttore del Sismi Pollari e il suo vice Mancini. Non solo la critica apertamente (un «paradosso logico e giuridico di portata assoluta e preoccupante»), ma si dissocia dalla sentenza che ha emesso. Non l'avrebbe scritta, tiene a farci sapere, se avesse potuto seguire la sua coscienza. Ma la soggezione alle leggi del Parlamento è il fulcro dell'indipendenza dei giudici, dice la Costituzione (l'ha ricordato di recente il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone), e la vera indipendenza è indipendenza anche "da se stessi".
Il giudice Oscar Magi, nelle motivazioni della sentenza sul caso Abu Omar, depositate oggi, ci tiene a manifestare tutto il suo dissenso rispetto alla sentenza della Corte costituzionale che, confermando l'esistenza del segreto di Stato, lo ha «costretto» a prosciogliere l'ex direttore del Sismi Pollari e il suo vice Mancini. Non solo la critica apertamente (un «paradosso logico e giuridico di portata assoluta e preoccupante»), ma si dissocia dalla sentenza che ha emesso. Non l'avrebbe scritta, tiene a farci sapere, se avesse potuto seguire la sua coscienza. Ma la soggezione alle leggi del Parlamento è il fulcro dell'indipendenza dei giudici, dice la Costituzione (l'ha ricordato di recente il primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone), e la vera indipendenza è indipendenza anche "da se stessi".
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