Cantata da un artista d'eccezione. Guarda il video
E poi dicono che è guerrafondaio...
Friday, June 30, 2006
Movimentista o istituzionale?
Ombre e luci nella manovra bis di 8 miliardi di euro in due anni varata oggi dal Governo. Nel contesto è stato approvato un decreto legge per la concorrenza messo a punto dal ministro per lo Sviluppo Bersani. La strada intrapresa sembra quella giusta sulle liberalizzazioni. A quanto si apprende i settori interessati sarebbero le banche, gli ordini professionali, i taxi e le farmacie. Attendiamo di vedere nero su bianco se si tratta di misure concrete o di facciata.
Non ci piace, lo diciamo subito, che sarebbero stati esclusi gli ordini dei medici e dei giornalisti. Tra l'altro, per quanto riguarda l'ordine dei giornalisti, non è in gioco solo il libero mercato, ma anche la libertà d'espressione. Irresponsabile, inoltre, l'assunzione di ben 23,500 precari nella scuola pubblica. Indiscriminata, senza alcun criterio di efficienza o contesto di riforma, in contraddizione rispetto al necessario rientro della spesa pubblica. Il più puro assistenzialismo da combattere.
Questa è la Rosa nel Pugno. Nel frattempo, ecco un'iniziativa che incarna alla perfezione cosa dev'essere la Rosa nel Pugno. Come contenuti e come metodo. Capezzone ha presentato alla Camera il suo manifesto per «uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Liberalizzazioni e riforme strutturali per un'economia più liberale, quindi più giusta. La presenza di Marco Follini (Udc), Maurizio Sacconi (FI), Luigi Angeletti (Uil) indica che anche il metodo è quello "laico", pragmatico, senza pregiudiziali, che impegna su proposte concrete e non su valori astratti. Se il "clericale" Follini e il "laicista" Capezzone si ritrovano sullo stesso fronte la posta in gioco dev'essere proprio alta.
Ci viene voglia di chiedere a Villetti: trova abbastanza "sociali" le questioni affrontate? Se sì, perché non c'era nessuno dello Sdi? L'iniziativa di Capezzone è "movimentista" o "istituzionale"? Forse, più semplicemente, è politica...
Non ci piace, lo diciamo subito, che sarebbero stati esclusi gli ordini dei medici e dei giornalisti. Tra l'altro, per quanto riguarda l'ordine dei giornalisti, non è in gioco solo il libero mercato, ma anche la libertà d'espressione. Irresponsabile, inoltre, l'assunzione di ben 23,500 precari nella scuola pubblica. Indiscriminata, senza alcun criterio di efficienza o contesto di riforma, in contraddizione rispetto al necessario rientro della spesa pubblica. Il più puro assistenzialismo da combattere.
Questa è la Rosa nel Pugno. Nel frattempo, ecco un'iniziativa che incarna alla perfezione cosa dev'essere la Rosa nel Pugno. Come contenuti e come metodo. Capezzone ha presentato alla Camera il suo manifesto per «uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Liberalizzazioni e riforme strutturali per un'economia più liberale, quindi più giusta. La presenza di Marco Follini (Udc), Maurizio Sacconi (FI), Luigi Angeletti (Uil) indica che anche il metodo è quello "laico", pragmatico, senza pregiudiziali, che impegna su proposte concrete e non su valori astratti. Se il "clericale" Follini e il "laicista" Capezzone si ritrovano sullo stesso fronte la posta in gioco dev'essere proprio alta.
Ci viene voglia di chiedere a Villetti: trova abbastanza "sociali" le questioni affrontate? Se sì, perché non c'era nessuno dello Sdi? L'iniziativa di Capezzone è "movimentista" o "istituzionale"? Forse, più semplicemente, è politica...
Alibi alibi alibi
La differenza non è di "stile", ma è tra impiego e impegno
Proprio nel momento della crisi, che può essere di crescita o di fallimento, è utile lavare in piazza i propri panni, come dice Malvino.
L'impressione è che il disagio espresso da molti nella Rosa nel Pugno per la difficile convivenza di due stili politici diversi, chiamiamoli pure - ma solo per comodità - "movimentismo radicale" e "istituzionalismo socialista", sia per alcuni un problema vissuto, ma per i più un alibi dietro cui si cela o uno scetticismo o una totale non condivisione del progetto, della sua necessità e delle sue ragioni ideali.
Quanto agli stili, diciamolo chiaramente, non si può impedire al "militante" Pannella di portare avanti le sue iniziative, per altro con un discreto successo e in totale sintonia con i 31 punti su cui tutti - Sdi e Radicali - s'impegnarono a Fiuggi. Il che non impedisce altri di farne di proprie o di combattere la stessa battaglia con altri "stili". Il problema è, semmai, che dall'altro lato di iniziativa politica non ce n'è. Non c'è neanche "professionismo" politico, ma un semplice impiego, anziché un impegno politico. E ti credo che i radicali egemonizzano, se gli altri se ne stanno fermi, normalizzati nel prodismo, o in attesa del convoglio che li porti nel campo profughi del partito democratico allestito per loro dai Ds.
Dunque, gli "stili" diversi e l'"egemonia" radicale sono tutte scuse per chi il progetto Blair-Fortuna-Zapatero non lo condivide e vuole andare da un'altra parte. Allora, chi vuole andare, vada.
Mentre Villetti si dimetteva da capogruppo alla Camera, Biagio de Giovanni buttava giù una lunga lettera alla Segreteria della Rosa nel Pugno in cui c'è tutto, o quasi. Ciò che veramente occorre alla RNP è una «sintesi» capace di dare «valore decisivo all'idea centrale» del progetto e di esercitare una forza «accomunante». Gli "stili" diversi, la «pretesa subalternità alle tematiche dei radicali, al loro stile politico... alla loro visione del mondo», sono dei falsi problemi. Le diverse «attitudini» non hanno bisogno di essere «schiacciate, mediate o smussate», ma di trovare ragioni ideali e politiche per coesistere. I diversi stili non si escludono, ma possono completarsi se le battaglie a cui lavorano sono davvero condivise.
Ecco perché ciò che serve alla RNP, conclude il professor De Giovanni, è la consapevolezza della propria necessità nel panorama politico italiano e «l'intesa sui temi da sollevare, sulle loro connessioni, sulle priorità da mettere in agenda». Occorre «moltiplicare le iniziative politiche e di analisi politica». Verrà «naturale», poi, che «uomini provenienti da consolidate storie diverse facciano valere i loro comportamenti che potranno ben restare diversi». L'importante è «l'orizzonte sintetico» entro cui si inseriscono. E' «sul progetto e sul suo senso generale, che bisogna trovare l'intesa», sulla «politica da fare», le «iniziative politiche visibili da prendere».
Anche secondo De Giovanni la «delusione» per un risultato elettorale «piuttosto modesto» ha fatto nascere «scetticismi e ha dato più forza a chi del progetto non è mai stato veramente convinto». Rispetto alla «pressione esterna di molte forze (dai Ds a componenti socialiste ostili al progetto) che spingono a portare (meccanicamente, direi) pezzi della "Rosa" nell'operazione "partito democratico"», questa fa presa su quanti vedono nell'unità socialista «una forma di "normalizzazione" della crisi socialista».
Ma il progetto dell'unità socialista è «intrinsecamente subalterno al predominio diessino, e su questo deve essere assai netta la persuasione di quella parte di socialisti che ha scelto la collocazione nella "Rosa"». Il «massimo risultato ottenibile in quella prospettiva», avverte De Giovanni, è «di andare a formare l'ultimo anello di una aggregazione per ora, per di più, dai contorni assai indefiniti e ambigui, ma saldamente ancorata al predominio diessino che non si sa più da che salsa sia condito». Vorrebbe dire sancire come «dispersa l'autonomia e la capacità riflessiva di una cultura politica».
Tra le necessità contingenti della "Rosa" c'è l'«insofferenza verso un tentativo che sembra rinnovare, in condizioni completamente mutate e dunque anche con nuovi significati, il vecchio compromesso storico fra post-cattolici e post-comunisti». La RNP ha almeno un nucleo d'idee convidise, e ciò la rende «più avanti del partito democratico», ma «deve accelerare (e non rallentare) la propria costituzione, diventare un soggetto politico capace di rivendicare una propria consistente autonomia, movendo dalla quale essa può decidere se e come partecipare al dibattito sul costituendo partito. Se essa fosse colta, da quel dibattito, nell'attuale stato di debolezza e sofferenza, le diaspore interne sarebbero accelerate, l'illusione dell'unità socialista da fare dentro il nuovo partito sarebbe incoraggiata». Il risultato sarebbe la «subalternità... il rafforzamento del carattere oligarchico del sistema politico». Invece, «bisogna dare, agli interlocutori del partito democratico, un segnale definitivo».
E' quindi necessario, secondo De Giovanni, che «da un documento-base scaturisca un momento costituente all'inizio dell'autunno che si ponga per obbiettivo di "fare" il partito, di eleggere il suo gruppo dirigente, di lanciare un messaggio forte e definito al paese per smuovere le coscienze».
Proprio nel momento della crisi, che può essere di crescita o di fallimento, è utile lavare in piazza i propri panni, come dice Malvino.
L'impressione è che il disagio espresso da molti nella Rosa nel Pugno per la difficile convivenza di due stili politici diversi, chiamiamoli pure - ma solo per comodità - "movimentismo radicale" e "istituzionalismo socialista", sia per alcuni un problema vissuto, ma per i più un alibi dietro cui si cela o uno scetticismo o una totale non condivisione del progetto, della sua necessità e delle sue ragioni ideali.
Quanto agli stili, diciamolo chiaramente, non si può impedire al "militante" Pannella di portare avanti le sue iniziative, per altro con un discreto successo e in totale sintonia con i 31 punti su cui tutti - Sdi e Radicali - s'impegnarono a Fiuggi. Il che non impedisce altri di farne di proprie o di combattere la stessa battaglia con altri "stili". Il problema è, semmai, che dall'altro lato di iniziativa politica non ce n'è. Non c'è neanche "professionismo" politico, ma un semplice impiego, anziché un impegno politico. E ti credo che i radicali egemonizzano, se gli altri se ne stanno fermi, normalizzati nel prodismo, o in attesa del convoglio che li porti nel campo profughi del partito democratico allestito per loro dai Ds.
Dunque, gli "stili" diversi e l'"egemonia" radicale sono tutte scuse per chi il progetto Blair-Fortuna-Zapatero non lo condivide e vuole andare da un'altra parte. Allora, chi vuole andare, vada.
Mentre Villetti si dimetteva da capogruppo alla Camera, Biagio de Giovanni buttava giù una lunga lettera alla Segreteria della Rosa nel Pugno in cui c'è tutto, o quasi. Ciò che veramente occorre alla RNP è una «sintesi» capace di dare «valore decisivo all'idea centrale» del progetto e di esercitare una forza «accomunante». Gli "stili" diversi, la «pretesa subalternità alle tematiche dei radicali, al loro stile politico... alla loro visione del mondo», sono dei falsi problemi. Le diverse «attitudini» non hanno bisogno di essere «schiacciate, mediate o smussate», ma di trovare ragioni ideali e politiche per coesistere. I diversi stili non si escludono, ma possono completarsi se le battaglie a cui lavorano sono davvero condivise.
Ecco perché ciò che serve alla RNP, conclude il professor De Giovanni, è la consapevolezza della propria necessità nel panorama politico italiano e «l'intesa sui temi da sollevare, sulle loro connessioni, sulle priorità da mettere in agenda». Occorre «moltiplicare le iniziative politiche e di analisi politica». Verrà «naturale», poi, che «uomini provenienti da consolidate storie diverse facciano valere i loro comportamenti che potranno ben restare diversi». L'importante è «l'orizzonte sintetico» entro cui si inseriscono. E' «sul progetto e sul suo senso generale, che bisogna trovare l'intesa», sulla «politica da fare», le «iniziative politiche visibili da prendere».
Anche secondo De Giovanni la «delusione» per un risultato elettorale «piuttosto modesto» ha fatto nascere «scetticismi e ha dato più forza a chi del progetto non è mai stato veramente convinto». Rispetto alla «pressione esterna di molte forze (dai Ds a componenti socialiste ostili al progetto) che spingono a portare (meccanicamente, direi) pezzi della "Rosa" nell'operazione "partito democratico"», questa fa presa su quanti vedono nell'unità socialista «una forma di "normalizzazione" della crisi socialista».
Ma il progetto dell'unità socialista è «intrinsecamente subalterno al predominio diessino, e su questo deve essere assai netta la persuasione di quella parte di socialisti che ha scelto la collocazione nella "Rosa"». Il «massimo risultato ottenibile in quella prospettiva», avverte De Giovanni, è «di andare a formare l'ultimo anello di una aggregazione per ora, per di più, dai contorni assai indefiniti e ambigui, ma saldamente ancorata al predominio diessino che non si sa più da che salsa sia condito». Vorrebbe dire sancire come «dispersa l'autonomia e la capacità riflessiva di una cultura politica».
Tra le necessità contingenti della "Rosa" c'è l'«insofferenza verso un tentativo che sembra rinnovare, in condizioni completamente mutate e dunque anche con nuovi significati, il vecchio compromesso storico fra post-cattolici e post-comunisti». La RNP ha almeno un nucleo d'idee convidise, e ciò la rende «più avanti del partito democratico», ma «deve accelerare (e non rallentare) la propria costituzione, diventare un soggetto politico capace di rivendicare una propria consistente autonomia, movendo dalla quale essa può decidere se e come partecipare al dibattito sul costituendo partito. Se essa fosse colta, da quel dibattito, nell'attuale stato di debolezza e sofferenza, le diaspore interne sarebbero accelerate, l'illusione dell'unità socialista da fare dentro il nuovo partito sarebbe incoraggiata». Il risultato sarebbe la «subalternità... il rafforzamento del carattere oligarchico del sistema politico». Invece, «bisogna dare, agli interlocutori del partito democratico, un segnale definitivo».
E' quindi necessario, secondo De Giovanni, che «da un documento-base scaturisca un momento costituente all'inizio dell'autunno che si ponga per obbiettivo di "fare" il partito, di eleggere il suo gruppo dirigente, di lanciare un messaggio forte e definito al paese per smuovere le coscienze».
Thursday, June 29, 2006
Separati in Camera
«Ho rassegnato le mie dimissioni da presidente del Gruppo parlamentare della Rosa nel Pugno a Montecitorio poiché per ragioni politiche si è determinata una paralisi persino nell'attività ordinaria del gruppo. Non mi nascondo che questo stato di cose deriva da una crisi della Rosa nel Pugno che, purtroppo, da latente è diventata evidente».
Roberto Villetti (Sdi), al termine di una riunione dei deputati (Ansa, 17,53).
Da tempo l'impressione è che proprio a livello della quotidiana attività parlamentare vi fossero due gruppi separati. E, si badi, non è questione di "stili" diversi, ma di dove si vuole andare. Occorre avere chiari la natura, gli obiettivi e i contenuti ideali del progetto, altrimenti ci si prende in giro.
Roberto Villetti (Sdi), al termine di una riunione dei deputati (Ansa, 17,53).
Da tempo l'impressione è che proprio a livello della quotidiana attività parlamentare vi fossero due gruppi separati. E, si badi, non è questione di "stili" diversi, ma di dove si vuole andare. Occorre avere chiari la natura, gli obiettivi e i contenuti ideali del progetto, altrimenti ci si prende in giro.
Lei pensi a San Gennaro!
Quando ho postato questo commento da Malvino non pensavo che intorno a quel suo tutto sommato banale post (una riga: «Pietro e Paolo – Goering e Goebbels») si scatenasse una simile polemica e una caterva di insulti. La cosa più spontanea che mi è venuta è stata di buttarla sul Roma-Napoli. Appunto, «lei pensi a San Gennaro!».
Insomma, Malvino ne ha fatta un'altra delle sue e adesso si starà divertendo a fare il ritratto psico-antropologico degli autori di tutti quei commenti. E' fatto così. A volte gli piace calamitare insulti. Credo che però in fondo si rammarichi che altri suoi post, ben più importanti e, diciamo, fondati di questo, nessuno si prenda la briga di commentarli e di mostrarvi interesse. Ma guarda un po', la gente che si sofferma sullo sputo, sulla cagatina!
Permettete che vi dica una cosa. Malvino è così. E' uno che scrive cose geniali in modo sublime, ma che sul suo "muro" si prende la libertà di scrivere col pennarello rosso "tettecazzoculoporcoddi..." eccetera eccetera. Non lo so, è il caso di commentare?
A volerlo spiegare, il graffito, non regge più.
Insomma, Malvino ne ha fatta un'altra delle sue e adesso si starà divertendo a fare il ritratto psico-antropologico degli autori di tutti quei commenti. E' fatto così. A volte gli piace calamitare insulti. Credo che però in fondo si rammarichi che altri suoi post, ben più importanti e, diciamo, fondati di questo, nessuno si prenda la briga di commentarli e di mostrarvi interesse. Ma guarda un po', la gente che si sofferma sullo sputo, sulla cagatina!
Permettete che vi dica una cosa. Malvino è così. E' uno che scrive cose geniali in modo sublime, ma che sul suo "muro" si prende la libertà di scrivere col pennarello rosso "tettecazzoculoporcoddi..." eccetera eccetera. Non lo so, è il caso di commentare?
A volerlo spiegare, il graffito, non regge più.
Etica del limite, ma il limite non sia etico
Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, innanzitutto rigetto l'idea dei «due fondamentalismi» contrapposti. Da una parte, infatti, vedo i proibizionisti, dall'altra chi ritiene che le crescite di libertà debbano essere regolamentate. Dunque, la scelta è tra divieti e regole. Rigetto anche l'«etica del limite». La natura, soprattutto quella umana, non è mai stata immutabile. Di fronte a ogni progresso, scientifico o sociale, qualcuno è sempre prodigo di moniti a "non lasciare la strada vecchia per la nuova". C'è sempre un ordine millenario e "naturale" minacciato dal caos. Sul luogo comune della «naturalità della natura» rimando alle riflessioni di Ocone su il Riformista. L'uomo non è, forse, parte della natura? Non è, quindi, "naturale" ciò che egli fa? Come può dirsi «contro natura» l'omosessualità, per esempio? Quando usiamo dire che qualcosa non è "naturale", volendo in questo modo bandirla, intendiamo in realtà che non è "giusta", applichiamo una categoria del naturale che risponde alla cultura di un'epoca e di un ambiente sociale ben definiti. «Non tutto ciò che tecnicamente può essere fatto è eticamente desiderabile», è «bene» farlo. Ma le categorie del desiderabile e del bene appartengono al legislatore, o alla speculazione dei filosofi e degli scienziati nel libero mercato delle teorie? La ricerca di una cura può fermarsi di fronte a ciò che Habermas, o chiunque altro, trova «osceno»? Comune senso del pudore, disagio intellettuale, paura dell'ignoto. Sono questi i limiti che la scienza non può varcare? Quale limite portarci dietro, dunque? Non sia etico, ma quello liberale del rispetto della libertà dei cittadini. Altrimenti, il rischio è di trovarci di fronte a delle nuove Colonne d'Ercole. Vivere sotto un velo d'ignoranza può sembrare più semplice, ma l'uomo, dovremmo averlo imparato, proprio non ci riesce, e nessuno vuole nuovi casi Galilei.
Caro direttore, innanzitutto rigetto l'idea dei «due fondamentalismi» contrapposti. Da una parte, infatti, vedo i proibizionisti, dall'altra chi ritiene che le crescite di libertà debbano essere regolamentate. Dunque, la scelta è tra divieti e regole. Rigetto anche l'«etica del limite». La natura, soprattutto quella umana, non è mai stata immutabile. Di fronte a ogni progresso, scientifico o sociale, qualcuno è sempre prodigo di moniti a "non lasciare la strada vecchia per la nuova". C'è sempre un ordine millenario e "naturale" minacciato dal caos. Sul luogo comune della «naturalità della natura» rimando alle riflessioni di Ocone su il Riformista. L'uomo non è, forse, parte della natura? Non è, quindi, "naturale" ciò che egli fa? Come può dirsi «contro natura» l'omosessualità, per esempio? Quando usiamo dire che qualcosa non è "naturale", volendo in questo modo bandirla, intendiamo in realtà che non è "giusta", applichiamo una categoria del naturale che risponde alla cultura di un'epoca e di un ambiente sociale ben definiti. «Non tutto ciò che tecnicamente può essere fatto è eticamente desiderabile», è «bene» farlo. Ma le categorie del desiderabile e del bene appartengono al legislatore, o alla speculazione dei filosofi e degli scienziati nel libero mercato delle teorie? La ricerca di una cura può fermarsi di fronte a ciò che Habermas, o chiunque altro, trova «osceno»? Comune senso del pudore, disagio intellettuale, paura dell'ignoto. Sono questi i limiti che la scienza non può varcare? Quale limite portarci dietro, dunque? Non sia etico, ma quello liberale del rispetto della libertà dei cittadini. Altrimenti, il rischio è di trovarci di fronte a delle nuove Colonne d'Ercole. Vivere sotto un velo d'ignoranza può sembrare più semplice, ma l'uomo, dovremmo averlo imparato, proprio non ci riesce, e nessuno vuole nuovi casi Galilei.
Wednesday, June 28, 2006
Solidarietà al senatore Malan
Come si è conclusa la vicenda è la conferma che si è trattato di un colpo di mano
Spieghiamo in breve cosa è accaduto oggi al Senato, che mi pare cosa da non poco conto. Subito dopo il voto di fiducia al decreto legge «milleproroghe», approvato con 160 voti a favore su 161 presenti (l'opposizione è uscita dall'aula), Marini ha dato la parola al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, per l'annuncio della seconda richiesta di fiducia, sul decreto legge «spacchettamento ministeri». Apparentemente un decreto tecnico, si dirà, ma in realtà sommamente politico, perché rappresenta l'atto costitutivo del governo, che sancisce i delicatissimi accordi tra i partiti sulla composizione della squadra di governo. Insomma, se non passa, ricomincia il valzer di poltrone e poltroncine.
Già ieri la CdL aveva chiesto di discutere, prima della fiducia, le questioni pregiudiziali di costituzionalità sul decreto. Sulle pregiudiziali non si pone la fiducia, quindi il voto è meno "blindato". Senza prima discutere e votare le pregiudiziali non può esserci il voto di fiducia. Richiesta però negata. Stamani, la nuova richiesta, ma il presidente del Senato, Marini dà invece subito la parola al ministro Chiti, che pone la fiducia (dal resoconto stenografico - qui il video).
Ci troviamo ben oltre la solita polemica sull'eccessivo uso dello strumento della fiducia (già due volte), accusa che le due coalizioni si rimpallano. Si tratta di un'ulteriore restrizione, contro il regolamento, del dibattito parlamentare.
Si legge all'art. 93 del regolamento del Senato: «La questione pregiudiziale, cioè che un dato argomento non debba discutersi, e la questione sospensiva, cioè che la discussione o deliberazione debba rinviarsi, possono essere proposte da un Senatore prima che abbia inizio la discussione... La questione pregiudiziale e quella sospensiva hanno carattere incidentale e la discussione non può proseguire se non dopo che il Senato si sia pronunziato su di esse».
Il senatore Lucio Malan (FI) protesta e viene espulso, ma si rifiuta di lasciare l'aula e la "occupa" per otto ore.
Finalmente, in serata, la situazione si sblocca e il compromesso dimostra che si è trattato di un vero e proprio colpo di mano.
L'aula del Senato verrà riconvocata martedì prossimo. La CdL accetta che in questo caso eccezionale venga votata la fiducia senza pregiudiziali, ma viene riaffermato che l'opposizione «avrà sempre la possibilità di votare prima le pregiudiziali» qualora verrà messa la fiducia ad un decreto. Detto in altri termini, la presidenza e la maggioranza promettono che l'eccezione non si ripeterà. Resta, quindi, quella di oggi, una ferita gravissima.
Insomma, il senatore Malan aveva ragione.
Spieghiamo in breve cosa è accaduto oggi al Senato, che mi pare cosa da non poco conto. Subito dopo il voto di fiducia al decreto legge «milleproroghe», approvato con 160 voti a favore su 161 presenti (l'opposizione è uscita dall'aula), Marini ha dato la parola al ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti, per l'annuncio della seconda richiesta di fiducia, sul decreto legge «spacchettamento ministeri». Apparentemente un decreto tecnico, si dirà, ma in realtà sommamente politico, perché rappresenta l'atto costitutivo del governo, che sancisce i delicatissimi accordi tra i partiti sulla composizione della squadra di governo. Insomma, se non passa, ricomincia il valzer di poltrone e poltroncine.
Già ieri la CdL aveva chiesto di discutere, prima della fiducia, le questioni pregiudiziali di costituzionalità sul decreto. Sulle pregiudiziali non si pone la fiducia, quindi il voto è meno "blindato". Senza prima discutere e votare le pregiudiziali non può esserci il voto di fiducia. Richiesta però negata. Stamani, la nuova richiesta, ma il presidente del Senato, Marini dà invece subito la parola al ministro Chiti, che pone la fiducia (dal resoconto stenografico - qui il video).
Ci troviamo ben oltre la solita polemica sull'eccessivo uso dello strumento della fiducia (già due volte), accusa che le due coalizioni si rimpallano. Si tratta di un'ulteriore restrizione, contro il regolamento, del dibattito parlamentare.
Si legge all'art. 93 del regolamento del Senato: «La questione pregiudiziale, cioè che un dato argomento non debba discutersi, e la questione sospensiva, cioè che la discussione o deliberazione debba rinviarsi, possono essere proposte da un Senatore prima che abbia inizio la discussione... La questione pregiudiziale e quella sospensiva hanno carattere incidentale e la discussione non può proseguire se non dopo che il Senato si sia pronunziato su di esse».
Il senatore Lucio Malan (FI) protesta e viene espulso, ma si rifiuta di lasciare l'aula e la "occupa" per otto ore.
Finalmente, in serata, la situazione si sblocca e il compromesso dimostra che si è trattato di un vero e proprio colpo di mano.
L'aula del Senato verrà riconvocata martedì prossimo. La CdL accetta che in questo caso eccezionale venga votata la fiducia senza pregiudiziali, ma viene riaffermato che l'opposizione «avrà sempre la possibilità di votare prima le pregiudiziali» qualora verrà messa la fiducia ad un decreto. Detto in altri termini, la presidenza e la maggioranza promettono che l'eccezione non si ripeterà. Resta, quindi, quella di oggi, una ferita gravissima.
Insomma, il senatore Malan aveva ragione.
Per salvare gli iracheni, prima che Saddam
Non vi è dubbio che vi siano motivi di opportunità e di giustizia perché Saddam Hussein non debba essere messo a morte, come richiesto dall'accusa nel processo contro l'ex dittatore e altri gerarchi che si sta tenendo a Baghdad. Il 10 luglio la parola alla difesa, mentre per settembre è prevista la sentenza. Pannella ha avanzato una richiesta ufficiale al Parlamento affinché gli venga affidato l'«incarico straordinario» di salvare Saddam dal patibolo.
Ciò che mostra di non aver compreso Magdi Allam, nella sua risposta a Pannella, quando scrive che da Baghdad verrebbe invitato «a occuparsi della vita dei milioni di iracheni che vogliono affrancarsi da Saddam e dal terrorismo, prima di preoccuparsi della morte del loro carnefice», è che prima che salvare Saddam stesso, lo scopo dichiarato di Pannella è salvare la vita alla neonata civiltà giuridica irachena.
L'esecuzione di Saddam vorrebbe dire perpetuare l'immagine di una giustizia violenta e vendicativa di cui gli iracheni e il Medio Oriente non hanno bisogno. L'idea di uno stato che dispone della vita e della morte dei suoi cittadini. Ciò indebolirebbe l'alternativa liberale, democratica, e laica che ci stiamo sforzando di promuovere in quelle regioni.
Tra l'altro, non regge il paragone con Hitler e Mussolini. Un conto è il valore politico e simbolico della morte di un dittatore nell'ora della sconfitta, o per mano dell'ira vendicativa del suo popolo, seppure non giustificabile, come atto conclusivo di una guerra. Altra cosa è la sua uccisione a freddo, come atto conclusivo di un procedimento giudiziario. Sono ancora fiducioso che, forse, un passetto avanti rispetto a Norimberga si farà.
Dove invece trovo che Magdi Allam abbia ragione è che gli iracheni non sarebbero, e comprensibilmente, disposti ad ascoltare i consigli di Pannella se si presentasse come l'incaricato di un paese che ha gli voltato le spalle, che del futuro dell'Iraq e degli iracheni ha dimostrato di volersene fregare. Anzi, di considerarli «vittime sacrificali imposti dalla necessità di tenere unita l'eterogenea coalizione di centrosinistra».
L'iniziativa avrà qualche possibilità di ricevere ascolto e suscitare interesse presso gli iracheni solo se apparirà sganciata da ambienti governativi.
Ciò che mostra di non aver compreso Magdi Allam, nella sua risposta a Pannella, quando scrive che da Baghdad verrebbe invitato «a occuparsi della vita dei milioni di iracheni che vogliono affrancarsi da Saddam e dal terrorismo, prima di preoccuparsi della morte del loro carnefice», è che prima che salvare Saddam stesso, lo scopo dichiarato di Pannella è salvare la vita alla neonata civiltà giuridica irachena.
L'esecuzione di Saddam vorrebbe dire perpetuare l'immagine di una giustizia violenta e vendicativa di cui gli iracheni e il Medio Oriente non hanno bisogno. L'idea di uno stato che dispone della vita e della morte dei suoi cittadini. Ciò indebolirebbe l'alternativa liberale, democratica, e laica che ci stiamo sforzando di promuovere in quelle regioni.
Tra l'altro, non regge il paragone con Hitler e Mussolini. Un conto è il valore politico e simbolico della morte di un dittatore nell'ora della sconfitta, o per mano dell'ira vendicativa del suo popolo, seppure non giustificabile, come atto conclusivo di una guerra. Altra cosa è la sua uccisione a freddo, come atto conclusivo di un procedimento giudiziario. Sono ancora fiducioso che, forse, un passetto avanti rispetto a Norimberga si farà.
Dove invece trovo che Magdi Allam abbia ragione è che gli iracheni non sarebbero, e comprensibilmente, disposti ad ascoltare i consigli di Pannella se si presentasse come l'incaricato di un paese che ha gli voltato le spalle, che del futuro dell'Iraq e degli iracheni ha dimostrato di volersene fregare. Anzi, di considerarli «vittime sacrificali imposti dalla necessità di tenere unita l'eterogenea coalizione di centrosinistra».
L'iniziativa avrà qualche possibilità di ricevere ascolto e suscitare interesse presso gli iracheni solo se apparirà sganciata da ambienti governativi.
Come stanno le cose tra Sdi e Radicali
Non è un radicale a raccontarlo, ma un socialista storico, Alberto Benzoni, su il Riformista. Abbiamo detto più o meno le stesse cose, in queste settimane, ma meglio di così non potevano essere dette. Un articolo al vetriolo che fa giustizia dell'intervento, precedente, di Cesare Marini e risponde anche a Turci, che un po' per terzismo un po' per buona volontà, distribuiva le colpe per la situazione di impasse a destra e a manca.
«Abbiamo, così, il "compagno di base" per il quale il Radicale è intrinsecamente un deviato (succede, così si dice, a chi si occupa costantemente di carcerati e mignotte, transessuali e drogati vari); e, per giunta, un "elitario" (?). E, nella pulsione razzista, ecco, sull'altro versante, il Socialista nella veste dell'assessore, tendenzialmente votato all'intrallazzo e sordo, comunque, ad ogni causa che ne trascenda gli interessi personali».
Nulla impediva ai socialisti di occuparsi dei problemi che, secondo loro, interessano la gente (casa, lavoro, Mezzogiorno), «se non il dubbio (atroce quanto fondato) - ipotizza maliziosamente Benzoni - di non avere nulla di serio o di concreto da dire. E' inutile, infine, attenzione, domandare ai contestatori quali politiche alternative propongano. I più sprovveduti biascicheranno di "unità socialista" (guardandosi però dal fare nomi); gli altri si limiteranno a rivendicare, nel politichese più puro, l'esigenza di "uscire dall'isolamento" e di "aprire il dialogo con il partito democratico" (guardandosi però bene dal l'entrare nello specifico)».
«Diciamo la verità», conclude implacabilmente Benzoni, «Per anni, per decenni, abbiamo dormito. Nessun impegno politico forte per questa o quella causa. Nessun contatto vero con il mondo esterno... Un lungo sonno. In un organismo oggettivamente debilitato. In cui la questione socialista tendeva sempre più a trasformarsi nella questione dei socialisti; della loro collocazione o, più esattamente, del loro collocamento».
«Abbiamo, così, il "compagno di base" per il quale il Radicale è intrinsecamente un deviato (succede, così si dice, a chi si occupa costantemente di carcerati e mignotte, transessuali e drogati vari); e, per giunta, un "elitario" (?). E, nella pulsione razzista, ecco, sull'altro versante, il Socialista nella veste dell'assessore, tendenzialmente votato all'intrallazzo e sordo, comunque, ad ogni causa che ne trascenda gli interessi personali».
Nulla impediva ai socialisti di occuparsi dei problemi che, secondo loro, interessano la gente (casa, lavoro, Mezzogiorno), «se non il dubbio (atroce quanto fondato) - ipotizza maliziosamente Benzoni - di non avere nulla di serio o di concreto da dire. E' inutile, infine, attenzione, domandare ai contestatori quali politiche alternative propongano. I più sprovveduti biascicheranno di "unità socialista" (guardandosi però dal fare nomi); gli altri si limiteranno a rivendicare, nel politichese più puro, l'esigenza di "uscire dall'isolamento" e di "aprire il dialogo con il partito democratico" (guardandosi però bene dal l'entrare nello specifico)».
«Diciamo la verità», conclude implacabilmente Benzoni, «Per anni, per decenni, abbiamo dormito. Nessun impegno politico forte per questa o quella causa. Nessun contatto vero con il mondo esterno... Un lungo sonno. In un organismo oggettivamente debilitato. In cui la questione socialista tendeva sempre più a trasformarsi nella questione dei socialisti; della loro collocazione o, più esattamente, del loro collocamento».
E' l'ora del liberalsocialismo. O mai più
E' on line il nuovo numero, il V, di LibMagazine. Questa settimana ampio dibattito sulle prospettive della Rosa nel Pugno. Vi segnalo il mio contributo: «E' l'ora del liberalsocialismo. O mai più».
La Rosa nel Pugno... potrà giocare un ruolo se avrà l'ambizione di rappresentare il motore di una profonda Riforma liberale della sinistra. Se saprà sfidare con una proposta alternativa, sia per quanto riguarda la forma-partito, sia per i contenuti politici, la mera riedizione del compromesso storico cattocomunista – i cui elementi di conservazione sarebbero letali per il nostro paese – che sembra prendere corpo tra Ds e Margherita; e se saprà forgiare la propria identità nella contrapposizione – che Pannella ha definito «salutare e necessaria» - alla sinistra neocomunista, il cui segno storico-politico è addirittura reazionario.
P.S. Salutiamo l'esordio "realista" di Andrea Gilli, a cui occorrerà porre rimedio. Lo faremo nei prossimi giorni, o sul prossimo numero.
La Rosa nel Pugno... potrà giocare un ruolo se avrà l'ambizione di rappresentare il motore di una profonda Riforma liberale della sinistra. Se saprà sfidare con una proposta alternativa, sia per quanto riguarda la forma-partito, sia per i contenuti politici, la mera riedizione del compromesso storico cattocomunista – i cui elementi di conservazione sarebbero letali per il nostro paese – che sembra prendere corpo tra Ds e Margherita; e se saprà forgiare la propria identità nella contrapposizione – che Pannella ha definito «salutare e necessaria» - alla sinistra neocomunista, il cui segno storico-politico è addirittura reazionario.
P.S. Salutiamo l'esordio "realista" di Andrea Gilli, a cui occorrerà porre rimedio. Lo faremo nei prossimi giorni, o sul prossimo numero.
Tuesday, June 27, 2006
Quel maledetto pezzo di carta
... e tutta la «volgarità» di cui è capace Sartori
All'incasso del 61% e rotti di "no" alla riforma costituzionale della CdL tentano di passare in molti ma di riformatori se ne vedono pochi. Qualche riformista con idee vaghe - e qualcuna deleteria - di riforma. La mia idea sul voto di domenica l'avevo già espressa. Sono ancora convinto che qualsiasi esito non avrebbe reso più vicina, né più lontana, la prospettiva che mi sta a cuore, quella di una riforma "americana" delle istituzioni. Presidenzialista, federalista, bipartitica. Riporre in soffitta il vecchio arnese della "fiducia" tra due poteri - legislativo ed esecutivo - che dovrebbero rimanere separati, ciascuno con la sua legittimazione popolare, e una legge elettorale uninominale ad un turno mi sembrano le cose essenziali.
E mi sembra che nessuno si azzardi a dare forma e forza a un progetto di riforma organico che sia alternativo. I radicali ne hanno uno, appunto quello americano, anglosassone, ma forse l'alleanza con lo Sdi li rende timidi nel riproporlo e mi è apparsa tardiva la presa di posizione di Pannella a coprire la falla.
Insomma, prospettive riformatrici languono. Il mito delle riforme «condivise» non mi convince. Anzi, mi spaventa. Soprattutto se a "condividerle" sono spezzoni di oligarchie partitocratiche. Ci vorrebbe un vasto fronte riformatore che partisse dal basso, interno e trasversale ai partiti e alle coalizioni, che decidesse di agire per via referendaria sul sistema elettorale. Sarebbe una bella spallata, da cui ripartire.
A quanto pare questa dannata carta costituzionale vecchia di sessant'anni siamo destinati a tenercela. Vorrei vedere stravolti la forma di governo e il sistema politico, "cancellata" la prima parte. Una costituzione liberale regola le funzioni, i limiti, i meccanismi di formazione delle istituzioni democratiche, la separazione dei poteri. Farò arrabbiare coloro secondo i quali la democrazia dev'essere riempita di «senso», ma ritengo che una costituzione sia uno strumento tecnico, che serva solo a tracciare il quadro formale, l'architettura istituzionale di una democrazia. E se il congegno che ne esce non è democratico, allora non si chiamerà neanche costituzione. Può essere accompagnata da una carta dei diritti, che però non siano vuoti enunciati, ma precise disposizioni dei limiti all'azione del governo sulle libertà dei cittadini.
Mi ritrovo nella radicalità dell'approccio di Piero Ostellino, che ritiene la nostra una costituzione «né liberale né sovietica», ma solo «paradossale», proprio nella prima parte. Una «finzione retorica, nella migliore delle ipotesi; una vecchia ipoteca sulle nostre libertà, nella peggiore», per convincere alcuni italiani di trovarsi in uno Stato liberale e altri in uno Stato socialista. Il risultato è «un ibrido fra i principi del costituzionalismo liberale e i programmi del costruttivismo sociale della Costituzione sovietica del 1936... Ma una Costituzione che non pone al centro dello Stato l'Individuo, bensì la Collettività, non è una Costituzione liberale».
Sacrificate le libertà "formali", borghesi, ad essere solo un mezzo, non il fine, e comunque subordinate a quelle "sostanziali", collettive. Una costituzione che poteva piacere a Dossetti, o a Togliatti, ma per esempio non a Gaetano Salvemini, che la definì «la più scema che mai sia stata prodotta dai cretini in tutta la storia dell'umanità».
«Se davvero fosse serio che il voto si allineasse al parere degli esperti, tanto varrebbe abolire il referendum». Il Parlamento, le elezioni... insomma, la democrazia. «E' incredibile - sbotta Adinolfi - che la difesa dei valori costituzionali sia affidata dal Corriere a un articolo così volgare... Difficile - insiste - trovare uno scienziato dalla politica che abbia un'opinione così volgare (ripeto: volgare) dell'agire politico e delle sue forme democratiche d'espressione».
Semplicemente, il più diffuso quotidiano del nostro paese ha dato spazio in prima pagina a una posizione tecnicamente anti-democratica, inneggiante a una platoniana Repubblica dei tecnici, dei saggi, a una democrazia sotto tutela. D'altra parte, votando c'è sempre il rischio che il gregge non ascolti il parere degli esperti, siano essi vescovi o insigni costituzionalisti.
All'incasso del 61% e rotti di "no" alla riforma costituzionale della CdL tentano di passare in molti ma di riformatori se ne vedono pochi. Qualche riformista con idee vaghe - e qualcuna deleteria - di riforma. La mia idea sul voto di domenica l'avevo già espressa. Sono ancora convinto che qualsiasi esito non avrebbe reso più vicina, né più lontana, la prospettiva che mi sta a cuore, quella di una riforma "americana" delle istituzioni. Presidenzialista, federalista, bipartitica. Riporre in soffitta il vecchio arnese della "fiducia" tra due poteri - legislativo ed esecutivo - che dovrebbero rimanere separati, ciascuno con la sua legittimazione popolare, e una legge elettorale uninominale ad un turno mi sembrano le cose essenziali.
E mi sembra che nessuno si azzardi a dare forma e forza a un progetto di riforma organico che sia alternativo. I radicali ne hanno uno, appunto quello americano, anglosassone, ma forse l'alleanza con lo Sdi li rende timidi nel riproporlo e mi è apparsa tardiva la presa di posizione di Pannella a coprire la falla.
Insomma, prospettive riformatrici languono. Il mito delle riforme «condivise» non mi convince. Anzi, mi spaventa. Soprattutto se a "condividerle" sono spezzoni di oligarchie partitocratiche. Ci vorrebbe un vasto fronte riformatore che partisse dal basso, interno e trasversale ai partiti e alle coalizioni, che decidesse di agire per via referendaria sul sistema elettorale. Sarebbe una bella spallata, da cui ripartire.
A quanto pare questa dannata carta costituzionale vecchia di sessant'anni siamo destinati a tenercela. Vorrei vedere stravolti la forma di governo e il sistema politico, "cancellata" la prima parte. Una costituzione liberale regola le funzioni, i limiti, i meccanismi di formazione delle istituzioni democratiche, la separazione dei poteri. Farò arrabbiare coloro secondo i quali la democrazia dev'essere riempita di «senso», ma ritengo che una costituzione sia uno strumento tecnico, che serva solo a tracciare il quadro formale, l'architettura istituzionale di una democrazia. E se il congegno che ne esce non è democratico, allora non si chiamerà neanche costituzione. Può essere accompagnata da una carta dei diritti, che però non siano vuoti enunciati, ma precise disposizioni dei limiti all'azione del governo sulle libertà dei cittadini.
Mi ritrovo nella radicalità dell'approccio di Piero Ostellino, che ritiene la nostra una costituzione «né liberale né sovietica», ma solo «paradossale», proprio nella prima parte. Una «finzione retorica, nella migliore delle ipotesi; una vecchia ipoteca sulle nostre libertà, nella peggiore», per convincere alcuni italiani di trovarsi in uno Stato liberale e altri in uno Stato socialista. Il risultato è «un ibrido fra i principi del costituzionalismo liberale e i programmi del costruttivismo sociale della Costituzione sovietica del 1936... Ma una Costituzione che non pone al centro dello Stato l'Individuo, bensì la Collettività, non è una Costituzione liberale».
Sacrificate le libertà "formali", borghesi, ad essere solo un mezzo, non il fine, e comunque subordinate a quelle "sostanziali", collettive. Una costituzione che poteva piacere a Dossetti, o a Togliatti, ma per esempio non a Gaetano Salvemini, che la definì «la più scema che mai sia stata prodotta dai cretini in tutta la storia dell'umanità».
«Ti par poco farsi un'idea di quell'Himalaya di somaraggini? Un'assenza così totale di senso giuridico non si è mai vista in nessun paese del mondo... i soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile di emendare, o prima o poi, quel mostro di bestialità... Non c'è nulla da fare. Bisogna lasciare che la barca vada a mare come può, e bisogna mettersi a costruire un'altra barca». Gli italiani «meritavano di meglio che un'Assemblea costituente formata in gran maggioranza da somari, scelti non dagli elettori ma dalle camorre centrali dei partiti così detti di massa. Meritavano di meglio che quel polpettone incoerente che sarà la Costituzione italiana».Non ci è sfuggito, sabato scorso, l'editoriale di Giovanni Sartori sul Corriere della Sera. «Un solo Sì o un solo No per decidere su decine e decine di questioni»? Per Sartori «un'assurdità».
«Che fare? Secondo me, dovremmo fare come facciamo sempre in casi analoghi. Ci sentiamo male? Siamo malati? Andiamo da un dottore e ci rimettiamo a lui. Abbiamo una grana legale? Andiamo da un avvocato che la gestisce per noi. Non sappiamo come investire i nostri soldi? Chiediamo a un consulente finanziario. Alla stessa stregua, se uno non sa se la nuova Costituzione sia buona o cattiva, allora una persona di buon senso chiede lumi ai costituzionalisti, a chi ne sa... un Paese serio dovrebbe ascoltare i propri esperti. Se gli esperti dicono No, dovrebbe votare No».Ci associamo a Massimo Adinolfi (Azioneparallela), che in un brillante commento su Leftwing - settimanale on line di sinistra che ha intitolato il proprio numero in polemica proprio con Sartori («La repubblica degli intenditori») - ha trovato l'aggettivo corretto per l'editoriale del professore "so tutto io": «Volgare».
«Se davvero fosse serio che il voto si allineasse al parere degli esperti, tanto varrebbe abolire il referendum». Il Parlamento, le elezioni... insomma, la democrazia. «E' incredibile - sbotta Adinolfi - che la difesa dei valori costituzionali sia affidata dal Corriere a un articolo così volgare... Difficile - insiste - trovare uno scienziato dalla politica che abbia un'opinione così volgare (ripeto: volgare) dell'agire politico e delle sue forme democratiche d'espressione».
Semplicemente, il più diffuso quotidiano del nostro paese ha dato spazio in prima pagina a una posizione tecnicamente anti-democratica, inneggiante a una platoniana Repubblica dei tecnici, dei saggi, a una democrazia sotto tutela. D'altra parte, votando c'è sempre il rischio che il gregge non ascolti il parere degli esperti, siano essi vescovi o insigni costituzionalisti.
Totalitarismo d'importazione
Perché non la democrazia?
In un'intervista concessa a Flemming Rose, il giornalista danese che qualche tempo fa osò pubblicare sul suo giornale, il Jyllands-Posten, delle vignette satiriche su Maometto, e ripresa da La Stampa, il grande storico dell'Islam Bernard Lewis ripropone molte delle sue recenti considerazioni, di cui avevamo già parlato qui (la cosiddetta "Dottrina Lewis") e qui (la democrazia "esportabile" al di fuori dell'occidente, quindi anche in Medio Oriente).
Alcune delle tesi esposte: il terrorismo islamista non fa parte della tradizione islamica, è «una distorsione della dottrina dell'Islam»; il Medio Oriente ha "importato" dall'Europa le dittature e le ideologie totalitarie del '900 e reagisce all'invadenza dei valori occidentali con una versione «particolarmente violenta e fanatica dell'Islam»; l'Islam «non ha mai avuto una Riforma o un Illuminismo»; la centralità dell'attuale condizione della donna islamica come «ostacolo al processo di modernizzazione»; che l'Europa sia «entrata a far parte del mondo islamico» o sia «avviata irrevocabilmente a questo destino» sarebbe opinione diffusa tra i leader islamisti.
Eurabia, dunque? E' bene però dire che se fa gola dal punto di vista giornalistico accostare le analisi di Lewis ai borbottii della Fallaci, in realtà i due hanno ben poco in comune.
In un'intervista concessa a Flemming Rose, il giornalista danese che qualche tempo fa osò pubblicare sul suo giornale, il Jyllands-Posten, delle vignette satiriche su Maometto, e ripresa da La Stampa, il grande storico dell'Islam Bernard Lewis ripropone molte delle sue recenti considerazioni, di cui avevamo già parlato qui (la cosiddetta "Dottrina Lewis") e qui (la democrazia "esportabile" al di fuori dell'occidente, quindi anche in Medio Oriente).
Alcune delle tesi esposte: il terrorismo islamista non fa parte della tradizione islamica, è «una distorsione della dottrina dell'Islam»; il Medio Oriente ha "importato" dall'Europa le dittature e le ideologie totalitarie del '900 e reagisce all'invadenza dei valori occidentali con una versione «particolarmente violenta e fanatica dell'Islam»; l'Islam «non ha mai avuto una Riforma o un Illuminismo»; la centralità dell'attuale condizione della donna islamica come «ostacolo al processo di modernizzazione»; che l'Europa sia «entrata a far parte del mondo islamico» o sia «avviata irrevocabilmente a questo destino» sarebbe opinione diffusa tra i leader islamisti.
Eurabia, dunque? E' bene però dire che se fa gola dal punto di vista giornalistico accostare le analisi di Lewis ai borbottii della Fallaci, in realtà i due hanno ben poco in comune.
Niente di nuovo sulle armi di Saddam
«Abbiamo rinvenuto armi di distruzione di massa in Iraq, armi chimiche», ha detto il senatore repubblicano Rick Santorum durante una conferenza stampa organizzata rapidamente nel tardo pomeriggio di mercoledì scorso. Leggendo da una sezione declassificata di un rapporto stilato dal Centro Nazionale di Intelligence sul territorio, una unità di intelligence del Pentagono, Santorum ha reso noto che «dal 2003 le forze della coalizione hanno recuperato circa 500 munizioni contenenti gas mustard degradato o sarin. Nonostante molti sforzi fatti per localizzare e distruggere le munizioni chimiche pre-Prima Guerra del Golfo, delle munizioni chimiche cariche e scariche esistono ancora».
Niente "smoking gun", insomma. Si ritiene infatti che le armi scoperte siano state fabbricate prima del '91 e quindi non rappresentino la prova di un programma di armi di distruzione di massa attivo negli anni '90. Però dimostrano che Saddam mentiva quando sosteneva che tutte le armi erano state distrutte.
L'amministrazione ha infatti ritenuto di non dare risalto alla scoperta di queste armi. Le munizioni chimiche, secondo quanto afferma un funzionario del Pentagono, non erano in condizioni di essere utilizzate, semmai - suggerisce il rapporto - alcune potevano essere messe sul mercato nero per essere usate fuori dall'Iraq. E' lo stesso funzionario a chiarire che «non si tratta delle armi di distruzione di massa che questo paese (gli Stati Uniti, n.d.r.) e il resto del mondo credevano che l'Iraq avesse e per le quali siamo entrati in guerra».
Fred Barnes, del Weekly Standard, già autore di un'approfondita analisi dei ritrovamenti di armi in Iraq, ricorda che «dai colloqui avuti dagli ispettori con gli scienziati che lavoravano per Saddam è emerso che i programmi di riarmo potevano però essere riesumati rapidamente ed è proprio ciò che Saddam aveva programmato di fare dal momento in cui le sanzioni contro l'Iraq fossero state abolite». L'amministrazione non ha voluto fare un caso di questi ritrovamenti. Forse per non alimentare un dibattito, sulle armi di distruzione di massa, che non andrebbe comunque a suo favore.
Certo, «non erano queste le armi cui ci riferivamo quando parlavamo di armi di distruzione di massa e che furono una delle giustificazioni per invadere l'Iraq. Tuttavia, esse sono armi di distruzione di massa e ora sappiamo che Saddam mentì riguardo ad esse». E questo è «significativo». Barnes trova quindi «insensata la resistenza dell'amministrazione a rilasciare qualsiasi documento classificato dall'Iraq».
Non hanno trovato tutto ciò che dicevano e che pensavano ci fosse, ma hanno trovato comunque abbastanza da poter smentire quanti sostengono che di armi di distruzione di massa non ce n'erano.
Niente "smoking gun", insomma. Si ritiene infatti che le armi scoperte siano state fabbricate prima del '91 e quindi non rappresentino la prova di un programma di armi di distruzione di massa attivo negli anni '90. Però dimostrano che Saddam mentiva quando sosteneva che tutte le armi erano state distrutte.
L'amministrazione ha infatti ritenuto di non dare risalto alla scoperta di queste armi. Le munizioni chimiche, secondo quanto afferma un funzionario del Pentagono, non erano in condizioni di essere utilizzate, semmai - suggerisce il rapporto - alcune potevano essere messe sul mercato nero per essere usate fuori dall'Iraq. E' lo stesso funzionario a chiarire che «non si tratta delle armi di distruzione di massa che questo paese (gli Stati Uniti, n.d.r.) e il resto del mondo credevano che l'Iraq avesse e per le quali siamo entrati in guerra».
Fred Barnes, del Weekly Standard, già autore di un'approfondita analisi dei ritrovamenti di armi in Iraq, ricorda che «dai colloqui avuti dagli ispettori con gli scienziati che lavoravano per Saddam è emerso che i programmi di riarmo potevano però essere riesumati rapidamente ed è proprio ciò che Saddam aveva programmato di fare dal momento in cui le sanzioni contro l'Iraq fossero state abolite». L'amministrazione non ha voluto fare un caso di questi ritrovamenti. Forse per non alimentare un dibattito, sulle armi di distruzione di massa, che non andrebbe comunque a suo favore.
Certo, «non erano queste le armi cui ci riferivamo quando parlavamo di armi di distruzione di massa e che furono una delle giustificazioni per invadere l'Iraq. Tuttavia, esse sono armi di distruzione di massa e ora sappiamo che Saddam mentì riguardo ad esse». E questo è «significativo». Barnes trova quindi «insensata la resistenza dell'amministrazione a rilasciare qualsiasi documento classificato dall'Iraq».
Non hanno trovato tutto ciò che dicevano e che pensavano ci fosse, ma hanno trovato comunque abbastanza da poter smentire quanti sostengono che di armi di distruzione di massa non ce n'erano.
Monday, June 26, 2006
Scippo azzurro con destrezza
Specchio dell'Italia democristiana
Adesso chiediamoci: non è controproducente che questo carrozzone vada avanti? Azzurri fermi sulle gambe, dall'inizio alla fine. Una gran brutta figura. Volutamente rinunciatari e attendisti, e - cosa ancor più grave - per evidente scelta tattica. «L'abbiamo fatto apposta», ha confessato Lippi. Neanche il pressing sulla trequarti, per non concedere spazi, tutti dietro ad aspettare chissà che. Temibilissimi gli australiani, corrono tantissimo. Li avete visti correre? Ho visto solo i nostri inchiodati. Complimenti. Lippi dovrebbe avere il pudore di tacere. Contro una squadra da serie C, dotata di una difesa imbarazzante, era una partita da giocare tutta all'attacco per chiudere la pratica nel primo tempo. Se solo fossimo entrati in campo...
Una volta in dieci hanno tirato del tutto i remi in barca puntando ai supplementari, mentre altre squadre meno blasonate hanno continuato a fare il loro gioco. Non è che non si capisce che gioco abbia la nostra Nazionale, è proprio che non gioca, che nelle sfide a eliminazione diretta rinuncia a giocare, facendo di tutto per complicarsi la vita e consegnare la propria sorte a un episodio. Va bene che una partita combattuta possa essere decisa da un episodio fortunato, ma davvero oggi non meritavamo il colpo di culo se è vero che la Fortuna aiuta gli audaci. Piuttosto, oggi la Fortuna è stata cieca e faremmo bene ad accendere un cero a Sant'Antonio. Da tre Mondiali è questa l'Italia che ci tocca vedere. In una parola: inguardabile.
Né si è trattato della solita questione Totti-Del Piero, seppure di per sé scandalosa. E' il terzo Mondiale, per non parlare degli Europei, che Del Piero, per qualche stranissimo motivo, sembra che debba timbrare il cartellino e poi vagare per il campo spaesato, cadendo da solo. E a noi tocca averne pena.
Avrei proprio voluto vedere quali gambe sarebbero andate su quel dischetto se non ci fosse stato Totti.
Adesso chiediamoci: non è controproducente che questo carrozzone vada avanti? Azzurri fermi sulle gambe, dall'inizio alla fine. Una gran brutta figura. Volutamente rinunciatari e attendisti, e - cosa ancor più grave - per evidente scelta tattica. «L'abbiamo fatto apposta», ha confessato Lippi. Neanche il pressing sulla trequarti, per non concedere spazi, tutti dietro ad aspettare chissà che. Temibilissimi gli australiani, corrono tantissimo. Li avete visti correre? Ho visto solo i nostri inchiodati. Complimenti. Lippi dovrebbe avere il pudore di tacere. Contro una squadra da serie C, dotata di una difesa imbarazzante, era una partita da giocare tutta all'attacco per chiudere la pratica nel primo tempo. Se solo fossimo entrati in campo...
Una volta in dieci hanno tirato del tutto i remi in barca puntando ai supplementari, mentre altre squadre meno blasonate hanno continuato a fare il loro gioco. Non è che non si capisce che gioco abbia la nostra Nazionale, è proprio che non gioca, che nelle sfide a eliminazione diretta rinuncia a giocare, facendo di tutto per complicarsi la vita e consegnare la propria sorte a un episodio. Va bene che una partita combattuta possa essere decisa da un episodio fortunato, ma davvero oggi non meritavamo il colpo di culo se è vero che la Fortuna aiuta gli audaci. Piuttosto, oggi la Fortuna è stata cieca e faremmo bene ad accendere un cero a Sant'Antonio. Da tre Mondiali è questa l'Italia che ci tocca vedere. In una parola: inguardabile.
Né si è trattato della solita questione Totti-Del Piero, seppure di per sé scandalosa. E' il terzo Mondiale, per non parlare degli Europei, che Del Piero, per qualche stranissimo motivo, sembra che debba timbrare il cartellino e poi vagare per il campo spaesato, cadendo da solo. E a noi tocca averne pena.
Avrei proprio voluto vedere quali gambe sarebbero andate su quel dischetto se non ci fosse stato Totti.
Friday, June 23, 2006
E la Somalia? In quali mani la lasciamo?
Faceva il suo lavoro. Cameraman per la televisione britannica Channel Four. E' stato freddato a Mogadiscio, in Somalia, da un colpo di arma da fuoco. Martin Adler, svedese, stava assistendo a una manifestazione organizzata dalle Corti islamiche, quando i suoi assassini, integralisti islamici, gli hanno sparato a distanza ravvicinata prima di sparire confondendosi nella folla.
Il corteo era stato convocato per protestare contro l'eventuale dispiegamento nel paese di truppe di pace straniere, all'indomani dell'intesa di mutuo riconoscimento siglata giovedì a Khartoum, nel Sudan, dal governo "ad interim" somalo e dalle Corti islamiche, che però su due punti non accettano compromessi: sharia in tutte le città e nessun intervento straniero, nemmeno sotto l'egida dell'Onu.
Come la mettiamo? Dopo l'esperienza dell'Afghanistan possiamo tollerare di nuovo scene come queste?
Il corteo era stato convocato per protestare contro l'eventuale dispiegamento nel paese di truppe di pace straniere, all'indomani dell'intesa di mutuo riconoscimento siglata giovedì a Khartoum, nel Sudan, dal governo "ad interim" somalo e dalle Corti islamiche, che però su due punti non accettano compromessi: sharia in tutte le città e nessun intervento straniero, nemmeno sotto l'egida dell'Onu.
Come la mettiamo? Dopo l'esperienza dell'Afghanistan possiamo tollerare di nuovo scene come queste?
Sì, no, forse. Chi passerà all'incasso dei "no"?
Se dovessimo giudicare la riforma costituzionale che siamo chiamati a confermare con il referendum del 25 e 26 giugno nel merito, il nostro giudizio non potrebbe essere che negativo. Siamo abituati a guardare al merito delle decisioni, laicamente, senza pregiudizi ideologici, senza curarci cioè di chi sia il proponente, ma della validità della proposta. E non ci si può aspettare che i radicali facciano altrimenti. Questa non è la mia riforma. Non è presidenzialista. Non è federalista. Non è uninominalistica e bipartitica. Non è americana.
Mi rendo conto che propporre qui in Italia, in Europa, una riforma "americana" delle istituzioni può apparire, non senza ragioni, velleitario, ma la riforma che andremo a votare è davvero troppo lontana dal modello verso cui ritengo che debba indirizzarsi il nostro paese.
Un capo dell'esecutivo eletto direttamente dai cittadini, non licenziabile prima della scadenza del suo mandato, quindi non soggetto alla concessione della "fiducia" da parte del Parlamento (lo strumento della "fiducia" parlamentare è la prima arma della partitocrazia), a sua volta eletto e senza poter essere sciolto prima della sua scadenza naturale. Una legge elettorale, che sia inserita nella Costituzione, maggioritaria e uninominale. Questo è l'essenziale. Poi, di che "federalismo" parliamo se ancora ci sono i prefetti? Certo, anche il premierato inglese non mi sarebbe sgradito, ma ciò che andremo a votare non ha nulla di tutto questo.
Voterò "no", dunque. Dovrei votare "no". Come al solito però, il dibattito sulla riforma costituzionale è stato totalmente politicizzato. Prima di votare occorre quindi chiedersi quale scenario politico uscirà del voto: quale dei due esiti possibili produrrà migliori condizioni di agibilità politica per un trasversale fronte riformatore? La vittoria dei "no" potrebbe rafforzare il concetto che la Costituzione "non si tocca", ma la vittoria dei "sì" potrebbe far scattare atteggiamenti conservatori nella CdL, che si accontenterebbe di difendere la propria riforma dai tentativi di modifica. La vittoria dei "sì" avrebbe l'effetto positivo di uno shock, infrangendo il tabù della Costituzione intoccabile, ma d'altra parte esporrebbe le istituzioni al rischio di ulteriore paralisi.
Visto che il mio orientamento nel merito sarebbe quello di votare "no", un "no" riformatore e americano, il mio problema è quello di capire chi, politicamente, passerà all'incasso dell'eventuale vittoria dei "no". C'è spazio per un "no" riformatore? A sinistra è nettamente prevalente il fronte dei conservatori "senza se e senza ma", e non v'è dubbio che proprio questi passeranno all'incasso politico di un'eventuale vittoria dei "no".
I riformisti, sia i leader sia gli autorevoli promotori del comitato Barbera-Ceccanti, non sono credibili, visto che nel merito la riforma è molto simile, forse addirittura un po' più cauta, a quella che proporrebbero loro e che fu in effetti elaborata dalla Bicamerale condotta da D'Alema. Inoltre, da sinistra nessuno (a quanto pare nemmeno i radicali) si è speso per dare forma e forza a un progetto di riforma organico che fosse alternativo. Il "no" dei riformisti è quindi politicamente debole, incapace di appropriarsi di un eventuale successo, opportunista e furbo perché si traduce con un "No, la riforma va bene se la facciamo noi che siamo più bravi".
E' il tipico caso in cui emerge tutta la differenza dei riformisti dai riformatori, con i primi velleitari, sinonimo di gradualismo e compromesso, che diluiscono la radicalità delle riforme aprendo così la strada alle controriforme. Quei riformisti - per usare le parole di Pannella - che «non hanno riformato niente, neanche loro stessi», che «non costituiscono la possibilità nemmeno di alternanze serie».
Dunque, che fare del mio "no"? Presto detto: si parte. E se proprio avrò occasione, sarà un "Sì".
Ieri Il Foglio riportava le parole inequivoche di Gaetano Salvemini sulla costituzione del '48 e i costituenti, che potrebbero valere anche per l'oggi. Dalle «scempiaggini dei costituenti», scriveva nel 1947, su Controcorrente, «sta uscendo la Costituzione più scema che mai sia stata prodotta dai cretini in tutta la storia dell'umanità. Ti par poco farsi un'idea di quell'Himalaya di somaraggini? Un'assenza così totale di senso giuridico non si è mai vista in nessun paese del mondo... i soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile di emendare, o prima o poi, quel mostro di bestialità... Non c'è nulla da fare. Bisogna lasciare che la barca vada a mare come può, e bisogna mettersi a costruire un'altra barca». Gli italiani «meritavano di meglio che un'Assemblea costituente formata in gran maggioranza da somari, scelti non dagli elettori ma dalle camorre centrali dei partiti così detti di massa. Meritavano di meglio che quel polpettone incoerente che sarà la Costituzione italiana».
Mi rendo conto che propporre qui in Italia, in Europa, una riforma "americana" delle istituzioni può apparire, non senza ragioni, velleitario, ma la riforma che andremo a votare è davvero troppo lontana dal modello verso cui ritengo che debba indirizzarsi il nostro paese.
Un capo dell'esecutivo eletto direttamente dai cittadini, non licenziabile prima della scadenza del suo mandato, quindi non soggetto alla concessione della "fiducia" da parte del Parlamento (lo strumento della "fiducia" parlamentare è la prima arma della partitocrazia), a sua volta eletto e senza poter essere sciolto prima della sua scadenza naturale. Una legge elettorale, che sia inserita nella Costituzione, maggioritaria e uninominale. Questo è l'essenziale. Poi, di che "federalismo" parliamo se ancora ci sono i prefetti? Certo, anche il premierato inglese non mi sarebbe sgradito, ma ciò che andremo a votare non ha nulla di tutto questo.
Voterò "no", dunque. Dovrei votare "no". Come al solito però, il dibattito sulla riforma costituzionale è stato totalmente politicizzato. Prima di votare occorre quindi chiedersi quale scenario politico uscirà del voto: quale dei due esiti possibili produrrà migliori condizioni di agibilità politica per un trasversale fronte riformatore? La vittoria dei "no" potrebbe rafforzare il concetto che la Costituzione "non si tocca", ma la vittoria dei "sì" potrebbe far scattare atteggiamenti conservatori nella CdL, che si accontenterebbe di difendere la propria riforma dai tentativi di modifica. La vittoria dei "sì" avrebbe l'effetto positivo di uno shock, infrangendo il tabù della Costituzione intoccabile, ma d'altra parte esporrebbe le istituzioni al rischio di ulteriore paralisi.
Visto che il mio orientamento nel merito sarebbe quello di votare "no", un "no" riformatore e americano, il mio problema è quello di capire chi, politicamente, passerà all'incasso dell'eventuale vittoria dei "no". C'è spazio per un "no" riformatore? A sinistra è nettamente prevalente il fronte dei conservatori "senza se e senza ma", e non v'è dubbio che proprio questi passeranno all'incasso politico di un'eventuale vittoria dei "no".
I riformisti, sia i leader sia gli autorevoli promotori del comitato Barbera-Ceccanti, non sono credibili, visto che nel merito la riforma è molto simile, forse addirittura un po' più cauta, a quella che proporrebbero loro e che fu in effetti elaborata dalla Bicamerale condotta da D'Alema. Inoltre, da sinistra nessuno (a quanto pare nemmeno i radicali) si è speso per dare forma e forza a un progetto di riforma organico che fosse alternativo. Il "no" dei riformisti è quindi politicamente debole, incapace di appropriarsi di un eventuale successo, opportunista e furbo perché si traduce con un "No, la riforma va bene se la facciamo noi che siamo più bravi".
E' il tipico caso in cui emerge tutta la differenza dei riformisti dai riformatori, con i primi velleitari, sinonimo di gradualismo e compromesso, che diluiscono la radicalità delle riforme aprendo così la strada alle controriforme. Quei riformisti - per usare le parole di Pannella - che «non hanno riformato niente, neanche loro stessi», che «non costituiscono la possibilità nemmeno di alternanze serie».
Dunque, che fare del mio "no"? Presto detto: si parte. E se proprio avrò occasione, sarà un "Sì".
Ieri Il Foglio riportava le parole inequivoche di Gaetano Salvemini sulla costituzione del '48 e i costituenti, che potrebbero valere anche per l'oggi. Dalle «scempiaggini dei costituenti», scriveva nel 1947, su Controcorrente, «sta uscendo la Costituzione più scema che mai sia stata prodotta dai cretini in tutta la storia dell'umanità. Ti par poco farsi un'idea di quell'Himalaya di somaraggini? Un'assenza così totale di senso giuridico non si è mai vista in nessun paese del mondo... i soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile di emendare, o prima o poi, quel mostro di bestialità... Non c'è nulla da fare. Bisogna lasciare che la barca vada a mare come può, e bisogna mettersi a costruire un'altra barca». Gli italiani «meritavano di meglio che un'Assemblea costituente formata in gran maggioranza da somari, scelti non dagli elettori ma dalle camorre centrali dei partiti così detti di massa. Meritavano di meglio che quel polpettone incoerente che sarà la Costituzione italiana».
Gli italiani non si fanno «stregare»
Eh sì, il premio Strega alla Costituzione italiana, ritirato da Oscar Luigi Scalfaro, sposterà indubbiamente una gran massa di voti verso il "No"... No, non sono affatto convinto che gli italiani si faranno "stregare". Semmai, qualche indeciso che ha in odio il conservatorismo parruccone dei sacerdoti della nostra Bibbia civile si convincerà di votare "Sì". Con questo ingenuo uso "politico" dei premi letterari, il mondo intellettuale dimostra ancora una volta di far parte organicamente di una società formale dal carattere oligarchico e contrapposta a una società reale, portatrice, anche inconsapevolmente, di idee di libertà e di modernità, ma che non ha voce nel mondo ufficiale. Il nostro paese ha avuto storicamente un grave handicap. Gli intellettuali sono per lo più preoccupati di accreditarsi in modo conformista presso quel mondo ufficiale, piuttosto di rivolgersi all'opinione pubblica per esercitarne la coscienza critica.
Su L'Opinione si parla di informazione e TocqueVille.it
L'Opinione continua a dare spazio al convegno di Sestri Levante e al dibattito su TocqueVille.it. Oggi pubblica Paolo Della Sala («La nuova sfida liberale si vince col network multimediale») e questo mio articolo «L'ossessione identitaria rischia di soffocare TocqueVille». Un ringraziamento al direttore, Arturo Diaconale.
Riporto la conclusione dell'articolo:
Se l'analisi della natura oligarchica dell'informazione e della politica è corretta, allora è dei blog, come nuovo strumento di comunicazione, e di Tocqueville.it come aggregatore di blog - certo, culturalmente e politicamente orientato - il compito di "fare opinione". E farla connettendosi in rete con più media è forse l'unico modo oggi, in un contesto così bloccato, di fare, in senso lato, "nuova politica". L'urgenza è di «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale».
E di farla crescere veicolando le culture politiche che si sono ritrovate in TocqueVille.it. TocqueVille.it avrà successo se saprà mantenere, anzi rafforzare, un approccio che consenta di accantonare le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori), categorie concettuali che non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà. E avrà successo se la dieta mediatica degli italiani, che oggi formano la propria opinione nelle arene televisive generaliste, si diversificherà fino a comprendere internet e i blog, come già avviene, per esempio, negli Stati Uniti.
Riporto la conclusione dell'articolo:
Se l'analisi della natura oligarchica dell'informazione e della politica è corretta, allora è dei blog, come nuovo strumento di comunicazione, e di Tocqueville.it come aggregatore di blog - certo, culturalmente e politicamente orientato - il compito di "fare opinione". E farla connettendosi in rete con più media è forse l'unico modo oggi, in un contesto così bloccato, di fare, in senso lato, "nuova politica". L'urgenza è di «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale».
E di farla crescere veicolando le culture politiche che si sono ritrovate in TocqueVille.it. TocqueVille.it avrà successo se saprà mantenere, anzi rafforzare, un approccio che consenta di accantonare le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori), categorie concettuali che non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà. E avrà successo se la dieta mediatica degli italiani, che oggi formano la propria opinione nelle arene televisive generaliste, si diversificherà fino a comprendere internet e i blog, come già avviene, per esempio, negli Stati Uniti.
Thursday, June 22, 2006
Ma il «soldato Bordin» vuole essere «salvato»?
Letto l'articolo di stamani in prima pagina su Il Foglio, come racconta Castaldi, gli ho mandato un sms con su scritto proprio: «Che ti pare? Io per queste cose sono una schiappa». In effetti Il Foglio sembrava voler sottolineare che sulla rassegna stampa di Bordin vengono esercitate eccessive pressioni da parte del partito. Così, Radio Radicale darebbe troppa attenzione ai Radicali (se non ci fosse neanche quella...). Finché si tratta di Pannella, Capezzone e Bonino – il senso di quanto scrive Il Foglio – passi pure, ma povero Bordin, costretto a dare spazio pure ai passanti "Punzi & Castaldi". «Non sa più a chi dare il resto».
Adesso poi, che con la Rosa sono aumentati i contenuti d'interesse dei radicali sulla stampa, è lecito ipotizzare che siano aumentate anche le pressioni (solo radicali?). Dunque, «salvate il soldato Bordin». Ovviamente, come chiunque può ben capire, se a Bordin fosse scappato di citare la replica di Punzi e Castaldi non sarebbe capitato un bel nulla, neanche un sms, anche se la lettera una certa importanza l'aveva, è innegabile. Certo, un po' ci ha messo del suo nel dare l'impressione opposta, correggendosi per citare me e Castaldi nel corretto ordine alfabetico (?). Ma chi avrebbe potuto contestargli un ordine inverso? E' ragionevole che Bordin cerchi di non "bucare" nessuno degli articoli d'interesse dei radicali, ma è falso che legga tutto, che non selezioni, e per quanto ne sappiamo le sporadiche "lamentele" giungono da qualche caso clinico.
Ho avuto l'impressione che nell'articolo si sia voluto pungere i radicali, ma mostrare affetto nei confronti di Bordin. Ma guarda un po' se un gran professionista, autore della «migliore rassegna stampa d'Italia», dev'essere costretto ancora, con la sua età e la sua esperienza da «umile cronista», a curarsi di quei cenciosi radicali. Suvvia, è l'appello a chi può, è l'ora di «salvare il soldato Bordin!». A questo punto non rimane che chiedersi se il «soldato Bordin» voglia essere «salvato». Secondo voi?
Adesso poi, che con la Rosa sono aumentati i contenuti d'interesse dei radicali sulla stampa, è lecito ipotizzare che siano aumentate anche le pressioni (solo radicali?). Dunque, «salvate il soldato Bordin». Ovviamente, come chiunque può ben capire, se a Bordin fosse scappato di citare la replica di Punzi e Castaldi non sarebbe capitato un bel nulla, neanche un sms, anche se la lettera una certa importanza l'aveva, è innegabile. Certo, un po' ci ha messo del suo nel dare l'impressione opposta, correggendosi per citare me e Castaldi nel corretto ordine alfabetico (?). Ma chi avrebbe potuto contestargli un ordine inverso? E' ragionevole che Bordin cerchi di non "bucare" nessuno degli articoli d'interesse dei radicali, ma è falso che legga tutto, che non selezioni, e per quanto ne sappiamo le sporadiche "lamentele" giungono da qualche caso clinico.
Ho avuto l'impressione che nell'articolo si sia voluto pungere i radicali, ma mostrare affetto nei confronti di Bordin. Ma guarda un po' se un gran professionista, autore della «migliore rassegna stampa d'Italia», dev'essere costretto ancora, con la sua età e la sua esperienza da «umile cronista», a curarsi di quei cenciosi radicali. Suvvia, è l'appello a chi può, è l'ora di «salvare il soldato Bordin!». A questo punto non rimane che chiedersi se il «soldato Bordin» voglia essere «salvato». Secondo voi?
Globalisti progressisti
Di nuovo con perfetto tempismo Christian Rocca ci offre un prezioso spaccato della politica americana. Alcuni giorni fa, su Il Foglio, ci raccontava la storia dei «terzi candidati» alla presidenza degli Stati Uniti, un fenomeno non così raro come si potrebbe pensare, anzi frequente e spesso determinante nella corsa alla Casa Bianca. Tutto fa pensare che il fenomeno dei «terzi candidati» possa ripetersi, soprattutto se si guarda a come si stanno muovendo tre esponenti di punta della politica americana in corsa per una candidatura alle presidenziali del 2008.
I repubblicani John McCain e Rudolph Giuliani, e la democratica Hillary Clinton, sono tre personaggi che non scaldano il cuore della base dei rispettivi partiti, ma più della parte dell'elettorato - tra il 20 e il 30% - che non si riconosce in nessuno dei due grandi partiti. Il che spiega la loro strategia «da indipendenti». Scrive Rocca:
«Secondo David Brooks, editorialista neoconservatore del New York Times, se oggi la politica americana ripartisse da zero, la grande divisione non sarebbe più tra liberalismo di sinistra e conservatorismo di destra, ormai parole incapaci di garantire una filosofia politica coerente. La nuova divisione è tra nazionalismo populista e globalismo progressista. I nazionalisti populisti sono di sinistra sulle questioni economiche, conservatori sui valori, realisti in politica estera e riuscirebbero a mettere insieme personaggi che oggi militano a fatica dentro i rispettivi partiti tradizionali. I globalisti progressisti, invece, sono liberisti in economia, di sinistra sui valori e interventisti democratici in politica estera, cioè un partito che potrebbe avere John McCain o Hillary Clinton come leader».
E' un'analisi suggestiva e, se si realizzasse un simile scenario, non avrei dubbi a collocarmi tra i globalisti progressisti. Tra l'altro, è un'analisi che dovrebbe indurre a molte riflessioni anche chi, nel dibattito su cosa debba essere TocqueVille.it, continua a ragionare con le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori), categorie concettuali che non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà.
Il fatto che McCain e Giuliani non si trovino in sintonia con la base evangelica e i valori tradizionali, e Hillary non faccia battere il cuore della sinistra per le sue posizioni sull'Iraq, sull'Iran e sulla guerra al terrorismo, e che intercettino piuttosto il consenso dell'elettorato non schierato, dimostra anche come in America - ed è la sua forza - il "centro" politico, quello in grado di spostare le maggioranza e decidere le elezioni, abbia un connotato solidamente liberale, pragmatico, moderato.
Anche in Italia è possibile rintracciare un tipo di elettorato simile, ma purtroppo la tentazione della nostra classe politica è di intercettarlo con operazioni "centriste", che tendono a trasformare quel luogo da "politico" in "fisico", cioè finalizzato a un blocco di potere neo-democristiano e trasformista.
I repubblicani John McCain e Rudolph Giuliani, e la democratica Hillary Clinton, sono tre personaggi che non scaldano il cuore della base dei rispettivi partiti, ma più della parte dell'elettorato - tra il 20 e il 30% - che non si riconosce in nessuno dei due grandi partiti. Il che spiega la loro strategia «da indipendenti». Scrive Rocca:
«Secondo David Brooks, editorialista neoconservatore del New York Times, se oggi la politica americana ripartisse da zero, la grande divisione non sarebbe più tra liberalismo di sinistra e conservatorismo di destra, ormai parole incapaci di garantire una filosofia politica coerente. La nuova divisione è tra nazionalismo populista e globalismo progressista. I nazionalisti populisti sono di sinistra sulle questioni economiche, conservatori sui valori, realisti in politica estera e riuscirebbero a mettere insieme personaggi che oggi militano a fatica dentro i rispettivi partiti tradizionali. I globalisti progressisti, invece, sono liberisti in economia, di sinistra sui valori e interventisti democratici in politica estera, cioè un partito che potrebbe avere John McCain o Hillary Clinton come leader».
E' un'analisi suggestiva e, se si realizzasse un simile scenario, non avrei dubbi a collocarmi tra i globalisti progressisti. Tra l'altro, è un'analisi che dovrebbe indurre a molte riflessioni anche chi, nel dibattito su cosa debba essere TocqueVille.it, continua a ragionare con le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori), categorie concettuali che non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà.
Il fatto che McCain e Giuliani non si trovino in sintonia con la base evangelica e i valori tradizionali, e Hillary non faccia battere il cuore della sinistra per le sue posizioni sull'Iraq, sull'Iran e sulla guerra al terrorismo, e che intercettino piuttosto il consenso dell'elettorato non schierato, dimostra anche come in America - ed è la sua forza - il "centro" politico, quello in grado di spostare le maggioranza e decidere le elezioni, abbia un connotato solidamente liberale, pragmatico, moderato.
Anche in Italia è possibile rintracciare un tipo di elettorato simile, ma purtroppo la tentazione della nostra classe politica è di intercettarlo con operazioni "centriste", che tendono a trasformare quel luogo da "politico" in "fisico", cioè finalizzato a un blocco di potere neo-democristiano e trasformista.
Wednesday, June 21, 2006
L'ossessione identitaria rischia di soffocare TocqueVille
Ricorrono periodicamente nel dibattito su cosa debba essere TocqueVille.it quelle che definirei ossessioni identitarie, per lo più di chi coltiva l'illusione che utilizzando una forma di comunicazione dal tratto così individualista e personale come il blog sia utile ritrovarsi accomunati da un'identità politica univoca, neanche fosse un partito.
La domanda "identitaria" contiene in sé l'impossibilità di una risposta. Si vorrebbe che quasi mille blog si riconoscano «nei valori del centrodestra», che «sostengano l'azione di governo, o di opposizione, della Casa delle Libertà». E' qui che sorgono i primi problemi. Di quale centrodestra parliamo? Di quello italiano, c'è da supporre. Quali sono, se è dato sapere, questi valori? Come negare che lo statalismo sia un tratto prevalente nel centrodestra italiano? Parliamo del centrodestra com'è o di come lo vorremmo? Com'è oggi non piacerebbe a molti, troppi. Su come lo vorremmo, ciascuno ha le idee più diverse. A ogni blog sia lasciato di decidere se sostenere o meno il centrodestra, quando e su quali temi. Compito di un aggregatore è dare risalto adeguato ai suoi migliori contenuti.
Affrontare davvero la questione dell'identità politica di TocqueVille significa innanzitutto mettere nel conto due esiti: o non ci si riesce, perché la discussione, o il tavolo di studio, potrebbe durare mesi senza giungere a una sintesi; o, se ci si riesce, si ottiene il doppio risultato di spaccare una comunità che della pluralità di visioni dovrebbe fare la sua forza e di rinchiuderla all'interno delle mura troppo spesse di un contenitore di cui esistono già mille versioni. Di un nuovo portatore d'acqua al mulino delle coalizioni esistenti non si avverte alcuna esigenza nell'informazione.
Ridurre l'operazione politico-culturale TocqueVille a "i blog che sostengono" la CdL appare francamente riduttivo. Al contrario, il rischio, già alto, è che l'identificazione di TocqueVille con una sorta di sezione internet della CdL appaia scontata. Perdendo sempre più la propria capacità d'attrazione e comunicazione verso l'esterno, il rischio è che TocqueVille stesso si trasformi in un amplificatore di un pensiero unico di senso contrario, ma qualitativamente uguale, a quello cui vorrebbe contrapporsi. Una «eco-chamber», dove si entra e ci si diverte a sentire l'eco delle nostre voci, fu la felice espressione del Motel dei Polli Ispirati. Troppo spesso tali processi, invece di dare identità, finiscono per costruire solo delle anti-identità.
Non è pensabile, ad oggi, ritenere di escludere da un aggregatore come TocqueVille, con il respiro che aveva alla sua nascita, ben rappresentato da questa pagina speciale (evidentemente poco letta), blogger che ritengono che la cultura liberale non possa affermarsi con la semplice vittoria elettorale del centrodestra. Certo, comprendo che la tentazione di replicare lisi schematismi, di tornare alle care, vecchie, tranquillizzanti etichette (Polo/Ulivo; Destra/Sinistra), sia forte. Ma lo ritengo un preoccupante segnale di debolezza, un complesso d'inferiorità culturale, un'altra strada per sentirsi "moralmente superiori".
Il dibattito «alto» di Sestri
Per fortuna, nell'ambito di un dibattito più generale su informazione e libertà, media, web e pluralismo, che si è svolto lo scorso fine settimana a Sestri Levante grazie all'ottimo lavoro di Paolo Della Sala (blogger Le Guerre Civili), anche la riflessione su cosa dovrebbe essere, e cosa dovrebbe cercare di non essere TocqueVille, ha toccato vette più alte, intrecciandosi con interessanti analisi del fenomeno dei blog e dell'informazione nello specifico del difficile "caso Italia". Autorevoli interventi, dai quali emerge il velleitarismo di ogni approccio identitario, hanno trovato ampi consensi tra i presenti.
Arturo Diaconale (direttore del quotidiano L'Opinione) ha parlato di un paese diviso non lungo una linea di demarcazione destra/sinistra, ma di una società formale dal carattere oligarchico contrapposta a una società reale, «inconsapevolmente portatrice di idee di libertà, moderne», che non ha voce nel mondo ufficiale. I media italiani sono «nelle mani di ristretti gruppi oligarchici che determinano un'informazione verticale, che va dall'alto in basso per garantire gli interessi del vertice», mentre alla «società reale» non restano che internet, i blog, forma e fonte di un'informazione «orizzontale» che però non trova spazio nel mondo ufficiale. D'altra parte, sarebbe «una follia soltanto pensarlo».
La classe politica, anche del centrodestra, è naturalmente «impegnata a finanziare strumenti tradizionali che portano avanti tesi e politiche tradizionali e non ha nessuna intenzione di puntare al nuovo, perché attraverso il vecchio ha garantiti i propri interessi e li ha garantiti al meglio». Neanche il centrodestra si è «mai posto il problema della cultura politica. Non ha identità politica, e quando ha vinto le elezioni l'unica cultura politica che ha saputo esprimere è stata quella statalista dei post-fascisti, perché la cultura liberale non c'era». Con amarezza, Diaconale ha raccontato la sua esperienza di direttore di un giornale di nicchia che ha voluto mantenere libero (e liberale), presentando la sua come una «scelta del coglione agli occhi dei "miei", quelli che in teoria avrebbero dovuto supportarmi».
Coloro «che avrebbero potuto e potrebbero creare una cultura alternativa non lo fanno». Dunque, ha concluso Diaconale, «ci dobbiamo organizzare noi, non dobbiamo combattere gli avversari ma soprattutto gli "amici", che continuano a caratterizzare il centrodestra con la cultura post-corporativa. L'immagine culturale del centrodestra non è stata liberale, ma si è preferito il continuismo post-democristiano e post-fascista». Qualcuno la chiamerebbe la linea Fanfani-Almirante.
Il carattere peculiare di Tocqueville.it non sta in un unico modello culturale, ma in più culture «costrette a convivere per non trovarsi schiacciate dal pensiero unico dominante». E' un'esperienza che va preservata, perché semmai le diverse componenti «dovessero analizzare al loro interno le diversità tenderebbero fatalmente ad esplodere». Compito di Tocqueville.it è rappresentare uno «strumento di aggregazione» e di confronto, perché «il giorno in cui Tocqueville decidesse di darsi un ruolo politico, squisitamente politico, caratterizzato in maniera politica, introdurrebbe al suo interno il seme della discordia, della rottura».
Su Internet, e in particolare nei blog, sopravvive l'unica possibilità di un'informazione «alternativa», ha spiegato Diaconale, ma «nel momento in cui dovesse organizzarsi secondo schemi di tipo tradizionale aprirebbe lo spazio all'inserimento della società formale anche all'interno di questo mondo, e questo è il principale dei pericoli». Certo, un'attività finora personale, non remunerativa, troverebbe magari uno sbocco professionale, economico, ma «in quel momento dobbiamo mettere in conto che cambierebbe il tipo di informazione, da orizzontale a verticale, non perseguendo più gli interessi dei singoli individui ma di pochi gruppi oligarchici».
Dunque, «per preservare il fenomeno dei blog non possiamo pensare di utilizzarlo per dare vita a vecchie forme di aggregazione. Pretendere di organizzarlo sulla base di comuni denominatori di tipo culturale e ideologico è fatica sprecata». Piuttosto, occorre mirare a «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale».
Marco Taradash ha paragonato l'esperienza dei blog a quella delle prime radio e tv libere degli anni '70. Il mondo dei blog deve riuscire a «mantenere il carattere rivoluzionario della comunicazione che ha in sé e al tempo stesso il carattere rivoluzionario politico. Compito dei singoli blog è di fare il blog. Compito di un aggregatore come TocqueVille è di tenere viva l'attenzione su una cultura» che Taradash ha definito con i suffissi "lib" e "con". Dai liberali, liberisti, e libertari più radicali, fino ai conservatori e ai "confessionali".
Tenere insieme tutto questo è la «scommessa» di TocqueVille. E' questo «il taglio innovatore che possiamo dare alla cultura politica italiana... il dovere civico e l'impegno politico di TocqueVille. Se vuole durare deve fare un salto di qualità». Innanzitutto, ha auspicato Taradash, «riequilibrando un po' tra la parte "con" e la parte "lib", perché in certi momenti sembra che la parte "con" sia troppo prevalente». Magari grazie al «buon sindaco», che vada «in cerca di immigrati».
L'appello di Taradash è sembrato particolarmente accorato: TocqueVille non perda la sua «caratteristica originale», preservi la «geniale invenzione di Andrea Mancia e gli altri», rappresenti un aggregato di "lib" e di "con". L'area lib-con è «difficile da definire di destra, di centrodestra, perché diversa da tutto ciò che esiste nel nostro paese». Non bisogna «sacrificare nessuno dei cittadini, ma riuscire a rappresentare le mille luci di New York». Ed essere capaci di «stare sul mercato», diventando un «broadcast» di blog.
Non è sospettabile di intelligenza col "nemico" neanche Mario Sechi (vicedirettore del quotidiano il Giornale), quando a Sestri ha detto che pur «ancorato ai valori liberali e conservatori», TocqueVille deve restare «distinto dall'azione politica, perché dev'essere strumento di pressione, di contro-informazione». I blog «non sono la campagna elettorale in sé», ma fanno opinione. Il rischio invece, è che «la politica fagociti o eterodiriga l'originalità del pensiero» dei blog, mentre il suo compito sarebbe non quello di «fare cultura», ma di fornire ad essa i mezzi per svilupparsi. Attenuando il digital divide italiano, costruendo le «autostrade digitali» («larga banda per tutti»), eliminando gli «oligopoli del cavo», liberalizzando le reti.
Se l'analisi della natura oligarchica dell'informazione e della politica è corretta, allora è dei blog, come nuovo strumento di comunicazione, e di Tocqueville come aggregatore di blog - certamente culturalmente e politicamente orientato - il compito di "fare opinione". E farla connettendosi in rete con più media - concetto caro a Le Guerre Civili - è, in senso lato, "fare politica". Forse l'unico modo oggi, in un contesto così bloccato, di fare "nuova politica". Laicamente, cioè in modo non ideologico.
L'urgenza è di «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale». E di farla crescere veicolando le culture politiche che si sono ritrovate in TocqueVille. Questa sfida avrà successo se TocqueVille saprà mantenere, anzi rafforzare rispetto a quello che è oggi, un approccio che consente di accantonare le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori). Se TocqueVille, per dirla come 1972, «riuscirà a tenersi fuori da tentazioni partitocratiche o elitarie (né la strumentalizzazione né la nicchia), a superare la fase dell'identità negativa (importante per gettare le fondamenta ma insufficiente per costruire la casa) e ad evitare involuzioni contrarie ai principi che ne hanno ispirato la nascita, allora cominceremo davvero a divertirci».
Abbiamo bisogno di una cultura politica, ha scritto Wind Rose Hotel: «Se noi non facciamo di tutto per minimizzarlo», il fenomeno dei blog «è una novità assoluta che contiene in germe il superamento del modo tradizionale di fare informazione e, appunto, cultura», laddove le vecchie ideologie, i vecchi spartiacque, le "antiche" categorie mentali non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà.
Per quanto mi riguarda, rimango convinto delle poche, semplici discriminanti che ebbi modo di esprimere in questo articolo, che risale ai giorni di gestazione di TocqueVille e che trovò il consenso pieno di Andrea Mancia:
«... se avete un'alta sensibilità per la diffusione della libertà, della democrazia, dei diritti umani; un giudizio equilibrato, comunque non un pregiudizio, sull'amministrazione Bush e il pensiero neocon; se vi riconoscete nella critica a nazifascismo neo e post, comunismo neo e post, antiamericanismo, antisemitismo, superiorità morale della sinistra, pacifismo senza se e senza ma; se apprezzate l'emergere di una sinistra riformista, "blairiana", filoamericana e filoisraeliana; se vi interessa la difesa delle libertà individuali; se tutto questo non vi suscita repulsione e non vi lascia indifferenti, allora avete trovato la comunità che fa per voi».
Integrerei queste parole con quanto scrisse Antonio Scalari (Regime change): «Se siete di destra, tenendo presente le succitate spiegazioni, o se siete di sinistra ma vi attira di più l'alleanza con Blair che con la falce e il martello...», allora TocqueVille fa per voi.
La domanda "identitaria" contiene in sé l'impossibilità di una risposta. Si vorrebbe che quasi mille blog si riconoscano «nei valori del centrodestra», che «sostengano l'azione di governo, o di opposizione, della Casa delle Libertà». E' qui che sorgono i primi problemi. Di quale centrodestra parliamo? Di quello italiano, c'è da supporre. Quali sono, se è dato sapere, questi valori? Come negare che lo statalismo sia un tratto prevalente nel centrodestra italiano? Parliamo del centrodestra com'è o di come lo vorremmo? Com'è oggi non piacerebbe a molti, troppi. Su come lo vorremmo, ciascuno ha le idee più diverse. A ogni blog sia lasciato di decidere se sostenere o meno il centrodestra, quando e su quali temi. Compito di un aggregatore è dare risalto adeguato ai suoi migliori contenuti.
Affrontare davvero la questione dell'identità politica di TocqueVille significa innanzitutto mettere nel conto due esiti: o non ci si riesce, perché la discussione, o il tavolo di studio, potrebbe durare mesi senza giungere a una sintesi; o, se ci si riesce, si ottiene il doppio risultato di spaccare una comunità che della pluralità di visioni dovrebbe fare la sua forza e di rinchiuderla all'interno delle mura troppo spesse di un contenitore di cui esistono già mille versioni. Di un nuovo portatore d'acqua al mulino delle coalizioni esistenti non si avverte alcuna esigenza nell'informazione.
Ridurre l'operazione politico-culturale TocqueVille a "i blog che sostengono" la CdL appare francamente riduttivo. Al contrario, il rischio, già alto, è che l'identificazione di TocqueVille con una sorta di sezione internet della CdL appaia scontata. Perdendo sempre più la propria capacità d'attrazione e comunicazione verso l'esterno, il rischio è che TocqueVille stesso si trasformi in un amplificatore di un pensiero unico di senso contrario, ma qualitativamente uguale, a quello cui vorrebbe contrapporsi. Una «eco-chamber», dove si entra e ci si diverte a sentire l'eco delle nostre voci, fu la felice espressione del Motel dei Polli Ispirati. Troppo spesso tali processi, invece di dare identità, finiscono per costruire solo delle anti-identità.
Non è pensabile, ad oggi, ritenere di escludere da un aggregatore come TocqueVille, con il respiro che aveva alla sua nascita, ben rappresentato da questa pagina speciale (evidentemente poco letta), blogger che ritengono che la cultura liberale non possa affermarsi con la semplice vittoria elettorale del centrodestra. Certo, comprendo che la tentazione di replicare lisi schematismi, di tornare alle care, vecchie, tranquillizzanti etichette (Polo/Ulivo; Destra/Sinistra), sia forte. Ma lo ritengo un preoccupante segnale di debolezza, un complesso d'inferiorità culturale, un'altra strada per sentirsi "moralmente superiori".
Il dibattito «alto» di Sestri
Per fortuna, nell'ambito di un dibattito più generale su informazione e libertà, media, web e pluralismo, che si è svolto lo scorso fine settimana a Sestri Levante grazie all'ottimo lavoro di Paolo Della Sala (blogger Le Guerre Civili), anche la riflessione su cosa dovrebbe essere, e cosa dovrebbe cercare di non essere TocqueVille, ha toccato vette più alte, intrecciandosi con interessanti analisi del fenomeno dei blog e dell'informazione nello specifico del difficile "caso Italia". Autorevoli interventi, dai quali emerge il velleitarismo di ogni approccio identitario, hanno trovato ampi consensi tra i presenti.
Arturo Diaconale (direttore del quotidiano L'Opinione) ha parlato di un paese diviso non lungo una linea di demarcazione destra/sinistra, ma di una società formale dal carattere oligarchico contrapposta a una società reale, «inconsapevolmente portatrice di idee di libertà, moderne», che non ha voce nel mondo ufficiale. I media italiani sono «nelle mani di ristretti gruppi oligarchici che determinano un'informazione verticale, che va dall'alto in basso per garantire gli interessi del vertice», mentre alla «società reale» non restano che internet, i blog, forma e fonte di un'informazione «orizzontale» che però non trova spazio nel mondo ufficiale. D'altra parte, sarebbe «una follia soltanto pensarlo».
La classe politica, anche del centrodestra, è naturalmente «impegnata a finanziare strumenti tradizionali che portano avanti tesi e politiche tradizionali e non ha nessuna intenzione di puntare al nuovo, perché attraverso il vecchio ha garantiti i propri interessi e li ha garantiti al meglio». Neanche il centrodestra si è «mai posto il problema della cultura politica. Non ha identità politica, e quando ha vinto le elezioni l'unica cultura politica che ha saputo esprimere è stata quella statalista dei post-fascisti, perché la cultura liberale non c'era». Con amarezza, Diaconale ha raccontato la sua esperienza di direttore di un giornale di nicchia che ha voluto mantenere libero (e liberale), presentando la sua come una «scelta del coglione agli occhi dei "miei", quelli che in teoria avrebbero dovuto supportarmi».
Coloro «che avrebbero potuto e potrebbero creare una cultura alternativa non lo fanno». Dunque, ha concluso Diaconale, «ci dobbiamo organizzare noi, non dobbiamo combattere gli avversari ma soprattutto gli "amici", che continuano a caratterizzare il centrodestra con la cultura post-corporativa. L'immagine culturale del centrodestra non è stata liberale, ma si è preferito il continuismo post-democristiano e post-fascista». Qualcuno la chiamerebbe la linea Fanfani-Almirante.
Il carattere peculiare di Tocqueville.it non sta in un unico modello culturale, ma in più culture «costrette a convivere per non trovarsi schiacciate dal pensiero unico dominante». E' un'esperienza che va preservata, perché semmai le diverse componenti «dovessero analizzare al loro interno le diversità tenderebbero fatalmente ad esplodere». Compito di Tocqueville.it è rappresentare uno «strumento di aggregazione» e di confronto, perché «il giorno in cui Tocqueville decidesse di darsi un ruolo politico, squisitamente politico, caratterizzato in maniera politica, introdurrebbe al suo interno il seme della discordia, della rottura».
Su Internet, e in particolare nei blog, sopravvive l'unica possibilità di un'informazione «alternativa», ha spiegato Diaconale, ma «nel momento in cui dovesse organizzarsi secondo schemi di tipo tradizionale aprirebbe lo spazio all'inserimento della società formale anche all'interno di questo mondo, e questo è il principale dei pericoli». Certo, un'attività finora personale, non remunerativa, troverebbe magari uno sbocco professionale, economico, ma «in quel momento dobbiamo mettere in conto che cambierebbe il tipo di informazione, da orizzontale a verticale, non perseguendo più gli interessi dei singoli individui ma di pochi gruppi oligarchici».
Dunque, «per preservare il fenomeno dei blog non possiamo pensare di utilizzarlo per dare vita a vecchie forme di aggregazione. Pretendere di organizzarlo sulla base di comuni denominatori di tipo culturale e ideologico è fatica sprecata». Piuttosto, occorre mirare a «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale».
Marco Taradash ha paragonato l'esperienza dei blog a quella delle prime radio e tv libere degli anni '70. Il mondo dei blog deve riuscire a «mantenere il carattere rivoluzionario della comunicazione che ha in sé e al tempo stesso il carattere rivoluzionario politico. Compito dei singoli blog è di fare il blog. Compito di un aggregatore come TocqueVille è di tenere viva l'attenzione su una cultura» che Taradash ha definito con i suffissi "lib" e "con". Dai liberali, liberisti, e libertari più radicali, fino ai conservatori e ai "confessionali".
Tenere insieme tutto questo è la «scommessa» di TocqueVille. E' questo «il taglio innovatore che possiamo dare alla cultura politica italiana... il dovere civico e l'impegno politico di TocqueVille. Se vuole durare deve fare un salto di qualità». Innanzitutto, ha auspicato Taradash, «riequilibrando un po' tra la parte "con" e la parte "lib", perché in certi momenti sembra che la parte "con" sia troppo prevalente». Magari grazie al «buon sindaco», che vada «in cerca di immigrati».
L'appello di Taradash è sembrato particolarmente accorato: TocqueVille non perda la sua «caratteristica originale», preservi la «geniale invenzione di Andrea Mancia e gli altri», rappresenti un aggregato di "lib" e di "con". L'area lib-con è «difficile da definire di destra, di centrodestra, perché diversa da tutto ciò che esiste nel nostro paese». Non bisogna «sacrificare nessuno dei cittadini, ma riuscire a rappresentare le mille luci di New York». Ed essere capaci di «stare sul mercato», diventando un «broadcast» di blog.
Non è sospettabile di intelligenza col "nemico" neanche Mario Sechi (vicedirettore del quotidiano il Giornale), quando a Sestri ha detto che pur «ancorato ai valori liberali e conservatori», TocqueVille deve restare «distinto dall'azione politica, perché dev'essere strumento di pressione, di contro-informazione». I blog «non sono la campagna elettorale in sé», ma fanno opinione. Il rischio invece, è che «la politica fagociti o eterodiriga l'originalità del pensiero» dei blog, mentre il suo compito sarebbe non quello di «fare cultura», ma di fornire ad essa i mezzi per svilupparsi. Attenuando il digital divide italiano, costruendo le «autostrade digitali» («larga banda per tutti»), eliminando gli «oligopoli del cavo», liberalizzando le reti.
Se l'analisi della natura oligarchica dell'informazione e della politica è corretta, allora è dei blog, come nuovo strumento di comunicazione, e di Tocqueville come aggregatore di blog - certamente culturalmente e politicamente orientato - il compito di "fare opinione". E farla connettendosi in rete con più media - concetto caro a Le Guerre Civili - è, in senso lato, "fare politica". Forse l'unico modo oggi, in un contesto così bloccato, di fare "nuova politica". Laicamente, cioè in modo non ideologico.
L'urgenza è di «far crescere la società dell'informazione orizzontale, in maniera antagonista e alternativa a quella ufficiale». E di farla crescere veicolando le culture politiche che si sono ritrovate in TocqueVille. Questa sfida avrà successo se TocqueVille saprà mantenere, anzi rafforzare rispetto a quello che è oggi, un approccio che consente di accantonare le abusate, anacronistiche, riduttive quando non fuorvianti divisioni classiche della politica (destra/sinistra, laici/cattolici, progressisti/conservatori). Se TocqueVille, per dirla come 1972, «riuscirà a tenersi fuori da tentazioni partitocratiche o elitarie (né la strumentalizzazione né la nicchia), a superare la fase dell'identità negativa (importante per gettare le fondamenta ma insufficiente per costruire la casa) e ad evitare involuzioni contrarie ai principi che ne hanno ispirato la nascita, allora cominceremo davvero a divertirci».
Abbiamo bisogno di una cultura politica, ha scritto Wind Rose Hotel: «Se noi non facciamo di tutto per minimizzarlo», il fenomeno dei blog «è una novità assoluta che contiene in germe il superamento del modo tradizionale di fare informazione e, appunto, cultura», laddove le vecchie ideologie, i vecchi spartiacque, le "antiche" categorie mentali non funzionano più come strumenti di comprensione della nuova realtà.
Per quanto mi riguarda, rimango convinto delle poche, semplici discriminanti che ebbi modo di esprimere in questo articolo, che risale ai giorni di gestazione di TocqueVille e che trovò il consenso pieno di Andrea Mancia:
«... se avete un'alta sensibilità per la diffusione della libertà, della democrazia, dei diritti umani; un giudizio equilibrato, comunque non un pregiudizio, sull'amministrazione Bush e il pensiero neocon; se vi riconoscete nella critica a nazifascismo neo e post, comunismo neo e post, antiamericanismo, antisemitismo, superiorità morale della sinistra, pacifismo senza se e senza ma; se apprezzate l'emergere di una sinistra riformista, "blairiana", filoamericana e filoisraeliana; se vi interessa la difesa delle libertà individuali; se tutto questo non vi suscita repulsione e non vi lascia indifferenti, allora avete trovato la comunità che fa per voi».
Integrerei queste parole con quanto scrisse Antonio Scalari (Regime change): «Se siete di destra, tenendo presente le succitate spiegazioni, o se siete di sinistra ma vi attira di più l'alleanza con Blair che con la falce e il martello...», allora TocqueVille fa per voi.
Cesare Marini si dimetta
«Il pane e la Rosa» è il titolo scelto da il Riformista per la nostra replica, a indicare un dualismo (temi economico-sociali e diritti civili) che non c'è. Dopo il manifesto-appello lanciato da Capezzone per «l'Italia degli outsider», e la battaglia di giustizia - non di clemenza - intrapresa da Pannella e altri 2000 cittadini, ancor più stonate suonano le pretestuose lagnanze di chi vede una Rosa nel Pugno «sbilanciata sui temi tradizionali dei radicali» (come se le riforme economiche non ne facessero parte) e i «contenuti sociali» sacrificati (Cesare Marini, il Riformista, 17 giugno).
Ancor più inaccettabili, quelle lagnanze, se giungono da chi, come Marini, fa parte della Segreteria nazionale della Rosa nel Pugno, quindi è corresponsabile di una linea politica che però, a quanto pare, mostra di non aver neanche compreso. Oppure, dobbiamo sospettare che le critiche siano strumentali. Dipenderà forse dal fatto che sul campo dell'azione politica siano scesi solo i radicali, mentre i socialisti dello Sdi sono rimasti a scaldare le poltrone in tribuna, in attesa di qualche campo profughi allestito per loro in zona Ds?
Marini nel suo intervento, pur senza uscire allo scoperto, liquida sottilmente la Rosa nel Pugno e i radicali, chiamando i socialisti dello Sdi a riprendere il cammino, interrotto prima dell'incontro con i radicali, verso il partito democratico catto-comunista. Avrebbe dovuto accompagnare questa sua presa di posizione, incompatibile con il progetto Rosa nel Pugno, con le dimissioni dalla Segreteria di cui fa parte. Non lo ha fatto, ma gli chiediamo di farlo.
Ecco la lettera pubblicata oggi:
Caro direttore, Cesare Marini vede una Rosa nel Pugno «sbilanciata sui temi tradizionali dei radicali» e i «contenuti sociali» sacrificati (il Riformista, 17 giugno): uno non sa se ridere o piangere. In questi giorni, Pannella e altri 1.500 cittadini, con la loro iniziativa nonviolenta, si battono non per un atto di clemenza, ma di giustizia, per riportare nella legalità uno Stato tecnicamente fuori-legge nel sequestrare milioni di italiani in attesa di giudizio. La legalità come prima e più importante battaglia sociale, perché alla legge scritta il più debole può appellarsi, non a quella del più forte o del più ricco. Marini vede qualcun altro impegnato su questi «temi tradizionali dei radicali»? [Pensa che debbano essere lasciati cadere? E ancora: quali «contenuti sociali» i radicali starebbero sacrificando?]
Capezzone lancia un manifesto-appello «per uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Parla «al popolo dei non garantiti», milioni di consumatori, giovani, donne... tutti «fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi». E non fu Capezzone, fra tanti mugugni, a introdurre nella campagna elettorale della Rosa i temi economico-sociali della cosiddetta «agenda Giavazzi»? Non ci è dato sapere quali battaglie sociali, nel paese, abbia condotto lo Sdi in questi anni. Alla Rosa nel Pugno serve l'immagine di una forza politica che combatte, non del garbato zio Boselli a Porta a Porta, che chissà se Fassino ce lo manderebbe. Guardando al partito democratico come pensa di contribuirvi Marini? Da liberalsocialista che s'impegna sui 31 punti di Fiuggi o da ex autonomista che si consegna ai Ds?
Federico Punzi e Luigi Castaldi
Direzione Radicali italiani
Ancor più inaccettabili, quelle lagnanze, se giungono da chi, come Marini, fa parte della Segreteria nazionale della Rosa nel Pugno, quindi è corresponsabile di una linea politica che però, a quanto pare, mostra di non aver neanche compreso. Oppure, dobbiamo sospettare che le critiche siano strumentali. Dipenderà forse dal fatto che sul campo dell'azione politica siano scesi solo i radicali, mentre i socialisti dello Sdi sono rimasti a scaldare le poltrone in tribuna, in attesa di qualche campo profughi allestito per loro in zona Ds?
Marini nel suo intervento, pur senza uscire allo scoperto, liquida sottilmente la Rosa nel Pugno e i radicali, chiamando i socialisti dello Sdi a riprendere il cammino, interrotto prima dell'incontro con i radicali, verso il partito democratico catto-comunista. Avrebbe dovuto accompagnare questa sua presa di posizione, incompatibile con il progetto Rosa nel Pugno, con le dimissioni dalla Segreteria di cui fa parte. Non lo ha fatto, ma gli chiediamo di farlo.
Ecco la lettera pubblicata oggi:
Caro direttore, Cesare Marini vede una Rosa nel Pugno «sbilanciata sui temi tradizionali dei radicali» e i «contenuti sociali» sacrificati (il Riformista, 17 giugno): uno non sa se ridere o piangere. In questi giorni, Pannella e altri 1.500 cittadini, con la loro iniziativa nonviolenta, si battono non per un atto di clemenza, ma di giustizia, per riportare nella legalità uno Stato tecnicamente fuori-legge nel sequestrare milioni di italiani in attesa di giudizio. La legalità come prima e più importante battaglia sociale, perché alla legge scritta il più debole può appellarsi, non a quella del più forte o del più ricco. Marini vede qualcun altro impegnato su questi «temi tradizionali dei radicali»? [Pensa che debbano essere lasciati cadere? E ancora: quali «contenuti sociali» i radicali starebbero sacrificando?]
Capezzone lancia un manifesto-appello «per uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Parla «al popolo dei non garantiti», milioni di consumatori, giovani, donne... tutti «fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi». E non fu Capezzone, fra tanti mugugni, a introdurre nella campagna elettorale della Rosa i temi economico-sociali della cosiddetta «agenda Giavazzi»? Non ci è dato sapere quali battaglie sociali, nel paese, abbia condotto lo Sdi in questi anni. Alla Rosa nel Pugno serve l'immagine di una forza politica che combatte, non del garbato zio Boselli a Porta a Porta, che chissà se Fassino ce lo manderebbe. Guardando al partito democratico come pensa di contribuirvi Marini? Da liberalsocialista che s'impegna sui 31 punti di Fiuggi o da ex autonomista che si consegna ai Ds?
Federico Punzi e Luigi Castaldi
Direzione Radicali italiani
Tuesday, June 20, 2006
Malvino si racconta
«... perdindirindina, sono nato in un Paese storicamente scosceso, dove non puoi posare un aggettivo in un posto che subito ti scivola verso valle»
I blogger cominciano ad intervistarsi tra di loro. Potrebbe essere un brutto segno. Voglia di autoreferenzialità, ma - Dio mio! - quella è sempre esistita nei blogger. La vanità è componente essenziale del bloggare e sembra che ogni piattaforma te ne regali un po' all'atto dell'iscrizione. Hanno cominciato i tocquevillers in un modo per la verità un po' troppo autocelebrativo e "gruppettaro".
Li ha esplicitamente imitati Mirko Morini, Butirrometro. Un po' per sfotterli, certo, ma dovrà pure ammettere che il format gli è piaciuto.
A Butirrometro il merito di aver fatto conoscere alla blogosfera uno dei blog più discussi: Malvino. Rischiando di apparire banale, direi che o lo si ama, o lo si odia. Malvino è una lettura indispensabile nella blogosfera, e chi pensa che scriva "solo" di Chiesa e Ferrara s'inganna. Conoscere di persona il titolare è un dono. Sa di genuino e, un po' come diceva Montanelli dei radicali, di bucato. Ma ecco l'intervista, di cui riposto un breve passaggio.
«... penso che in varia misura l'attività di blogger sia sempre un po' alienante – che, insomma, quello che scrive sia sempre un altro da sé. Di quanta salute mentale si possa godere, sarà sempre necessario trovare un sollievo dallo stress della scrittura pubblica: chi in un modo, chi in un altro, si fa ricorso alla controfigura, un Io narrante (o, quel che è peggio, recitante) che non c'entra un beneamato cazzo col blogger Tal dei Tali, contabile in una fabbrica semiabusiva di scarpe, balbuziente, strabico, con fastidiosa ragade anale – lui, il blogger, quello che nella blogosfera è un sandinista molto sexy o un San Giorgio contro i medici abortisti o un Sergio Romano preciso-sputato o un folletto beffardo o una reliquia di onestà intellettuale o una Zia Kelly, che conosce bene quanto è torbido il mondo e ci sciacqua dentro le ciglia finte quando torna dal bukkake. Voglio dire, caro Mirko: usare Malvino invece di Castaldi mi sembra il minimo. Io non sono assolutamente Malvino quando spengo il pc».
I blogger cominciano ad intervistarsi tra di loro. Potrebbe essere un brutto segno. Voglia di autoreferenzialità, ma - Dio mio! - quella è sempre esistita nei blogger. La vanità è componente essenziale del bloggare e sembra che ogni piattaforma te ne regali un po' all'atto dell'iscrizione. Hanno cominciato i tocquevillers in un modo per la verità un po' troppo autocelebrativo e "gruppettaro".
Li ha esplicitamente imitati Mirko Morini, Butirrometro. Un po' per sfotterli, certo, ma dovrà pure ammettere che il format gli è piaciuto.
A Butirrometro il merito di aver fatto conoscere alla blogosfera uno dei blog più discussi: Malvino. Rischiando di apparire banale, direi che o lo si ama, o lo si odia. Malvino è una lettura indispensabile nella blogosfera, e chi pensa che scriva "solo" di Chiesa e Ferrara s'inganna. Conoscere di persona il titolare è un dono. Sa di genuino e, un po' come diceva Montanelli dei radicali, di bucato. Ma ecco l'intervista, di cui riposto un breve passaggio.
«... penso che in varia misura l'attività di blogger sia sempre un po' alienante – che, insomma, quello che scrive sia sempre un altro da sé. Di quanta salute mentale si possa godere, sarà sempre necessario trovare un sollievo dallo stress della scrittura pubblica: chi in un modo, chi in un altro, si fa ricorso alla controfigura, un Io narrante (o, quel che è peggio, recitante) che non c'entra un beneamato cazzo col blogger Tal dei Tali, contabile in una fabbrica semiabusiva di scarpe, balbuziente, strabico, con fastidiosa ragade anale – lui, il blogger, quello che nella blogosfera è un sandinista molto sexy o un San Giorgio contro i medici abortisti o un Sergio Romano preciso-sputato o un folletto beffardo o una reliquia di onestà intellettuale o una Zia Kelly, che conosce bene quanto è torbido il mondo e ci sciacqua dentro le ciglia finte quando torna dal bukkake. Voglio dire, caro Mirko: usare Malvino invece di Castaldi mi sembra il minimo. Io non sono assolutamente Malvino quando spengo il pc».
Giornali di lotta... comunista
Vorrei tanto sapere se i direttori di Libero e il Giornale quando si guardano allo specchio vedono riflessi i loro colleghi di Liberazione e del Manifesto. La violenza verbale e la rappresentazione ideologica della realtà nei titoli di apertura somigliano sempre di più a quelle dei due quotidiani di lotta comunista. Serve questo al centrodestra? Serve cementare contro l'avversario politico un sentimento uguale, anche se di segno opposto, all'"antiberlusconismo"? O non sarebbe meglio, piuttosto, guardare in casa propria un po' meno con gli occhi del tifoso?
Furbi per le tessere
Il signor Pieraldo Ciucchi, segretario regionale dello Sdi della Toscana, ha insistito per giorni affinché Sergio D'Elia rinunciasse all'incarico di segretario della Presidenza della Camera, sottoponendosi al giudizio di legittimità sulla sua carica dinanzi alla cittadinanza fiorentina riunita in assemblea (!).
Come mai questo attivismo? Ah, già. L'agente di polizia Dionisi è stato ucciso a Firenze. Mariella Magi, la vedova, vive e lavora a Firenze ed è anche iscritta dello Sdi - anche se i dirigenti locali non devono averla molto coinvolta negli ultimi tempi se non ha fatto caso alla candidatura di D'Elia prima che venisse eletto alla segreteria della Camera. Sarà mica un modo come un altro, quello del Ciucchi, per rimpinguare il proprio "portafoglio" di tessere Sdi?
Politica alta, bravo "compagno".
Come mai questo attivismo? Ah, già. L'agente di polizia Dionisi è stato ucciso a Firenze. Mariella Magi, la vedova, vive e lavora a Firenze ed è anche iscritta dello Sdi - anche se i dirigenti locali non devono averla molto coinvolta negli ultimi tempi se non ha fatto caso alla candidatura di D'Elia prima che venisse eletto alla segreteria della Camera. Sarà mica un modo come un altro, quello del Ciucchi, per rimpinguare il proprio "portafoglio" di tessere Sdi?
Politica alta, bravo "compagno".
Furbi per la Vita
La Fondazione Ideazione, insieme all'Associazione Scienza & Vita, alla Fondazione Magna Charta, al Movimento per la Vita e ad altre associazioni, si è fatta promotrice, la scorsa settimana, di un appello rivolto a tutti i deputati del Parlamento Europeo perché votassero «contro il finanziamento europeo sulla ricerca sulle cellule staminali embrionali».
Per quale motivo gli stati europei in cui questo tipo di ricerche sono permesse non potrebbero avvalersi di fondi europei che hanno anch'essi contribuito a costituire? Il Parlamento europeo, qualche giorno fa, ha infine deliberato a favore degli stanziamenti. Ma a farmi trasecolare non è stato l'obiettivo dell'appello, quanto le argomentazioni palesemente infondate e mistificatorie su cui si reggeva. Andiamo a leggere.
I protagonisti della campagna per l'astensione ai referendum contro la legge 40, dopo aver rinunciato a far prevalere i "no" nelle urne, preferendo l'esito pratico di far fallire la consultazione, non possono ora pretendere anche che il referendum abbia l'effetto che la legge prevede solo nel caso in cui venga raggiunto il quorum e prevalgano i "no", strumentalizzando così almeno un 40% di astensione fisiologica e quanti non si sono recati alle urne perché confusi o indecisi.
Dunque, è falso che sia stato «in gioco il rispetto delle regole democratiche nel nostro paese, e quindi in Europa».
Dunque, al di là del merito dell'appello, le argomentazioni su cui si basava erano pesantemente mistificatorie, in linea con i metodi della corrente reazionaria in cui i Pera, i Ferrara, i Mantovano e i Ruini hanno ormai trascinato il centrodestra, condannandolo nei prossimi anni a posizioni di retroguardia non in sintonia con i suoi potenziali elettori.
Per quale motivo gli stati europei in cui questo tipo di ricerche sono permesse non potrebbero avvalersi di fondi europei che hanno anch'essi contribuito a costituire? Il Parlamento europeo, qualche giorno fa, ha infine deliberato a favore degli stanziamenti. Ma a farmi trasecolare non è stato l'obiettivo dell'appello, quanto le argomentazioni palesemente infondate e mistificatorie su cui si reggeva. Andiamo a leggere.
Proprio un anno fa in Italia c'è stato un referendum con cui si voleva abrogare la legge che regola la fecondazione assistita. A quella votazione si è astenuto il 75% degli italiani, favorevoli al mantenimento di quella legge, nella quale, fra l'altro, si vieta la ricerca sugli embrioni.Ecco la prima falsità. In quanto astenuti non si può dare per scontato che il 75% degli italiani fosse «favorevole» al mantenimento della legge oggetto del referendum. La Costituzione fissa per la validità dei referendum abrogativi il quorum del 50%. Al di sotto, la consultazione è nulla, perché la maggioranza (il 75% nel nostro caso) non si è espressa. Per effetto di questa norma già all'indomani di un referendum in cui non fosse raggiunto il quorum il Parlamento può intervenire a modificare la legge in questione, mentre questa è intoccabile per ben cinque anni se in un referendum valido, cioè in cui venisse raggiunto il 50% dei votanti, vincessero i "no".
I protagonisti della campagna per l'astensione ai referendum contro la legge 40, dopo aver rinunciato a far prevalere i "no" nelle urne, preferendo l'esito pratico di far fallire la consultazione, non possono ora pretendere anche che il referendum abbia l'effetto che la legge prevede solo nel caso in cui venga raggiunto il quorum e prevalgano i "no", strumentalizzando così almeno un 40% di astensione fisiologica e quanti non si sono recati alle urne perché confusi o indecisi.
Il 30 maggio, al Consiglio dell'Unione Europea, il nuovo ministro italiano dell'Università e della Ricerca Scientifica ha compiuto un atto politico grave e prevaricatorio, scegliendo di ignorare il risultato della consultazione democratica dello scorso anno. Il ministro Mussi ha infatti ritirato l'adesione dell'Italia alla "dichiarazione etica" dello scorso 28 e 29 novembre 2005, in cui l'Italia, insieme ad altri paesi europei, si opponeva al finanziamento di ricerche - nell'ambito del settimo programma quadro - che avrebbero comportato la distruzione di embrioni... Ritirando del tutto arbitrariamente l'adesione dell'Italia a quella dichiarazione, il Ministro Mussi costringe noi italiani a finanziare con i nostri soldi le ricerche sugli embrioni che avvengono in altri paesi europei, e che in Italia non sono legali. Il ministro Mussi ha compiuto un atto politico autoritario, violando la volontà dei cittadini, che si è espressa chiaramente lo scorso anno.Nessun atto «prevaricatorio» né «autoritario», perché, come detto, il referendum nullo non è vincolante rispetto all'azione del Governo e del Parlamento, e nessuna «volontà» è stata violata, sia perché quella volontà non si è espressa affatto «chiaramente», è piuttosto vero il contrario, rendendo nullo il voto referendario, sia perché la firma revocata da Mussi non fu oggetto della consultazione e la decisione non viola in alcun modo la legge 40 ancora in vigore.
Il nuovo governo italiano ha sostenuto e coperto l'iniziativa del ministro, smentendo tutte le dichiarazioni fatte in proposito durante la campagna elettorale. Il motivo è semplice: la maggioranza dei membri dell'attuale governo fa parte dello schieramento uscito sconfitto dal referendum dello scorso anno. Invece di accettare democraticamente il verdetto popolare del referendum, il governo attuale, che ha vinto con uno scarto di voti minimo, ha deciso di rovesciarlo attraverso arbitrarie iniziative di potere.Si ritorna al punto, per la terza volta. Non c'è stato alcun «verdetto popolare», né si può dire che sia stato «rovesciato». Quella che appare nell'appello come una violazione della volontà popolare, quindi della legalità, è in realtà, semmai, la "violazione" di una, e solo una, delle possibili interpretazioni politiche dell'alto tasso di astensionismo, sostenuta da chi in quella campagna referendaria era parte in causa. I promotori dei referendum potrebbero per esempio sostenere che l'unica «volontà» accertata in modo inequivocabile, per mezzo dei voti espressi, risulta dal risultato che vede i "sì" prevalere sui "no" con percentuali che superano l'80%.
Dunque, è falso che sia stato «in gioco il rispetto delle regole democratiche nel nostro paese, e quindi in Europa».
Il prossimo 15 giugno, vi chiediamo di votare contro il finanziamento europeo sulla ricerca sulle cellule staminali embrionali, perché ogni stato possa decidere, in assoluta autonomia, se supportare o no questo tipo di ricerche.Andrebbe invece chiarito che il 15 giugno il Parlamento europeo ha espresso un voto che fa salva l'«assoluta autonomia» degli stati membri.
Dunque, al di là del merito dell'appello, le argomentazioni su cui si basava erano pesantemente mistificatorie, in linea con i metodi della corrente reazionaria in cui i Pera, i Ferrara, i Mantovano e i Ruini hanno ormai trascinato il centrodestra, condannandolo nei prossimi anni a posizioni di retroguardia non in sintonia con i suoi potenziali elettori.
Monday, June 19, 2006
L'Italia degli outsider
Più liberale, quindi più giusta
Da pochi giorni eletto presidente della Commissione Attività produttive della Camera, non si può certo dire che Daniele Capezzone perda tempo. Ha già lanciato un ispirato manifesto-appello, pubblicato sabato scorso su Il Sole 24 Ore, «per uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Parla «al popolo dei non garantiti», milioni di consumatori, giovani, donne, imprenditori dell'innovazione, lavoratori del privato, disoccupati, sottoccupati, pensionati, immigrati, tutti «fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi», «silenziati prima ancora che silenziosi».
Raccoglie le prime illustri adesioni, rigorosamente bipartisan ma tutte unite dal comune denominatore liberale: da Alberto Alesina a Francesco Giavazzi, da Oscar Giannino ad Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, dell'IBL. Già in campagna elettorale Capezzone e i radicali avevano fatto di tutto per introdurre nel dibattito politico i temi posti dalla cosiddetta "agenda Giavazzi". Oggi ancor più stonate suonano le pretestuose lagnanze di chi vede una Rosa nel Pugno «sbilanciata sui temi tradizionali dei radicali» (come se le riforme economiche non ne facessero parte) e i «contenuti sociali» sacrificati (Cesare Marini, il Riformista, 17 giugno).
I fatti dicono che la Rosa nel Pugno in questi giorni ha aggredito le due questioni sociali più vaste e urgenti del paese con altrettante campagne aperte. L'iniziativa nonviolenta di Pannella e altri 1.500 cittadini, non per un atto di clemenza, ma di giustizia, e ora quella di Capezzone. Peccato che sul campo siano scesi solo i radicali, mentre i socialisti dello Sdi sono rimasti a scaldare le poltrone in tribuna, in attesa di qualche campo profughi allestito per loro in zona Ds.
Il manifesto di Capezzone, che si può sottoscrivere qui (e vi sollecito a farlo) ha il merito di comunicare tutto l'ottimismo e la freschezza di un giovane politico di talento. «L'Italia ce la può fare. E' ancora possibile invertire la rotta sia rispetto ai segni concreti di declino, sia rispetto alla retorica del "declino inevitabile"». Detto questo, però, non cede a facili illusioni: le cose non vanno affatto bene e «occorre voltare pagina». L'analisi è precisa e implacabile:
1) «imboccare con decisione la via delle liberalizzazioni» e delle "riforme senza spesa" (i servizi di pubblica utilità, anche a livello locale, in una corretta suddivisione dei ruoli tra pubblico e privato; il superamento degli ordini professionali; l'abolizione del valore legale del titolo di studio universitario; nuove imprese aperte in 7 giorni), perché «la concorrenza è per definizione un agente di giustizia sociale: e il superamento delle rendite monopolistiche e oligopolistiche, con relativa riduzione dei costi dei servizi, è un fattore fondamentale di miglioramento delle condizioni di vita in primo luogo delle fasce più povere della popolazione».
2) riforme strutturali: sanità, pubblico impiego e pensioni, «a partire dall'innalzamento dell'età media effettiva di pensionamento, in una nuova alleanza tra padri e figli, e con atti di generosità dei primi nei confronti dei secondi». Non solo tagli della spesa, ma anche nuove regole per controllarne la crescita in futuro.
3) per il mercato del lavoro «ripartire» dal Libro Bianco di Marco Biagi. Invece delle garanzie attuali, che tutelano 17 lavoratori su 100 che perdono il lavoro, «pensare al modello inglese, con un sussidio di disoccupazione, e un meccanismo di "welfare to work"».
Una «coraggiosa» politica di riforme e di modernizzazione, conclude Capezzone, «avrebbe la doppia caratteristica di rimettere il paese in movimento e - insieme - di aiutare i più deboli».
«Ogni volta che ho introdotto una riforma, mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti».
Tony Blair
Da pochi giorni eletto presidente della Commissione Attività produttive della Camera, non si può certo dire che Daniele Capezzone perda tempo. Ha già lanciato un ispirato manifesto-appello, pubblicato sabato scorso su Il Sole 24 Ore, «per uno statuto degli outsider e una nuova alleanza sociale». Parla «al popolo dei non garantiti», milioni di consumatori, giovani, donne, imprenditori dell'innovazione, lavoratori del privato, disoccupati, sottoccupati, pensionati, immigrati, tutti «fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi», «silenziati prima ancora che silenziosi».
Raccoglie le prime illustri adesioni, rigorosamente bipartisan ma tutte unite dal comune denominatore liberale: da Alberto Alesina a Francesco Giavazzi, da Oscar Giannino ad Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, dell'IBL. Già in campagna elettorale Capezzone e i radicali avevano fatto di tutto per introdurre nel dibattito politico i temi posti dalla cosiddetta "agenda Giavazzi". Oggi ancor più stonate suonano le pretestuose lagnanze di chi vede una Rosa nel Pugno «sbilanciata sui temi tradizionali dei radicali» (come se le riforme economiche non ne facessero parte) e i «contenuti sociali» sacrificati (Cesare Marini, il Riformista, 17 giugno).
I fatti dicono che la Rosa nel Pugno in questi giorni ha aggredito le due questioni sociali più vaste e urgenti del paese con altrettante campagne aperte. L'iniziativa nonviolenta di Pannella e altri 1.500 cittadini, non per un atto di clemenza, ma di giustizia, e ora quella di Capezzone. Peccato che sul campo siano scesi solo i radicali, mentre i socialisti dello Sdi sono rimasti a scaldare le poltrone in tribuna, in attesa di qualche campo profughi allestito per loro in zona Ds.
Il manifesto di Capezzone, che si può sottoscrivere qui (e vi sollecito a farlo) ha il merito di comunicare tutto l'ottimismo e la freschezza di un giovane politico di talento. «L'Italia ce la può fare. E' ancora possibile invertire la rotta sia rispetto ai segni concreti di declino, sia rispetto alla retorica del "declino inevitabile"». Detto questo, però, non cede a facili illusioni: le cose non vanno affatto bene e «occorre voltare pagina». L'analisi è precisa e implacabile:
«Un sistema dei partiti vecchio, eppure ancora troppo potente e costoso, inchioda il paese e la politica italiana a risse di fazioni, a scontri di tifoserie: e da oltre un decennio, a maggioranze troppo timide rispetto alle grandi urgenze di cambiamento, si contrappongono opposizioni dedite a tentare di scalzare e demonizzare i Governi, ma incapaci di sfidarli sul terreno di solide controproposte di riforma. Così, si moltiplicano le occasioni e i fenomeni di sterile conflittualità, che fanno il gioco delle componenti più illiberali e conservatrici dei due schieramenti, così come delle mille lobby impegnate a proteggere i propri privilegi, mentre si impediscono quei confronti che nutrono le democrazie, rendono più saldo il tessuto civile e aiutano il prevalere, dentro e fuori i Poli maggiori, delle forze liberali e riformatrici».Per invertire la pesante tendenza di tutto questo, «occorre una terapia d'urto»:
«Servono non maggiori protezioni ma una più concreta offerta di chances al popolo dei "non garantiti": occorre un vero e proprio "statuto degli outsider", di quanti (consumatori, giovani, imprenditori del rischio e dell'innovazione, donne, lavoratori del privato, disoccupati, sottoccupati, pensionati sociali e al minimo, immigrati) sono e restano fuori dal fortino delle garanzie e dei privilegi. Questa Italia degli "outsider", dei "non garantiti", di fatto priva di tutele, è oggi senza volto e senza voce, silenziata prima ancora che silenziosa».Altrettanto chiara è la via che viene indicata dal manifesto. Tre priorità:
1) «imboccare con decisione la via delle liberalizzazioni» e delle "riforme senza spesa" (i servizi di pubblica utilità, anche a livello locale, in una corretta suddivisione dei ruoli tra pubblico e privato; il superamento degli ordini professionali; l'abolizione del valore legale del titolo di studio universitario; nuove imprese aperte in 7 giorni), perché «la concorrenza è per definizione un agente di giustizia sociale: e il superamento delle rendite monopolistiche e oligopolistiche, con relativa riduzione dei costi dei servizi, è un fattore fondamentale di miglioramento delle condizioni di vita in primo luogo delle fasce più povere della popolazione».
2) riforme strutturali: sanità, pubblico impiego e pensioni, «a partire dall'innalzamento dell'età media effettiva di pensionamento, in una nuova alleanza tra padri e figli, e con atti di generosità dei primi nei confronti dei secondi». Non solo tagli della spesa, ma anche nuove regole per controllarne la crescita in futuro.
3) per il mercato del lavoro «ripartire» dal Libro Bianco di Marco Biagi. Invece delle garanzie attuali, che tutelano 17 lavoratori su 100 che perdono il lavoro, «pensare al modello inglese, con un sussidio di disoccupazione, e un meccanismo di "welfare to work"».
Una «coraggiosa» politica di riforme e di modernizzazione, conclude Capezzone, «avrebbe la doppia caratteristica di rimettere il paese in movimento e - insieme - di aiutare i più deboli».
«Ogni volta che ho introdotto una riforma, mi sono pentito solo di non essermi spinto ancora più avanti».
Tony Blair
Friday, June 16, 2006
La doppiezza di D'Alema non porta lontano
Non sarà mai un leader, semmai un perfetto oligarca
Quanto riporta oggi Maurizio Molinari su La Stampa sarebbe particolarmente grave se fosse vero. Nelle ultime settimane Roma ha «parlato in privato in una maniera ed in pubblico in un'altra», si sente ripetere in ambienti diplomatici statunitensi.
Non bisogna essere troppo acuti per rintracciare in D'Alema elementi tipici di quella cinica doppiezza che fu di Togliatti (anche se il Migliore rimane insuperabile), ma davvero D'Alema in questi giorni ci ha ricordato il vecchio Arafat, che quando parlava in inglese - negli incontri, alle conferenze, o sulle tv internazionali - appariva mansueto e dialogante, mentre quando si rivolgeva alla sua gente, in arabo, fomentava l'odio. Così, il nostro ministro degli Esteri parla due lingue. La prima è riservata alle diplomazie, ai convegni prestigiosi, agli eventi "fuori casa", per apparire responsabile, affidabile, pragmatico, persino un pizzico liberista davanti a Montezemolo, leale atlantista e neocon davanti a Bush.
Prendete, per esempio, l'articolo fatto uscire sul Wall Street Journal (tradotto ieri su Il Foglio), di tutta evidenza preparatorio agli incontri di oggi a Washington con il segretario di Stato Condoleezza Rice e il consigliere Hadley. Lì si vanta dell'intervento del governo da lui presieduto nei Balcani (ma in patria quasi lo nasconde); parla dell'Unione europea «partner» degli Stati Uniti, e non un «contrappeso»; arriva a enunciare un principio base dei neocon e della dottrina Bush:
Continuando in questo modo, ammesso che gli americani non si stufino, potrà anche ottenere dei risultati dal punto di vista diplomatico, ma di sicuro con la sua dissimulazione contribuisce a ritardare, a frenare, addirittura a ostacolare, la diffusione di una cultura di sinistra liberale e antitotalitaria.
Indubbiamente un politico di spessore deve essere in grado di parlare considerando la platea cui si rivolge, ma non fino al punto di portare avanti due politiche divergenti e di assecondare gli interlocutori. Non sarà mai un leader, semmai un perfetto oligarca.
Quanto riporta oggi Maurizio Molinari su La Stampa sarebbe particolarmente grave se fosse vero. Nelle ultime settimane Roma ha «parlato in privato in una maniera ed in pubblico in un'altra», si sente ripetere in ambienti diplomatici statunitensi.
«Prima e dopo il voto del 9 aprile gli inviati Usa hanno ricevuto dal centrosinistra rassicurazioni chiare sul fatto che l'Italia avrebbe accettato di lasciare una "missione civile protetta" a Nassiryah e fra coloro che hanno ascoltato queste affermazioni c'è anche Kurt Volker, stretto collaboratore della Rice. Ma nelle ultime due settimane D'Alema e il ministro della Difesa Parisi hanno parlato pubblicamente di "ritiro totale", smentendo i messaggi riservati che fino a quel momento erano giunti a Washington».Purtroppo ci pare quanto meno verosimile, essendo la stessa impressione che abbiamo ricavato dalle dichiarazioni di queste settimane. Comprensibile l'«irritazione» americana.
Non bisogna essere troppo acuti per rintracciare in D'Alema elementi tipici di quella cinica doppiezza che fu di Togliatti (anche se il Migliore rimane insuperabile), ma davvero D'Alema in questi giorni ci ha ricordato il vecchio Arafat, che quando parlava in inglese - negli incontri, alle conferenze, o sulle tv internazionali - appariva mansueto e dialogante, mentre quando si rivolgeva alla sua gente, in arabo, fomentava l'odio. Così, il nostro ministro degli Esteri parla due lingue. La prima è riservata alle diplomazie, ai convegni prestigiosi, agli eventi "fuori casa", per apparire responsabile, affidabile, pragmatico, persino un pizzico liberista davanti a Montezemolo, leale atlantista e neocon davanti a Bush.
Prendete, per esempio, l'articolo fatto uscire sul Wall Street Journal (tradotto ieri su Il Foglio), di tutta evidenza preparatorio agli incontri di oggi a Washington con il segretario di Stato Condoleezza Rice e il consigliere Hadley. Lì si vanta dell'intervento del governo da lui presieduto nei Balcani (ma in patria quasi lo nasconde); parla dell'Unione europea «partner» degli Stati Uniti, e non un «contrappeso»; arriva a enunciare un principio base dei neocon e della dottrina Bush:
«La promozione della libertà e della democrazia, così come la lotta a favore dello sviluppo e contro la povertà nel mondo non sono solo un dovere morale delle democrazie, ma anche la nostra migliore politica di sicurezza».Poi però viene il tempo dei Porta a Porta, o dei Ballarò, viene la stagione dei comizi, la politica di "casa nostra", bisogna parlare alla "base" che "non capirebbe", ai movimenti, a Bertinotti e a Diliberto, e allora la sua lingua diventa l'anti-americanismo. L'importante è gestire il consenso, non spenderlo - e spendersi - rischiando di suo per costruire qualcosa di nuovo.
Continuando in questo modo, ammesso che gli americani non si stufino, potrà anche ottenere dei risultati dal punto di vista diplomatico, ma di sicuro con la sua dissimulazione contribuisce a ritardare, a frenare, addirittura a ostacolare, la diffusione di una cultura di sinistra liberale e antitotalitaria.
Indubbiamente un politico di spessore deve essere in grado di parlare considerando la platea cui si rivolge, ma non fino al punto di portare avanti due politiche divergenti e di assecondare gli interlocutori. Non sarà mai un leader, semmai un perfetto oligarca.
Natura è cultura
E' vero, come scrive Corrado Ocone su il Riformista, che cattolici e ambientalisti dànno troppo per scontata «la naturalità della natura». Ci credono «a priori, senza mai porsi un dubbio». La naturalità della natura diventa quindi «un luogo comune», un altro di quei nocivi «automatismi del pensiero» che non ci fanno fare molti passi avanti.
Dunque, «tutto ciò che viene giudicato pertinente alla natura», definito «naturale», viene giudicato «di per se stesso e senza appello positivo e da favorire». Al contrario, tutto quanto è percepito come «tecnico e artificiale», contiene in sé un'essenza «demoniaca e contronatura».
Dal nucleare alla fecondazione assistita, dagli ogm alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Trattandosi di problemi seri, occorrerebbe affrontarli «facendo appello esclusivamente alla nostra responsabilità di esseri umani, senza nessuna autorità esterna alla nostra coscienza che ci dia garanzie e certezze, badando laicamente alle conseguenze delle azioni», spiega Ocone:
Per fare un esempio. Esiste in natura l'omosessualità, dunque come può dirsi «contro natura», se non avendo come metro di giudizio una concezione idealizzata o religiosa di natura, comunque in tutto derivata dalla propria cultura storica e antropologica di riferimento?
Dunque, «tutto ciò che viene giudicato pertinente alla natura», definito «naturale», viene giudicato «di per se stesso e senza appello positivo e da favorire». Al contrario, tutto quanto è percepito come «tecnico e artificiale», contiene in sé un'essenza «demoniaca e contronatura».
Dal nucleare alla fecondazione assistita, dagli ogm alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Trattandosi di problemi seri, occorrerebbe affrontarli «facendo appello esclusivamente alla nostra responsabilità di esseri umani, senza nessuna autorità esterna alla nostra coscienza che ci dia garanzie e certezze, badando laicamente alle conseguenze delle azioni», spiega Ocone:
«Tutto sarebbe più facile e tanti luoghi comuni presto scomparirebbero se prima di tutto si eliminasse dal nostro orizzonte mentale e dai nostri discorsi quello che è il luogo comune per eccellenza, quello da cui tutti gli altri discendono. E cioè, appunto, quello che afferma che esiste una natura in sé e che ciò che le pertiene va rigorosamente distinto e separato da tutto il resto».D'altronde, non fa anche l'uomo parte della natura? Non è quindi "naturale" ciò che egli fa? La distinzione di quanto è "naturale" da quanto non lo è in verità è molto arbitraria. Il concetto di natura però non lo definirei «dubbio e vago», piuttosto è il concetto che forse più di ogni altro risponde alla nostra cultura: attraverso le sue lenti filtriamo la realtà giungendo a una concezione idealizzata di natura.
Per fare un esempio. Esiste in natura l'omosessualità, dunque come può dirsi «contro natura», se non avendo come metro di giudizio una concezione idealizzata o religiosa di natura, comunque in tutto derivata dalla propria cultura storica e antropologica di riferimento?
Come l'Europa tradisce le nuove generazioni
Impietosa inchiesta di Newsweek sui sistemi scolastici e universitari europei: «... sotto-finanziati, antiquati e super-burocratizzati, stanno rovinando una nuova generazione».
La Sapienza, con i suoi 150 mila iscritti, viene presa a massimo esempio negativo, ma non si salva nessuno dei sistemi europei, con l'eccezione della Gran Bretagna.
Le università europee, rispetto agli iscritti, «producono troppo pochi laureati e spesso con competenze sorpassate». Altro che «equità sociale», ciò che si realizza è proprio diseguaglianza e discriminazione, persino razziale, con gravi deficit di integrazione.
Gli abbandoni raggiungono «la spaventosa percentuale del 60% nelle università italiane», con un'«incredibile spreco di talento, tempo e risorse». «L'Italia è uno dei molti paesi che non ha alcun sistema di test e valutazione, così non c'è modo di sapere come ciascun istituto stia funzionando».
Ogni riforma di questi obsoleti sistemi «è stata bloccata a lungo da una combinazione di ideologia e di desiderio di nascondere la testa sotto la sabbia».
«Nessuno di questi paesi sta compiendo un dibattito strategico su dove vogliono trovarsi fra 10 dieci anni», commenta Andreas Schleicher, dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo. «Né sembrano voler affrontare le vere cause della malattia. Senza cambiamenti, il futuro dell'Europa sarà davvero tetro», conclude l'inchiesta.
La Sapienza, con i suoi 150 mila iscritti, viene presa a massimo esempio negativo, ma non si salva nessuno dei sistemi europei, con l'eccezione della Gran Bretagna.
Le università europee, rispetto agli iscritti, «producono troppo pochi laureati e spesso con competenze sorpassate». Altro che «equità sociale», ciò che si realizza è proprio diseguaglianza e discriminazione, persino razziale, con gravi deficit di integrazione.
Gli abbandoni raggiungono «la spaventosa percentuale del 60% nelle università italiane», con un'«incredibile spreco di talento, tempo e risorse». «L'Italia è uno dei molti paesi che non ha alcun sistema di test e valutazione, così non c'è modo di sapere come ciascun istituto stia funzionando».
Ogni riforma di questi obsoleti sistemi «è stata bloccata a lungo da una combinazione di ideologia e di desiderio di nascondere la testa sotto la sabbia».
«Nessuno di questi paesi sta compiendo un dibattito strategico su dove vogliono trovarsi fra 10 dieci anni», commenta Andreas Schleicher, dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo. «Né sembrano voler affrontare le vere cause della malattia. Senza cambiamenti, il futuro dell'Europa sarà davvero tetro», conclude l'inchiesta.
Su Guantanamo e altri pruriti moralistici
Non passa praticamente giorno in cui un capo di stato o di governo, o un ministro degli esteri europeo, non chieda a Bush di farla finita. Ci sono più pressioni internazionali su Washington per la prigione di Guantanamo - che rimane un caso giuridico estremamente complesso e discutibile - che su qualsiasi altro paese palesemente abituale violatore dei diritti umani e massacratore di corpi. Troppo facile così.
«Quando i terroristi sono ricercati per la violazione di leggi Usa e si trovano all'estero, il loro rientro dovrà essere una materia prioritaria e l'argomento centrale nelle relazioni bilaterali con qualsiasi paese che li ospiti o li assista: nel caso in cui stessimo richiedendo l'estradizione di un terrorista e lo stato che lo ospita non fornisse un adeguato supporto, allora adotteremo le misure più appropriate per ottenere la collaborazione necessaria. In ogni caso il rientro forzato dei sospetti può essere effettuato senza la cooperazione del governo che li ospita applicando le procedure previste dal National Security Directive n.77 che rimangono in vigore».
Firmato George W. Bush? No, Bill J. Clinton, il 21 giugno 1995. Come meritoriamente riportava ieri, in prima pagina, il Riformista, tracciando la storia e il quadro giuridico delle famigerate extraordinary renditions, altro argomento caldo nei rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Il «rientro forzato dei sospetti» è regolato dalla Direttiva 77, emanata da George Bush padre nel gennaio 1993.
Una misura diretta conseguenza del primo attacco del terrorismo islamico sul suolo americano: l'esplosione di una bomba nei sotterranei del WTC, che avrebbe potuto provocare il crollo dei due grattacieli con otto anni di anticipo.
Il dispositivo legale delle extraordinary renditions fu fornito dal Procuratore generale degli Stati Uniti fin dal 1989, su richiesta dell'Fbi. Il parere, che ha valore normativo, conferisce all'Fbi il compito «di indagare e arrestare soggetti che abbiano violato le leggi statunitensi anche se le azioni condotte dall'Fbi dovessero risultare in contrasto con le leggi internazionali. Le attività da condurre all'estero, qualora debitamente autorizzate dalle leggi nazionali statunitensi, non possono essere bloccate nel caso violino trattati non ratificati o già in vigore come l'articolo 2 della Carta delle Nazioni unite. Un arresto effettuato in contrasto con la legge internazionale o di un paese estero non viola il quarto emendamento» (della costituzione americana che protegge le libertà individuali).
Dunque, i paesi europei non facciano finta di niente o, peggio, gli scandalizzati. Quello delle extraordinary renditions è un sistema in atto da almeno un decennio, che su territorio europeo è stato ed è materia di negoziato con le capitali europee. Sta ad esse, senza sdegnati e più o meno finti moralismi, decidere i limiti giuridici della loro cooperazione con Washington nella lotta al terrorismo. O ci stanno, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, o no, e allora facciano rispettare le proprie leggi.
«Quando i terroristi sono ricercati per la violazione di leggi Usa e si trovano all'estero, il loro rientro dovrà essere una materia prioritaria e l'argomento centrale nelle relazioni bilaterali con qualsiasi paese che li ospiti o li assista: nel caso in cui stessimo richiedendo l'estradizione di un terrorista e lo stato che lo ospita non fornisse un adeguato supporto, allora adotteremo le misure più appropriate per ottenere la collaborazione necessaria. In ogni caso il rientro forzato dei sospetti può essere effettuato senza la cooperazione del governo che li ospita applicando le procedure previste dal National Security Directive n.77 che rimangono in vigore».
Firmato George W. Bush? No, Bill J. Clinton, il 21 giugno 1995. Come meritoriamente riportava ieri, in prima pagina, il Riformista, tracciando la storia e il quadro giuridico delle famigerate extraordinary renditions, altro argomento caldo nei rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Il «rientro forzato dei sospetti» è regolato dalla Direttiva 77, emanata da George Bush padre nel gennaio 1993.
Una misura diretta conseguenza del primo attacco del terrorismo islamico sul suolo americano: l'esplosione di una bomba nei sotterranei del WTC, che avrebbe potuto provocare il crollo dei due grattacieli con otto anni di anticipo.
Il dispositivo legale delle extraordinary renditions fu fornito dal Procuratore generale degli Stati Uniti fin dal 1989, su richiesta dell'Fbi. Il parere, che ha valore normativo, conferisce all'Fbi il compito «di indagare e arrestare soggetti che abbiano violato le leggi statunitensi anche se le azioni condotte dall'Fbi dovessero risultare in contrasto con le leggi internazionali. Le attività da condurre all'estero, qualora debitamente autorizzate dalle leggi nazionali statunitensi, non possono essere bloccate nel caso violino trattati non ratificati o già in vigore come l'articolo 2 della Carta delle Nazioni unite. Un arresto effettuato in contrasto con la legge internazionale o di un paese estero non viola il quarto emendamento» (della costituzione americana che protegge le libertà individuali).
Dunque, i paesi europei non facciano finta di niente o, peggio, gli scandalizzati. Quello delle extraordinary renditions è un sistema in atto da almeno un decennio, che su territorio europeo è stato ed è materia di negoziato con le capitali europee. Sta ad esse, senza sdegnati e più o meno finti moralismi, decidere i limiti giuridici della loro cooperazione con Washington nella lotta al terrorismo. O ci stanno, assumendosene la responsabilità in modo trasparente, o no, e allora facciano rispettare le proprie leggi.
Thursday, June 15, 2006
Proibire la droga va contro i miei valori
«La legalizzazione delle droghe ha effetti positivi. Intendiamoci: io sono contro tutti gli stupefacenti, ma penso che non sia con il proibizionismo che si risolva il problema». L'intervista di Umberto Veronesi al settimanale Grazia è stata ripresa dal Corriere della Sera.
Dell'ex ministro Veronesi si tratta, e non dell'ultimo bolscevico portato al governo da Prodi. «Stanze del buco» o meno, fuori da tutte le ironie, e a prescindere da quali siano le proposte concrete più convincenti, bisognerà pure constatare il dato di fatto del fallimento delle politiche proibizioniste sulle droghe. Oggi la droga è già "libera", solo che noi la vorremmo legalizzata, cioè controllata. Su questi problemi l'atteggiamento dei liberali non può che essere pragmatico. Come su ogni altra questione, se da decenni si persegue una politica di un certo tipo, chiedersi se abbia funzionato o meno è una domanda fisiologica. La mia risposta è no.
Che non avrebbe funzionato, d'altra parte, lo aveva previsto già anni fa, e non smette di ripeterlo a novant'anni suonati, Milton Friedman (che non è un Paolo Ferrero): «Sono favorevole alla legalizzazione delle droghe. Secondo il mio sistema di valori se la gente desidera uccidersi ha ogni diritto di farlo. La maggior parte del danno che viene dalle droghe deriva dalla loro illegalità».
«Nessuno dice che fanno bene», assicura anche Veronesi:
Dunque, che fare? Chi ha più sale in zucca lo adopera. Per le droghe leggere la soluzione più ragionevole è rendere legale la commercializzazione e il consumo, e regolarli. Sono ormai milioni gli italiani (come gli olandesi) che ne fanno un uso più o meno regolare e non mi pare che questo li renda cittadini disonesti, pericolosi, o di serie B sul posto di lavoro, in famiglia e in tutte le altre attività quotidiane.
Per quanto riguarda le droghe cosiddette pesanti, occorre essere aperti a sperimentazioni che in molti paesi civili (non comunisti) stanno dando alcuni risultati non trascurabili.
Si può pensare a spazi, all'interno di strutture sanitarie, destinati all'autosomministrazione da parte dei tossicodipendenti. Una realtà in molti paesi europei, dalla Spagna (quella di Aznar il cattolico, non di Zapatero il "nichilista") all'Olanda, dalla Svizzera alla Germania. Luoghi sicuri in cui i tossicodipendenti possono fare uso di droghe in condizioni igieniche decenti e, magari, parlare del loro disagio, fisico e psichico, con personale competente. Ciò garantirebbe di diminuire il numero delle morti da overdose, di facilitare i contatti con i tossicodipendenti più marginali e frenare l'impatto sociale del consumo di droghe iniettive negli spazi pubblici.
In Svizzera, secondo uno studio condotto dall'universitá di Zurigo e pubblicato sull'ultimo numero del settimanale scientifico Lancet, il programma di somministrazione controllata di eroina, iniziato nel 1991, ha fatto calare il numero di tossicodipendenti. In dieci anni i neoconsumatori sono passati da 850 a 150. Né, ha spiegato Veronesi, ha provocato «la tanta temuta banalizzazione del consumo di eroina, cioè il rischio di usarla di più perchè era più facile procurarsela. Al contrario, la dipendenza da eroina è diventata sempre più un problema medico e ha perso la sua immagine di atto di ribellione».
Inoltre, più in generale, la clandestinità cui una sostanza è costretta contribuisce a impedire il formarsi intorno a essa di una cultura del suo corretto uso. Se oggi possiamo affermare che esiste una cultura addirittura «sofisticata» del vino è perché il suo consumo è libero e di massa. Certo, non manca chi ne fa un uso eccessivo e autolesionista.
Possiamo affermare, quindi, dopo decenni di sperimentazioni sul campo, che non solo le legislazioni proibizioniste non riescono a impedire il consumo delle droghe, ma impediscono il formarsi di una cultura del loro «buon uso». L'unico effetto che sembrano produrre è un uso disinformato e incontrollato che diviene facilmente abuso, il male peggiore. L'antiproibizionismo, al contrario, partendo dalla semplice constatazione che è letteralmente impossibile impedire a qualcuno di ingerire o iniettare nel proprio corpo una sostanza, promette proprio, o almeno, il libero formarsi di quella «cultura del buon uso» delle sostanze.
Di seguito una serie di miei post in materia di droghe:
La droga, e la libertà, sono più forti Per una cultura del «buon uso» degli psichedelici Il padre dell'Lsd e il consumo di massa di psichedelici Il padre dell'Lsd: tradito dai giornali
Dell'ex ministro Veronesi si tratta, e non dell'ultimo bolscevico portato al governo da Prodi. «Stanze del buco» o meno, fuori da tutte le ironie, e a prescindere da quali siano le proposte concrete più convincenti, bisognerà pure constatare il dato di fatto del fallimento delle politiche proibizioniste sulle droghe. Oggi la droga è già "libera", solo che noi la vorremmo legalizzata, cioè controllata. Su questi problemi l'atteggiamento dei liberali non può che essere pragmatico. Come su ogni altra questione, se da decenni si persegue una politica di un certo tipo, chiedersi se abbia funzionato o meno è una domanda fisiologica. La mia risposta è no.
Che non avrebbe funzionato, d'altra parte, lo aveva previsto già anni fa, e non smette di ripeterlo a novant'anni suonati, Milton Friedman (che non è un Paolo Ferrero): «Sono favorevole alla legalizzazione delle droghe. Secondo il mio sistema di valori se la gente desidera uccidersi ha ogni diritto di farlo. La maggior parte del danno che viene dalle droghe deriva dalla loro illegalità».
«Nessuno dice che fanno bene», assicura anche Veronesi:
«Ma abbiamo soltanto due scelte davanti a noi: proibire o educare. È possibile proibire? E, soprattutto, possiamo essere certi che la proibizione sia rispettata? Io credo di no. La proibizione non è un deterrente, al contrario fa aumentare nei giovani il desiderio della trasgressione. Non solo: la proibizione rende costosissime le droghe e spinge chi ne fa uso a compiere atti criminali per procurarsele... è all'origine del mercato nero che alimenta la malavita internazionale e in Italia è la principale fonte di sostentamento per la mafia. Sono convinto che se vogliamo combattere davvero la criminalitá organizzata bisognerá considerare seriamente l'abolizione del proibizionismo».Dal punto di vista prima di tutto fisico lo Stato con le sue agenzie di sicurezza non è in grado di impedire a qualcuno di ingerire o introdurre nel proprio corpo una qualsivoglia sostanza. Questi gli argomenti diciamo "realisti". Inoltre, la libertà di disporre del proprio corpo, come della propria coscienza, il diritto all'autodeterminazione, sono incoercibili in linea di principio. Certo, a una libertà massima nei propri comportamenti individuali corrisponde una responsabilità massima se essi recano danni ad altri. Dunque, si verrà sanzionati se sorpresi a guidare sotto l'effetto di droghe (come accade oggi con l'alcol), o - in misura maggiore - se si causano incidenti. Da queste parti non è mai "colpa della società".
Dunque, che fare? Chi ha più sale in zucca lo adopera. Per le droghe leggere la soluzione più ragionevole è rendere legale la commercializzazione e il consumo, e regolarli. Sono ormai milioni gli italiani (come gli olandesi) che ne fanno un uso più o meno regolare e non mi pare che questo li renda cittadini disonesti, pericolosi, o di serie B sul posto di lavoro, in famiglia e in tutte le altre attività quotidiane.
Per quanto riguarda le droghe cosiddette pesanti, occorre essere aperti a sperimentazioni che in molti paesi civili (non comunisti) stanno dando alcuni risultati non trascurabili.
Si può pensare a spazi, all'interno di strutture sanitarie, destinati all'autosomministrazione da parte dei tossicodipendenti. Una realtà in molti paesi europei, dalla Spagna (quella di Aznar il cattolico, non di Zapatero il "nichilista") all'Olanda, dalla Svizzera alla Germania. Luoghi sicuri in cui i tossicodipendenti possono fare uso di droghe in condizioni igieniche decenti e, magari, parlare del loro disagio, fisico e psichico, con personale competente. Ciò garantirebbe di diminuire il numero delle morti da overdose, di facilitare i contatti con i tossicodipendenti più marginali e frenare l'impatto sociale del consumo di droghe iniettive negli spazi pubblici.
In Svizzera, secondo uno studio condotto dall'universitá di Zurigo e pubblicato sull'ultimo numero del settimanale scientifico Lancet, il programma di somministrazione controllata di eroina, iniziato nel 1991, ha fatto calare il numero di tossicodipendenti. In dieci anni i neoconsumatori sono passati da 850 a 150. Né, ha spiegato Veronesi, ha provocato «la tanta temuta banalizzazione del consumo di eroina, cioè il rischio di usarla di più perchè era più facile procurarsela. Al contrario, la dipendenza da eroina è diventata sempre più un problema medico e ha perso la sua immagine di atto di ribellione».
Inoltre, più in generale, la clandestinità cui una sostanza è costretta contribuisce a impedire il formarsi intorno a essa di una cultura del suo corretto uso. Se oggi possiamo affermare che esiste una cultura addirittura «sofisticata» del vino è perché il suo consumo è libero e di massa. Certo, non manca chi ne fa un uso eccessivo e autolesionista.
Possiamo affermare, quindi, dopo decenni di sperimentazioni sul campo, che non solo le legislazioni proibizioniste non riescono a impedire il consumo delle droghe, ma impediscono il formarsi di una cultura del loro «buon uso». L'unico effetto che sembrano produrre è un uso disinformato e incontrollato che diviene facilmente abuso, il male peggiore. L'antiproibizionismo, al contrario, partendo dalla semplice constatazione che è letteralmente impossibile impedire a qualcuno di ingerire o iniettare nel proprio corpo una sostanza, promette proprio, o almeno, il libero formarsi di quella «cultura del buon uso» delle sostanze.
Di seguito una serie di miei post in materia di droghe:
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