Mario Monti non unirà le sue forze a quelle di Hollande (nel caso uscisse vincitore dal ballottaggio del 6 maggio per l'Eliseo) e a quelle di Madrid (in grave ritardo con i suoi obiettivi di bilancio) allo scopo di «piegare il rigorismo tedesco», come molti in Italia si aspettano. Nonostante le importanti differenze tra Merkel, Monti e Draghi, per diversità di ruoli e di interessi nazionali, la ricetta di Hollande resta diametralmente opposta alla loro.
Monti punta ad una "fase 2" in chiave europea piuttosto che italiana. Convinto di aver fatto i "compiti a casa", si aspetta dall'Ue qualcosa per rilanciare la crescita. In parte perché ha capito che in Italia non c'è spazio per le riforme «più ambiziose» che continua a chiedere Draghi; in parte perché non è mai stata volontà sua e del suo governo avviare l'unico vero cambiamento di paradigma che potrebbe rilanciare la nostra economia, e cioè un taglio della spesa pubblica e delle tasse di 5/6 punti di Pil. Essendo modesto l'impatto delle riforme varate, e per scelta preclusa la possibilità di ridurre il peso dello Stato sull'economia, per Monti la "fase 2" significa percorrere la via europea alla crescita, fatta di investimenti e, possibilmente, rendimenti minori sui titoli di Stato, a fronte di piccoli aggiustamenti in patria.
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Friday, April 27, 2012
Cordone sanitario per contenere Hollande
Non esiste in Europa un conflitto tra chi vuole il rigore e chi politiche per la crescita. Non tutti coloro che mettono in evidenza il tema della crescita - per esempio, l'Italia di Monti-Napolitano e il governatore della Bce Draghi - lo fanno in opposizione alla linea di rigore tedesca. Certamente in questi anni Berlino non ha esercitato sulla crescita una pressione paragonabile a quella esercitata sulla disciplina di bilancio, ma nessuno ha impedito - anzi, tutti da tempo incoraggiano - politiche per la crescita. Il punto sul quale ci si divide è quali politiche. Sostenere la crescita allentando il rigore, o addirittura tornando a spendere in deficit? Questo sarebbe sì in conflitto con Berlino. Oppure aumentare il potenziale di crescita delle economie europee attraverso riforme strutturali e puntare su una seria politica di investimenti? Su questo i margini di trattativa ci sono.
Non c'è dubbio che Berlino oggi stia ponendo maggiore enfasi di quanto abbia fatto finora sul tema della crescita. Non è un cedimento in vista della probabile vittoria di Hollande, che vuole rinegoziare il fiscal compact e tornare alle politiche di spesa. Al contrario - come dimostrano i contatti tra gli staff della Merkel e di Monti, al fine di elaborare iniziative concrete per il prossimo Consiglio europeo di fine giugno, nonché gli apprezzamenti giunti da Berlino per le parole del presidente Napolitano sulla necessità di coniugare rigore e crescita - la cancelliera cerca di giocare d'anticipo per arginare preventivamente Hollande: vuole sostituire all'asse con Parigi, che andrebbe in soffitta con la sconfitta di Sarkozy, per lo meno un'intesa con Roma, per mettere in minoranza il probabile nuovo presidente francese.
Quando Monti, intervenendo all'European Business Summit, fa notare che l'Italia è riuscita a imporre il tema della crescita in cima all'agenda Ue, sta rivendicando un successo rispetto all'ossessione rigorista della Merkel, ma anche una sorta di diritto di precedenza rispetto alle richieste di Hollande, e si prepara a vestire i panni del mediatore tra i due. Il premier italiano ha le sue richieste da avanzare a Berlino, ma sui fondamentali si schiera al fianco della Merkel e di Draghi, stoppando sul nascere le speranze di Hollande: no alla revisione del fiscal compact e no a «politiche keynesiane di vecchio stampo»...
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Non c'è dubbio che Berlino oggi stia ponendo maggiore enfasi di quanto abbia fatto finora sul tema della crescita. Non è un cedimento in vista della probabile vittoria di Hollande, che vuole rinegoziare il fiscal compact e tornare alle politiche di spesa. Al contrario - come dimostrano i contatti tra gli staff della Merkel e di Monti, al fine di elaborare iniziative concrete per il prossimo Consiglio europeo di fine giugno, nonché gli apprezzamenti giunti da Berlino per le parole del presidente Napolitano sulla necessità di coniugare rigore e crescita - la cancelliera cerca di giocare d'anticipo per arginare preventivamente Hollande: vuole sostituire all'asse con Parigi, che andrebbe in soffitta con la sconfitta di Sarkozy, per lo meno un'intesa con Roma, per mettere in minoranza il probabile nuovo presidente francese.
Quando Monti, intervenendo all'European Business Summit, fa notare che l'Italia è riuscita a imporre il tema della crescita in cima all'agenda Ue, sta rivendicando un successo rispetto all'ossessione rigorista della Merkel, ma anche una sorta di diritto di precedenza rispetto alle richieste di Hollande, e si prepara a vestire i panni del mediatore tra i due. Il premier italiano ha le sue richieste da avanzare a Berlino, ma sui fondamentali si schiera al fianco della Merkel e di Draghi, stoppando sul nascere le speranze di Hollande: no alla revisione del fiscal compact e no a «politiche keynesiane di vecchio stampo»...
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Thursday, April 26, 2012
La giornata: Merkel-Monti (e Draghi) si preparano a contenere Hollande
Sgonfiatosi il diversivo demagogico del giorno sulle auto-blu, e mentre la Borsa chiude in rosso anche oggi e lo spread continua ad aggirarsi sui 390 punti, Camera e Senato approvano il Def, accompagnandolo con una risoluzione di maggioranza che suona come un libro dei sogni i cui punti principali sono: eurobond, Bce come Fed, dismissioni, meno tasse con le risore della lotta all'evasione e della spending review. Nel testo, che ha ottenuto l'ok del governo, si chiede che la ratifica del fiscal compact «sia accompagnata dall'impegno per una politica di investimenti finalizzati allo sviluppo dell'impresa e dell'occupazione», da sostenere con l'emissione di project bond, «nonché» eurobond e stability bond. Si impegna il governo a «favorire, attraverso opportune modifiche dei trattati, un processo riformatore volto ad attribuire alla Bce il ruolo di prestatore di ultima istanza»; «ad avviare, attraverso il pieno coinvolgimento di tutti i livelli di governo, un percorso volto ad accelerare l'abbattimento dello stock di debito pubblico, valutando in particolare la possibilità di adottare a tal fine un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico». Inoltre, si intima che le risorse della spending review e della lotta all'evasione «devono essere prioritariamente destinate» alla riduzione delle tasse sui redditi da lavoro e da impresa, sancendo così «un nuovo patto tra fisco e contribuenti». Quasi tutte buone intenzioni, seppure più di qualcuna improbabile che si realizzi.
Ma sulla crescita e il rapporto partiti-governo il riferimento a una «fase due» nei retroscena e negli editoriali non fa ben sperare. In passato l'annuncio di una «fase due» dell'azione di governo è sempre coinciso con l'inizio dell'immobilismo. Come assaggio ecco che risale la tensione sulla riforma del lavoro. Senza modifiche non la votiamo, torna a minacciare il Pdl, mentre l'ex ministro Sacconi presenta un emendamento per cancellare totalmente l'articolo del ddl che limita l'utilizzo dei contratti a termine.
Mentre continua a calare nei sondaggi, a livello europeo Monti canta vittoria: si intesta il merito di aver posto per primo il tema della crescita in cima all'agenda Ue, superando le resistenze rigoriste della Merkel ma anche anticipando le richieste di Hollande. La probabile vittoria del candidato socialista offre all'Italia di Monti l'occasione di giocare il ruolo del mediatore interessato. Non credo che Monti darà ascolto a Prodi, il quale suggerisce di allearsi con Spagna e Francia in opposizione alla linea rigorista tedesca. Più probabile che il professore sfrutti l'eventuale elezione di Hollande, e quindi il rischio di isolamento che si avvertirà a Berlino, per porre sul tavolo le sue istanze. La premessa però è erigere un muro di contenimento nei confronti delle pretese di Hollande: no alla revisione del fiscal compact e no al ritorno delle politiche di spesa. Rassicurata in questo modo, la Merkel potrebbe ammorbidirsi sugli eurobond, nella versione project-bond, cioè per finanziare non i debiti sovrani ma progetti infrastrutturali europei. Non so se si possa parlare di vero e proprio «asse», ma certo la cancelliera sta cercando di farsi amici Monti e Napolitano nella previsione, quasi certezza, di dover contenere Hollande. E politicamente è essenziale togliere al candidato presidente socialista la bandiera della "crescita".
L'approccio di Monti sulla crescita è sostanzialmente un ibrido tra supply-side (aumentare il potenziale di crescita delle economie europee attraverso riforme strutturali) e keynesiano (salvaguardare un certo tipo di spesa, quella per investimenti infrastrutturali, ma che non sia un modo per «eludere» la disciplina di bilancio). Su queste basi un compromesso con Berlino è possibile.
Sul ruolo della Bce, spending review e riduzione della pressione fiscale, invece, temo che non vedremo novità. Ed è il segno di un premier che confida più in uno stimolo esterno alla crescita che ad uno interno, attraverso un taglio di spesa pubblica e tasse di diversi punti di Pil.
Per quelli che incolpano i tedeschi e le istituzioni Ue (su tutte la Bce) della recessione, vale la pena di ricordare che nessuno ci ha imposto politiche così recessive come un'austerity fatta solo di nuove tasse, senza tagli alla spesa e senza vere riforme. E' lo stesso Draghi a sottolinearlo, bacchettando Monti. Non poteva che riferirsi al nostro governo, infatti, quando rispondendo in italiano alla domanda di un eurodeputato italiano ha ammonito che «se ci si limita al consolidamento fiscale soprattutto aumentando le tasse, l'effetto è certamente recessivo. Si devono invece tagliare le spese correnti senza toccare gli investimenti. Ma alcuni, in condizioni di estrema urgenza, sono ricorsi all'aumento delle tasse, che è più facile, e hanno tagliato la spesa in conto capitale invece di ridurre la spesa corrente».
E chi ha interpretato come apertura ad Hollande il cenno del governatore Bce ad un «growth pact», un «patto per la crescita», a mio avviso ha frainteso. E' lo stesso candidato socialista, leggendo meglio, a sottolineare che la sua concezione di crescita è diversa da quella di Draghi, che non si basa sulla spesa pubblica ma su disciplina di bilancio e riforme strutturali.
Ma sulla crescita e il rapporto partiti-governo il riferimento a una «fase due» nei retroscena e negli editoriali non fa ben sperare. In passato l'annuncio di una «fase due» dell'azione di governo è sempre coinciso con l'inizio dell'immobilismo. Come assaggio ecco che risale la tensione sulla riforma del lavoro. Senza modifiche non la votiamo, torna a minacciare il Pdl, mentre l'ex ministro Sacconi presenta un emendamento per cancellare totalmente l'articolo del ddl che limita l'utilizzo dei contratti a termine.
Mentre continua a calare nei sondaggi, a livello europeo Monti canta vittoria: si intesta il merito di aver posto per primo il tema della crescita in cima all'agenda Ue, superando le resistenze rigoriste della Merkel ma anche anticipando le richieste di Hollande. La probabile vittoria del candidato socialista offre all'Italia di Monti l'occasione di giocare il ruolo del mediatore interessato. Non credo che Monti darà ascolto a Prodi, il quale suggerisce di allearsi con Spagna e Francia in opposizione alla linea rigorista tedesca. Più probabile che il professore sfrutti l'eventuale elezione di Hollande, e quindi il rischio di isolamento che si avvertirà a Berlino, per porre sul tavolo le sue istanze. La premessa però è erigere un muro di contenimento nei confronti delle pretese di Hollande: no alla revisione del fiscal compact e no al ritorno delle politiche di spesa. Rassicurata in questo modo, la Merkel potrebbe ammorbidirsi sugli eurobond, nella versione project-bond, cioè per finanziare non i debiti sovrani ma progetti infrastrutturali europei. Non so se si possa parlare di vero e proprio «asse», ma certo la cancelliera sta cercando di farsi amici Monti e Napolitano nella previsione, quasi certezza, di dover contenere Hollande. E politicamente è essenziale togliere al candidato presidente socialista la bandiera della "crescita".
L'approccio di Monti sulla crescita è sostanzialmente un ibrido tra supply-side (aumentare il potenziale di crescita delle economie europee attraverso riforme strutturali) e keynesiano (salvaguardare un certo tipo di spesa, quella per investimenti infrastrutturali, ma che non sia un modo per «eludere» la disciplina di bilancio). Su queste basi un compromesso con Berlino è possibile.
Sul ruolo della Bce, spending review e riduzione della pressione fiscale, invece, temo che non vedremo novità. Ed è il segno di un premier che confida più in uno stimolo esterno alla crescita che ad uno interno, attraverso un taglio di spesa pubblica e tasse di diversi punti di Pil.
Per quelli che incolpano i tedeschi e le istituzioni Ue (su tutte la Bce) della recessione, vale la pena di ricordare che nessuno ci ha imposto politiche così recessive come un'austerity fatta solo di nuove tasse, senza tagli alla spesa e senza vere riforme. E' lo stesso Draghi a sottolinearlo, bacchettando Monti. Non poteva che riferirsi al nostro governo, infatti, quando rispondendo in italiano alla domanda di un eurodeputato italiano ha ammonito che «se ci si limita al consolidamento fiscale soprattutto aumentando le tasse, l'effetto è certamente recessivo. Si devono invece tagliare le spese correnti senza toccare gli investimenti. Ma alcuni, in condizioni di estrema urgenza, sono ricorsi all'aumento delle tasse, che è più facile, e hanno tagliato la spesa in conto capitale invece di ridurre la spesa corrente».
E chi ha interpretato come apertura ad Hollande il cenno del governatore Bce ad un «growth pact», un «patto per la crescita», a mio avviso ha frainteso. E' lo stesso candidato socialista, leggendo meglio, a sottolineare che la sua concezione di crescita è diversa da quella di Draghi, che non si basa sulla spesa pubblica ma su disciplina di bilancio e riforme strutturali.
Lo strano amore del Pdl per Hollande
Il presidente del Senato Schifani l'ultimo, Sandro Bondi il primo, ma all'indomani del primo turno delle presidenziali francesi molti esponenti di primo piano del Pdl, nonché alcuni giornali di centrodestra, hanno commentato con ostentata soddisfazione la parziale sconfitta di Sarkozy, leggendovi una sonora bocciatura delle politiche rigoriste imposte da Berlino e dall'Ue, con l'avallo del presidente francese, ai Paesi eurodeboli. Il 64% degli elettori, calcolava un parlamentare Pdl, ha votato contro la Merkel e l'Ue, mentre i "collaborazionisti" Sarkozy e Bayrou si sono fermati al 36%. Da una parte il Pdl polemizza con il Pd esortandolo a non entusiasmarsi troppo, perché «la partita è ancora aperta», dall'altra gode delle disgrazie di Sarkozy, e pazienza se significa flirtare con le posizioni critiche di socialisti (Hollande), nazionalsocialisti (Le Pen) e persino comunisti (Mélanchon). Un atteggiamento schizofrenico che la dice lunga sullo smarrimento politico-culturale del Pdl.
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Tuesday, April 24, 2012
La giornata: riparte "i moderati" 19ma stagione (che palle!), nessuno vuole votare a ottobre ma se ne parla...
Piazza affari risale sopra i 14.000 punti (+2,48%), lo spread resta sui 400, ma i rendimenti sui nostri titoli di Stato purtroppo incorporano quelle che il dir. gen. di Bankitalia Saccomanni definisce come «tensioni dovute a incertezze di carattere politico». Nell'asta di oggi, infatti, a fronte di una buona domanda i tassi sono saliti di un punto percentuale, al 3,35% dal 2,35%, rispetto al mese di marzo. Addirittura raddoppiati i rendimenti sui titoli spagnoli emessi oggi.
E mentre il viceministro Grilli interviene per stoppare sul nascere false aspettative («tagliare le tasse non è possibile») dopo l'allarme pressione fiscale lanciato ieri dalla Corte dei Conti, il governatore della Bce Mario Draghi assicura che la maxi-iniezione di liquidità della Bce nel sistema funzionerà: i prestiti triennali alle banche sono stati studiati apposta «per scongiurare una stretta creditizia» e si dice certo che «in ultima analisi gioveranno all'economia reale». Per Draghi la causa della risalita degli spread non sta nell'eccesso delle politiche di austerità che frenano la crescita, bensì nell'allentarsi della determinazione dei governi nell'attuare le riforme non appena le tensioni sul debito si attenuano.
Via libera "in parallelo" dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato al Def, ma la bozza di risoluzione di maggioranza in via di stesura alla Camera per la discussione di giovedì contiene impegni gravosi e quasi provocatori per il governo: destinare le risorse derivanti dalla spending review e dalla lotta all'evasione in via prioritaria alla riduzione della pressione fiscale; elaborare un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico; adoperarsi in sede Ue perché la Bce diventi prestatore di ultima istanza. Un cambiamento dello statuto finora escluso dal premier Monti, in linea con la Merkel.
Berlusconi intanto è tornato a indicare ai suoi la rotta da seguire, parlando ai coordinatori provinciali e regionali del Pdl. Primo, l'acronimo Pdl «non suscita emozione», quindi, al prossimo Congresso si cambia nome. Ma tranquilli: stesso partito, stesse persone, stesse idee. Secondo, «proporremo a tutti i partiti moderati una confederazione con la possibilità di mantenere la propria sigla e di unirsi a noi». Terzo, viva Alfano, il Cav. avrebbe cambiato idea: al segretario ora riconosce «quel quid in più che solo lui ha e di cui c'è bisogno». Quarto, «stiamo lavorando con la sinistra» per cambiare «l'architettura istituzionale» (con quella attuale «neanche il più bravo» potrebbe incidere) e la legge elettorale. Sulla prima l'accordo ci sarebbe, sulla seconda quasi: si va verso il modello tedesco. Ma anche quasi no, perché il porcellum è duro a morire e ancora tenta qualcuno. Trattive rinviate a dopo le amministrative e Casini (per il quale è vitale una nuova legge) denuncia «un tentativo di sabotaggio trasversale, a 360 gradi».
E' il passaggio sull'intenzione del Pd di votare a ottobre che innesca il botta e risposta con Bersani. Berlusconi avverte che il voto a ottobre è un'eventualità da non scartare, potrebbe volerlo il Pd per garantirsi la vittoria proprio con il porcellum. «Il Pd ha dato una parola e la mantiene. Se Berlusconi ha un'altra idea non ce la attribuisca», ribatte Bersani attribuendo invece al Cav. la voglia delle urne. Ovvio che qualcuno bluffa, ma si parlerebbe così tanto di elezioni anticipate a ottobre se nessuno che ci stesse facendo un pensierino? Comunque, in caso di elezioni a ottobre la sinistra, con l'attuale legge elettorale, «può vincere», avverte Berlusconi. Ecco allora che è fondamentale che i moderati si presentino insieme: «Bisogna unire i moderati», la parola d'ordine. In un partito unico, oppure almeno in una confederazione, puntualizza Cicchitto.
Dichiarazioni che innescano una nuova puntata della telenovela dei "moderati". Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti. Ci mancava però che fosse Casini a puntare l'indice... il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Con impareggiabile faccia tosta Casini ha risposto a Berlusconi che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su un'idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Sì, si tratta dello stesso Casini che ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica, alla formula del "Grande Centro", da riempire con i cosiddetti "moderati".
Berlusconi infine corregge parzialmente il tiro sull'improvviso innamoramento per Hollande nel Pdl («non ci auguriamo la vittoria della sinistra»), ma anch'egli avvalora la tesi secondo cui con il candidato socialista all'Eliseo la Merkel sarebbe costretta a più miti consigli, ad accettare di allentare le politiche di rigore. D'altra parte, il Cav. ricorda di essersi sempre opposto «alle proposte della signora Merkel», perché «non si può morire di rigore». Peccato che né i tedeschi né la Bce ci abbiano imposto di impiccarci alla più recessiva delle ricette di austerity: solo tasse senza tagli alla spesa né vere riforme.
Dulcis in fundo, un post che potrebbe preludere alla discesa in campo di Oscar Giannino.
E mentre il viceministro Grilli interviene per stoppare sul nascere false aspettative («tagliare le tasse non è possibile») dopo l'allarme pressione fiscale lanciato ieri dalla Corte dei Conti, il governatore della Bce Mario Draghi assicura che la maxi-iniezione di liquidità della Bce nel sistema funzionerà: i prestiti triennali alle banche sono stati studiati apposta «per scongiurare una stretta creditizia» e si dice certo che «in ultima analisi gioveranno all'economia reale». Per Draghi la causa della risalita degli spread non sta nell'eccesso delle politiche di austerità che frenano la crescita, bensì nell'allentarsi della determinazione dei governi nell'attuare le riforme non appena le tensioni sul debito si attenuano.
Via libera "in parallelo" dalle commissioni Bilancio di Camera e Senato al Def, ma la bozza di risoluzione di maggioranza in via di stesura alla Camera per la discussione di giovedì contiene impegni gravosi e quasi provocatori per il governo: destinare le risorse derivanti dalla spending review e dalla lotta all'evasione in via prioritaria alla riduzione della pressione fiscale; elaborare un piano straordinario di dismissioni del patrimonio pubblico; adoperarsi in sede Ue perché la Bce diventi prestatore di ultima istanza. Un cambiamento dello statuto finora escluso dal premier Monti, in linea con la Merkel.
Berlusconi intanto è tornato a indicare ai suoi la rotta da seguire, parlando ai coordinatori provinciali e regionali del Pdl. Primo, l'acronimo Pdl «non suscita emozione», quindi, al prossimo Congresso si cambia nome. Ma tranquilli: stesso partito, stesse persone, stesse idee. Secondo, «proporremo a tutti i partiti moderati una confederazione con la possibilità di mantenere la propria sigla e di unirsi a noi». Terzo, viva Alfano, il Cav. avrebbe cambiato idea: al segretario ora riconosce «quel quid in più che solo lui ha e di cui c'è bisogno». Quarto, «stiamo lavorando con la sinistra» per cambiare «l'architettura istituzionale» (con quella attuale «neanche il più bravo» potrebbe incidere) e la legge elettorale. Sulla prima l'accordo ci sarebbe, sulla seconda quasi: si va verso il modello tedesco. Ma anche quasi no, perché il porcellum è duro a morire e ancora tenta qualcuno. Trattive rinviate a dopo le amministrative e Casini (per il quale è vitale una nuova legge) denuncia «un tentativo di sabotaggio trasversale, a 360 gradi».
E' il passaggio sull'intenzione del Pd di votare a ottobre che innesca il botta e risposta con Bersani. Berlusconi avverte che il voto a ottobre è un'eventualità da non scartare, potrebbe volerlo il Pd per garantirsi la vittoria proprio con il porcellum. «Il Pd ha dato una parola e la mantiene. Se Berlusconi ha un'altra idea non ce la attribuisca», ribatte Bersani attribuendo invece al Cav. la voglia delle urne. Ovvio che qualcuno bluffa, ma si parlerebbe così tanto di elezioni anticipate a ottobre se nessuno che ci stesse facendo un pensierino? Comunque, in caso di elezioni a ottobre la sinistra, con l'attuale legge elettorale, «può vincere», avverte Berlusconi. Ecco allora che è fondamentale che i moderati si presentino insieme: «Bisogna unire i moderati», la parola d'ordine. In un partito unico, oppure almeno in una confederazione, puntualizza Cicchitto.
Dichiarazioni che innescano una nuova puntata della telenovela dei "moderati". Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti. Ci mancava però che fosse Casini a puntare l'indice... il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Con impareggiabile faccia tosta Casini ha risposto a Berlusconi che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su un'idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Sì, si tratta dello stesso Casini che ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica, alla formula del "Grande Centro", da riempire con i cosiddetti "moderati".
Berlusconi infine corregge parzialmente il tiro sull'improvviso innamoramento per Hollande nel Pdl («non ci auguriamo la vittoria della sinistra»), ma anch'egli avvalora la tesi secondo cui con il candidato socialista all'Eliseo la Merkel sarebbe costretta a più miti consigli, ad accettare di allentare le politiche di rigore. D'altra parte, il Cav. ricorda di essersi sempre opposto «alle proposte della signora Merkel», perché «non si può morire di rigore». Peccato che né i tedeschi né la Bce ci abbiano imposto di impiccarci alla più recessiva delle ricette di austerity: solo tasse senza tagli alla spesa né vere riforme.
Dulcis in fundo, un post che potrebbe preludere alla discesa in campo di Oscar Giannino.
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Senti chi parla
Tutta la politica italiana, senza distinzioni di schieramento, è ossessionata da formule vuote di contenuti, ma che sia Casini a puntare l'indice... è il tipico caso di bue che dà del cornuto all'asino. Rispondendo a Berlusconi che aveva auspicato per l'ennesima volta l'unità dei "moderati", e quindi un'alleanza elettorale con l'Udc, Casini ha risposto con impareggiabile faccia tosta che «l'unità dei moderati si fa su cose concrete, non su nominalismi, sui programmi e su una idea del Paese. Se pensiamo all'uso del termine moderati in questi anni vediamo che è stato molto abusato». Eh già, perché cos'è l'operazione a cui Casini ha dedicato gli ultimi anni, se non la sua intera carriera politica? Cos'è questo "partito della Nazione", o comunque dovesse chiamarsi, se non una vuota formula da riempire con i cosiddetti "moderati"?
Sull'abuso del termine quello che avevo da dire l'ho scritto qui.
Sull'abuso del termine quello che avevo da dire l'ho scritto qui.
Moderato a chi?!
Un appello al mondo politico e giornalistico: bandire il termine "moderati" dal dibattito politico. Uno degli orrori lessicali che la decadenza della politica italiana ha prodotto negli ultimi anni è proprio la parola "moderati", con la quale ormai si indica la composita area del centro-centrodestra. Non c'è esponente politico o partito di quell'area - su tutti Udc e Pdl - che non proclami come obiettivo quello di «riunire i moderati». E non perdono occasione per ribadirlo ossessivamente. Anzi, è aperta una vera e propria lotta senza esclusione di colpi tra i partiti e i leader che ambiscono ad intestarsi la titolarità e la guida dell'operazione. Probabilmente mai nella storia della dottrina politica una definizione fu così vuota di significato.
(...)
In un'epoca in cui è sempre più difficile affidarsi alle categorie destra-sinistra per interpretare la nostra realtà politica, lo è a maggior ragione definire una via di mezzo tra di esse. Più che destra-sinistra la dicotomia "più Stato-meno Stato" sembra più idonea a identificare la visione distintiva delle diverse proposte che si muovono nel panorama politico. E nella gestione di due fondamentali variabili di finanza pubblica e politica economica, in Italia, storicamente, coloro che si definiscono "moderati" si sono rivelati degli estremisti: estremisti della spesa pubblica e della tassazione.
La sgradevole sensazione che ci assale di fronte all'abuso del termine "moderati", al moltiplicarsi delle alchimie politiche per dar vita a sempre nuovi contenitori per riunirli sotto un unico tetto politico, e agli spazi mediatici che queste operazioni occupano, è che si tratti di dissimulare uno spaventoso vuoto di contenuti ideali e programmatici. Un termine dietro il quale si nasconde abilmente un ceto politico malato di indecisione, immobilismo e opportunismo.
La centralità nello schieramento politico non ha così lo scopo di "moderare" le diverse istanze, ma di mantenere per sé una rendita di posizione, e di potere, derivante dall'arte del compromesso "a prescindere". Tale strumentalità nell'uso del termine "moderati" è accentuata da un'anomalia prettamente italiana. Nei sistemi politici occidentali, proporzionali o maggioritari, esistono i "moderati", i centristi. Ma si tratta di aree e singole personalità che convivono all'interno delle grandi forze politiche del Paese, una di centrodestra e una di centrosinistra; che ne moderano le proposte; che svolgono la funzione di spingerle a sfidarsi per la conquista del centro dell'elettorato, cioè degli elettori meno schierati e meno ideologici. L'ossessione dei nostri moderati, invece, è costituire un presidio partitico in cui il centro dell'elettorato possa stabilmente riconoscersi, per godere di una specie di delega in bianco e restare sempre al governo.
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(...)
In un'epoca in cui è sempre più difficile affidarsi alle categorie destra-sinistra per interpretare la nostra realtà politica, lo è a maggior ragione definire una via di mezzo tra di esse. Più che destra-sinistra la dicotomia "più Stato-meno Stato" sembra più idonea a identificare la visione distintiva delle diverse proposte che si muovono nel panorama politico. E nella gestione di due fondamentali variabili di finanza pubblica e politica economica, in Italia, storicamente, coloro che si definiscono "moderati" si sono rivelati degli estremisti: estremisti della spesa pubblica e della tassazione.
La sgradevole sensazione che ci assale di fronte all'abuso del termine "moderati", al moltiplicarsi delle alchimie politiche per dar vita a sempre nuovi contenitori per riunirli sotto un unico tetto politico, e agli spazi mediatici che queste operazioni occupano, è che si tratti di dissimulare uno spaventoso vuoto di contenuti ideali e programmatici. Un termine dietro il quale si nasconde abilmente un ceto politico malato di indecisione, immobilismo e opportunismo.
La centralità nello schieramento politico non ha così lo scopo di "moderare" le diverse istanze, ma di mantenere per sé una rendita di posizione, e di potere, derivante dall'arte del compromesso "a prescindere". Tale strumentalità nell'uso del termine "moderati" è accentuata da un'anomalia prettamente italiana. Nei sistemi politici occidentali, proporzionali o maggioritari, esistono i "moderati", i centristi. Ma si tratta di aree e singole personalità che convivono all'interno delle grandi forze politiche del Paese, una di centrodestra e una di centrosinistra; che ne moderano le proposte; che svolgono la funzione di spingerle a sfidarsi per la conquista del centro dell'elettorato, cioè degli elettori meno schierati e meno ideologici. L'ossessione dei nostri moderati, invece, è costituire un presidio partitico in cui il centro dell'elettorato possa stabilmente riconoscersi, per godere di una specie di delega in bianco e restare sempre al governo.
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Spending review ennesimo bluff
Non devono ingannare le recenti dichiarazioni sui tagli alla spesa pubblica. Non c'è chiarezza sulla natura della spending review, né sui target di risparmio, né sull'utilizzo delle somme risparmiate. «Lo spazio per ridurre costi inutili c'è», assicura il ministro Passera, aggiungendo però che la revisione critica delle spese «vuol dire ridurle, ma anche aumentarle in certi campi» come «futuro e innovazione, ricerca, sostegno alle aziende e alle esportazioni». Insomma, ridurre alcune voci, aumentarne altre: ma il saldo finale? Non è chiaro chi sia a remare a favore e chi contro i tagli, assistiamo ad un gioco di specchi e ad una serie di prese di posizione contraddittorie che sanno di bluff.
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Monday, April 23, 2012
La giornata: lunedì nerissimo e tasse da allarme rosso
Lunedì nerissimo per le Borse europee. Milano perde quasi il 4%, è sotto la soglia dei 14.000 punti, lo spread è salito fino a 410 punti. A preoccupare i mercati i risultati del primo turno delle presidenziali francesci (più Hollande che Le Pen, a mio avviso), la crisi politica in Olanda dopo il fallimento delle trattative sulle misure di austerity per ridurre l'elevato deficit, e come se non bastasse il dato negativo del manifatturiero in Germania.
Nel frattempo prosegue con tutti i connotati del bluff il dibattito sulla spending review. Passera, Giarda, Patroni Griffi, Grilli, nemmeno una parola di chiarezza, solo mezze frasi, per di più contraddittorie, che non fanno presagire nulla di buono da questa ormai mitologica spending review. Non se ne capiscono la natura (razionalizzazione o tagli in profondità?), il target (5-6, 13, o 20-25 miliardi?) né l'utilizzo degli eventuali risparmi (taglio delle tasse o nuove spese?). Di sicuro nella delega fiscale di ridurre le tasse non se ne parla.
Su tasse e spesa pubblica è ancora una volta la Corte dei Conti a tuonare. Dopo aver constatato, già nel dicembre scorso, che il governo stava mirando al pareggio di bilancio nel paradosso di un ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico, oggi intervenendo davanti alle commissioni Bilancio il presidente Giampaolino ha confermato che il carico fiscale supererà il 45%; ha avvertito che forzando «una pressione già fuori linea nel confronto europeo», e generando quindi «le condizioni per ulteriori effetti recessivi», il «pericolo di un cortocircuito rigore-crescita non è dissipato nell'impianto del Def». Anzi, «prendendo a riferimento il 2013, l'anno del pareggio di bilancio, si può calcolare che l'effetto recessivo indotto dissolverebbe circa la metà dei 75 miliardi di correzione netta attribuiti alla manovra di riequilibrio».
Proprio in considerazione dell'allarme per gli effetti recessivi delle tasse, la Corte dei Conti suggerisce di «aggredire» la spesa, ma «non solo nei suoi aspetti patologici quali sprechi e sperperi», e di «riconsiderare drasticamente» alcune organizzazioni della pubblica amministrazione.
Mentre le reazioni italiane al primo turno delle presidenziali francesi si dividono tra patetiche e schizofreniche, e Bersani giura che non è tentato dal voto a ottobre sull'onda del probabile successo di Hollande (invece l'idea sembra prendere piede nel Pd), novità positive arrivano dall'India. La Corte Suprema infatti ha deciso di ammettere il ricorso presentato dall'Italia sull'incostituzionalità della detenzione dei due marò. Così il caso passa nelle mani della massima autorità giudiziaria federale ed esce dalla giungla politico-giudiziaria dell'insignificante Stato del Kerala. E' probabile che a livello federale abbiano maggior peso sia il diritto internazionale che i rapporti con l'Italia.
Nel frattempo prosegue con tutti i connotati del bluff il dibattito sulla spending review. Passera, Giarda, Patroni Griffi, Grilli, nemmeno una parola di chiarezza, solo mezze frasi, per di più contraddittorie, che non fanno presagire nulla di buono da questa ormai mitologica spending review. Non se ne capiscono la natura (razionalizzazione o tagli in profondità?), il target (5-6, 13, o 20-25 miliardi?) né l'utilizzo degli eventuali risparmi (taglio delle tasse o nuove spese?). Di sicuro nella delega fiscale di ridurre le tasse non se ne parla.
Su tasse e spesa pubblica è ancora una volta la Corte dei Conti a tuonare. Dopo aver constatato, già nel dicembre scorso, che il governo stava mirando al pareggio di bilancio nel paradosso di un ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico, oggi intervenendo davanti alle commissioni Bilancio il presidente Giampaolino ha confermato che il carico fiscale supererà il 45%; ha avvertito che forzando «una pressione già fuori linea nel confronto europeo», e generando quindi «le condizioni per ulteriori effetti recessivi», il «pericolo di un cortocircuito rigore-crescita non è dissipato nell'impianto del Def». Anzi, «prendendo a riferimento il 2013, l'anno del pareggio di bilancio, si può calcolare che l'effetto recessivo indotto dissolverebbe circa la metà dei 75 miliardi di correzione netta attribuiti alla manovra di riequilibrio».
Proprio in considerazione dell'allarme per gli effetti recessivi delle tasse, la Corte dei Conti suggerisce di «aggredire» la spesa, ma «non solo nei suoi aspetti patologici quali sprechi e sperperi», e di «riconsiderare drasticamente» alcune organizzazioni della pubblica amministrazione.
Mentre le reazioni italiane al primo turno delle presidenziali francesi si dividono tra patetiche e schizofreniche, e Bersani giura che non è tentato dal voto a ottobre sull'onda del probabile successo di Hollande (invece l'idea sembra prendere piede nel Pd), novità positive arrivano dall'India. La Corte Suprema infatti ha deciso di ammettere il ricorso presentato dall'Italia sull'incostituzionalità della detenzione dei due marò. Così il caso passa nelle mani della massima autorità giudiziaria federale ed esce dalla giungla politico-giudiziaria dell'insignificante Stato del Kerala. E' probabile che a livello federale abbiano maggior peso sia il diritto internazionale che i rapporti con l'Italia.
In Francia torna il nazionalsocialismo e in Italia si brinda
Reazioni che vanno dal patetico allo schizofrenico quelle della politica e della stampa italiana all'esito del primo turno delle elezioni presidenziali francesi. La Francia si sposta a sinistra perché Hollande ha vinto il primo turno ed è favorito al secondo, dicono alcuni. No, ribattono altri, va a destra perché la somma dei voti raccolti da Sarkozy e dal Fronte nazionale superano quelli dei socialisti e delle sinistre estreme. La verità è che il voto ha ancora una volta dimostrato che non ha alcunissimo senso dibattere sullo spostamento verso destra o verso sinistra dell'elettorato, in un sistema in cui estrema destra ed estrema sinistra si saldano, fondandosi entrambe di fatto sul «nazionalismo economico e sociale». In Francia è tornato il nazional-socialismo (per ora con il trattino). Nelle sue due varianti - nazionalista e comunista - ha preso quasi il 30% dei voti (più di Sarkozy e più di Hollande): i voti da sommare non sono quelli delle "destre" da una parte e delle "sinistre" dall'altra secondo le antiche definizioni, ma il 17,9% di Le Pen e l'11,11 dei comunisti. Ed è un calcolo ottimistico, visto che profondamente socialista e regressivo è anche il 28,63% che ha votato Hollande.
Tanto ingenuo sarebbe sommare i voti del Fronte nazionale a quelli di Sarkozy, che la Le Pen ha già fatto sapere che non sosterrà nessuno dei due candidati al ballottaggio: «Non dirò ai miei elettori come devono votare. I francesi sono grandi abbastanza per scegliere da soli, in coscienza». E secondo un primissimo sondaggio, solo il 9% di chi ha votato Le Pen al primo turno voterà Sarkozy al secondo, il 20% voterà Hollande e gli altri se ne resteranno a casa.
Intervistato su la Repubblica, Bersani si intesta pateticamente la parziale vittoria di Hollande. Canta vittoria («il vento è cambiato, siamo pronti a intercettarlo, Monti ne tenga conto») e avverte che «se arriva all'Eliseo» la piattaforma dei progressisti europei deve diventare anche la piattaforma di Monti. La sensazione è che quanti nel Pd pensano di cavalcare l'onda della probabile vittoria di Hollande per tornare a Palazzo Chigi già ad ottobre, con l'attuale legge elettorale, senza farsi impantanare nei disegni neocentristi e grancoalizionisti di Casini, escono rafforzati dal voto francese. Anche se Bersani nega: «Ho dato la mia parola. La fedeltà al governo Monti fino alla fine della legislatura è fuori discussione». Ma ci sono tanti modi per provocare elezioni anticipate senza assumersene la responsabilità.
E il Pdl, e la stampa di centrodestra? Qui entriamo nel padiglione degli schizofrenici. Dunque, da una parte il Pd non deve esultare troppo perché Hollande non ha ancora vinto, la partita è ancora aperta, ma soprattutto perché la Francia non va affatto a sinistra: la somma dei voti "di sinistra" è nettamente inferiore alla somma dei voti ottenuti da Sarkò e da Le Pen. Dall'altra, però, tutti osservano con ostentata soddisfazione che il voto francese (quello per gli avversari di Sarkozy: Hollande, Le Pen e Mélanchon) è una sonora bocciatura delle politiche rigoriste dell'asse Sarkozy-Merkel. Il 64% degli elettori, fa notare un parlamentare Pdl, ha votato contro la Merkel e le politiche Ue, mentre la Francia gollista di Sarkozy (27.18%) e centrista di Bayrou (9.13%) è ferma al 36%. Insomma, polemizzano con il Pd perché Sarkozy può ancora farcela, ma allo stesso tempo godono per l'affermazione degli avversari di Sarkozy (nazionalsocialisti, socialisti e comunisti, evviva!).
Ma il giochino questo è di "destra"-questo di "sinistra" non funziona più da tempo. I difensori a oltranza del modello statalista francese stravincono comunque, quale sia la loro variante: socialista (28%), gollista (27%), nazionalsocialista (18%), comunista (11%). E avevano vinto ancor prima del voto, da quando Sarkozy ha fallito nella sua "rupture", abbandonando l'idea di rappresentare un nuovo modello di destra continentale. Con una felice espressione di Enzo Reale, potremmo dire che di tutte le sue nefandezze, quella di perdere contro Hollande sarebbe l'ultima imperdonabile beffa.
Tanto ingenuo sarebbe sommare i voti del Fronte nazionale a quelli di Sarkozy, che la Le Pen ha già fatto sapere che non sosterrà nessuno dei due candidati al ballottaggio: «Non dirò ai miei elettori come devono votare. I francesi sono grandi abbastanza per scegliere da soli, in coscienza». E secondo un primissimo sondaggio, solo il 9% di chi ha votato Le Pen al primo turno voterà Sarkozy al secondo, il 20% voterà Hollande e gli altri se ne resteranno a casa.
Intervistato su la Repubblica, Bersani si intesta pateticamente la parziale vittoria di Hollande. Canta vittoria («il vento è cambiato, siamo pronti a intercettarlo, Monti ne tenga conto») e avverte che «se arriva all'Eliseo» la piattaforma dei progressisti europei deve diventare anche la piattaforma di Monti. La sensazione è che quanti nel Pd pensano di cavalcare l'onda della probabile vittoria di Hollande per tornare a Palazzo Chigi già ad ottobre, con l'attuale legge elettorale, senza farsi impantanare nei disegni neocentristi e grancoalizionisti di Casini, escono rafforzati dal voto francese. Anche se Bersani nega: «Ho dato la mia parola. La fedeltà al governo Monti fino alla fine della legislatura è fuori discussione». Ma ci sono tanti modi per provocare elezioni anticipate senza assumersene la responsabilità.
E il Pdl, e la stampa di centrodestra? Qui entriamo nel padiglione degli schizofrenici. Dunque, da una parte il Pd non deve esultare troppo perché Hollande non ha ancora vinto, la partita è ancora aperta, ma soprattutto perché la Francia non va affatto a sinistra: la somma dei voti "di sinistra" è nettamente inferiore alla somma dei voti ottenuti da Sarkò e da Le Pen. Dall'altra, però, tutti osservano con ostentata soddisfazione che il voto francese (quello per gli avversari di Sarkozy: Hollande, Le Pen e Mélanchon) è una sonora bocciatura delle politiche rigoriste dell'asse Sarkozy-Merkel. Il 64% degli elettori, fa notare un parlamentare Pdl, ha votato contro la Merkel e le politiche Ue, mentre la Francia gollista di Sarkozy (27.18%) e centrista di Bayrou (9.13%) è ferma al 36%. Insomma, polemizzano con il Pd perché Sarkozy può ancora farcela, ma allo stesso tempo godono per l'affermazione degli avversari di Sarkozy (nazionalsocialisti, socialisti e comunisti, evviva!).
Ma il giochino questo è di "destra"-questo di "sinistra" non funziona più da tempo. I difensori a oltranza del modello statalista francese stravincono comunque, quale sia la loro variante: socialista (28%), gollista (27%), nazionalsocialista (18%), comunista (11%). E avevano vinto ancor prima del voto, da quando Sarkozy ha fallito nella sua "rupture", abbandonando l'idea di rappresentare un nuovo modello di destra continentale. Con una felice espressione di Enzo Reale, potremmo dire che di tutte le sue nefandezze, quella di perdere contro Hollande sarebbe l'ultima imperdonabile beffa.
Saturday, April 21, 2012
Il predellino di Pier, ma nessuno muore dalla voglia di salirci
Un nuovo soggetto politico che nasce con l'intenzione di mettere insieme due delle etichette politiche più abusate, vuote e ormai insignificanti della nostra politica - moderati e riformisti - non parte col piede giusto.
Niente di nuovo, la nascita del Terzo polo come soggetto unitario era annunciata.
Ma il perché di questa accelerazione va rintracciato nel particolare momento politico. Si tratta infatti di cominciare a dare le ultime spallate al vecchio centrodestra prima che il quadro cambi: con la Lega alle corde, Formigoni piuttosto inguaiato, bisogna disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica. La mossa infatti ha subito provocato uno smottamento, per la verità atteso da tempo e ovviamente concordato con i vertici Udc: Pisanu e Dini, con 27 senatori (non tutti però disposti ad archiviare il Pdl), firmano un documento in cui si chiede di andare «oltre il Pdl».
Il Pdl, seppure non si possa ancora dire che sia in ripresa, alcuni segnali di vita li sta dando: parla di lavoro, tasse, debito, crescita, insomma è tornato ad occuparsi di cose concrete, dell'"arrosto". E persino con qualche successo: modifiche alla riforma del lavoro in asse con le imprese; rateizzazione dell'Imu e odg per renderla "una tantum". Ed è proprio questo ritrovato protagonismo del Pdl, di Alfano in particolare, che deve aver convinto Casini per l'accelerazione. Quello delle proposte, degli emendamenti ai testi del governo, dell'incalzare il premier Monti, è un campo di gioco in cui il Terzo polo al momento, per il suo incondizionato appoggio all'esecutivo, non può toccar palla. Ecco quindi che i tre "amigos", con la sponda di Pisanu, hanno tirato il fumogeno nel campo avversario, spostando l'attenzione dai contenuti, con i quali il Pdl si stava rilanciando, ai contenitori.
Casini è ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso. Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli?
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Niente di nuovo, la nascita del Terzo polo come soggetto unitario era annunciata.
Ma il perché di questa accelerazione va rintracciato nel particolare momento politico. Si tratta infatti di cominciare a dare le ultime spallate al vecchio centrodestra prima che il quadro cambi: con la Lega alle corde, Formigoni piuttosto inguaiato, bisogna disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica. La mossa infatti ha subito provocato uno smottamento, per la verità atteso da tempo e ovviamente concordato con i vertici Udc: Pisanu e Dini, con 27 senatori (non tutti però disposti ad archiviare il Pdl), firmano un documento in cui si chiede di andare «oltre il Pdl».
Il Pdl, seppure non si possa ancora dire che sia in ripresa, alcuni segnali di vita li sta dando: parla di lavoro, tasse, debito, crescita, insomma è tornato ad occuparsi di cose concrete, dell'"arrosto". E persino con qualche successo: modifiche alla riforma del lavoro in asse con le imprese; rateizzazione dell'Imu e odg per renderla "una tantum". Ed è proprio questo ritrovato protagonismo del Pdl, di Alfano in particolare, che deve aver convinto Casini per l'accelerazione. Quello delle proposte, degli emendamenti ai testi del governo, dell'incalzare il premier Monti, è un campo di gioco in cui il Terzo polo al momento, per il suo incondizionato appoggio all'esecutivo, non può toccar palla. Ecco quindi che i tre "amigos", con la sponda di Pisanu, hanno tirato il fumogeno nel campo avversario, spostando l'attenzione dai contenuti, con i quali il Pdl si stava rilanciando, ai contenitori.
Casini è ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso. Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli?
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Friday, April 20, 2012
La giornata: spread a 400 e la politica finisce in burlesque; parte Italo e Montezemolo scende
Solo «volatilità» per il viceministro Grilli (questa l'avevamo già sentita...), intanto lo spread è a 400 - e Moody's dice chiaro che siamo già a livelli insostenibili - mentre Piazza affari arresta la caduta (in mattinata si stava avvicinando alla soglia dei 14.000 punti). Ma al Fmi starebbe per arrivare un paracadute da 400 miliardi di dollari dal G20.
La «resa» sul reintegro nei licenziamenti individuali non è servita a molto, la Camusso conferma che lo sciopero generale si farà, ma soprattutto che sull'articolo 18 «la partita è tuttora aperta» e umilia Monti prendendosi il merito del «primo vero e proprio passo indietro del governo».
Intanto anche il Financial Times, dopo il WSJ, bacchetta Monti: deve fare di più per rilanciare la crescita, altrimenti «i mercati continueranno a chiedersi se il Paese riuscirà mai a ripagare il suo debito». Ok, questo lo sappiamo tutti, ma il FT aggiunge anche il "come": tagliare la spesa per tagliare le tasse. Liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, osserva il quotidiano, «potrebbero avere un effetto sulla crescita ma entrambe non rispondono appieno ai bisogni dell'Italia. Qualsiasi effetto avranno sull'economia si sentirà soltanto a lungo termine». Servono misure immediate: «Il mostruoso settore pubblico italiano e il suo vorace sistema politico consentono risparmi che non andrebbero a colpire la qualità dei servizi pubblici essenziali. Le risorse recuperate potrebbero essere usate per ridurre la pressione fiscale sul Paese, che si prevede toccherà un sorprendente 49% nel 2013». Monti «merita credito» - conclude severamente il FT - «ma la sua agenda economica rischia di rivelarsi non all'altezza».
Sul piano mediatico Berlusconi che si presenta al processo Ruby ruba la scena a tutti gli altri casi: ma sono le battute sulle «gare di burlesque» che campeggiano su tutti i siti, forse per non dover raccontare che i due poliziotti di turno la sera dell'arresto non è che abbiano proprio confermato l'impianto accusatorio della Boccassini, cioè le «pressioni» del premier per rilasciare la ragazza.
Sul piano politico la giornata è dominata dal fumogeno di Casini che ha gettato scompiglio nel campo del Pdl, tanto che ha indotto Alfano a rilanciare promettendo effetti speciali ancora più spettacolari: «Io e Berlusconi annunceremo la più grossa novità che cambierà il corso della politica». Ma dopo la pubblicità...
L'Udc fa sul serio e azzera i vertici. Imbarazzo in Fli e Api per il predellino di Casini (che tanto criticò quello di Berlusconi nel 2007), ma da tempo si sono rassegnati a salirci.
Casini pensa ovviamente ad un contenitore a vocazione "grancoalizionista", promotore o interprete della Grande Coalizione, fiero erede dell'esperienza montiana. Ripete che «Monti non è una parentesi», che «politici e tecnici sono nella stessa barca e devono remare insieme». Per Pd e Pdl «profondo rispetto», per il «senso di responsabilità» dimostrato, ma ora è «auspicabile continuare insieme un percorso di ricostruzione italiana», anche dopo il 2013, perché riformare l'Italia «in profondità» richiederà anni ed è «illusorio pensare che si riapra la fase degli uomini della Provvidenza». «L'operazione-salvataggio» di Monti, ammonisce il leader Udc, «è ancora in corso e nessuno può permettersi di sabotarla». Ci tiene quindi a sottolineare che «la nostra iniziativa e la sua riuscita si misura sulla capacità di rafforzare questo tentativo senza esitazioni». Peccato però che facendo apparire il governo Monti funzionale al suo disegno politico, e i suoi ministri tecnici leader "in sonno" del nuovo partito, rischia di scatenare pericolose tensioni nella maggioranza, di compromettere l'esperienza che si propone di rafforzare e persino di indurre il precipitare verso elezioni a ottobre. Tant'è che il Quirinale non ha mancato di far trapelare la sua irritazione.
Casini è da sempre ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso.
Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? A giudicare da un paio di tweet ironici del direttore di Italia Futura, Andrea Romano, almeno il secondo non ci pensa proprio. Il presidente della Ferrari è sfuggente rispetto ai rumors degli ultimi giorni. A chi gli chiede del suo ingresso in politica risponde «non mi parlate di politica, è come se mi parlate della luna, e oggi la luna non c'è». Però durante il primo viaggio del nuovo treno Italo, fa già sapere che una volta «avviato il servizio, tra qualche tempo, lascerò la presidenza e rimarrò azionista».
Paradossalmente Casini può sperare che ministri tecnici, o lo stesso Montezemolo, si convincano a farsi "cooptare" se resta in vigore la legge elettorale che il leader centrista tanto avversa. La riforma di cui si discute, invece, aprirebbe il campo a nuovi giocatori in proprio. Non ci sarebbe da stupirsi se il più appiattito sostenitore di Monti in realtà, in segreto, stesse accarezzando la speranza di votare a ottobre con questa legge, dando chiaramente la colpa agli altri.
La «resa» sul reintegro nei licenziamenti individuali non è servita a molto, la Camusso conferma che lo sciopero generale si farà, ma soprattutto che sull'articolo 18 «la partita è tuttora aperta» e umilia Monti prendendosi il merito del «primo vero e proprio passo indietro del governo».
Intanto anche il Financial Times, dopo il WSJ, bacchetta Monti: deve fare di più per rilanciare la crescita, altrimenti «i mercati continueranno a chiedersi se il Paese riuscirà mai a ripagare il suo debito». Ok, questo lo sappiamo tutti, ma il FT aggiunge anche il "come": tagliare la spesa per tagliare le tasse. Liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro, osserva il quotidiano, «potrebbero avere un effetto sulla crescita ma entrambe non rispondono appieno ai bisogni dell'Italia. Qualsiasi effetto avranno sull'economia si sentirà soltanto a lungo termine». Servono misure immediate: «Il mostruoso settore pubblico italiano e il suo vorace sistema politico consentono risparmi che non andrebbero a colpire la qualità dei servizi pubblici essenziali. Le risorse recuperate potrebbero essere usate per ridurre la pressione fiscale sul Paese, che si prevede toccherà un sorprendente 49% nel 2013». Monti «merita credito» - conclude severamente il FT - «ma la sua agenda economica rischia di rivelarsi non all'altezza».
Sul piano mediatico Berlusconi che si presenta al processo Ruby ruba la scena a tutti gli altri casi: ma sono le battute sulle «gare di burlesque» che campeggiano su tutti i siti, forse per non dover raccontare che i due poliziotti di turno la sera dell'arresto non è che abbiano proprio confermato l'impianto accusatorio della Boccassini, cioè le «pressioni» del premier per rilasciare la ragazza.
Sul piano politico la giornata è dominata dal fumogeno di Casini che ha gettato scompiglio nel campo del Pdl, tanto che ha indotto Alfano a rilanciare promettendo effetti speciali ancora più spettacolari: «Io e Berlusconi annunceremo la più grossa novità che cambierà il corso della politica». Ma dopo la pubblicità...
L'Udc fa sul serio e azzera i vertici. Imbarazzo in Fli e Api per il predellino di Casini (che tanto criticò quello di Berlusconi nel 2007), ma da tempo si sono rassegnati a salirci.
Casini pensa ovviamente ad un contenitore a vocazione "grancoalizionista", promotore o interprete della Grande Coalizione, fiero erede dell'esperienza montiana. Ripete che «Monti non è una parentesi», che «politici e tecnici sono nella stessa barca e devono remare insieme». Per Pd e Pdl «profondo rispetto», per il «senso di responsabilità» dimostrato, ma ora è «auspicabile continuare insieme un percorso di ricostruzione italiana», anche dopo il 2013, perché riformare l'Italia «in profondità» richiederà anni ed è «illusorio pensare che si riapra la fase degli uomini della Provvidenza». «L'operazione-salvataggio» di Monti, ammonisce il leader Udc, «è ancora in corso e nessuno può permettersi di sabotarla». Ci tiene quindi a sottolineare che «la nostra iniziativa e la sua riuscita si misura sulla capacità di rafforzare questo tentativo senza esitazioni». Peccato però che facendo apparire il governo Monti funzionale al suo disegno politico, e i suoi ministri tecnici leader "in sonno" del nuovo partito, rischia di scatenare pericolose tensioni nella maggioranza, di compromettere l'esperienza che si propone di rafforzare e persino di indurre il precipitare verso elezioni a ottobre. Tant'è che il Quirinale non ha mancato di far trapelare la sua irritazione.
Casini è da sempre ossessionato dai contenitori piuttosto che dai contenuti, è il leader del compromesso "a prescindere". La riforma del lavoro esce fuori timida, persino dannosa? Fa niente, l'importante è lo «sforzo collettivo» in sé, la Grande Coalizione, ed esserne il celebrato architetto. Ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico può pensare di giocare una sua partita personale, che nuove offerte politiche (tra cui quella di Montezemolo) possono trovare ampi spazi nel campo dei moderati dopo il passo indietro di Berlusconi. Quindi ha deciso di giocare d'anticipo, di allestire un nuovo carro nel quale è pronto ad accogliere tutti, anche a farsi scudiero. Non ambisce alla premiership (troppo lavoro), ma alle poltrone istituzionali (il Quirinale è il sogno di tutti i democristiani). L'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso.
Ma siamo sicuri che Passera o Montezemolo, o chiunque altro, se e quando scenderanno in campo, vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? A giudicare da un paio di tweet ironici del direttore di Italia Futura, Andrea Romano, almeno il secondo non ci pensa proprio. Il presidente della Ferrari è sfuggente rispetto ai rumors degli ultimi giorni. A chi gli chiede del suo ingresso in politica risponde «non mi parlate di politica, è come se mi parlate della luna, e oggi la luna non c'è». Però durante il primo viaggio del nuovo treno Italo, fa già sapere che una volta «avviato il servizio, tra qualche tempo, lascerò la presidenza e rimarrò azionista».
Paradossalmente Casini può sperare che ministri tecnici, o lo stesso Montezemolo, si convincano a farsi "cooptare" se resta in vigore la legge elettorale che il leader centrista tanto avversa. La riforma di cui si discute, invece, aprirebbe il campo a nuovi giocatori in proprio. Non ci sarebbe da stupirsi se il più appiattito sostenitore di Monti in realtà, in segreto, stesse accarezzando la speranza di votare a ottobre con questa legge, dando chiaramente la colpa agli altri.
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Quel macabro “spread” sui suicidi
A rischio di venire accusati di essere nostalgici del berlusconismo - e non lo siamo, certo non dell'ultima fase - non possiamo però far a meno di notare che stime ottimistiche sui conti pubblici come quelle presentate con un certo compiacimento dal premier Mario Monti non sarebbero state perdonate al Cavaliere. Così come non sarebbe stata perdonata quella caduta di stile (non è la prima, a dire il vero) che il sobrio premier si è concesso citando il numero esatto (1.725) dei suicidi in Grecia, proprio nei giorni in cui le nostre cronache sono piene della triste contabilità sugli italiani, imprenditori e non, che dall'inizio dell'anno si sono tolti la vita, per lo più per crediti non estinti dalla pubblica amministrazione e per vessazioni fiscali e bancarie. D'accordo, professor Monti, dobbiamo a Lei e al suo governo il merito di non averci fatto fare la «drammatica» fine della Grecia, ma ci auguriamo che per convincerci non arrivi ad evocare implicitamente un nuovo tipo di spread, ben più macabro di quello sui rendimenti dei titoli di Stato.
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Thursday, April 19, 2012
La giornata: cresce lo scetticismo sulla ricetta Monti, e intanto Casini sale sul suo predellino
Le stime fin troppo ottimistiche sui conti pubblici (con tanto di nuovo spread Italia-Grecia sui suicidi) non bastano. Ormai lo scetticismo sull'operato del governo dei tecnici si diffonde, all'estero come all'interno. Il Wall Street Journal non abbocca e titola che «l'Italia viene meno all'impegno» del pareggio di bilancio nel 2013. Ovvio, il quotidiano Usa ignora il «benchmark» tutto politico di pareggio di bilancio su cui si sono accordati i Paesi Ue. Più generosi i grandi giornali di casa nostra, con un'eccezione: La Stampa, con un duro editoriale di Luca Ricolfi, che si dice colpito dalla «completa mancanza di concretezza» della conferenza stampa di ieri, da «un linguaggio "ottativo" che meriterebbe di essere studiato già solo per l'audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo, il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti». E con un'intera pagina di critiche da parte di economisti di diverso orientamento.
Le statistiche, d'altra parte, anche quelle di oggi sugli ordinativi industriali – a febbraio -2,5% sul mese precedente e -13,2% su base annua – continuano a prefigurare una recessione ben più acuta di quella stimata dal nostro governo (-1,2%), più vicina alle previsioni del Fmi (-1,9%). Nel frattempo Piazza affari perde un altro 2% e lo spread torna a 400.
E' questo scetticismo che si sta diffondendo la causa della debolezza politica di Monti, le cui tirate d'orecchie ai partiti non sembrano sortire grandi effetti.
C'è grande fermento - si fa per dire ovviamente - sul piano politico. Nonostante la benedizione del professore, le quotazioni della Grande Coalizione sono molto in ribasso. Guarda caso appena Giuliano Ferrara ha ufficialmente sposato «l'unità nazionale» (si scherza). La formula "ABC" «non credo che sia assolutamente una prospettiva politica» per il 2013, dice Bersani a Radio anch'io. Parole molto meno significative di quanto possano apparire. Il senso è che alle politiche ognuno andrà per conto suo - questo è ovvio - ma dopo il voto non c'è una chiusura esplicita.
Per il Pdl la luna di miele con Monti è finita da un pezzo. Il partito è all'offensiva sulle tasse (con i "ya basta!" di Alfano): ottenuta la rateizzazione dell'Imu riesce a far accogliere dal governo un odg per renderla anche "una tantum", ma con la formula «il governo si impegna a valutare l'opportunità di...». «Si impegnerà per trovare risorse alternative e noi lo aiuteremo, evitando buchi di bilancio», assicura Alfano. Poco più di un contentino insomma. Ma i dati economici non confortanti spingono il Pdl a smuovere le acque in cerca di recuperare il rapporto con i propri elettori. All'attivismo del Pdl risponde Casini: ieri a Ottoemezzo ha sparigliato sul finanziamento pubblico ai partiti (facendo sua la proposta Capaldo) e lanciato il "Partito della Nazione" (o come si chiamerà), al cui interno ci sarà anche qualche ministro tecnico, fa sapere sibillino.
Oggi dalle parole ai fatti: ha dato il via all'azzeramento dei vertici dell'Udc in vista della nuova formazione politica, che manco a dirlo si pone l'obiettivo di riunire il campo dei moderati. La mossa provoca subito uno smottamento, da tempo atteso, nel Pdl: Pisanu con 27 senatori, tra cui Dini (il nuovo che avanza), chiede di andare «oltre il Pdl», per partecipare ad «un nuovo movimento liberaldemocratico, laico e cattolico».
Insomma, abbiamo capito che bisogna «unire i moderati», ora bisogna solo decidere chi si intesta la guida dell'operazione, chi ingloba chi. E qui c'è la ressa tra Casini e il Pdl. Ma nessuno sembra ancora aver capito che i cosiddetti "moderati", o meglio il centrodestra non si unisce con operazioni tra apparati; legge elettorale permettendo, si unisce, o si divide, nelle urne, convincendo gli elettori. Il Pdl s'era appena rimesso a parlare - persino con qualche successo - di lavoro, tasse, crescita, insomma ad occuparsi davvero dell'"arrosto", che subito i tre amigos (Casini con i due zombie Fini e Rutelli) e Pisanu hanno tirato il fumogeno. Il momento sembra propizio per dare l'ultima spallata al vecchio centrodestra: la Lega alle corde, Formigoni ha altri problemi, c'è da disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica.
E' una dura lotta per la sopravvivenza quella dei vecchi ceti politici, che rischiano di essere spazzati via da nuove offerte. Casini resta il più furbo (il che non significa il vincente): ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico pensa di giocare una sua partita personale, quindi cerca di preparare un partito nuovo di zecca, ovviamente grancoalizionista, erede dell'esperienza montiana, pronto ad accogliere tutti. Ma proprio tutti, l'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso (al ribasso, per carità). E poi su al Quirinale.
Ma siamo sicuri che i ministri tecnici interessati, o Montezemolo, che i tre amigos del Terzo polo corteggiano da sempre, se e quando scenderanno in campo vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? Che li vorranno come "padrini" politici?
Le statistiche, d'altra parte, anche quelle di oggi sugli ordinativi industriali – a febbraio -2,5% sul mese precedente e -13,2% su base annua – continuano a prefigurare una recessione ben più acuta di quella stimata dal nostro governo (-1,2%), più vicina alle previsioni del Fmi (-1,9%). Nel frattempo Piazza affari perde un altro 2% e lo spread torna a 400.
E' questo scetticismo che si sta diffondendo la causa della debolezza politica di Monti, le cui tirate d'orecchie ai partiti non sembrano sortire grandi effetti.
C'è grande fermento - si fa per dire ovviamente - sul piano politico. Nonostante la benedizione del professore, le quotazioni della Grande Coalizione sono molto in ribasso. Guarda caso appena Giuliano Ferrara ha ufficialmente sposato «l'unità nazionale» (si scherza). La formula "ABC" «non credo che sia assolutamente una prospettiva politica» per il 2013, dice Bersani a Radio anch'io. Parole molto meno significative di quanto possano apparire. Il senso è che alle politiche ognuno andrà per conto suo - questo è ovvio - ma dopo il voto non c'è una chiusura esplicita.
Per il Pdl la luna di miele con Monti è finita da un pezzo. Il partito è all'offensiva sulle tasse (con i "ya basta!" di Alfano): ottenuta la rateizzazione dell'Imu riesce a far accogliere dal governo un odg per renderla anche "una tantum", ma con la formula «il governo si impegna a valutare l'opportunità di...». «Si impegnerà per trovare risorse alternative e noi lo aiuteremo, evitando buchi di bilancio», assicura Alfano. Poco più di un contentino insomma. Ma i dati economici non confortanti spingono il Pdl a smuovere le acque in cerca di recuperare il rapporto con i propri elettori. All'attivismo del Pdl risponde Casini: ieri a Ottoemezzo ha sparigliato sul finanziamento pubblico ai partiti (facendo sua la proposta Capaldo) e lanciato il "Partito della Nazione" (o come si chiamerà), al cui interno ci sarà anche qualche ministro tecnico, fa sapere sibillino.
Oggi dalle parole ai fatti: ha dato il via all'azzeramento dei vertici dell'Udc in vista della nuova formazione politica, che manco a dirlo si pone l'obiettivo di riunire il campo dei moderati. La mossa provoca subito uno smottamento, da tempo atteso, nel Pdl: Pisanu con 27 senatori, tra cui Dini (il nuovo che avanza), chiede di andare «oltre il Pdl», per partecipare ad «un nuovo movimento liberaldemocratico, laico e cattolico».
Insomma, abbiamo capito che bisogna «unire i moderati», ora bisogna solo decidere chi si intesta la guida dell'operazione, chi ingloba chi. E qui c'è la ressa tra Casini e il Pdl. Ma nessuno sembra ancora aver capito che i cosiddetti "moderati", o meglio il centrodestra non si unisce con operazioni tra apparati; legge elettorale permettendo, si unisce, o si divide, nelle urne, convincendo gli elettori. Il Pdl s'era appena rimesso a parlare - persino con qualche successo - di lavoro, tasse, crescita, insomma ad occuparsi davvero dell'"arrosto", che subito i tre amigos (Casini con i due zombie Fini e Rutelli) e Pisanu hanno tirato il fumogeno. Il momento sembra propizio per dare l'ultima spallata al vecchio centrodestra: la Lega alle corde, Formigoni ha altri problemi, c'è da disgregare il Pdl prima che recuperi smalto e iniziativa politica.
E' una dura lotta per la sopravvivenza quella dei vecchi ceti politici, che rischiano di essere spazzati via da nuove offerte. Casini resta il più furbo (il che non significa il vincente): ha intuito le insidie del tecno-centrismo, che qualche ministro tecnico pensa di giocare una sua partita personale, quindi cerca di preparare un partito nuovo di zecca, ovviamente grancoalizionista, erede dell'esperienza montiana, pronto ad accogliere tutti. Ma proprio tutti, l'importante è che sia lui al centro di ogni equilibrio e di ogni compromesso (al ribasso, per carità). E poi su al Quirinale.
Ma siamo sicuri che i ministri tecnici interessati, o Montezemolo, che i tre amigos del Terzo polo corteggiano da sempre, se e quando scenderanno in campo vorranno farsi accompagnare da Casini, Fini e Rutelli? Che li vorranno come "padrini" politici?
Sull'ottimismo di Monti incombe un armageddon immobiliare
Nel presentare il documento economico e finanziario ieri il premier Mario Monti si compiaceva di aver dato la «prima applicazione» al principio del fiscal compact da parte di un Paese membro dell'Ue. Nonostante la crisi, il governo prevede che l'Italia centrerà già nel 2013 il pareggio di bilancio, sia pure nella versione "politica" accordata in sede Ue. Peccato che le stime su cui si basa tale previsione siano ormai le più ottimistiche in circolazione. Se si discostano solo lievemente da quelle di Bruxelles e della Banca d'Italia, appaiono davvero eccessivamente ottimistiche rispetto alle stime del Fmi.
Nel frattempo, Piazza affari viveva un'altra giornata nera (-2,42%), con lo spread stabile a 385, ma soprattutto giungeva da uno degli istituti di ricerca più autorevoli, il Censis, un inquietante allarme: il possibile crollo del valore degli immobili principalmente a causa dell'Imu.
Se c'era una calamità che l'Italia fino ad oggi era riuscita a schivare era l'esplosione della bolla immobiliare. Ebbene, con l'Imu il governo Monti - i più avvertiti lo avevano segnalato già a dicembre - si è assunto il rischio di sfruculiarla. Si materializzerebbe il peggior incubo se una crisi immobiliare dovesse innestarsi in quella finanziaria ed economica già in atto. Il primo a lanciare l'allarme è stato, ieri, il direttore del Censis, Giuseppe Roma, secondo cui nel 2012 il valore delle case potrebbe crollare del 20%, con punte oltre il 50%.
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Nel frattempo, Piazza affari viveva un'altra giornata nera (-2,42%), con lo spread stabile a 385, ma soprattutto giungeva da uno degli istituti di ricerca più autorevoli, il Censis, un inquietante allarme: il possibile crollo del valore degli immobili principalmente a causa dell'Imu.
Se c'era una calamità che l'Italia fino ad oggi era riuscita a schivare era l'esplosione della bolla immobiliare. Ebbene, con l'Imu il governo Monti - i più avvertiti lo avevano segnalato già a dicembre - si è assunto il rischio di sfruculiarla. Si materializzerebbe il peggior incubo se una crisi immobiliare dovesse innestarsi in quella finanziaria ed economica già in atto. Il primo a lanciare l'allarme è stato, ieri, il direttore del Censis, Giuseppe Roma, secondo cui nel 2012 il valore delle case potrebbe crollare del 20%, con punte oltre il 50%.
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Wednesday, April 18, 2012
La giornata: Monti brinda in anticipo al pareggio di bilancio e benedice la Grande Coalizione
Habemus Def (qui il testo). Dopo tre giorni di limature per evitare di gettare i mercati nello sconforto, il governo Monti presenta le sue stime, eccessivamente ottimistiche (soprattutto rispetto a quelle del Fmi), e festeggia - con troppo compiacimento (la «prima applicazione» del fiscal compact), e con troppo anticipo - il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013. Siamo appena entrati nel II trimestre dell'anno, solo il I ha costretto tutti gli organismi ad una decisa virata al ribasso delle stime del Pil, ed è ancora difficilmente prevedibile l'effetto recessivo delle tasse che gli italiani dovranno pagare nei prossimi, su tutte l'Imu (e l'Iva a ottobre). In realtà è sempre più probabile che anche l'Italia, dopo la Spagna, manchi i suoi obiettivi di bilancio. Sotto accusa l'austerità imposta dalla Germania ai Paesi eurodeboli, che ha accentuato la recessione, ma è pur vero che né Bruxelles né Berlino né il Fmi hanno imposto che l'austerità dovesse significare una spremuta di tasse e basta anziché tagli alla spesa e vere riforme.
Purtroppo, tutto è politica. Più che i numeri conta la stima di cui si gode a Bruxelles e a Washington, com'è lo stesso premier ad ammettere: commentando le preoccupanti stime del Fmi, si dice più «confortato» dai pareri sulle politiche del suo governo espressi dal ministro tedesco Schauble o da un suo portavoce, dalla Lagarde e dagli Usa, che non da mezzo punto in più o in meno di Pil. Sempre finché si accontentano i mercati...
Monti poi non rinuncia a piazzare l'ennesima spudorata promessa (in stile berlusconiano) sui tagli di tasse che «in futuro» saranno possibili grazie alla lotta all'evasione, nonostante abbia appena stralciato l'apposito fondo dalla delega fiscale; usa toni drammatici («ci battiamo ogni giorno per evitare il drammatico destino della Grecia») per ricompattare attorno al governo forze politiche e opinione pubblica; e torna a far leva sull'untore preferito dei difensori della spesa pubblica, l'evasore fiscale. Ma soprattutto fornisce la giustificazione economica per il compimento di quel disegno squisitamente politico che lo porta, a scapito delle riforme, a non tirare troppo la corda con i partiti: la Grande Coalizione. «Siamo un governo breve chiamato a svolgere un compito lunghissimo», ricorda in conferenza stampa, e «se le forze politiche che sostengono il governo, con grande senso di responsabilità, dovessero condividere questa piattaforma triennale e farla propria, in tutto o in parte, sarebbe un punto importante e una leva di fiducia nel lungo periodo nei confronti dell'Italia». Insomma, duratura la crisi, durature le sfide per la crescita, duraturo pure il percorso di risanamento, le forze politiche non potranno che proseguire nello «sforzo collettivo» anche dopo le elezioni del 2013.
Anche se il Pdl, attivo in questi giorni su fisco e lavoro per ritrovare l'empatia con i propri elettori delusi e arrabbiati, è in frenata. Fa la voce grossa sulle tasse (ora basta! grida Alfano dai tg). Niente strappi, ma la luna di miele è finita e non c'è spazio per certe convivialità. Berlusconi quindi annulla il pranzo con Monti, che aveva solleticato la fantasia dei retroscenisti. Non è uno sgarbo al professore. Al contrario, giura, un gesto per allentare la tensione, «per non alimentare polemiche e per evitare o prevenire insinuazioni malevole su questioni inerenti le frequenze televisive». Incontro rinviato a quando con il Pdl avrà valutato i provvedimenti su fisco, in particolare quelli che riguardano la casa, e crescita. Tra questi addirittura «una cinquantina» ne ha annunciati ieri sera Passera. La sensazione è che si tratti di coriandoli, fumo negli occhi per placare l'insistenza con la quale da più parti si invocano politiche per la crescita.
Monti dice di essere uscito dal vertice notturno di ieri con un «nuovo patto politico» siglato con ABC. La riforma del lavoro dovrebbe procedere in modo spedito, anche perché saranno accolte le richieste delle imprese fortemente sponsorizzate dal Pdl, ma sul resto vedremo. Intanto oggi il governo ha dovuto chiedere una nuova fiducia, sul dl fiscale (senza sconti Imu ad anziani e disabili ricoverati), e la decisione del premier di non presentarsi agli spring meetings del Fmi al G20 economico e finanziario denota una certa apprensione per il fronte politico interno.
Sulle stime ottimistiche di Monti incombe però una specie di armageddon immobiliare. Il Censis è il primo istituto di ricerca autorevole a lanciare un inquietante allarme su quello che definisce "l'effetto-Imu": gli italiani starebbero inondando il mercato di seconde case, il che in assenza di domanda potrebbe provocare un crollo verticale del valore degli immobili, che alla fine del 2012 potrebbe calare anche del 20%, con punte del 50%. Con quali effetti sui mutui (il 22% delle famiglie che ne stanno pagando uno sono già oggi in difficoltà) e sugli asset immobiliari delle banche? Meglio non pensarci, un incubo.
Purtroppo, tutto è politica. Più che i numeri conta la stima di cui si gode a Bruxelles e a Washington, com'è lo stesso premier ad ammettere: commentando le preoccupanti stime del Fmi, si dice più «confortato» dai pareri sulle politiche del suo governo espressi dal ministro tedesco Schauble o da un suo portavoce, dalla Lagarde e dagli Usa, che non da mezzo punto in più o in meno di Pil. Sempre finché si accontentano i mercati...
Monti poi non rinuncia a piazzare l'ennesima spudorata promessa (in stile berlusconiano) sui tagli di tasse che «in futuro» saranno possibili grazie alla lotta all'evasione, nonostante abbia appena stralciato l'apposito fondo dalla delega fiscale; usa toni drammatici («ci battiamo ogni giorno per evitare il drammatico destino della Grecia») per ricompattare attorno al governo forze politiche e opinione pubblica; e torna a far leva sull'untore preferito dei difensori della spesa pubblica, l'evasore fiscale. Ma soprattutto fornisce la giustificazione economica per il compimento di quel disegno squisitamente politico che lo porta, a scapito delle riforme, a non tirare troppo la corda con i partiti: la Grande Coalizione. «Siamo un governo breve chiamato a svolgere un compito lunghissimo», ricorda in conferenza stampa, e «se le forze politiche che sostengono il governo, con grande senso di responsabilità, dovessero condividere questa piattaforma triennale e farla propria, in tutto o in parte, sarebbe un punto importante e una leva di fiducia nel lungo periodo nei confronti dell'Italia». Insomma, duratura la crisi, durature le sfide per la crescita, duraturo pure il percorso di risanamento, le forze politiche non potranno che proseguire nello «sforzo collettivo» anche dopo le elezioni del 2013.
Anche se il Pdl, attivo in questi giorni su fisco e lavoro per ritrovare l'empatia con i propri elettori delusi e arrabbiati, è in frenata. Fa la voce grossa sulle tasse (ora basta! grida Alfano dai tg). Niente strappi, ma la luna di miele è finita e non c'è spazio per certe convivialità. Berlusconi quindi annulla il pranzo con Monti, che aveva solleticato la fantasia dei retroscenisti. Non è uno sgarbo al professore. Al contrario, giura, un gesto per allentare la tensione, «per non alimentare polemiche e per evitare o prevenire insinuazioni malevole su questioni inerenti le frequenze televisive». Incontro rinviato a quando con il Pdl avrà valutato i provvedimenti su fisco, in particolare quelli che riguardano la casa, e crescita. Tra questi addirittura «una cinquantina» ne ha annunciati ieri sera Passera. La sensazione è che si tratti di coriandoli, fumo negli occhi per placare l'insistenza con la quale da più parti si invocano politiche per la crescita.
Monti dice di essere uscito dal vertice notturno di ieri con un «nuovo patto politico» siglato con ABC. La riforma del lavoro dovrebbe procedere in modo spedito, anche perché saranno accolte le richieste delle imprese fortemente sponsorizzate dal Pdl, ma sul resto vedremo. Intanto oggi il governo ha dovuto chiedere una nuova fiducia, sul dl fiscale (senza sconti Imu ad anziani e disabili ricoverati), e la decisione del premier di non presentarsi agli spring meetings del Fmi al G20 economico e finanziario denota una certa apprensione per il fronte politico interno.
Sulle stime ottimistiche di Monti incombe però una specie di armageddon immobiliare. Il Censis è il primo istituto di ricerca autorevole a lanciare un inquietante allarme su quello che definisce "l'effetto-Imu": gli italiani starebbero inondando il mercato di seconde case, il che in assenza di domanda potrebbe provocare un crollo verticale del valore degli immobili, che alla fine del 2012 potrebbe calare anche del 20%, con punte del 50%. Con quali effetti sui mutui (il 22% delle famiglie che ne stanno pagando uno sono già oggi in difficoltà) e sugli asset immobiliari delle banche? Meglio non pensarci, un incubo.
Crisi finanziaria e pulizia politica a braccetto
Luigi Lusi, Francesco Belsito, Rosi Mauro, Renzo e Umberto Bossi, Davide Boni, Filippo Penati, Nichi Vendola, Roberto Formigoni e mezza giunta regionale lombarda, Valter Lavitola e ovviamente lui, Silvio Berlusconi. Appuntatevi questi nomi, solo i più citati, coinvolti a vario titolo - indagati e non - nelle numerose inchieste che in lungo e in largo nella nostra penisola stanno scuotendo le fondamenta del sistema politico. Tra qualche anno, quando il polverone si sarà diradato, sarà di una qualche utilità, per comprendere cosa stesse accadendo in questi giorni, sapere che fine avranno fatto, quale esito giudiziario sarà toccato loro in sorte. Paginate di giornali, aperture dei tg, talk show, ovunque lo tsunami di rivelazioni sembra inarrestabile, ondata dopo ondata travolge ogni cosa.
Non c'è nemmeno il tempo di porsi qualche domanda che già sopraggiunge lo scandalo successivo, o il vecchio si arricchisce di una nuova puntata, di un particolare in più. Eppure, da Tangentopoli a Partitopoli, alcune coincidenze nell'assalto mediatico-giudiziario al sistema politico non possono non sollevare alcuni interrogativi per chi non si accontenti delle gogne per sfogare il proprio malcontento. Allora come oggi le grandi "pulizie" coincisero con una pericolosa crisi finanziaria...
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Non c'è nemmeno il tempo di porsi qualche domanda che già sopraggiunge lo scandalo successivo, o il vecchio si arricchisce di una nuova puntata, di un particolare in più. Eppure, da Tangentopoli a Partitopoli, alcune coincidenze nell'assalto mediatico-giudiziario al sistema politico non possono non sollevare alcuni interrogativi per chi non si accontenti delle gogne per sfogare il proprio malcontento. Allora come oggi le grandi "pulizie" coincisero con una pericolosa crisi finanziaria...
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Tuesday, April 17, 2012
La giornata: su Monti la doccia fredda dei numeri e il pressing del Pdl
Nel giorno della risalita di Piazza affari (+3,68%) e della relativa calma dello spread (stabilizzatosi a 380 punti), sono altri i numeri che non permettono a Monti di dormire sonni tranquilli. Per carità, il giudizio del Fmi sulle sue politiche è incoraggiante, anche se un tantino cauto, e il rialzo delle previsioni della crescita mondiale è un buon segnale, ma le stime sull'Italia non lasciano presagire nulla di buono: il Pil italiano si contrarrà nel 2012 dell'1,9% e nel 2013 dello 0,3%. Primi segnali di ripresa solo nel quarto trimestre del 2013. Previsioni bollate subito come «troppo pessimiste» dal direttore generale di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, che evidentemente con Monti a Palazzo Chigi sente più il gioco di squadra.
Ciò significa, sempre secondo le previsioni del Fondo, che l'Italia non raggiungerà il tanto sospirato pareggio di bilancio almeno fino al 2017, un orizzonte temporale davvero troppo distante. Una doccia fredda che arriva proprio nel giorno dell'approvazione al Senato, a cui il premier ha voluto presenziare, della norma sull'effimero "equilibrio" di bilancio in Costituzione. Il rapporto deficit/Pil - prevede il Fmi - passerà dal 2,4% del 2012 all'1,5% nel 2013, per calare fino all'1,1% nel 2017; e il debito dal 123,4% di quest'anno al 123,8% del prossimo, riuscendo a scendere sotto quota 120 solo nel 2017 (118,9%). Previsioni molto severe, che in realtà sottolineano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che senza tagli alla spesa, che consentano di ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa, e abbattimento dello stock del debito, la strada verso il risanamento rischia di essere sì virtuosa ma troppo, troppo lunga. I mercati potrebbero non concederci tutto questo tempo.
Va però tenuto conto, come ricorda il responsabile del fiscal monitor Fmi, che l'Ue valuta il raggiungimento degli obiettivi di bilancio «al netto degli effetti del ciclo», cioè della recessione. Insomma, se il Pil fosse zero e non in negativo, saremmo praticamente in pareggio di bilancio. Basterà ai mercati l'artificio contabile di Bruxelles?
Nel frattempo il governo aggiusta al ribasso anche le sue stime, che avrebbe dovuto presentare già lunedì. Nella bozza del Def si prevede un fin troppo ottimistico Pil a -1,2% nel 2012 (+0,5% nel 2013), mentre il rapporto deficit/Pil dovrebbe passare dall'1,7% del 2012 allo 0,5% del 2013. In sostanza, per il governo verrebbe raggiunto il pareggio di bilancio già nel 2013 (deficit zero «reale», cioè non corretto per il ciclo, solo nel 2015), dunque già nel 2014 il debito scenderebbe sotto quota 120 (118,3%). Com'è evidente, tutto dipende dal Pil, sul quale però la previsione più realistica sembra il -2% del Fmi. Senza tacere, poi, l'ennesimo record di pressione fiscale nel 2013, quando toccherà quota 45,4% al lordo dell'evasione.
Sul piano politico la giornata di Monti si conclude con la grana dei partiti. Stasera, infatti, il vertice di Monti con ABC. Il premier in mattinata ha subito messo in chiaro che si aspetta collaborazione, anzi strada spianata: «Le tensioni delle ultime settimane dimostrano che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia, occorre continuare a lavorare per porre le finanze pubbliche su una base più sana e proseguire nelle riforme». Ma sono ancora aperti i dossier delle modifiche alla riforma del lavoro, sulla flessibilità in entrata, su cui insiste il pressing congiunto delle imprese, e delle tasse, con il Pdl che dopo aver ottenuto la rateizzazione dell'Imu è determinato a renderla "una tantum" e a impedire che l'Iva aumenti a fine settembre, mentre irrompe anche la polemica sulla riapertura dell'asta per le frequenze tv.
Ciò significa, sempre secondo le previsioni del Fondo, che l'Italia non raggiungerà il tanto sospirato pareggio di bilancio almeno fino al 2017, un orizzonte temporale davvero troppo distante. Una doccia fredda che arriva proprio nel giorno dell'approvazione al Senato, a cui il premier ha voluto presenziare, della norma sull'effimero "equilibrio" di bilancio in Costituzione. Il rapporto deficit/Pil - prevede il Fmi - passerà dal 2,4% del 2012 all'1,5% nel 2013, per calare fino all'1,1% nel 2017; e il debito dal 123,4% di quest'anno al 123,8% del prossimo, riuscendo a scendere sotto quota 120 solo nel 2017 (118,9%). Previsioni molto severe, che in realtà sottolineano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che senza tagli alla spesa, che consentano di ridurre la pressione fiscale su lavoro e impresa, e abbattimento dello stock del debito, la strada verso il risanamento rischia di essere sì virtuosa ma troppo, troppo lunga. I mercati potrebbero non concederci tutto questo tempo.
Va però tenuto conto, come ricorda il responsabile del fiscal monitor Fmi, che l'Ue valuta il raggiungimento degli obiettivi di bilancio «al netto degli effetti del ciclo», cioè della recessione. Insomma, se il Pil fosse zero e non in negativo, saremmo praticamente in pareggio di bilancio. Basterà ai mercati l'artificio contabile di Bruxelles?
Nel frattempo il governo aggiusta al ribasso anche le sue stime, che avrebbe dovuto presentare già lunedì. Nella bozza del Def si prevede un fin troppo ottimistico Pil a -1,2% nel 2012 (+0,5% nel 2013), mentre il rapporto deficit/Pil dovrebbe passare dall'1,7% del 2012 allo 0,5% del 2013. In sostanza, per il governo verrebbe raggiunto il pareggio di bilancio già nel 2013 (deficit zero «reale», cioè non corretto per il ciclo, solo nel 2015), dunque già nel 2014 il debito scenderebbe sotto quota 120 (118,3%). Com'è evidente, tutto dipende dal Pil, sul quale però la previsione più realistica sembra il -2% del Fmi. Senza tacere, poi, l'ennesimo record di pressione fiscale nel 2013, quando toccherà quota 45,4% al lordo dell'evasione.
Sul piano politico la giornata di Monti si conclude con la grana dei partiti. Stasera, infatti, il vertice di Monti con ABC. Il premier in mattinata ha subito messo in chiaro che si aspetta collaborazione, anzi strada spianata: «Le tensioni delle ultime settimane dimostrano che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia, occorre continuare a lavorare per porre le finanze pubbliche su una base più sana e proseguire nelle riforme». Ma sono ancora aperti i dossier delle modifiche alla riforma del lavoro, sulla flessibilità in entrata, su cui insiste il pressing congiunto delle imprese, e delle tasse, con il Pdl che dopo aver ottenuto la rateizzazione dell'Imu è determinato a renderla "una tantum" e a impedire che l'Iva aumenti a fine settembre, mentre irrompe anche la polemica sulla riapertura dell'asta per le frequenze tv.
Missione: salvare la spesa pubblica
Se nel decreto "Salva-Italia" si è fatto ricorso quasi esclusivo all'aumento della tassazione non è stato per la necessità, invocata espressamente dal governo Monti, di agire in tempi ristrettissimi nell'emergenza dello scorso novembre. Se il risanamento è «un po' sbilanciato sul lato delle entrate», come osserva eufemisticamente Christine Lagarde nell'intervista di oggi al Sole24Ore, è per una consapevole scelta politica. E' quanto fa intendere lo stesso direttore del Fondo monetario internazionale: evidentemente al Fondo devono aver chiesto spiegazioni di un tale sbilanciamento sul lato tasse piuttosto che sui tagli alla spesa. «E' una scelta politica, ci ha detto Monti, e noi la rispettiamo».
Un particolare dell'intervista passato quasi inosservato ma che a mio avviso conferma i nostri sospetti. Non è un caso, né una necessità o un'impossibilità a fare altrimenti, se il governo aumenta le tasse e non ha in programma nemmeno nei prossimi mesi cospicui tagli di spesa per ridurle, bensì una chiara scelta politica: salvaguardare i livelli attuali di spesa pubblica, ritenuti evidentemente compatibili con l'uscita del Paese dalla crisi finanziaria ed economica.
Il rischio però, come avverte Ricolfi oggi su La Stampa, è che in questo modo dall'alternativa tra «salvare il Paese» e fare la fine della Grecia passiamo all'alternativa molto meno allettante tra fare la fine della Grecia subito o farla tra qualche mese/anno, cioè «semplicemente ritardare il momento del disastro». Al governo Monti anche Ricolfi rimprovera di avere «una visione del problema della crescita non molto dissimile da quella dei governi che lo hanno preceduto», laddove «persevera sul sentiero, battuto fin qui da tutti i governi di destra e di sinistra, della prima e della seconda Repubblica, di affrontare i problemi di bilancio con maggiori tasse anziché con minori spese».
Una cultura «vecchia», inadeguata, che si esprime anche nella «mentalità con cui affronta chi osa non allinearsi al clima di venerazione e gratitudine da cui è circondato».E' vero che non ci sono alternative al governo Monti, ma da qui a paragonare il premier o alcuni suoi ministri alla Thatcher, o a scambiare la mancanza di alternative con una pretesa infallibilità ce ne vuole. Davvero insopportabile (e molto berlusconiano) questo additare - attribuito a Monti nei retroscena ma non smentito - un presunto «fuoco amico» come colpevole della risalita dello spread.
Persino la Lagarde - dalle cui labbra pendono i mercati e che quindi non può permettersi di silurare l'unica speranza di salvezza dell'Eurozona incarnata da Monti - un paio di colpetti al governo tecnico li ha assestati: promosso sulle politiche di risanamento, anche se troppo sbilanciate sulle tasse, ma rimandato sulla riforma del lavoro, di cui segnala diplomaticamente l'arretramento sull'articolo 18.
Un particolare dell'intervista passato quasi inosservato ma che a mio avviso conferma i nostri sospetti. Non è un caso, né una necessità o un'impossibilità a fare altrimenti, se il governo aumenta le tasse e non ha in programma nemmeno nei prossimi mesi cospicui tagli di spesa per ridurle, bensì una chiara scelta politica: salvaguardare i livelli attuali di spesa pubblica, ritenuti evidentemente compatibili con l'uscita del Paese dalla crisi finanziaria ed economica.
Il rischio però, come avverte Ricolfi oggi su La Stampa, è che in questo modo dall'alternativa tra «salvare il Paese» e fare la fine della Grecia passiamo all'alternativa molto meno allettante tra fare la fine della Grecia subito o farla tra qualche mese/anno, cioè «semplicemente ritardare il momento del disastro». Al governo Monti anche Ricolfi rimprovera di avere «una visione del problema della crescita non molto dissimile da quella dei governi che lo hanno preceduto», laddove «persevera sul sentiero, battuto fin qui da tutti i governi di destra e di sinistra, della prima e della seconda Repubblica, di affrontare i problemi di bilancio con maggiori tasse anziché con minori spese».
Una cultura «vecchia», inadeguata, che si esprime anche nella «mentalità con cui affronta chi osa non allinearsi al clima di venerazione e gratitudine da cui è circondato».E' vero che non ci sono alternative al governo Monti, ma da qui a paragonare il premier o alcuni suoi ministri alla Thatcher, o a scambiare la mancanza di alternative con una pretesa infallibilità ce ne vuole. Davvero insopportabile (e molto berlusconiano) questo additare - attribuito a Monti nei retroscena ma non smentito - un presunto «fuoco amico» come colpevole della risalita dello spread.
Persino la Lagarde - dalle cui labbra pendono i mercati e che quindi non può permettersi di silurare l'unica speranza di salvezza dell'Eurozona incarnata da Monti - un paio di colpetti al governo tecnico li ha assestati: promosso sulle politiche di risanamento, anche se troppo sbilanciate sulle tasse, ma rimandato sulla riforma del lavoro, di cui segnala diplomaticamente l'arretramento sull'articolo 18.
Delega fiscale, l'ennesimo bluff
Non c'è «l'ideona» per la crescita, ma la fantasia sul fronte fiscale è fervida, non passa giorno senza un nuovo balzello (scongiurata in extremis l'ultima beffa, l'Irpef sulle borse di studio). Ma svanita la luna di miele con la stampa e gli investitori, in molti ormai concordano sul peccato capitale del governo Monti: poco o nulla per la crescita, solo tasse. Nel presentare il Salva-Italia il premier aveva giustificato il ricorso quasi esclusivo all'aumento della tassazione con la necessità di agire in tempi ristretti, ma assicurato che sarebbero stati i tagli alla spesa in futuro a garantire il risanamento dei conti e una sensibile riduzione del cuneo fiscale. Lo sgravio, pur minimo, dell'Irap e l'introduzione dell'“Ace” furono inseriti nel decreto espressamente come primi segnali della direzione verso cui intendeva muoversi il governo. Così come l'aggravio delle imposte indirette e patrimoniali sarebbe stato compensato da un alleggerimento di quelle dirette. Ebbene, la delega fiscale che il Cdm ha varato ieri sera e di cui mentre scriviamo sono note alcune anticipazioni delude nuovamente tali aspettative.
L'unico contentino ai contribuenti, più una promessa che una realtà, è il fondo in cui far confluire il gettito della lotta all'evasione da destinare a sgravi fiscali. I quali però potrebbero essere una tantum: sarebbe rischioso prevedere tagli strutturali su introiti variabili di anno in anno. Inoltre, il dibattito in seno al governo su come utilizzare quel gettito è ancora aperto e l'idea prevalente sarebbe quella di poterlo destinare anche ad un'eventuale correzione dei conti o a nuove spese per lo sviluppo.
Il governo si impegna ad adottare i decreti attuativi «entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge», il che significa che li vedremo – se li vedremo – appena prima delle elezioni del 2013. Chi ci scommette?
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L'unico contentino ai contribuenti, più una promessa che una realtà, è il fondo in cui far confluire il gettito della lotta all'evasione da destinare a sgravi fiscali. I quali però potrebbero essere una tantum: sarebbe rischioso prevedere tagli strutturali su introiti variabili di anno in anno. Inoltre, il dibattito in seno al governo su come utilizzare quel gettito è ancora aperto e l'idea prevalente sarebbe quella di poterlo destinare anche ad un'eventuale correzione dei conti o a nuove spese per lo sviluppo.
Il governo si impegna ad adottare i decreti attuativi «entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge», il che significa che li vedremo – se li vedremo – appena prima delle elezioni del 2013. Chi ci scommette?
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Monday, April 16, 2012
La giornata: ABC delirano e Monti prepara i suoi ennesimi bluff su fisco e sviluppo
Lavitola, Formigoni e ancora Lega, questi i nomi dei tre cicloni giudiziari che imperversano su giornali e siti internet. Ma qui ci interessa altro:
Piazza affari che consolida... le perdite dei giorni scorsi, lo spread sull'orlo dei 400, sulla scia di quello spagnolo, e i cds da record;
I PARTITI che difendono con le unghie e con i denti il loro tesoretto da 2,7 miliardi in vent'anni contro l'ondata di antipolitica cavalcata da Grillo:
MONTI che 1) rimanda a mercoledì la presentazione del Def con le stime aggiornate dei conti pubblici (spera ancora di limare la previsione del Pil e di trovare un "tesoretto" per non spaventare troppo Bruxelles);
2) difende la sua pessima riforma del lavoro: il ddl è «più ampio ed incisivo» di quello annunciato a novembre. Le misure avrebbero dovuto riguardare solo i nuovi assunti, e a titolo sperimentale, - ricorda il premier - mentre nel nuovo testo «l'intervento è esteso a tutti i lavoratori ed è inserito a titolo definitivo». Meglio una vera cancellazione del reintegro limitata ai nuovi assunti piuttosto che il pastrocchio attuale: sarebbe rimasto il dualismo (che rimarrà comunque), ma almeno avrebbe favorito le assunzioni. Ma al di là della preoccupazione che non appaia come un nuovo cedimento, l'apertura del governo alle richieste delle imprese e del Pdl sulla flessibilità in entrata è più che concreta;
3) sta per varare una delega fiscale tutt'altro che ambiziosa (e i cui decreti attuativi probabilmente non vedranno mai la luce);
4) sta preparando con i suoi ministri economici l'ennesimo pacchetto sviluppo da discutere al vertice di domani sera con ABC, quando il vero pacchetto sviluppo dovrebbe essere il combinato disposto spending review-delega fiscale. In totale continuità con i governi precedenti, anche Monti e i suoi ministri s'illudono di cavarsela con tre-quattro «ideine», come le chiama Bersani, roba marginale, magari sperperando altro denaro pubblico, mentre tutti ormai dovrebbero aver compreso che l'unico vero shock in grado di contrastare la recessione è un abbattimento, graduale ma cospicuo, della spesa corrente per tagliare le tasse su lavoro e impresa. Qualsiasi "pacchetto" che eludesse questo punto sarebbe poco più che un'arma di distrazione di massa. Nulla di concreto insomma, per il governo più che altro un modo per attenuare il pressing della stampa e di Confindustria e le fibrillazioni dei partiti, tutti additati come i colpevoli della caduta d'immagine del governo all'esterno.
LUNA DI MIELE OFF - L'editoriale di Alesina-Giavazzi - in cui si avverte che proprio la spending review è la «sola carta rimasta da giocare» - e la «resa» ai sindacati e alla sinistra sull'articolo 18 vengono usati ora anche da Reuters per spiegare che Monti «ha perso la sua brillantezza», ha perso il suo "momentum". Tutti sembrano improvvisamente scoprire che «le aspettative non erano realistiche» (ma va?); che a parte le pensioni, su tutti gli altri fronti, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, tutto è rimasto sostanzialmente invariato; che molto modesti sono i suoi progressi nell'attuare i consigli della Bce di agosto e gli impegni assunti con l'Ue. E che ora il professore della Bocconi sta pagando con gli interessi le lodi eccessive delle prime settimane.
CONTINUITA' - Per Di Vico «il governo ha sicuramente commesso degli errori», ma si chiede se vi sia «qualcuno che in piena onestà intellettuale possa tentare un confronto con le performance dei precedenti esecutivi». Ebbene sì, la continuità con i governi precedenti, con la via al risanamento attraverso l'aumento della pressione fiscale per salvare non l'Italia o gli italiani, ma il baraccone-Stato, è talmente smaccata da essere esasperante.
Non c'è «l'ideona» per la crescita, ma la fantasia sul fronte fiscale è fervida, non passa giorno senza un nuovo balzello. Scongiurata in extremis l'ultima beffa, l'Irpef sulle borse di studio, il Pdl ha incassato il successo della rateizzazione dell'Imu sulla prima casa e si prepara a incassarne uno analogo sulla flessibilità in entrata.
DELEGA FISCALE - Nel presentare il Salva-Italia il premier aveva giustificato il ricorso quasi esclusivo all'aumento della tassazione con la necessità di agire in tempi ristretti, ma assicurato che sarebbero stati i tagli alla spesa in futuro a garantire il risanamento dei conti e una sensibile riduzione del cuneo fiscale. Lo sgravio, pur minimo, dell'Irap e l'introduzione dell'"Ace" furono inseriti nel decreto espressamente come primi segnali della direzione verso cui intendeva muoversi il governo. Così come l'aggravio delle imposte indirette e patrimoniali sarebbe stato compensato da un alleggerimento di quelle dirette. Ebbene, la delega fiscale che il Cdm varerà questa sera e di cui mentre scrivo sono note alcune anticipazioni delude nuovamente tali aspettative.
Niente tagli alle tasse, né dell'Irpef né dell'Irap. Al massimo qualche sgravio dagli introiti della lotta all'evasione, ma il dibattito in seno al governo su come utilizzarli è ancora aperto, e potrebbero anche essere destinati almeno in parte a tappare nuovi buchi o a finanziarie nuove spese, per lo sviluppo s'intende. Dovrebbe essere a saldo invariato, ma la riforma del catasto è roba da far tremare i polsi e non manca l'ennesima tassa che rischia di far schizzare ancora più in alto il prezzo dei carburanti: la cosiddetta "carbon tax". Su tutto l'incertezza dei tempi: nove mesi dall'approvazione della delega per adottare i decreti attuativi, il che significa che li vedremo appena sotto le elezioni del 2013. Chi ci scommette?
Piazza affari che consolida... le perdite dei giorni scorsi, lo spread sull'orlo dei 400, sulla scia di quello spagnolo, e i cds da record;
I PARTITI che difendono con le unghie e con i denti il loro tesoretto da 2,7 miliardi in vent'anni contro l'ondata di antipolitica cavalcata da Grillo:
«Cancellare del tutto i finanziamenti pubblici, drasticamente tagliati dalle manovre finanziarie del 2010-2011, sarebbe un errore drammatico, che metterebbe la politica completamente nelle mani di lobbies, centri di potere e di interesse particolare».E' quanto si legge nella relazione che accompagna la pdl di ABC sulla trasparenza e il controllo dei bilanci dei partiti. Una spudoratezza ormai oltre ogni limite;
MONTI che 1) rimanda a mercoledì la presentazione del Def con le stime aggiornate dei conti pubblici (spera ancora di limare la previsione del Pil e di trovare un "tesoretto" per non spaventare troppo Bruxelles);
2) difende la sua pessima riforma del lavoro: il ddl è «più ampio ed incisivo» di quello annunciato a novembre. Le misure avrebbero dovuto riguardare solo i nuovi assunti, e a titolo sperimentale, - ricorda il premier - mentre nel nuovo testo «l'intervento è esteso a tutti i lavoratori ed è inserito a titolo definitivo». Meglio una vera cancellazione del reintegro limitata ai nuovi assunti piuttosto che il pastrocchio attuale: sarebbe rimasto il dualismo (che rimarrà comunque), ma almeno avrebbe favorito le assunzioni. Ma al di là della preoccupazione che non appaia come un nuovo cedimento, l'apertura del governo alle richieste delle imprese e del Pdl sulla flessibilità in entrata è più che concreta;
3) sta per varare una delega fiscale tutt'altro che ambiziosa (e i cui decreti attuativi probabilmente non vedranno mai la luce);
4) sta preparando con i suoi ministri economici l'ennesimo pacchetto sviluppo da discutere al vertice di domani sera con ABC, quando il vero pacchetto sviluppo dovrebbe essere il combinato disposto spending review-delega fiscale. In totale continuità con i governi precedenti, anche Monti e i suoi ministri s'illudono di cavarsela con tre-quattro «ideine», come le chiama Bersani, roba marginale, magari sperperando altro denaro pubblico, mentre tutti ormai dovrebbero aver compreso che l'unico vero shock in grado di contrastare la recessione è un abbattimento, graduale ma cospicuo, della spesa corrente per tagliare le tasse su lavoro e impresa. Qualsiasi "pacchetto" che eludesse questo punto sarebbe poco più che un'arma di distrazione di massa. Nulla di concreto insomma, per il governo più che altro un modo per attenuare il pressing della stampa e di Confindustria e le fibrillazioni dei partiti, tutti additati come i colpevoli della caduta d'immagine del governo all'esterno.
LUNA DI MIELE OFF - L'editoriale di Alesina-Giavazzi - in cui si avverte che proprio la spending review è la «sola carta rimasta da giocare» - e la «resa» ai sindacati e alla sinistra sull'articolo 18 vengono usati ora anche da Reuters per spiegare che Monti «ha perso la sua brillantezza», ha perso il suo "momentum". Tutti sembrano improvvisamente scoprire che «le aspettative non erano realistiche» (ma va?); che a parte le pensioni, su tutti gli altri fronti, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, tutto è rimasto sostanzialmente invariato; che molto modesti sono i suoi progressi nell'attuare i consigli della Bce di agosto e gli impegni assunti con l'Ue. E che ora il professore della Bocconi sta pagando con gli interessi le lodi eccessive delle prime settimane.
CONTINUITA' - Per Di Vico «il governo ha sicuramente commesso degli errori», ma si chiede se vi sia «qualcuno che in piena onestà intellettuale possa tentare un confronto con le performance dei precedenti esecutivi». Ebbene sì, la continuità con i governi precedenti, con la via al risanamento attraverso l'aumento della pressione fiscale per salvare non l'Italia o gli italiani, ma il baraccone-Stato, è talmente smaccata da essere esasperante.
Non c'è «l'ideona» per la crescita, ma la fantasia sul fronte fiscale è fervida, non passa giorno senza un nuovo balzello. Scongiurata in extremis l'ultima beffa, l'Irpef sulle borse di studio, il Pdl ha incassato il successo della rateizzazione dell'Imu sulla prima casa e si prepara a incassarne uno analogo sulla flessibilità in entrata.
DELEGA FISCALE - Nel presentare il Salva-Italia il premier aveva giustificato il ricorso quasi esclusivo all'aumento della tassazione con la necessità di agire in tempi ristretti, ma assicurato che sarebbero stati i tagli alla spesa in futuro a garantire il risanamento dei conti e una sensibile riduzione del cuneo fiscale. Lo sgravio, pur minimo, dell'Irap e l'introduzione dell'"Ace" furono inseriti nel decreto espressamente come primi segnali della direzione verso cui intendeva muoversi il governo. Così come l'aggravio delle imposte indirette e patrimoniali sarebbe stato compensato da un alleggerimento di quelle dirette. Ebbene, la delega fiscale che il Cdm varerà questa sera e di cui mentre scrivo sono note alcune anticipazioni delude nuovamente tali aspettative.
Niente tagli alle tasse, né dell'Irpef né dell'Irap. Al massimo qualche sgravio dagli introiti della lotta all'evasione, ma il dibattito in seno al governo su come utilizzarli è ancora aperto, e potrebbero anche essere destinati almeno in parte a tappare nuovi buchi o a finanziarie nuove spese, per lo sviluppo s'intende. Dovrebbe essere a saldo invariato, ma la riforma del catasto è roba da far tremare i polsi e non manca l'ennesima tassa che rischia di far schizzare ancora più in alto il prezzo dei carburanti: la cosiddetta "carbon tax". Su tutto l'incertezza dei tempi: nove mesi dall'approvazione della delega per adottare i decreti attuativi, il che significa che li vedremo appena sotto le elezioni del 2013. Chi ci scommette?
Friday, April 13, 2012
La giornata: crolla la produzione industriale e Monti sa solo aumentare le tasse
Ennesimo venerdì nero. Piazza affari perde un altro 3,43% e la tensione sulla Spagna è altissima: cds ai massimi (500 punti) e rendimenti al 6%. Il nostro spread è tornato nella scia di quello spagnolo e segue a 385 punti. L'economia mondiale volge al peggio, a indicarlo è il Pil cinese, che nel I trimestre 2012 è cresciuto "solo" dell'8,1% rispetto allo stesso periodo del 2011. Magari crescessimo noi a quel ritmo, peccato che per la Cina è un vistoso rallentamento (il livello più basso dal 7,9% del II trimestre 2009), dovuto soprattutto al calo della domanda internazionale.
Ma non sono neppure le peggiori notizie della giornata. La nostra produzione industriale infatti continua la sua caduta verticale (si è contratta di oltre 1/5 dall'aprile 2008). Il dato Istat di febbraio è un -0,7% rispetto a gennaio (-6,8% su base annua), il peggior dato dal novembre 2009, quando la produzione segnò un calo del 9,3%. Tutto questo potrebbe significare che stiamo entrando in una recessione molto simile, in termini di Pil, a quella del 2008-2009, con la differenza che questa volta viene dall'Eurozona.
In questo scenario, non c'è proprio modo in cui l'Italia possa immaginare di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, e onorare gli impegni di rientro dal debito previsti dal fiscal compact, senza tagliare in profondità la spesa pubblica e abbattere in modo diretto lo stock del debito pubblico.
Eppure il governo Monti pensa a tutt'altro: approva una riforma della Protezione civile (bene), che chiama «strutturale» non si sa su quali basi, reperendo risorse da un ulteriore aumento delle accise sulla benzina: 5 centesimi. Il fatto stesso che per un'attività - questa sì fondamentale - di cui deve occuparsi uno Stato, cioè la difesa e il soccorso dei suoi cittadini colpiti da catastrofi naturali, non bastano le tasse che già paghiamo (il 45% del Pil) ma bisogna aggiungerne di ulteriori, è la dimostrazione che la spesa pubblica è letteralmente impazzita. Come può nell'enorme montagna di spese statali non rientrarci la Protezione civile? Dov'è che buttiamo tutti quei soldi?
Invece di chiederselo, il presidente della Repubblica non trova di meglio che prendersela con evasori e speculatori, per tutti gli statalisti le vere e proprie streghe di questa crisi da basso impero, e scherzare con Monti su chi tra i due è «volontario» e chi «riservista» della Repubblica.
Incalzato dalla recessione e dalla paura del "contagio spagnolo", il premier Monti è anche sempre più nella morsa dei partiti. Per martedì prossimo è fissato un nuovo vertice con ABC sulla crescita, dove con ogni probabilità sarà costretto a riaprire il testo della riforma del lavoro, almeno al capitolo flessibilità in entrata. La pressione da parte del Pdl infatti aumenta. Ormai Monti dopo aver ceduto a Pd e Cgil sull'articolo 18 non riesce più a tenere il punto su nulla. Il partito di Alfano è attivissimo anche sul fronte fiscale: chiede che il pagamento dell'Imu in tre rate (soluzione che a dire dell'Anci sarebbe «devastante») e la sua abolizione nel 2013. Bersani non è certo rimasto a guardare il ritrovato protagonismo del Pdl e sta sul pezzo: anche il Pd ha delle «correzioni» da proporre sulla riforma del lavoro; e «alleggerire» l'Imu è possibile, basta «compensarla con una tassa personale sui grandi patrimoni immobiliari». Tagliare la spesa proprio no eh?!
Altro giro altra corsa per Monti, che appare sempre meno in grado di riprendere il cammino delle riforme. La lettera della Bce di agosto e gli impegni assunti con l'Ue restano per lo più inattuati. Il contesto economico peggiora, così come quello interno, e l'intervento del Fmi è tutt'altro che scongiurato.
Nel frattempo il "partito Grecia" oggi è sceso in piazza contro la riforma delle pensioni e sindacati e Pd attaccano sul caos esodati, chiedendo le dimissioni del presidente dell'Inps. A questo punto, forse, alla Fornero sarebbe convenuto indire un censimento telefonico, mettendo a disposizione un numero verde: "Siete tra gli esodati? Chiamateci!".
Ma non sono neppure le peggiori notizie della giornata. La nostra produzione industriale infatti continua la sua caduta verticale (si è contratta di oltre 1/5 dall'aprile 2008). Il dato Istat di febbraio è un -0,7% rispetto a gennaio (-6,8% su base annua), il peggior dato dal novembre 2009, quando la produzione segnò un calo del 9,3%. Tutto questo potrebbe significare che stiamo entrando in una recessione molto simile, in termini di Pil, a quella del 2008-2009, con la differenza che questa volta viene dall'Eurozona.
In questo scenario, non c'è proprio modo in cui l'Italia possa immaginare di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, e onorare gli impegni di rientro dal debito previsti dal fiscal compact, senza tagliare in profondità la spesa pubblica e abbattere in modo diretto lo stock del debito pubblico.
Eppure il governo Monti pensa a tutt'altro: approva una riforma della Protezione civile (bene), che chiama «strutturale» non si sa su quali basi, reperendo risorse da un ulteriore aumento delle accise sulla benzina: 5 centesimi. Il fatto stesso che per un'attività - questa sì fondamentale - di cui deve occuparsi uno Stato, cioè la difesa e il soccorso dei suoi cittadini colpiti da catastrofi naturali, non bastano le tasse che già paghiamo (il 45% del Pil) ma bisogna aggiungerne di ulteriori, è la dimostrazione che la spesa pubblica è letteralmente impazzita. Come può nell'enorme montagna di spese statali non rientrarci la Protezione civile? Dov'è che buttiamo tutti quei soldi?
Invece di chiederselo, il presidente della Repubblica non trova di meglio che prendersela con evasori e speculatori, per tutti gli statalisti le vere e proprie streghe di questa crisi da basso impero, e scherzare con Monti su chi tra i due è «volontario» e chi «riservista» della Repubblica.
Incalzato dalla recessione e dalla paura del "contagio spagnolo", il premier Monti è anche sempre più nella morsa dei partiti. Per martedì prossimo è fissato un nuovo vertice con ABC sulla crescita, dove con ogni probabilità sarà costretto a riaprire il testo della riforma del lavoro, almeno al capitolo flessibilità in entrata. La pressione da parte del Pdl infatti aumenta. Ormai Monti dopo aver ceduto a Pd e Cgil sull'articolo 18 non riesce più a tenere il punto su nulla. Il partito di Alfano è attivissimo anche sul fronte fiscale: chiede che il pagamento dell'Imu in tre rate (soluzione che a dire dell'Anci sarebbe «devastante») e la sua abolizione nel 2013. Bersani non è certo rimasto a guardare il ritrovato protagonismo del Pdl e sta sul pezzo: anche il Pd ha delle «correzioni» da proporre sulla riforma del lavoro; e «alleggerire» l'Imu è possibile, basta «compensarla con una tassa personale sui grandi patrimoni immobiliari». Tagliare la spesa proprio no eh?!
Altro giro altra corsa per Monti, che appare sempre meno in grado di riprendere il cammino delle riforme. La lettera della Bce di agosto e gli impegni assunti con l'Ue restano per lo più inattuati. Il contesto economico peggiora, così come quello interno, e l'intervento del Fmi è tutt'altro che scongiurato.
Nel frattempo il "partito Grecia" oggi è sceso in piazza contro la riforma delle pensioni e sindacati e Pd attaccano sul caos esodati, chiedendo le dimissioni del presidente dell'Inps. A questo punto, forse, alla Fornero sarebbe convenuto indire un censimento telefonico, mettendo a disposizione un numero verde: "Siete tra gli esodati? Chiamateci!".
Lavoro, fisco, debito. Pdl redivivo?
Certo non bastano tre buone iniziative concrete per far dimenticare un'esperienza di governo a dir poco fallimentare. Ma da qualcosa bisogna pur ricominciare. Ed è apprezzabile che il Pdl stia tentando di riconquistare i suoi elettori delusi ripartendo dall'economia. Tre tavoli tematici - lavoro, fisco, debito - da cui sono scaturite altrettante proposte, alcune già pronte per diventare emendamenti ai testi di legge presentati dal governo. Ed è incoraggiante la filosofia cui sono ispirate: «Ora deve dimagrire lo Stato, i cittadini hanno già dato». Segno che Alfano è consapevole del terreno su cui il partito ha maggiormente perso il suo appeal e si gioca tutto o quasi il suo futuro. Recuperare la credibilità perduta non sarà facile, per molto tempo aleggerà la critica di fondo "perché non l'avete fatto quando eravate al governo", ma non ci sono alternative: riconoscere i propri errori e risalire la china, magari allontanando dalla cabina di regia coloro che nel precedente governo hanno tirato il freno a mano sulle riforme economiche.
(...)
Non solo temi-bandiera, non richieste provocatorie per alimentare lo scontro politico, ma proposte fattibili - ne parlano autorevoli economisti sui giornali e online - il cui scopo è cominciare a ricostruire quel profilo, quella visione di politica economica che aveva portato il Pdl ad essere il partito di maggioranza relativa nel 2008 e nel 2009, ma che è stata clamorosamente tradita, quasi del tutto cancellata e sostituita con il suo opposto, dai suoi esponenti di governo.
Laddove invece il Pdl appare ancora confuso è sulla riforma della legge elettorale. In attesa di conoscere i particolari della bozza, sembra intenzionato ad avallare un sostanziale ritorno al proporzionale, che aggraverebbe l'instabilità dei governi e metterebbe a rischio la sua stessa ragion d'essere.
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(...)
Non solo temi-bandiera, non richieste provocatorie per alimentare lo scontro politico, ma proposte fattibili - ne parlano autorevoli economisti sui giornali e online - il cui scopo è cominciare a ricostruire quel profilo, quella visione di politica economica che aveva portato il Pdl ad essere il partito di maggioranza relativa nel 2008 e nel 2009, ma che è stata clamorosamente tradita, quasi del tutto cancellata e sostituita con il suo opposto, dai suoi esponenti di governo.
Laddove invece il Pdl appare ancora confuso è sulla riforma della legge elettorale. In attesa di conoscere i particolari della bozza, sembra intenzionato ad avallare un sostanziale ritorno al proporzionale, che aggraverebbe l'instabilità dei governi e metterebbe a rischio la sua stessa ragion d'essere.
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Thursday, April 12, 2012
La giornata: prosegue offensiva Pdl su lavoro e piovono consigli a Giarda
E' andata malino, ma non in modo disastroso, l'asta odierna dei nostri Btp triennali: i rendimenti sono saliti al 3,89%, rispetto al 2,76% dell'asta di marzo. Il viceministro Grilli ha spiegato che nonostante la domanda fosse buona il Tesoro non l'ha accolta tutta, perché si pretendevano tassi persino superiori, ritenuti però «non giusti». Piazza affari respira (+1,23%) e lo spread sui decennali si raffredda (361).
Nel suo bollettino mensile intanto la Bce spiega che sul debito sovrano di Italia e Spagna pesano i timori sulla crescita e l'occupazione e avverte che il «contesto radicalmente mutato» dei mercati finanziari mondiali impone ai Paesi dell'area euro di tagliare i debiti pubblici a livelli «decisamente inferiori al 60%» del Pil, il che per molti (Italia compresa, ovviamente) significherà «conseguire avanzi di bilancio primario pari o superiori al 4% del Pil».
Mi sa che Giarda e i tecnici dovranno abbandonare l'idea di preservare la «way of life» italiana della spesa pubblica. Ai «profeti» dei tagli alla spesa il sottosegretario aveva ironicamente chiesto indicazioni precise su dove tagliare, visto che lui sta facendo la spending review ma non vede nient'altro da tagliare. Ebbene, è stato più che accontentato.
Prima da Oscar Giannino, che indica sanità (20 miliardi in tre anni), massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e trasferimenti alle imprese (25 miliardi). Totale: 80 miliardi, più di 5 punti di Pil in tre anni, e si mette a disposizione per una consulenza anche gratis. Poi da Bisin e De Nicola, che su la Repubblica suggeriscono di tagliare contributi alle imprese (14 miliardi), di vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il loro articolo ha il pregio di escludere, sia pure ironicamente, le riforme cosiddette liberiste, e di limitarsi a segnalare quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese», quindi senza rinunciare ai servizi garantiti (in qualche modo) dallo Stato tanto cari a Giarda e ai suoi compagni di governo. Infine, anche Michele Boldrin vuole togliere qualsiasi alibi a Giarda e a Monti: tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), gli stipendi pubblici riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil.
Insomma, grasso da tagliare ce n'è, cari Giarda e Monti, non avete scuse, men che mai quella dei pericolosi "liberisti" alle porte: quella che manca è la volontà politica.
Mentre il governo fa uno sforzo e ritira l'assurda tassa sugli sms (anche se al suo posto si profila un nuovo aumento sulla benzina) e tira fuori il numero degli esodati, per i quali ci sarebbe la benedetta «copertura finanziaria», Monti è costretto a riaprire, per l'ennesima volta, il capitolo riforma del lavoro. Ovviamente il premier è contrariato, irritato, ma se la deve far passare: è stato lui a dismettere il metodo di presentare ai partiti riforme prendere o lasciare. Oggi Alfano e la presidente uscente di Confindustria si sono incontrati per mettere a punto gli emendamenti al testo e Monti ha dovuto ricevere per un'oretta il segretario del Pdl. Ha ceduto alle richieste di Pd e Cgil sull'articolo 18? Alla fine dovrà cedere anche a quelle sulla flessibilità in entrata - tra l'altro sensate - dell'asse Pdl-Marcegaglia, che può ancora fare molto male all'immagine internazionale del governo e al cammino parlamentare della riforma e degli altri provvedimenti.
A Casini interessa poco il merito, lui è per il compromesso "a prescindere", mentre Bersani teme «manovre dilatorie». Il Pdl non cerca la crisi con Monti, ma il risultato politico. E sa che ci sono tutte le condizioni per ottenerlo, conseguendo un successo politico e parlamentare dal quale cominciare a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi.
RIFORME O NON RIFORME - Spaventati da un nuovo tsunami di antipolitica provocata dal terremoto in casa Lega i partiti sono corsi subito ai ripari, ma è la solita pezza: trasparenza sui bilanci, controlli, sanzioni. Ma ovviamente non tagliano il vero nodo: l'abolizione del finanziamento pubblico che si nasconde dietro i cosiddetti «rimborsi» elettorali. E inoltre si prendono tutto il tempo per far calmare le acque. Dichiarato inammissibile l'emendamento al dl fiscale (manifestamente estraneo alla materia), infatti, le misure sono affidate ad una normale pdl, a firma di ABC, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe seguire un iter accelerato, venendo assegnata alle commissioni affari costituzionali in sede legislativa (cioè senza passaggio in aula). Ma solo in teoria, visto che ci vuole l'unanimità per procedere in questo senso.
Pronto invece il ddl sulle riforme costituzionali, che contiene però una serie di improbabili procedure che rischiano di aumentare la confusione sistemica. Il presidente del Consiglio potrà chiedere (solo chiedere) al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e chiedere (solo chiedere, per carità) lo scioglimento delle Camere, o di una Camera, quando queste gli neghino la fiducia, a meno che le Camere, entro 20 giorni, non approvino a maggioranza assoluta e in seduta comune una mozione di sfiducia costruttiva, in cui cioè si indica un nuovo premier. Verrebbe ridotto di un 20% il numero dei parlamentari - 508 deputati (da 630) e 254 senatori (da 315) - e introdotta la non meglio precisata nozione di «bicameralismo eventuale».
Nel suo bollettino mensile intanto la Bce spiega che sul debito sovrano di Italia e Spagna pesano i timori sulla crescita e l'occupazione e avverte che il «contesto radicalmente mutato» dei mercati finanziari mondiali impone ai Paesi dell'area euro di tagliare i debiti pubblici a livelli «decisamente inferiori al 60%» del Pil, il che per molti (Italia compresa, ovviamente) significherà «conseguire avanzi di bilancio primario pari o superiori al 4% del Pil».
Mi sa che Giarda e i tecnici dovranno abbandonare l'idea di preservare la «way of life» italiana della spesa pubblica. Ai «profeti» dei tagli alla spesa il sottosegretario aveva ironicamente chiesto indicazioni precise su dove tagliare, visto che lui sta facendo la spending review ma non vede nient'altro da tagliare. Ebbene, è stato più che accontentato.
Prima da Oscar Giannino, che indica sanità (20 miliardi in tre anni), massa salariale pubblica (35 miliardi in tre anni, senza buttare per strada nessuno) e trasferimenti alle imprese (25 miliardi). Totale: 80 miliardi, più di 5 punti di Pil in tre anni, e si mette a disposizione per una consulenza anche gratis. Poi da Bisin e De Nicola, che su la Repubblica suggeriscono di tagliare contributi alle imprese (14 miliardi), di vendere la Rai (3-4 miliardi) e asset pubblici (20 miliardi), e in più di risparmiare altri miliardi dall'accorpamento di scuole e tribunali, dall'attuazione dei costi standard nella sanità, dal taglio dei costi della politica e dallo sfoltimeno di organici pletorici. Il loro articolo ha il pregio di escludere, sia pure ironicamente, le riforme cosiddette liberiste, e di limitarsi a segnalare quei tagli alla spesa che «non cambiano l'impianto sociale del Paese», quindi senza rinunciare ai servizi garantiti (in qualche modo) dallo Stato tanto cari a Giarda e ai suoi compagni di governo. Infine, anche Michele Boldrin vuole togliere qualsiasi alibi a Giarda e a Monti: tagliare i costi della casta politico-burocratica (5-7 miliardi), gli stipendi pubblici riportandoli ai livelli del 1995 (0,8-0,9% del Pil); e i sussidi alle imprese (20 miliardi). Per un totale del 3% del Pil.
Insomma, grasso da tagliare ce n'è, cari Giarda e Monti, non avete scuse, men che mai quella dei pericolosi "liberisti" alle porte: quella che manca è la volontà politica.
Mentre il governo fa uno sforzo e ritira l'assurda tassa sugli sms (anche se al suo posto si profila un nuovo aumento sulla benzina) e tira fuori il numero degli esodati, per i quali ci sarebbe la benedetta «copertura finanziaria», Monti è costretto a riaprire, per l'ennesima volta, il capitolo riforma del lavoro. Ovviamente il premier è contrariato, irritato, ma se la deve far passare: è stato lui a dismettere il metodo di presentare ai partiti riforme prendere o lasciare. Oggi Alfano e la presidente uscente di Confindustria si sono incontrati per mettere a punto gli emendamenti al testo e Monti ha dovuto ricevere per un'oretta il segretario del Pdl. Ha ceduto alle richieste di Pd e Cgil sull'articolo 18? Alla fine dovrà cedere anche a quelle sulla flessibilità in entrata - tra l'altro sensate - dell'asse Pdl-Marcegaglia, che può ancora fare molto male all'immagine internazionale del governo e al cammino parlamentare della riforma e degli altri provvedimenti.
A Casini interessa poco il merito, lui è per il compromesso "a prescindere", mentre Bersani teme «manovre dilatorie». Il Pdl non cerca la crisi con Monti, ma il risultato politico. E sa che ci sono tutte le condizioni per ottenerlo, conseguendo un successo politico e parlamentare dal quale cominciare a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi.
RIFORME O NON RIFORME - Spaventati da un nuovo tsunami di antipolitica provocata dal terremoto in casa Lega i partiti sono corsi subito ai ripari, ma è la solita pezza: trasparenza sui bilanci, controlli, sanzioni. Ma ovviamente non tagliano il vero nodo: l'abolizione del finanziamento pubblico che si nasconde dietro i cosiddetti «rimborsi» elettorali. E inoltre si prendono tutto il tempo per far calmare le acque. Dichiarato inammissibile l'emendamento al dl fiscale (manifestamente estraneo alla materia), infatti, le misure sono affidate ad una normale pdl, a firma di ABC, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe seguire un iter accelerato, venendo assegnata alle commissioni affari costituzionali in sede legislativa (cioè senza passaggio in aula). Ma solo in teoria, visto che ci vuole l'unanimità per procedere in questo senso.
Pronto invece il ddl sulle riforme costituzionali, che contiene però una serie di improbabili procedure che rischiano di aumentare la confusione sistemica. Il presidente del Consiglio potrà chiedere (solo chiedere) al presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei ministri; e chiedere (solo chiedere, per carità) lo scioglimento delle Camere, o di una Camera, quando queste gli neghino la fiducia, a meno che le Camere, entro 20 giorni, non approvino a maggioranza assoluta e in seduta comune una mozione di sfiducia costruttiva, in cui cioè si indica un nuovo premier. Verrebbe ridotto di un 20% il numero dei parlamentari - 508 deputati (da 630) e 254 senatori (da 315) - e introdotta la non meglio precisata nozione di «bicameralismo eventuale».
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Spesa pubblica "way of decline"
L'avevamo capito già dopo la manovra di dicembre (il cosiddetto decreto "Salva-Italia"), ma allora il ricorso quasi unicamente a nuove tasse, anziché ai tagli di spesa, per correggere i conti pubblici poteva essere giustificato con il poco tempo a disposizione per salvare il Paese, giunto sull'orlo del baratro in cui stava precipitando la Grecia. Trascorsi quattro mesi, dopo che le azioni della Bce e l'autorevolezza personale del professor Monti ci hanno fatto guadagnare tempo prezioso, l'intervista al sottosegretario Piero Giarda sgombra il campo dagli ultimi equivoci: non è che non ne sia capace, o che non ne abbia il tempo, il governo dei tecnici non vuole mettere a dieta lo Stato per diminuire la pressione fiscale, cioè non ha alcuna intenzione di adottare l'unica ricetta in grado sia di far scendere il debito pubblico che di rilanciare la crescita. In questo senso le parole di Giarda sono davvero illuminanti: obiettivo del governo Monti non è salvare l'Italia, gli italiani, ma lo Stato con tutti i suoi baracconi, centrali e periferici. Non vuole cambiare l'attuale modello socio-economico, che vede lo Stato intermediare oltre la metà della ricchezza prodotta. Vuole salvarlo, obeso com'è, perpetuarlo, apportando al sistema gli aggiustamenti minimi indispensabili, perché tutto sommato è un Bengodi per gli "incumbent" politici, economici e sociali di cui è espressione, e per le burocrazie statali che lo gestiscono.
Come certificano le parole del sottosegretario Giarda - e già mesi fa la Corte dei Conti constatando l'ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico - la risposta di questo governo alla crisi è in totale continuità con quella di tutti i governi - politici o "tecnici" - che si sono susseguiti dai primi anni '90 in poi. E in estrema sintesi consiste nella statalizzazione a tappe forzate della ricchezza privata, così da consentire alle classi politiche e burocratiche di continuare a elargire ai propri clientes sempre più spesa pubblica, ricavandone potere e privilegi.
Più di tutto Giarda e gli altri tecnici al governo sembrano temere «lo scardinamento della "way of life" del settore pubblico italiano». L'intermediazione statale va preservata a tutti i costi nelle sue grandezze fondamentali, anche al prezzo di distruggere il tessuto produttivo del Paese. Peccato che più che una "way of life" quella italiana si sia rivelata una via certa verso il declino - economico, sociale e civile del Paese.
LEGGI TUTTO su L'Opinione
Come certificano le parole del sottosegretario Giarda - e già mesi fa la Corte dei Conti constatando l'ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico - la risposta di questo governo alla crisi è in totale continuità con quella di tutti i governi - politici o "tecnici" - che si sono susseguiti dai primi anni '90 in poi. E in estrema sintesi consiste nella statalizzazione a tappe forzate della ricchezza privata, così da consentire alle classi politiche e burocratiche di continuare a elargire ai propri clientes sempre più spesa pubblica, ricavandone potere e privilegi.
Più di tutto Giarda e gli altri tecnici al governo sembrano temere «lo scardinamento della "way of life" del settore pubblico italiano». L'intermediazione statale va preservata a tutti i costi nelle sue grandezze fondamentali, anche al prezzo di distruggere il tessuto produttivo del Paese. Peccato che più che una "way of life" quella italiana si sia rivelata una via certa verso il declino - economico, sociale e civile del Paese.
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Wednesday, April 11, 2012
La giornata: anche il sobrio Monti s'innervosisce; Pdl redivivo su lavoro, fisco e debito
SOLE TRA I MONTI - Dopo il tonfo di ieri quello di oggi è poco più di un rimbalzo per Piazza affari (+1,6%) e per i nostri titoli decennali (385 lo spread). Sui giornali è ripartita la caccia agli speculatori, purtroppo anche dalle pagine del Sole24Ore. Sul principale quotidiano economico del nostro Paese, organo di Confindustria, tocca leggere una inutile difesa d'ufficio di Monti, il quale non dovrebbe prendersela se per il WSJ non è una Thatcher, «come se il paragone fosse un complimento», ironizza l'autore dell'articolo. Per il quotidiano del "Fate presto" ora "La scommessa è sul lungo periodo". Vabbè.
CATTIVA AUSTERITA' - Si dà la colpa all'austerity, che aggrava la recessione nei Paesi eurodeboli e li allontana dagli obiettivi di bilancio. Vero, ma di che tipo di austerity si tratta? L'approccio austerità più riforme per la crescita è l'unico per sperare di uscire dalla crisi. Il problema sono la finta, o "cattiva" austerità (più tasse anziché tagli alla spesa pubblica) e le finte riforme. Purtroppo è l'approccio - conclamato, dopo l'intervista di Giarda e la «resa» sull'articolo 18 - del governo italiano, e i mercati lo stanno sanzionando.
ASTA - Con le aste di oggi abbiamo purtroppo già incorporato nei rendimenti l'aumento dello spread. Anche se la domanda è risultata «sostenuta, come nelle attese», osserva Bankitalia, i titoli semestrali sono andati via con un rendimento al 2,84%, ai massimi da dicembre e il doppio dell'ultima asta (1,40%); i trimestrali all'1,25% rispetto allo 0,5% del collocamento dello scorso mese, oltre il doppio quindi, e per di più con bid-to-cover in calo dal 2,23 all'1,81%.
PIL E BANCHE - Le brutte notizie non finiscono qui. Il viceministro Grilli ha confermato che il governo è pronto a rivedere al ribasso le stime del Pil per il 2012 (da -0,4% a -1,3%, un punto percentuale in meno dopo solo un trimestre) e ha reso noto che per effetto dei prestiti della Bce nella pancia delle nostre banche sono finiti ulteriori 60 miliardi di titoli di Stato (dai 209 miliardi nel dicembre 2011 ai 267 di febbraio). Il che vuol dire che i loro portafogli sono ancora più gonfi di rischio sovrano, e potrebbe essere questo uno dei motivi delle perdite in Borsa, e che il calo dello spread nelle ultime settimane è principalmente dovuto ad acquisti "nostrani", e gli investitori esteri se ne stanno accorgendo.
STRESS MONTI - Monti se l'è dovuta rimangiare quella frase pronunciata in Asia - la crisi dell'Eurozona è «superata» - e alla nuova, inattesa impennata dei rendimenti, con l'esaurirsi della spinta riformatrice del governo, affiora un certo nervosismo anche nei tecnici, aumentano le assonanze con i politici. Il sobrio, il controllato Monti reagisce nello stesso modo che rimproveravano a Berlusconi: puntando l'indice verso gli altri Paesi - oggi il «contagio spagnolo» - e persino verso le critiche interne (delle imprese e dei suoi colleghi professori, i soliti Alesina e Giavazzi). Il tecnico per eccellenza, preso dallo sconforto per i dati economici, cede anche allo strumento politico per eccellenza, il vecchio caro retroscena, per far filtrare tutta la sua arrabbiatura nei confronti della Marcegaglia per le dichiarazioni sulla riforma del lavoro («very bad»). Ma è preoccupante che possa apparire verosimile, nonostante la competenza e l'intelligenza attribuite al professore della Bocconi, che Monti creda davvero che Wall Street Journal, Financial Times, e infine gli investitori, si siano tutti fatti influenzare dalle opinioni della Marcegaglia e non abbiano, piuttosto, bocciato loro stessi la pessima riforma del lavoro varata dal governo.
In giornata Palazzo Chigi ha smentito che in questi giorni il premier abbia commentato «direttamente o indirettamente» le cause che sarebbero all'origine della risalita dello spread, ma a confermare la versione dei retroscenisti è il ministro Passera, che a margine di un convegno sul digitale chiama in causa «Germania e Spagna», a cui si sarebbero aggiunti «i dati non buoni di Usa e Cina». Fatto sta che a Madrid si sono risentiti e Rajoy, pur senza nominare Monti, ha chiesto ai leader europei di «essere prudenti» nelle dichiarazioni sulle responsabilità della crisi. Non c'entrerebbe niente, invece, assicura il ministro, la riforma del lavoro.
PDL REDIVIVO - Riforma che questa mattina ha iniziato il suo iter in commissione al Senato. Il ministro Fornero ha spiegato che «non è un testo definitivo, si possono fare dei cambiamenti per migliorare l'equilibrio nel suo complesso, senza però arretramenti», ha avvertito. Il Pdl però offre una sponda alle imprese chiedendo una «profonda revisione» del ddl. Parole che suonano come un vero e proprio stop. Nel mirino la troppa rigidità reintrodotta nei contratti di ingresso nel mercato del lavoro. Domani seguirà un incontro con gli imprenditori prima di definire gli emendamenti. Pdl attivo anche sul fronte del debito, con la richiesta di dismettere asset pubblici non strategici, immobiliari e non, e fiscale, con gli emendamenti per l'Imu rateizzabile e una tantum e per evitare l'aumento dell'Iva di due punti, previsto per ottobre. Buona fortuna.
ORA VENDOLA - Infine, si allarga il fronte giudiziario: dopo Bossi, ecco Vendola indagato a Bari, per abuso d'ufficio nella nomina di un primario. Sarà un caso che la magistratura sta decapitando i vertici delle uniche opposizioni a Monti e alla "Grande Coalizione"?
CATTIVA AUSTERITA' - Si dà la colpa all'austerity, che aggrava la recessione nei Paesi eurodeboli e li allontana dagli obiettivi di bilancio. Vero, ma di che tipo di austerity si tratta? L'approccio austerità più riforme per la crescita è l'unico per sperare di uscire dalla crisi. Il problema sono la finta, o "cattiva" austerità (più tasse anziché tagli alla spesa pubblica) e le finte riforme. Purtroppo è l'approccio - conclamato, dopo l'intervista di Giarda e la «resa» sull'articolo 18 - del governo italiano, e i mercati lo stanno sanzionando.
ASTA - Con le aste di oggi abbiamo purtroppo già incorporato nei rendimenti l'aumento dello spread. Anche se la domanda è risultata «sostenuta, come nelle attese», osserva Bankitalia, i titoli semestrali sono andati via con un rendimento al 2,84%, ai massimi da dicembre e il doppio dell'ultima asta (1,40%); i trimestrali all'1,25% rispetto allo 0,5% del collocamento dello scorso mese, oltre il doppio quindi, e per di più con bid-to-cover in calo dal 2,23 all'1,81%.
PIL E BANCHE - Le brutte notizie non finiscono qui. Il viceministro Grilli ha confermato che il governo è pronto a rivedere al ribasso le stime del Pil per il 2012 (da -0,4% a -1,3%, un punto percentuale in meno dopo solo un trimestre) e ha reso noto che per effetto dei prestiti della Bce nella pancia delle nostre banche sono finiti ulteriori 60 miliardi di titoli di Stato (dai 209 miliardi nel dicembre 2011 ai 267 di febbraio). Il che vuol dire che i loro portafogli sono ancora più gonfi di rischio sovrano, e potrebbe essere questo uno dei motivi delle perdite in Borsa, e che il calo dello spread nelle ultime settimane è principalmente dovuto ad acquisti "nostrani", e gli investitori esteri se ne stanno accorgendo.
STRESS MONTI - Monti se l'è dovuta rimangiare quella frase pronunciata in Asia - la crisi dell'Eurozona è «superata» - e alla nuova, inattesa impennata dei rendimenti, con l'esaurirsi della spinta riformatrice del governo, affiora un certo nervosismo anche nei tecnici, aumentano le assonanze con i politici. Il sobrio, il controllato Monti reagisce nello stesso modo che rimproveravano a Berlusconi: puntando l'indice verso gli altri Paesi - oggi il «contagio spagnolo» - e persino verso le critiche interne (delle imprese e dei suoi colleghi professori, i soliti Alesina e Giavazzi). Il tecnico per eccellenza, preso dallo sconforto per i dati economici, cede anche allo strumento politico per eccellenza, il vecchio caro retroscena, per far filtrare tutta la sua arrabbiatura nei confronti della Marcegaglia per le dichiarazioni sulla riforma del lavoro («very bad»). Ma è preoccupante che possa apparire verosimile, nonostante la competenza e l'intelligenza attribuite al professore della Bocconi, che Monti creda davvero che Wall Street Journal, Financial Times, e infine gli investitori, si siano tutti fatti influenzare dalle opinioni della Marcegaglia e non abbiano, piuttosto, bocciato loro stessi la pessima riforma del lavoro varata dal governo.
In giornata Palazzo Chigi ha smentito che in questi giorni il premier abbia commentato «direttamente o indirettamente» le cause che sarebbero all'origine della risalita dello spread, ma a confermare la versione dei retroscenisti è il ministro Passera, che a margine di un convegno sul digitale chiama in causa «Germania e Spagna», a cui si sarebbero aggiunti «i dati non buoni di Usa e Cina». Fatto sta che a Madrid si sono risentiti e Rajoy, pur senza nominare Monti, ha chiesto ai leader europei di «essere prudenti» nelle dichiarazioni sulle responsabilità della crisi. Non c'entrerebbe niente, invece, assicura il ministro, la riforma del lavoro.
PDL REDIVIVO - Riforma che questa mattina ha iniziato il suo iter in commissione al Senato. Il ministro Fornero ha spiegato che «non è un testo definitivo, si possono fare dei cambiamenti per migliorare l'equilibrio nel suo complesso, senza però arretramenti», ha avvertito. Il Pdl però offre una sponda alle imprese chiedendo una «profonda revisione» del ddl. Parole che suonano come un vero e proprio stop. Nel mirino la troppa rigidità reintrodotta nei contratti di ingresso nel mercato del lavoro. Domani seguirà un incontro con gli imprenditori prima di definire gli emendamenti. Pdl attivo anche sul fronte del debito, con la richiesta di dismettere asset pubblici non strategici, immobiliari e non, e fiscale, con gli emendamenti per l'Imu rateizzabile e una tantum e per evitare l'aumento dell'Iva di due punti, previsto per ottobre. Buona fortuna.
ORA VENDOLA - Infine, si allarga il fronte giudiziario: dopo Bossi, ecco Vendola indagato a Bari, per abuso d'ufficio nella nomina di un primario. Sarà un caso che la magistratura sta decapitando i vertici delle uniche opposizioni a Monti e alla "Grande Coalizione"?
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