La leadership americana è tornata
ma "is not for free" e la Merkel perde la sua proverbiale
calma teutonica e svela i piani tedeschi sull'Europa. E se la
cancelliera, non Trump, fosse uscita ridimensionata da Taormina?
Terminato il primo viaggio all'estero
del presidente Trump, unendo i puntini disseminati nelle varie tappe
possiamo provare a tratteggiare il disegno complessivo della politica
estera della sua amministrazione. Innanzitutto, i temi che andranno
studiati e approfonditi nei prossimi mesi. C'è il tema del ritorno
della leadership americana. Una leadership che però, diversamente
dal passato, "is not for free", non sarà gratis. Per
nessuno. Nemmeno per gli europei con i quali gli Stati Uniti
condividono i valori di libertà e democrazia. L'America non vuole
più pagare per la sicurezza e il benessere altrui. E Donald Trump ha
presentato il conto. Non sarà gratis né sul piano militare, gli
alleati dovranno accollarsi la giusta quota di spese e di oneri. Né
sul piano commerciale: gli Stati Uniti non sono più disponibili a
perdere tessuto produttivo e posti di lavoro sull'altare del libero
commercio mondiale e della globalizzazione. La parola chiave è
reciprocità. Inoltre, è una leadership dalla natura molto diversa
da quella che i suoi predecessori hanno cercato con alterne fortune
di esercitare. Non di natura "imperiale", ma una leadership
esercitata come nazione. Gli Stati Uniti sono una nazione sovrana
ancora in grado di, e determinata a, tutelare i propri interessi
nazionali e valori ovunque siano minacciati nel mondo, ma non
pretendono di dare lezioni alle altre nazioni su come vivere a casa
loro. Né nella variante "esportazione della democrazia" di
Bush jr, né in quella liberal e global di Obama.
Un altro tema, collegato al primo, è
il ritorno delle nazioni e dei confini: nella dichiarazione finale
del G7 di Taormina, accanto ai diritti dei migranti e dei rifugiati,
si ribadiscono, su richiesta di Trump sostenuta probabilmente da
altri leader, "i diritti sovrani degli Stati, individualmente e
collettivamente, a controllare i propri confini e stabilire politiche
nell'interesse nazionale e per la sicurezza nazionale".
Terzo tema, anch'esso collegato agli
altri due. Si è manifestato l'approccio affaristico, da negoziatore
di Trump alla politica estera. Le alleanze e i consessi multilaterali
sono utili solo se attraverso il negoziato tra i partner si arriva a
un compromesso funzionale agli interessi americani, altrimenti sono
solo un peso di cui liberarsi: "America First". Un
approccio però mitigato, per esempio per quanto riguarda la Nato,
dal team di politica estera e di sicurezza dell'amministrazione Usa,
di cui fanno parte il segretario alla difesa Mattis, il segretario di
Stato Tillerson e il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster,
il cui approccio è più tradizionale e vede nell'Alleanza atlantica,
per la comunanza di valori tra i paesi membri, un asset strategico in
sé per gli Stati Uniti, e un moltiplicatore di forza.
Quarto tema: si è ormai affermata a
questo G7, e per impulso non solo della presidenza americana, una
visione meno ottimistica della globalizzazione. Siamo entrati nella
fase degli aggiustamenti da apportare per correggere le distorsioni
provocate da quell'ordine aperto e "liberale", da "fine
della storia", che era stato edificato a partire dalla fine
della Guerra Fredda. Il premier italiano Gentiloni sembra aver
afferrato lo spirito del tempo rappresentato da Trump quando ha detto
che "una certa ebbrezza della globalizzazione è alle nostre
spalle. Dirsi a favore del libero scambio non significa non rendersi
conto delle diseguaglianze più estreme e combatterle". La
parola chiave è "riequilibrio". Nella dichiarazione finale
del G7 viene sì ribadito l'impegno a tenere i mercati aperti e
combattere il protezionismo. Ma viene anche introdotto il concetto
caro a Trump di "fair trade" e reciprocità dei vantaggi. I
leader "spingono per la rimozione di tutte le pratiche
commerciali distorsive (dumping, barriere non tariffarie
discriminatorie, trasferimenti di tecnologia forzati, sussidi e altri
sostegni dai governi e dalle istituzioni) in modo da incoraggiare
condizioni realmente uguali per tutti". Il commercio
internazionale deve essere libero, ma corretto e riequilibrato. Sulla
globalizzazione i leader del G7 sembrano aver recepito dunque il
messaggio portato da Trump: si va verso una correzione di rotta,
anche perché la crisi del ceto medio in tutti i paesi avanzati, la
sua mancanza di prosperità e soprattutto di prospettive, rischia di
far deragliare anche le istituzioni democratiche.
Quinto e ultimo tema: era già in crisi
da tempo, ma da domenica sembra improvvisamente superato l'ordine
mondiale post-1945, che ha visto il mondo occidentale prima compatto
nel contrapporsi al blocco sovietico e poi, cessata la minaccia
comunista, impegnato nel realizzare le magnifiche sorti e progressive
della globalizzazione. La divisione che sta emergendo tra le nazioni
occidentali, l'Anglosfera da una parte e l'Europa continentale,
Germania in testa, dall'altra, con la Francia in mezzo, sembra
ricalcare quella ottocentesca, precedente al primo conflitto
mondiale. In questo contesto, la frattura Trump-Merkel segna il
ritorno in Occidente della "questione tedesca", un
nazionalismo ben travestito da europeismo.
Nelle varie tappe del viaggio del
presidente Trump (Medio Oriente, Nato a Bruxelles, G7 di Taormina)
sono emersi con maggiore chiarezza gli attori internazionali che a
Washington sono considerati alleati, vecchi o nuovi, e avversari. Per
la precisione, due nemici e tre avversari strategici. I nemici si
trovano in Medio Oriente: l'Isis ovviamente, ma in generale
l'estremismo islamico, e l'Iran, ritenuto il principale stato sponsor
del terrorismo al mondo e fattore di instabilità in Medio Oriente.
Nel discorso di Riad, che abbiamo analizzato in un
precedente articolo per Formiche, il presidente Trump ha assicurato ai
tradizionali alleati arabi sunniti l'impegno Usa a contenere e
isolare l'Iran. Ma anche questa alleanza non è gratis: i leader
arabi dovranno in cambio combattere per davvero l'estremismo
islamico. Gli avversari, con i quali cooperare quando possibile e
confrontarsi per indurli a mutare comportamenti che ledono gli
interessi americani, sono innanzitutto Russia e Cina. Il raid
americano in Siria in risposta all'attacco chimico ordinato da Assad
sulla popolazione civile è servito a mettere pressione su entrambe.
Sulla Russia, per indurla a rompere il suo asse con Teheran e a
dimostrare di essere un player responsabile, che coopera per la
stabilità della regione, se vuol essere reintegrata nel tavolo dei
grandi. Trump non intende regalare nulla a Putin sull'Ucraina: gli
Usa continuano a considerare illegale l'annessione della Crimea da
parte russa e le sanzioni contro Mosca resteranno in vigore fino alla
completa applicazione degli accordi di Minsk e al completo rispetto
della sovranità e integrità dell'Ucraina (stessa linea ribadita
nella dichiarazione finale del G7 di Taormina). Pressione anche sulla
Cina, per indurla a esercitare tutta la sua influenza per
disinnescare la minaccia nucleare della Corea del Nord. Non solo nei
giorni scorsi la terza portaerei Usa è giunta nella zona della
penisola coreana, ma il cacciatorpediniere Uss Dewey si è addentrato
entro le 12 miglia dalla costa di una delle isole artificiali
realizzate da Pechino nel Mar cinese meridionale, dimostrando che
Washington non riconosce la sovranità cinese su quelle isole e
quelle acque.
Ma come è emerso dall'ultima tappa del
viaggio di Trump, il G7 di Taormina, c'è un terzo avversario. Potrà
destare una certa sorpresa, ma è in Europa: la Germania. Investito
dal "ciclone Trump", come definito dal direttore del
quotidiano La Stampa Maurizio Molinari, è stato un G7 di svolta,
lontano dall'unanimismo inconcludente che di solito caratterizza
questi vertici. Nonostante i media abbiano tentato di rappresentare
Trump come un bullo, distratto oltre i limiti della maleducazione, le
impressioni riportate dagli stessi leader partecipanti al vertice
dicono altro. Il presidente americano è apparso sì determinato
nella difesa delle sue posizioni sui vari temi, e anche con un certo
grado di successo, ma anche aperto e curioso nell'ascoltare le
argomentazioni altrui. Trump viene descritto come "attento e
partecipe" (persino nel momento del 'drafting') dal premier
Gentiloni: "Molto dialogante, molto curioso, con una capacità e
una volontà di interloquire e apprendere da tutti gli
interlocutori". "Ho trovato una persona aperta che ha
volontà di lavorare con noi", ha ammesso anche il presidente
francese Macron, che domenica in un'intervista al Corriere si è
mostrato ottimista sul presidente americano: "E' una personalità
forte, decisa, ma aperta, pragmatica, realista, capace sia di
ascoltare, sia di arrivare dritta al punto". Ha accettato di
confrontarsi, non si è chiamato fuori, il G7 non è fallito:
"Abbiamo dimostrato di essere una comunità di valori e Trump ne
fa parte, non si chiama fuori. Farà la sua parte".
Toni molto diversi anche nel riferire
la discussione e il mancato accordo con gli Stati Uniti sul clima tra
la Merkel, che ha parlato di una "discussione difficile, o
piuttosto molto insoddisfacente", e lo stesso Macron, che invece
ha riferito di "discussioni ricche, progressi, vero scambio",
e di aver visto un Trump "pragmatico", propenso ad
ascoltare. Non tutti i leader insomma hanno preso così male come la
cancelliera tedesca le "divergenze" con Trump al G7 di
Taormina. Che si siano resi conto che il presidente americano può
offrire una valida sponda per ridimensionare l'egemonia tedesca in
Europa?
L'impressione infatti è che durante il
vertice il pressing di Trump sia stato particolarmente forte su
Berlino, soprattutto riguardo il commercio: ha definito "molto
cattiva" la politica tedesca dei surplus commerciali. E il
fastidio per i surplus tedeschi è un sentimento condiviso da molti
paesi europei. Sul commercio il presidente Usa sembra aver trovato in
Macron una sponda: "Basta dumping sociale" da parte di
paesi dove gli operai hanno bassi salari e nessun diritto, "basta
lavoratori delocalizzati". Chissà che fra i due non sia
scoccata una scintilla, una sintonia personale… Il presidente
francese, ha osservato anche Molinari, "si è rivelato il più
attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all'Eliseo
spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti
tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di
approccio alla distribuzione della ricchezza globale".
Invece che uscire ridimensionato Trump,
da questo G7 potrebbe essere uscita ridimensionata (e persino un po'
isolata) la Merkel. E questo spiegherebbe perché domenica la
cancelliera ha rincarato la dose: "I tempi in cui potevamo
fidarci completamente degli altri sono passati da un bel pezzo,
questo l'ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero
prendere il nostro destino nelle nostre mani". Nella frase
successiva, sulla necessità di mantenere naturalmente "relazioni
amichevoli con Stati Uniti e Regno Unito", sullo stesso piano
tra "gli altri vicini" dell'Europa ha citato la Russia di
Putin. Con le sue parole la Merkel suggerisce di considerare concluso
l'ordine mondiale post-bellico, noi europei dovremmo smettere di
considerare i nostri liberatori, Stati Uniti e Regno Unito, "alleati
affidabili", per entrare in una nuova epoca di equidistanza dai
nostri vicini a Occidente e ad Oriente. Ma la solidarietà
transatlantica può andare in frantumi per una divergenza
sull'accordo di Parigi sul clima? O è solo un pretesto?
Sempre domenica la Frankfurter
Allgemeine Zeitung ha riferito di un "piano segreto" della
cancelliera per costruire una Unione europea politicamente ed
economicamente più forte e indipendente. Un piano basato su tre
pilastri: prioritaria la gestione della crisi dei migranti, quindi la
stabilizzazione della Libia; una politica di difesa comune, con il
via libera a un comando centrale di contingenti degli eserciti
europei; e infine l'unione economica e monetaria, con il governatore
della Bundesbank Jens Weidmann pronto a sostituire Mario Draghi al
timone. Il piano di un'Europa equidistante tra Stati Uniti e Russia
non è nuovo, è coltivato da anni a Parigi e a Berlino e le
dichiarazioni di Angela Merkel non fanno altro che evocarlo. Un piano
che però può rivelarsi un'illusione, se non addirittura un incubo.
Un'Europa distante da Washington e Londra, esposta all'aggressività
della Russia, assediata dall'estremismo islamico e dalla pressione
demografica di Medio Oriente e Nord Africa… Auguri.
La realtà è che di strappo in strappo
il processo di allontanamento della Germania dagli Stati Uniti non
nasce con Trump e va avanti dalla riunificazione tedesca, che non
sarebbe avvenuta così speditamente e morbidamente senza il sostegno
degli Stati Uniti, contro i pareri dei russi, dei britannici e dei
francesi. Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica
Margaret Thatcher (la riunificazione "non porterà a una
Germania europea ma a un'Europa tedesca"), le preoccupazioni
dell'allora presidente francese Mitterand (farà riemergere i
tedeschi "cattivi") e l'emblematica battuta dell'ex
presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo
talmente tanto la Germania che ne preferivo due". Ma da allora
(altro che Trump…) la Germania non ha fatto altro che distanziarsi
dall'alleato americano. Fin dalla crisi jugoslava. Berlino decideva
di procedere al riconoscimento di Slovenia e Croazia, senza attendere
l'Europa e contro il parere di Washington, salvo poi rifiutare di
assumersi la responsabilità di gestire la crisi come chiedevano gli
americani. Nel 2003 la rottura tra Bush e Schroeder sulla guerra in
Iraq. Pur nella cordialità e nella stima reciproca, le relazioni non
sono migliorate tra il presidente Obama e la cancelliera Merkel, che
ha ignorato le richieste americane di abbandonare l'austerità per
una politica economica espansiva dopo la crisi finanziaria del 2008 e
la crisi dell'Eurozona nel 2010.
La riunificazione tedesca fu accettata
sulla base della duplice garanzia dell'appartenenza della nuova
Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue,
all'interno di un ordine post-1945 che la vedeva in stretta
partnership con i due vincitori occidentali della guerra: Stati Uniti
e Regno Unito. Ma ora, assunta la guida politica ed economica dell'Ue
(senza Londra nessun paese membro, nemmeno la Francia, può
rappresentare un efficace contrappeso), la Germania ci spiega che
sarebbe arrivato il momento di non ritenere più affidabili americani
e inglesi come alleati e guarda caso di progettare una difesa comune
europea, in prospettiva alternativa alla Nato.
"Con la Brexit svanisce la
speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova
questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento
viene dall'esterno dell'Europa", avverte il politologo Walter
Russell Mead, spiegando come l'europeismo di cui i tedeschi vanno
così fieri nasconda in realtà politiche nazionaliste.
Un'analisi che abbiamo già riportato per Formiche. Cosa succede, si
chiede, "se la Germania non è più vista come un pilastro leale
dell'Occidente, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che
mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? La leadership
tedesca infatti "poggia su basi insostenibili, al prezzo di
un'Unione europea sempre più instabile e divisa". "Se
Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto
tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi
obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dei Paesi
Ue, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può
superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a
lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più
alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato".
A questo punto bisogna rispondere ad
alcune domande: vuole liquidare la Nato chi pretende che ogni membro
contribuisca il giusto, il pattuito, e propone un riorientamento
strategico dell'alleanza sulla lotta al terrorismo, oppure chi pur
tra i membri più ricchi non spende quanto dovuto, né partecipa alle
missioni quanto potrebbe? Chi vuole liquidare la Nato non è
Washington, non è alla Casa Bianca, ma è a Berlino. E' la Germania,
con una spesa militare ridicola rispetto alla sua ricchezza e una
partecipazione quasi nulla alle missioni, che ora che il Regno Unito
è fuori dall'Ue intende lanciare la difesa comune europea, in
prospettiva alternativa alla Nato e come ombrello del suo riarmo.