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Monday, July 17, 2017

La centralità della Polonia e la difesa dell'Occidente

Pubblicato su formiche

Nel suo discorso a Varsavia Trump ha centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la *volontà* di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà… E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l'abbiamo persa…

Del discorso di Trump a Varsavia i mainstream media hanno snobbato sia i contenuti che il paese scelto: la Polonia. Grave errore di comprensione e di analisi. Non solo, infatti, come ha ricordato lo stesso presidente Usa, la Polonia è "il cuore geografico dell'Europa e, più importante, nel popolo polacco vediamo l'anima dell'Europa", ma è anche una delle economie più vivaci dell'Unione europea, con una previsione di crescita del Pil superiore al 3% sia nel 2017 che nel 2018. Ed è tra i pochi membri Nato a soddisfare il parametro di spesa militare del 2% rispetto al Pil.

Distratti e pigri i mainstream media, di certo a Mosca e a Berlino non è passato inosservato il messaggio che l'amministrazione Trump ha voluto mandare scegliendo Varsavia per un discorso sulla difesa dell'Occidente e i suoi valori di libertà e democrazia.

Nel XVII secolo la Confederazione polacco-lituana fu un fondamentale argine all'espansione ottomana in Europa ed ebbe un ruolo decisivo nel respingere i turchi alle porte di Vienna. La Polonia moderna è stretta tra la Germania e la Russia, il popolo polacco ha subito invasioni e dominazioni da entrambe, ma ha resistito orgogliosamente agli spaventosi totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Oggi è nazionalista e saldamente occidentale, in prima linea sulla crisi ucraina, e Washington ha voluto far capire che punta proprio sulla Polonia per contenere Russia e Germania.

Due esempi concreti. Proprio a Varsavia Trump ha annunciato l'accordo per la vendita alla Polonia di otto batterie del sistema missilistico americano Patriot, una chiara risposta ai missili Iskander schierati dalla Russia a Kaliningrad. E ha inoltre affermato l'impegno americano "ad assicurare alla Polonia e ai suoi vicini l'accesso a fonti alternative di energia in modo che non siano mai più ostaggio di un singolo fornitore". Gas liquido a Varsavia e carbone a Kiev. Il messaggio a Putin è chiaro: è finita l'era Obama, durante la quale dalla Siria all'Ucraina il Cremlino ha goduto di una libertà d'azione senza precedenti sia in Medio Oriente che alle porte dell'Europa, tornando centrale su tutti i principali dossier. L'America è tornata, è determinata a difendere i suoi alleati in Europa orientale e non permetterà a Mosca altri blitz come quello che ha portato all'annessione della Crimea e alla crisi ucraina, una situazione che resterà sospesa per molto tempo ancora e che fa tremare Estonia e Lettonia. E non intende lasciare campo libero alla Russia nemmeno nel mercato energetico che interessa i suoi alleati.

Ma il messaggio è diretto anche agli altri alleati europei dell'America: falso che Trump sia la marionetta di Putin. A Varsavia il presidente americano ha chiarito che vede i russi come avversari aggressivi, non come partner o alleati: "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili - come Siria e Iran - e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Come sempre, i russi sono pronti a intascare qualsiasi "carota" gli venga offerta come incentivo iniziale, salvo poi continuare a provocare i danni maggiori possibili, finché non percepiscono di aver urtato contro un vero muro. L'amministrazione Trump sta sviluppando un nuovo approccio con il Cremlino: vuole verificare i margini per una cooperazione, per esempio in Siria, ma al tempo stesso sta tirando su quel muro. Il primo faccia a faccia Trump-Putin, la sua durata e il suo esito, non scontati, dimostrano, come scrivevamo su Formiche dopo il raid americano sulla Siria, che il confronto è duro ma che Washington e Mosca hanno ripreso a parlarsi e lo fanno a tutto campo.

Falso, inoltre, che l'amministrazione Trump voglia liquidare la Nato o che non gli importi granché. Al contrario, per rilanciarla chiede agli alleati il giusto contributo (come fa la Polonia) e una ridefinizione della missione dell'Alleanza.
"Gli americani sanno che una forte alleanza di nazioni libere, sovrane e indipendenti è la migliore difesa per le nostre libertà e per i nostri interessi. Per questo motivo la mia amministrazione ha chiesto che tutti i membri della Nato soddisfino definitivamente il proprio obbligo finanziario in modo pieno e giusto".
Lo storico Victor Davis Hanson ha definito l’"anti-Cairo" il discorso di Trump a Varsavia, cioè l'antitesi del discorso che pochi mesi dopo il suo insediamento Obama pronunciò nella capitale egiziana, un tentativo di appeasement con il mondo arabo e islamico basato su una sorta di "autodafè" dell'Occidente. Il messaggio "anti-Cairo" di Trump, invece, è che "solo un Occidente forte, organizzato - convinto del suo passato e sicuro del suo attuale successo - riuscirà a dissuadere i suoi nemici, attrarre i neutrali e mantenere gli amici. Che solo lui abbia avuto il coraggio di esprimere l'ovvio, e che sia stato criticato per questo, ci ricorda come il rimedio alla nostra malattia occidentale sia visto come il problema e non la cura", conclude VDH.

Il merito del presidente Trump è proprio quello di aver centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la volontà di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà... E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l’abbiamo persa...

"Dobbiamo ricordare che la nostra difesa non è solo un impegno di denaro, è un impegno di volontà. Perché, come ci ricorda l'esperienza polacca, la difesa dell'Ovest si basa in ultima analisi non solo sui mezzi, ma anche sulla volontà del suo popolo di prevalere e di avere successo e ottenere ciò che si deve avere. La questione fondamentale del nostro tempo è se l'Occidente abbia la volontà di sopravvivere. Abbiamo la fiducia nei nostri valori per difenderli a qualsiasi costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per proteggere le nostre frontiere? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civiltà di fronte a coloro che vogliono rovesciarla e distruggerla?".

Sunday, July 16, 2017

Dal G20 di Amburgo agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees

Pubblicato su formiche

Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno seppellito i falsi miti su Trump

Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.

Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.

Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.

Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.

Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?

Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.

Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.

Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.

A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.

Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".

Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.

Wednesday, May 31, 2017

Quale Europa senza inglesi e americani?

Non c'è dubbio: Brexit e Trump sono argomenti forti a favore di un rafforzamento politico e istituzionale dell'Ue. Però bisogna vedere di che tipo di Europa stiamo parlando e soprattutto, prese le distanze da inglesi e americani, nelle mani di chi finirebbe il nostro destino...

E poi, gli altri membri del club concordano sul fatto che il rinnovato impulso al progetto europeo avvenga a scapito dei rapporti transatlantici, che forse i tedeschi hanno dovuto ingoiare per 70 anni ma altri intrattengono ben volentieri?

Sul Financial Times, Gideon Rachman definisce un "passo falso" quello della Merkel...
"It is baffling that a German leader could stand in a beer-tent in Bavaria and announce a separation from Britain and the US while bracketing those two countries with Russia. The historical resonances should be chilling.
...
some have even proclaimed that the German chancellor is now the true leader of the western world. That title was bestowed prematurely. The sad reality is that Ms Merkel seems to have little interest in fighting to save the western alliance."
Ma attenzione, perché a volte i desideri diventano realtà: la Merkel rischia di dare a Trump esattamente ciò che vuole... che l'Europa diventi responsabile della sua difesa.

E a proposito del ritiro americano dall'accordo di Parigi sul clima... "Since when is a difference of opinion on climate policy a signal of US retreat from Europe?" chiede il Wall Street Journal. Da quando le politiche sul clima sono alla base dell'alleanza transatlantica? Sulla Nato, invece, si direbbe che l'alleato inaffidabile è la Germania... che spende una cifra ridicola nella difesa rispetto alla sua ricchezza e contribuisce pochissimo alle missioni. Però adesso vuole farsi una difesa comune "europea"...

Intanto, sempre sul WSJ il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e il consigliere economico di Trump, Gary D. Cohn, spiegano che "America First doesn't mean America alone".

Monday, May 29, 2017

Il ritorno della leadership americana (ma is not for free) e della "questione tedesca"

Pubblicato su formiche

La leadership americana è tornata ma "is not for free" e la Merkel perde la sua proverbiale calma teutonica e svela i piani tedeschi sull'Europa. E se la cancelliera, non Trump, fosse uscita ridimensionata da Taormina?

Terminato il primo viaggio all'estero del presidente Trump, unendo i puntini disseminati nelle varie tappe possiamo provare a tratteggiare il disegno complessivo della politica estera della sua amministrazione. Innanzitutto, i temi che andranno studiati e approfonditi nei prossimi mesi. C'è il tema del ritorno della leadership americana. Una leadership che però, diversamente dal passato, "is not for free", non sarà gratis. Per nessuno. Nemmeno per gli europei con i quali gli Stati Uniti condividono i valori di libertà e democrazia. L'America non vuole più pagare per la sicurezza e il benessere altrui. E Donald Trump ha presentato il conto. Non sarà gratis né sul piano militare, gli alleati dovranno accollarsi la giusta quota di spese e di oneri. Né sul piano commerciale: gli Stati Uniti non sono più disponibili a perdere tessuto produttivo e posti di lavoro sull'altare del libero commercio mondiale e della globalizzazione. La parola chiave è reciprocità. Inoltre, è una leadership dalla natura molto diversa da quella che i suoi predecessori hanno cercato con alterne fortune di esercitare. Non di natura "imperiale", ma una leadership esercitata come nazione. Gli Stati Uniti sono una nazione sovrana ancora in grado di, e determinata a, tutelare i propri interessi nazionali e valori ovunque siano minacciati nel mondo, ma non pretendono di dare lezioni alle altre nazioni su come vivere a casa loro. Né nella variante "esportazione della democrazia" di Bush jr, né in quella liberal e global di Obama.

Un altro tema, collegato al primo, è il ritorno delle nazioni e dei confini: nella dichiarazione finale del G7 di Taormina, accanto ai diritti dei migranti e dei rifugiati, si ribadiscono, su richiesta di Trump sostenuta probabilmente da altri leader, "i diritti sovrani degli Stati, individualmente e collettivamente, a controllare i propri confini e stabilire politiche nell'interesse nazionale e per la sicurezza nazionale".

Terzo tema, anch'esso collegato agli altri due. Si è manifestato l'approccio affaristico, da negoziatore di Trump alla politica estera. Le alleanze e i consessi multilaterali sono utili solo se attraverso il negoziato tra i partner si arriva a un compromesso funzionale agli interessi americani, altrimenti sono solo un peso di cui liberarsi: "America First". Un approccio però mitigato, per esempio per quanto riguarda la Nato, dal team di politica estera e di sicurezza dell'amministrazione Usa, di cui fanno parte il segretario alla difesa Mattis, il segretario di Stato Tillerson e il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster, il cui approccio è più tradizionale e vede nell'Alleanza atlantica, per la comunanza di valori tra i paesi membri, un asset strategico in sé per gli Stati Uniti, e un moltiplicatore di forza.

Quarto tema: si è ormai affermata a questo G7, e per impulso non solo della presidenza americana, una visione meno ottimistica della globalizzazione. Siamo entrati nella fase degli aggiustamenti da apportare per correggere le distorsioni provocate da quell'ordine aperto e "liberale", da "fine della storia", che era stato edificato a partire dalla fine della Guerra Fredda. Il premier italiano Gentiloni sembra aver afferrato lo spirito del tempo rappresentato da Trump quando ha detto che "una certa ebbrezza della globalizzazione è alle nostre spalle. Dirsi a favore del libero scambio non significa non rendersi conto delle diseguaglianze più estreme e combatterle". La parola chiave è "riequilibrio". Nella dichiarazione finale del G7 viene sì ribadito l'impegno a tenere i mercati aperti e combattere il protezionismo. Ma viene anche introdotto il concetto caro a Trump di "fair trade" e reciprocità dei vantaggi. I leader "spingono per la rimozione di tutte le pratiche commerciali distorsive (dumping, barriere non tariffarie discriminatorie, trasferimenti di tecnologia forzati, sussidi e altri sostegni dai governi e dalle istituzioni) in modo da incoraggiare condizioni realmente uguali per tutti". Il commercio internazionale deve essere libero, ma corretto e riequilibrato. Sulla globalizzazione i leader del G7 sembrano aver recepito dunque il messaggio portato da Trump: si va verso una correzione di rotta, anche perché la crisi del ceto medio in tutti i paesi avanzati, la sua mancanza di prosperità e soprattutto di prospettive, rischia di far deragliare anche le istituzioni democratiche.

Quinto e ultimo tema: era già in crisi da tempo, ma da domenica sembra improvvisamente superato l'ordine mondiale post-1945, che ha visto il mondo occidentale prima compatto nel contrapporsi al blocco sovietico e poi, cessata la minaccia comunista, impegnato nel realizzare le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. La divisione che sta emergendo tra le nazioni occidentali, l'Anglosfera da una parte e l'Europa continentale, Germania in testa, dall'altra, con la Francia in mezzo, sembra ricalcare quella ottocentesca, precedente al primo conflitto mondiale. In questo contesto, la frattura Trump-Merkel segna il ritorno in Occidente della "questione tedesca", un nazionalismo ben travestito da europeismo.

Nelle varie tappe del viaggio del presidente Trump (Medio Oriente, Nato a Bruxelles, G7 di Taormina) sono emersi con maggiore chiarezza gli attori internazionali che a Washington sono considerati alleati, vecchi o nuovi, e avversari. Per la precisione, due nemici e tre avversari strategici. I nemici si trovano in Medio Oriente: l'Isis ovviamente, ma in generale l'estremismo islamico, e l'Iran, ritenuto il principale stato sponsor del terrorismo al mondo e fattore di instabilità in Medio Oriente. Nel discorso di Riad, che abbiamo analizzato in un precedente articolo per Formiche, il presidente Trump ha assicurato ai tradizionali alleati arabi sunniti l'impegno Usa a contenere e isolare l'Iran. Ma anche questa alleanza non è gratis: i leader arabi dovranno in cambio combattere per davvero l'estremismo islamico. Gli avversari, con i quali cooperare quando possibile e confrontarsi per indurli a mutare comportamenti che ledono gli interessi americani, sono innanzitutto Russia e Cina. Il raid americano in Siria in risposta all'attacco chimico ordinato da Assad sulla popolazione civile è servito a mettere pressione su entrambe. Sulla Russia, per indurla a rompere il suo asse con Teheran e a dimostrare di essere un player responsabile, che coopera per la stabilità della regione, se vuol essere reintegrata nel tavolo dei grandi. Trump non intende regalare nulla a Putin sull'Ucraina: gli Usa continuano a considerare illegale l'annessione della Crimea da parte russa e le sanzioni contro Mosca resteranno in vigore fino alla completa applicazione degli accordi di Minsk e al completo rispetto della sovranità e integrità dell'Ucraina (stessa linea ribadita nella dichiarazione finale del G7 di Taormina). Pressione anche sulla Cina, per indurla a esercitare tutta la sua influenza per disinnescare la minaccia nucleare della Corea del Nord. Non solo nei giorni scorsi la terza portaerei Usa è giunta nella zona della penisola coreana, ma il cacciatorpediniere Uss Dewey si è addentrato entro le 12 miglia dalla costa di una delle isole artificiali realizzate da Pechino nel Mar cinese meridionale, dimostrando che Washington non riconosce la sovranità cinese su quelle isole e quelle acque.

Ma come è emerso dall'ultima tappa del viaggio di Trump, il G7 di Taormina, c'è un terzo avversario. Potrà destare una certa sorpresa, ma è in Europa: la Germania. Investito dal "ciclone Trump", come definito dal direttore del quotidiano La Stampa Maurizio Molinari, è stato un G7 di svolta, lontano dall'unanimismo inconcludente che di solito caratterizza questi vertici. Nonostante i media abbiano tentato di rappresentare Trump come un bullo, distratto oltre i limiti della maleducazione, le impressioni riportate dagli stessi leader partecipanti al vertice dicono altro. Il presidente americano è apparso sì determinato nella difesa delle sue posizioni sui vari temi, e anche con un certo grado di successo, ma anche aperto e curioso nell'ascoltare le argomentazioni altrui. Trump viene descritto come "attento e partecipe" (persino nel momento del 'drafting') dal premier Gentiloni: "Molto dialogante, molto curioso, con una capacità e una volontà di interloquire e apprendere da tutti gli interlocutori". "Ho trovato una persona aperta che ha volontà di lavorare con noi", ha ammesso anche il presidente francese Macron, che domenica in un'intervista al Corriere si è mostrato ottimista sul presidente americano: "E' una personalità forte, decisa, ma aperta, pragmatica, realista, capace sia di ascoltare, sia di arrivare dritta al punto". Ha accettato di confrontarsi, non si è chiamato fuori, il G7 non è fallito: "Abbiamo dimostrato di essere una comunità di valori e Trump ne fa parte, non si chiama fuori. Farà la sua parte".

Toni molto diversi anche nel riferire la discussione e il mancato accordo con gli Stati Uniti sul clima tra la Merkel, che ha parlato di una "discussione difficile, o piuttosto molto insoddisfacente", e lo stesso Macron, che invece ha riferito di "discussioni ricche, progressi, vero scambio", e di aver visto un Trump "pragmatico", propenso ad ascoltare. Non tutti i leader insomma hanno preso così male come la cancelliera tedesca le "divergenze" con Trump al G7 di Taormina. Che si siano resi conto che il presidente americano può offrire una valida sponda per ridimensionare l'egemonia tedesca in Europa?

L'impressione infatti è che durante il vertice il pressing di Trump sia stato particolarmente forte su Berlino, soprattutto riguardo il commercio: ha definito "molto cattiva" la politica tedesca dei surplus commerciali. E il fastidio per i surplus tedeschi è un sentimento condiviso da molti paesi europei. Sul commercio il presidente Usa sembra aver trovato in Macron una sponda: "Basta dumping sociale" da parte di paesi dove gli operai hanno bassi salari e nessun diritto, "basta lavoratori delocalizzati". Chissà che fra i due non sia scoccata una scintilla, una sintonia personale… Il presidente francese, ha osservato anche Molinari, "si è rivelato il più attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all'Eliseo spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di approccio alla distribuzione della ricchezza globale".

Invece che uscire ridimensionato Trump, da questo G7 potrebbe essere uscita ridimensionata (e persino un po' isolata) la Merkel. E questo spiegherebbe perché domenica la cancelliera ha rincarato la dose: "I tempi in cui potevamo fidarci completamente degli altri sono passati da un bel pezzo, questo l'ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani". Nella frase successiva, sulla necessità di mantenere naturalmente "relazioni amichevoli con Stati Uniti e Regno Unito", sullo stesso piano tra "gli altri vicini" dell'Europa ha citato la Russia di Putin. Con le sue parole la Merkel suggerisce di considerare concluso l'ordine mondiale post-bellico, noi europei dovremmo smettere di considerare i nostri liberatori, Stati Uniti e Regno Unito, "alleati affidabili", per entrare in una nuova epoca di equidistanza dai nostri vicini a Occidente e ad Oriente. Ma la solidarietà transatlantica può andare in frantumi per una divergenza sull'accordo di Parigi sul clima? O è solo un pretesto?

Sempre domenica la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha riferito di un "piano segreto" della cancelliera per costruire una Unione europea politicamente ed economicamente più forte e indipendente. Un piano basato su tre pilastri: prioritaria la gestione della crisi dei migranti, quindi la stabilizzazione della Libia; una politica di difesa comune, con il via libera a un comando centrale di contingenti degli eserciti europei; e infine l'unione economica e monetaria, con il governatore della Bundesbank Jens Weidmann pronto a sostituire Mario Draghi al timone. Il piano di un'Europa equidistante tra Stati Uniti e Russia non è nuovo, è coltivato da anni a Parigi e a Berlino e le dichiarazioni di Angela Merkel non fanno altro che evocarlo. Un piano che però può rivelarsi un'illusione, se non addirittura un incubo. Un'Europa distante da Washington e Londra, esposta all'aggressività della Russia, assediata dall'estremismo islamico e dalla pressione demografica di Medio Oriente e Nord Africa… Auguri.

La realtà è che di strappo in strappo il processo di allontanamento della Germania dagli Stati Uniti non nasce con Trump e va avanti dalla riunificazione tedesca, che non sarebbe avvenuta così speditamente e morbidamente senza il sostegno degli Stati Uniti, contro i pareri dei russi, dei britannici e dei francesi. Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica Margaret Thatcher (la riunificazione "non porterà a una Germania europea ma a un'Europa tedesca"), le preoccupazioni dell'allora presidente francese Mitterand (farà riemergere i tedeschi "cattivi") e l'emblematica battuta dell'ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due". Ma da allora (altro che Trump…) la Germania non ha fatto altro che distanziarsi dall'alleato americano. Fin dalla crisi jugoslava. Berlino decideva di procedere al riconoscimento di Slovenia e Croazia, senza attendere l'Europa e contro il parere di Washington, salvo poi rifiutare di assumersi la responsabilità di gestire la crisi come chiedevano gli americani. Nel 2003 la rottura tra Bush e Schroeder sulla guerra in Iraq. Pur nella cordialità e nella stima reciproca, le relazioni non sono migliorate tra il presidente Obama e la cancelliera Merkel, che ha ignorato le richieste americane di abbandonare l'austerità per una politica economica espansiva dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dell'Eurozona nel 2010.

La riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell'appartenenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue, all'interno di un ordine post-1945 che la vedeva in stretta partnership con i due vincitori occidentali della guerra: Stati Uniti e Regno Unito. Ma ora, assunta la guida politica ed economica dell'Ue (senza Londra nessun paese membro, nemmeno la Francia, può rappresentare un efficace contrappeso), la Germania ci spiega che sarebbe arrivato il momento di non ritenere più affidabili americani e inglesi come alleati e guarda caso di progettare una difesa comune europea, in prospettiva alternativa alla Nato.

"Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento viene dall'esterno dell'Europa", avverte il politologo Walter Russell Mead, spiegando come l'europeismo di cui i tedeschi vanno così fieri nasconda in realtà politiche nazionaliste. Un'analisi che abbiamo già riportato per Formiche. Cosa succede, si chiede, "se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell'Occidente, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? La leadership tedesca infatti "poggia su basi insostenibili, al prezzo di un'Unione europea sempre più instabile e divisa". "Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dei Paesi Ue, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato".

A questo punto bisogna rispondere ad alcune domande: vuole liquidare la Nato chi pretende che ogni membro contribuisca il giusto, il pattuito, e propone un riorientamento strategico dell'alleanza sulla lotta al terrorismo, oppure chi pur tra i membri più ricchi non spende quanto dovuto, né partecipa alle missioni quanto potrebbe? Chi vuole liquidare la Nato non è Washington, non è alla Casa Bianca, ma è a Berlino. E' la Germania, con una spesa militare ridicola rispetto alla sua ricchezza e una partecipazione quasi nulla alle missioni, che ora che il Regno Unito è fuori dall'Ue intende lanciare la difesa comune europea, in prospettiva alternativa alla Nato e come ombrello del suo riarmo.

Tuesday, March 21, 2017

Il ritorno della "questione tedesca". E non è un'invenzione di Trump

Pubblicato su formiche

Venerdì scorso si è tenuto a Washington l'atteso primo faccia a faccia tra il presidente americano Donald Trump e la cancelliera tedesca Angela Merkel, a caccia del suo quarto mandato. Ha fatto più notizia il presunto rifiuto di Trump di stringerle la mano davanti ai fotografi nello studio ovale (stretta comunque concessa sia all'arrivo della cancelliera alla Casa Bianca che al termine della conferenza stampa) che il lungo elenco di temi su cui si registrano divergenze tra i due leader. Non sono solo le biografie e lo stile, che non potrebbero essere più agli antipodi, a rendere complicati, ma pure interessanti, i loro rapporti, ma anche e soprattutto grandi questioni politiche: commercio, politica monetaria, Nato, Unione europea, Russia, gli accordi sul clima di Parigi. Questioni oggetto delle schermaglie che per settimane hanno preceduto l'incontro. I due si sono criticati prima, durante e dopo la transizione alla Casa Bianca.

Pur premettendo di nutrire un "profondo rispetto" per la cancelliera tedesca, Trump ha definito "un errore catastrofico" la decisione della Merkel di aprire le porte del suo Paese, e dell'Europa, ai rifugiati, mentre la cancelliera ha criticato l'ordine esecutivo della Casa Bianca che blocca temporaneamente gli ingressi negli Usa da alcuni Paesi musulmani e bacchettato il neo presidente sul protezionismo, rammentandogli i mutui benefici del libero scambio. Trump ha salutato positivamente la Brexit, convinto che il Regno Unito abbia fatto bene a riprendersi la sua sovranità uscendo da un'Europa ormai dominata da Berlino. E la cancelliera è preoccupata che la Casa Bianca intenda lavorare per indebolire l'Unione europea. Il governo tedesco è tra quegli alleati della Nato criticati da Trump perché non spendono abbastanza per la difesa (solo l'1,2% del Pil, contro l'obiettivo del 2%). Trump ha notato che ci sono troppe Mercedes a New York, e la Merkel replicato che a Monaco si vendono tanti iPhone. L'amministrazione Trump lamenta un surplus commerciale eccessivo a favore della Germania (65 miliardi di dollari), reso possibile a suo avviso da un euro troppo debole (che in realtà sarebbe un "marco travestito", secondo il consigliere al commercio di Trump, Peter Navarro).

L'enorme deficit commerciale degli Stati Uniti è infatti in cima all'agenda dell'amministrazione Trump, che sembra volersi concentrare in particolare sulla concorrenza sleale da parte della Cina. Tuttavia, il Wall Street Journal ha fatto notare che la più grande minaccia agli interessi commerciali americani potrebbe venire non dalla Cina, bensì dalla Germania, che sembra porre sfide più serie nel lungo termine. "La Cina - scrive il quotidiano - è oggetto della rabbia degli Stati Uniti per il commercio sleale, ma i surplus esteri della Germania sono ora molto più grandi e possono avere maggiore impatto sull'economia degli Stati Uniti e del resto del mondo". Per anni la manodopera a basso costo cinese ha messo sotto pressione i salari del settore manufatturiero americano, ma le industrie tedesche sono in competizione più diretta con quelle americane. "Nove dei maggiori dieci settori tedeschi per export, come macchinari ed elettronica, sono gli stessi della top 10 americana", ha spiegato al WSJ Caroline Freund, del Peterson Institute for International Economics. "L'euro debole - che ha perso circa un quarto del suo valore contro il dollaro negli ultimi tre anni - dà alle imprese tedesche un margine extra sui mercati internazionali".

Insomma, secondo il WSJ, la Germania starebbe abusando del sistema del commercio mondiale in misura molto maggiore di Cina e Messico. Sebbene possa essere stato vero in passato, la Cina non sta più facendo leva sulla svalutazione del renminbi per sostenere le sue esportazioni; semmai, è preoccupata che la sua moneta si svaluti troppo. La Germania invece ha tratto enormi benefici dalla crisi dell'Eurozona. La debolezza delle economie dei Paesi mediterranei infatti - Italia, Spagna, Portogallo e Grecia - ha reso necessari tassi di interesse bassi e svalutazione dell'euro. Denaro a buon mercato ed esportazioni facili che hanno dato grande spinta all'economia tedesca, il cui surplus commerciale altrimenti avrebbe dovuto fare i conti con un apprezzamento della moneta, non una svalutazione. Il costo, per la Germania, è stato politico, non economico. La sua popolarità presso gli altri stati membri, soprattutto del Sud Europa, è crollata. L'Unione europea si è indebolita, forse come mai prima nella sua breve storia, mentre la Germania è ancora più forte, tanto che il cosidetto direttorio franco-tedesco è ormai squilibrato.

Il presidente Trump è un pragmatico, un negoziatore d'affari, e la cancelliera Merkel una statista esperta e lungimirante. Non è affatto escluso che i due imparino per necessità a lavorare insieme, ma le divergenze, in campo geopolitico ed economico, sono profonde. In realtà, nonostante il loro sia stato un rapporto sinceramente cordiale, e contraddistinto da una certa sintonia personale, anche tra Obama e la Merkel non sono mancate differenze, come sulla gestione della crisi europea. Anche Obama era preoccupato della debolezza dell'euro e da una stagnazione economica nell'Eurozona che rischiava di frenare la crescita americana e mettere a rischio la sua rielezione. Obama era convinto che per superare la crisi dovessero essere adottati in Europa salvataggi e stimoli fiscali come quelli implementati dalla sua amministrazione in America e ha ripetutamente esortato la Merkel ad abbandonare l'austerità per una politica economica espansiva, e persino ad accettare una qualche forma di condivisione dei debiti pubblici.

E' così radicato il pregiudizio anti-Trump nei mainstream media che dalle cronache dell'incontro di venerdì alla Casa Bianca la Merkel emerge come nuova leader del mondo libero e portavoce degli interessi dell'Unione europea, ma a Washington si fa strada un punto di vista radicalmente diverso sulla Germania. E' maturata una nuova consapevolezza della crescente egemonia tedesca sul Vecchio Continente (sebbene il tema trasparisse già negli anni di Obama) e delle domande difficili da porsi. Esiste una nuova "questione tedesca", dal momento che nella cornice dell'Unione europea non esistono più contrappesi al potere di Berlino? La Germania rappresenta, al pari di Cina e Russia, una sfida all'ordine politico ed economico occidentale? A chiederselo è il politologo Walter Russell Mead in un'analisi pubblicata su "The American Interest".

Parte del problema, a suo avviso, è che le classi dirigenti tedesche non sono nemmeno consapevoli di quanto nazionalista sia diventata la loro politica. Il passaggio dell'Europa orientale da un'epoca di dominio russo all'integrazione in un ordine europeo dominato dalla Germania non è solo una vittoria dello stato di diritto come nella visione di Berlino, ma innanzitutto uno spostamento di potere nel quale la Russia abbandona ogni velleità di recuperare l'influenza perduta con il crollo dell'Unione sovietica, mentre la Germania espande a est la propria, consolidando la sua posizione di stato leader in Europa dagli Urali all'Atlantico. I tedeschi percepiscono la propria politica europea come un modello di europeismo responsabile e disinteressato, motivato dal loro "incrollabile impegno per un'Europa post-nazionalista", in mezzo a partner irresponsabili e ingrati. In realtà, osserva WRM, è "molto più nazionalista di quanto credano". Ritenendo il nazionalismo come qualcosa di "malvagio e distruttivo", i tedeschi pensano di esserne immuni. "Non è malvagio, né fascista", ma la Germania "è ancora una nazione" e i tedeschi perseguono i propri interessi nazionali.

Scrive quindi WRM che "non disposta a riconoscere che persegue una politica commerciale brutalmente mercantilista e che ha sacrificato la solidarietà europea per preservare l'armonia politica interna, la Germania è diventata meno un sostenitore dell'ordine occidentale e più un problema per l'Occidente". Realtà difficile da riconoscere per i tedeschi, e quindi ancor più difficile per i partner da discutere efficacemente con Berlino. Il guaio, osserva, è che "gli altri Paesi europei non hanno più il potere per indurre la Germania a ripensare la sua politica europea". Con il Regno Unito che ha imboccato la via dell'uscita dalla Ue, una Francia scossa dal terrorismo, indebolita economicamente e verso un'elezione presidenziale dall'esito incerto, Italia e Spagna retrocesse dalla crisi, non esistono più contrappesi allo strapotere tedesco. "Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca" e "la prospettiva di un cambiamento viene dall'esterno dell'Europa".

Sia la Russia di Putin che la Turchia di Erdogan stanno cercando di "destabilizzare" l'Ue. Per gli Stati Uniti, ricorda WRM, è sempre stata desiderabile un'Europa in pace, libera da influenze esterne, e coinvolta in un sistema capitalistico aperto a livello mondiale. Su tali presupposti hanno lavorato con Berlino e gli altri alleati europei per espandere Nato e Ue. E queste sono state "le basi" delle relazioni tra Washington e Berlino fin dal 1990, nonché le basi del sostegno da parte dell'amministrazione Bush padre alla riunificazione tedesca "contro i desideri dei russi, dei britannici e dei francesi". Ricordiamo la contrarietà dell'allora premier britannica Margaret Thatcher ad una "Grande Germania": coniugate al "carattere nazionale" tedesco, dimensioni e posizione geografica del nuovo Stato avrebbero potuto provocare un "effetto destabilizzante" sull'Europa. La riunificazione, avvertiva la Thatcher, "non porterà a una Germania europea ma a un'Europa tedesca". Preoccupazioni condivise dall'allora presidente francese Mitterand (la riunificazione farà riemergere i tedeschi "cattivi"). Emblematica la celebre battuta dell'ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: "Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due".

Alla fine, la riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell'appartenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell'Ue. Ora, avverte WRM a conclusione della sua analisi, l'amministrazione Trump potrebbe essere la prima da decenni a trovarsi di fronte interrogativi difficili, impensabili fino a pochi anni fa per la politica estera americana. Cosa succede "se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell'Occidente, a sostegno dei principi dell'ordine liberale, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l'Europa e danneggia l'economia americana"? E "nella nuova fase di rivalità tra Germania e Russia per il controllo dell'Europa orientale - si chiede - dove stanno gli interessi dell'America?"

"Senza una relazione stretta con Berlino - osserva WRM - è difficile per gli Stati Uniti fare molto riguardo l'attacco di Putin all'ordine post-Guerra Fredda in Europa e in Medio Oriente, ma allo stesso tempo la stabilità tedesca poggia su basi insostenibili, al prezzo di una Unione europea sempre più instabile e divisa". Le rimostranze per il surplus commerciale tedesco non giungono solo dal "protezionista" Trump, ma trovano inaspettate sponde anche in diverse capitali europee, dove si ritiene che Berlino stia indebolendo la ripresa nell'Eurozona mancando di stimolare la propria domanda interna. L'attuale surplus tedesco viola le regole e "fa male a tutta l'Europa", è la denuncia reiterata dall'ex premier italiano Renzi. In generale, rileva il politologo, si rimprovera alla Germania di avere "un approccio all'euro essenzialmente predatorio", di perseguire, come la Cina, una "politica mercantilista basata sul mantenimento con ogni mezzo" di un surplus commerciale, che in Germania, come in Cina, "assicura la stabilità sociale e la salute dei settori industriali".

Ma questa politica, avverte WRM, "sebbene popolare internamente, sembra insostenibile". "Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell'opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dell'Ue per la leadership tedesca, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo - conclude WRM - non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato". Secondo il politologo, sono due i temi sui quali venendo incontro alle richieste dell'amministrazione Trump, Berlino potrebbe creare le basi per rinnovare la sua alleanza con Washington: rispettare l'impegno di spesa militare in ambito Nato e affrontare il tema del surplus commerciale. Anche se entrambi questi passi "metterebbero a rischio la pace sociale in Germania". E' possibile che proprio richieste in tal senso si sia sentita avanzare, e in toni abbastanza assertivi, la cancelliera Merkel durante il suo incontro con il presidente Trump alla Casa Bianca. Da qui il clima cordiale, ma freddo del loro primo incontro. Che per la prima volta la Merkel anziché spadroneggiare si sia vista recapitare il conto?

Monday, July 04, 2016

L'Ue dopo la Brexit: la padella o la brace

Pubblicato su L'Intraprendente

"Adesso è il momento di essere pragmatici". In un'intervista al Welt Am Sonntag (edizione domenicale del Die Welt), Wolfgang Schäuble, il ministro tedesco delle finanze, delinea la sua idea di rilancio dell'Unione europea dopo il voto sulla Brexit. E nel farlo emergono due visioni contrapposte sul futuro dell'Ue.

"Se non tutti i 27 Stati membri vogliono mettersi insieme dall'inizio, allora inizieremo con pochi. E se la Commissione non collabora, allora prenderemo le questioni nelle nostre mani e risolveremo i problemi tra Governi", ha spiegato Schäuble. "Questo approccio intergovernativo si è dimostrato efficace durante la crisi dell'Eurozona. Siamo onesti - ha aggiunto - la domanda se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente in modo particolare. Alla gente interessa sapere se riusciamo a controllare il problema dei profughi. Contano i fatti, non le parole altisonanti". E ancora: "In Europa abbiamo troppo spesso pomposamente proclamato nuove iniziative non realizzate".

Dalle osservazioni di Schäuble emerge una netta linea di demarcazione, riguardo i futuri passi da far compiere all'Ue, rispetto alle fughe in avanti dei vertici di Commissione e Parlamento europeo, Juncker e Schulz. "In linea di principio, sono favorevole a una maggiore integrazione", ha spiegato Schäuble. "Ma non è il momento giusto per questo". Dopo il voto sulla Brexit, ha ribadito, "non è il momento per le grandi visioni. La situazione è così seria che dobbiamo smettere di fare i soliti giochetti europei e di Bruxelles". "Al momento, non riusciamo a modificare gli accordi. Le istituzioni dovrebbero piuttosto intervenire per la soluzione dei problemi. E se non dovessero riuscire, risolviamo noi questi problemi tra i governi al di fuori delle istituzioni". Non manca nelle parole di Schaeuble un'accusa diretta alla Commissione europea, inadempiente a suo avviso nel far rispettare le regole del rigore e dell'austerità. Come dire che i tedeschi non accetteranno mai di consegnare a Bruxelles i poteri di una unione fiscale.

Insomma, da una parte, c'è l'Unione europea a più velocità e a trazione tedesca (intergovernativa); dall'altra, l'integrazione per accentramento progressivo di poteri nella Commissione europea di Juncker (che ovviamente nessuno ha mai eletto), che però rischia di accelerare anziché placare le forze centrifughe, facendo saltare tutto.

Scegliete voi dove sta la padella e dove la brace tra queste due opzioni, ma di Stati Uniti d'Europa qui non se ne vedono nemmeno lontanamente. Dell'ideale federalista di cui molti sedicenti liberali nostrani si riempiono la bocca non c'è traccia. Né Churchill né Spinelli. Questa Europa non si sta avvicinando passo passo a quell'ideale... Difenderla, essere a favore di più integrazione in questo contesto, significa fare da stampella proprio a chi quell'ideale l'ha già ucciso. Si può nonostante tutto sostenere che all'Italia, per come è "sgovernata", convenga "più Europa". L'unica cosa che non potete fare, però, è provare a venderci che stiamo procedendo verso gli Stati Uniti d'Europa.

A Berlino e a Bruxelles, non a Londra e nelle campagne inglesi, abitano i veri nemici dell'Europa. La Brexit avrà forse il merito di fare chiarezza. Non nel senso di imporre agli amici britannici un aut-aut, un dentro o fuori, un tutto o niente. Ma nel senso di chiarire le opzioni reali che questa Unione europea ha di fronte. Tra la padella e la brace, appunto, teniamoci il mercato unico e azzeriamo il resto, provando a riscrivere i trattati.

Friday, May 24, 2013

I mostri che si aggirano per l'Europa: gli Stati mannari

Anche su Notapolitica e L'Opinione

La copertina dell'Economist di questa settimana si candida seriamente al premio cover dell'anno. I principali leader europei - Merkel e Hollande in testa, con Draghi, Letta e Samaras alla loro destra e Rajoy, Barroso, Passos Coelho e Van Rompuy alla loro sinistra - che incedono con sguardo fiero e fisso sulla linea dell'orizzonte, non curanti del burrone ad un passo dai loro piedi. Titolo: "The sleepwalkers" (i sonnambuli).

E' il sesto trimestre successivo di recessione in Europa, la disoccupazione è oltre il 12%. Si discute di austerity, ma i deficit e i debiti pubblici continuano a correre, e non solo nei paesi cicala, come l'Italia, dove per lo meno il problema è noto e all'attenzione dei severi censori di Bruxelles e Berlino. La crisi ormai non riguarda più soltanto i paesi del Sud Europa, ma tocca da vicino anche i "virtuosi" tedeschi, olandesi e scandinavi. E' un problema comune, nessuno può illudersi che il vagone su cui viaggia non deraglierà insieme al resto del treno.

Perché se la situazione è certamente più drammatica nei paesi più deboli e più indebitati, in crisi - come ebbe modo di spiegare mesi fa Mario Draghi al Wall Street Journal - è il modello sociale europeo in tutte le sue varianti, quelle più efficienti, mittle e nord-europee, e più dissennate, quelle mediterranee. E' insostenibile, drena troppe risorse perché le economie europee riescano ad essere competitive con quelle dei paesi emergenti. Serve a poco preoccuparsi di come redistribuire meglio e in modo più equo, se la torta nel frattempo si restringe. Fa eccezione, per ora, la Germania, ma tra breve anche le sue riforme di un decennio fa si riveleranno insufficienti.

Eppure, i leader europei non sembrano rendersi conto di quanto profondamente la crisi metta in discussione le certezze dell'ultimo mezzo secolo. Di fronte alla realtà, sembra diffondersi il virus italiano: piuttosto che riconoscere che la soluzione passa per riforme dolorose, impopolari, ma necessarie, volte a far recuperare competitività alle nostre economie fiaccate da bilanci pubblici troppo pesanti e famelici, burocrazie opprimenti e mercati troppo rigidi, il problema che sembra angosciare i governanti europei, senza eccezioni, è come fare cassa, dove rastrellare soldi freschi da destinare a ulteriori investimenti dall'alto (la maggior parte dei quali si riveleranno improduttivi) e a nuove forme di assistenzialismo.

Dunque, invece di accelerare i processi di unione bancaria e unione fiscale, di discutere di come implementare velocemente le riforme strutturali e fiscali in tutti i paesi, ecco che il nuovo tema elevato a priorità dell'ultimo Consiglio europeo, al pari del lavoro, è quello dell'evasione fiscale, nonostante negli altri grandi paesi europei non sia certo ai livelli italiani. Quando però si va a stringere sulle misure concrete, ci si accorge che va bene lo scambio dei dati, ma più che l'evasione nel mirino c'è la concorrenza fiscale tra i paesi. I "grandi" vorrebbero limitare, se non azzerare, la capacità dei "piccoli" e dei "medi" di attirare aziende e multinazionali con sistemi fiscali più competitivi. Insomma, quei «salti mortali», così si è espresso di recente Ed Miliband parlando di «capitalismo responsabile», che molte grandi e medie aziende (Google, Apple e Amazon sono sotto i riflettori), ma anche persone fisiche, fanno per pagare meno tasse. Più che di evasione, dunque, si tratta di forme elusive legali.

Una volta, quando si parlava dei cosiddetti "paradisi fiscali", ci si riferiva a minuscole isolette, per lo più dei caraibi, praticamente prive di strutture statuali. Oggi però politici e media ne parlano con riferimento a qualsiasi paese che scelga un'imposizione fiscale più leggera e norme meno invasive sui capitali. Così anche Svizzera, Austria, Slovenia, Irlanda, e persino il Regno Unito, vengono considerati alla stregua di "paradisi fiscali". Un'azienda, o una persona fisica, che vi trasferiscano la propria residenza fiscale o parte dei propri profitti, vengono immediatamente bollati come evasori e, quindi, criminali (quanto meno moralmente). Non ci si chiede nemmeno se sia il caso di abbassare le proprie pretese fiscali, non si prende nemmeno in considerazione l'ipotesi che, più semplicemente, sono Italia, Francia e Germania ad essere diventati "inferni fiscali".

Difficile, d'altra parte, ampliare le pretese della riscossione fiscale nel mondo globalizzato di oggi, in cui i capitali si muovono attraverso i continenti in pochi secondi, il commercio è sempre più online e i paesi sono sempre più in competizione tra loro per attirare investimenti. Ma in Europa, soprattutto, dove il mercato è unico, la concorrenza fiscale dovrebbe essere vista come una sfida virtuosa, non un molesto residuo della sovranità nazionale. Emblematico il doppio ruolo che è costretto a giocare il premier britannico Cameron, che fa il duro nei confronti di Bermuda e Isole Cayman, ma poi rivendica il diritto della Gran Bretagna a mantenere «tasse basse sulle imprese per attirare gli investimenti, aumentare i posti di lavoro, ed essere vincenti nella competizione globale».

L'unica cosa che proprio non riescono a immaginare i leader europei è come restringere il perimetro dello Stato, quindi della spesa pubblica e del debito. I paesi virtuosi non si pongono - per il momento - il problema. In quelli meno virtuosi, come l'Italia, sentiamo ripetere la solita litania: non ci sono soldi per rimettere in moto l'economia. Due miliardi di qua, due di là, si spostano da una tassa all'altra. Non ci sono soldi? Ma stiamo scherzando? Un governo che spende (o sperpera?) ogni anno la metà della ricchezza prodotta dai suoi cittadini - e ormai non sono molto lontani da questa soglia gli altri grandi paesi europei - viene a raccontarci che non ci sono soldi? E' un luogo comune ormai tanto radicato - nella politica, tra gli osservatori e nell'opinione pubblica - quanto fa a pugni con la logica.

Il dibattito in Europa è sempre più intrappolato tra le due polarità rigore/spesa, con i paesi del Sud e la Francia che chiedono aiuti e investimenti, e quelli del centro e del nord che tentano di stringere i cordoni della borsa. E una dinamica che rischia di somigliare sempre più a quella dell'Italia post-unitaria: un nord ricco e competitivo frenato da un Mezzogiorno assistito e depresso. Una sorta di "italianizzazione" dell'Eurozona non è più una prospettiva inverosimile, se costringeremo la Germania e i paesi del nord Europa ad adottare nei confronti dell'Europa mediterranea le stesse politiche sbagliate che per oltre un secolo il nostro Stato unitario ha "somministrato" al Sud Italia e che, come stiamo vedendo, ci sta trascinando tutti nel baratro.

Monday, January 21, 2013

Monti un bluff conclamato

Il discusso editoriale di Wolfgang Münchau sul Financial Times va letto innanzitutto in chiave anti-austerità e anti-Merkel. E' in base a tali criteri che giudica le tre principali offerte politiche in Italia, evidenziandone i limiti e giungendo a conclusioni pessimistiche (e purtroppo fondate). A Monti essenzialmente rimprovera di aver «sottovalutato il prevedibile impatto dell'austerità» e di non essersi opposto ad Angela Merkel. Ma questo non deve suonare come un endorsement a favore di Berlusconi. Tutt'altro. All'ex premier riconosce una «buona campagna», all'insegna di un «messaggio anti-austerità», ma non la credibilità necessaria: sono solo slogan. Piuttosto, è a Bersani che Münchau sembra guardare con più indulgenza: di recente il segretario del Pd ha provato a prendere le distanze dalle politiche di austerità e c'è una possibilità leggermente superiore che riesca a tenere testa alla Merkel, «perché in una posizione migliore per fare squadra con Hollande».

Comunque sia, che la vediate "da destra" o "da sinistra", che vi iscriviate alla prima, alla seconda o alla terza delle tre opzioni anti-crisi delineate da Münchau (restare nell'euro e sopportare da soli l'intero peso dell'aggiustamento, fiscale ed economico; restare nell'euro, a condizione di un aggiustamento condiviso e simmetrico tra paesi debitori e creditori; uscire dall'euro), un paio di verità incontestabili e senza attenuanti su Monti emergono: 1) ha solo aumentato le tasse, mentre le timide riforme strutturali che ha cercato di introdurre sono state «annacquate fino all'irrilevanza macroeconomica»; 2) racconta di aver salvato l'Italia dal baratro, ma il calo dello spread e dei rendimenti si deve alle iniziative di un altro Mario - Draghi, presidente della Bce - e gli italiani lo sanno bene.

Che siate acerrimi oppositori delle politiche di austerità imposte da Berlino, come Seminerio, per intenderci, o che invece vi convinca di più la prima opzione (la via "virtuosa" al risanamento attraverso tagli di spesa, debito e tasse - quella di Giannino), da qualsiasi punto di vista, insomma, Monti è stato un fallimento, o un bluff, come scrivo ormai da mesi. Riconoscerlo non significa essere berlusconiani né di sinistra.

Monti non si è opposto alla Merkel - se pensate come Münchau che avrebbe dovuto farlo - né ha realizzato le necessarie riforme strutturali (nemmeno in campagna elettorale, finora, ha proposto qualcosa di concreto). Si è limitato ad alzare le tasse per aggiustare i conti nel breve termine e guadagnare tempo in attesa che la tempesta finisse. Quella che l'editorialista del FT chiama la «quarta opzione», in realtà una falsa pista che presto o tardi riporta alle prime tre opzioni.

Wednesday, December 12, 2012

Monti al bivio: federatore di un nuovo centrodestra o "legittimatore" del centrosinistra?

Anche su Notapolitica

Se si conviene unanimemente tra gli osservatori che una vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe dissuaso Berlusconi dal ripresentarsi, come atto di mera resistenza personale e politica, non è meno fondato ritenere che anche altre circostanze avrebbero potuto (e forse ancora potrebbero) dissuaderlo. Per esempio, nonostante il recente strappo con Monti, se il professore si convincesse a scendere in campo, non per sostenere ambiguamente un'operazione centrista volta a isolare la destra (berlusconiana e non) e a collaborare con Bersani dopo il voto, ma come vero e proprio atto fondativo e federatore di un nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra, probabilmente il Cav si farebbe davvero da parte.

Non c'è motivo di dubitare che Berlusconi in questi mesi abbia effettivamente cercato un "nuovo Berlusconi", cioè una personalità in grado di unire i cosiddetti "moderati" ma in alternativa alla sinistra, non come sua costola. Le cronache hanno riportato di contatti in questo senso sia con Montezemolo che con lo stesso Monti.

C'è chi è affezionato all'idea di un superamento traumatico del berlusconismo, una recisione netta, che però il Cav, dal suo punto di vista, comprensibilmente rifiuta di subire, come abbiamo provato a spiegare in questo post di qualche giorno fa. Non potrebbe essere più efficace un suo superamento progressivo, una sorta di diluizione in un nuovo centrodestra, di cui non sarebbe più il leader, ovviamente, ma del quale gli fosse consentito di essere uno dei soci?

E' vero che quella del Cav è un'eredità scomoda, e che in questo paese raccoglierla significa giocarsi la propria "rispettabilità" agli occhi dei poteri che contano, ma si tratterebbe qui di ereditare l'unico aspetto positivo del berlusconismo, cioè una leadership innestata in uno schema bipolare, e non anche le derive e gli aspetti più deleteri.

Nonostante il personaggio abbia una certa difficoltà a vedersi relegato in un ruolo di secondo piano, l'impressione è che nessuno ci abbia mai seriamente provato, fondamentalmente perché tutte le operazioni volte a superare Berlusconi, a imporgli un «passo indietro», sono "centriste", non alternative ma complementari al centrosinistra, e quindi non in grado di attrarre l'elettorato di centrodestra, nonostante non sia stato mai più di oggi deluso e lontano dal Cav.

Nel suo lucido editoriale di oggi, sul Corriere, Ernesto Galli Della Loggia coglie entrambi questi aspetti. Innanzitutto, l'aiuto che Berlusconi ogni volta riceve dal coro degli antiberlusconiani. Probabilmente questa volta al Cav non riuscirà la rimonta, ma quest'attenzione ossessiva, questa demonizzazione gli basta per galvanizzare attorno a sé una fetta consistente di elettorato: «un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo - scrive Della Loggia - la misura del fallimento di Berlusconi», ma che non è disposta a concedersi alla sinistra, né ad un centro che lungi dal presentarsi come alternativo alla sinistra, quindi come nuovo centrodestra, odora di alleanza post-elettorale con Bersani. Questa Italia, da dodici mesi in attesa di una nuova offerta politica, merita rispetto, va considerata. Eppure, in tv, sui giornali, nelle radio, in questi giorni è ripartita la strumentalizzazione dello spread, assistiamo ad un flusso di irritanti lezioncine e interferenze in casa nostra da parte delle cancellerie europee, di volgari euroburocrati e della stampa estera. A ragione o a torto (secondo me a torto, ma conta poco), la leadership tedesca non gode di grande popolarità in Italia in questo momento: le continue prese di posizione per Monti e contro Berlusconi (oggi il ministro delle finanze Schauble, ieri quello degli esteri e la cancelliera Merkel) danneggiano o favoriscono il Cav? Forse non lo faranno vincere, ma comunque lo aiutano più di quanto lo ostacolino.

Ma Galli Della Loggia parla di un altro regalo a Berlusconi: se il centro non è contro la sinistra oltre che contro la destra berlusconiana, infatti, non è un vero centro ma di fatto una costola della sinistra, e concede al Cav «l'esclusiva della contrapposizione alla sinistra», un ruolo politico che come osserva l'editorialista ha sia «buone ragioni» che una «grande storia alle spalle».

La funzione storica per cui varrebbe la pena che Monti scendesse in campo sarebbe quella di aggregare questo elettorato oggi ancora «politicamente orfano», presentandosi quindi come federatore di un nuovo centrodestra che superi sì Berlusconi, ma che sia anche alternativo alla sinistra.

Chi ci crede è Mario Sechi:
«Chi non si riconosce nel patto Bersani-Vendola oggi è di fronte o a un'offerta politica polverizzata o a un berlusconismo declinante. Il più che mai necessario ruolo di aggregatore oggi potrebbe averlo Mario Monti... Rispetto alla vicenda del Cavaliere, quello di Monti potrebbe essere un progetto politico "fusionista" più vasto e armonioso, basato su un programma da condividere».
In caso contrario, osserva Sechi, «il sistema politico italiano rimarrebbe ancora una volta ancorato alla figura di Berlusconi che – per assenza di competizione nel centrodestra – continuerebbe a influenzare lo scenario».

Di sicuro non è una mossa preparata in questi mesi di governo, durante i quali Monti si è inimicato proprio l'elettorato di centrodestra, basando la sua politica di risanamento su aumenti di tasse e subendo tutti i veti della sinistra sulle riforme e i tagli alla spesa. Il problema, quindi, è che il Monti aggregatore di un nuovo centrodestra dovrebbe anche mettere da parte la sua smisurata autostima per marcare una certa discontinuità nella politica fiscale rispetto alla sua prima esperienza di governo. Come suggerito da Panebianco, cioè indicando l'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese e attraverso quali tagli di spesa.

Temo però che Monti non farà questo passo, anche perché il personaggio crede di avere meriti extra-politici tali che non possono essere "sviliti" accettando il giudizio e/o mendicando il consenso degli elettori, e che il suo curriculum possa bastare per aprirgli le porte di qualsiasi incarico. Che decida di sponsorizzare un'operazione centrista in suo nome, o di condurre in queste settimane una campagna ambiguamente "parallela", preservandosi come "riserva della Repubblica", si prepara ad un ruolo di argine e allo stesso tempo di "legittimatore" post-voto - dalla sede istituzionale che si troverà ad occupare (Quirinale o Palazzo Chigi) - di una coalizione di centro-sinistra in cui l'azionista di maggioranza sarà il Pd di Bersani sostenuto da una stampella di centristi "montiani".

Tuesday, December 11, 2012

Per le riforme serve un mandato politico

«Ci dice qualcosa sulla situazione della politica italiana che ciò che i mercati sembrano temere di più è una fiammata di democrazia. Ma forse la vera lezione qui è che l'Italia - e il resto d'Europa - ha bisogno di una classe politica capace di generare consenso popolare per le riforme, piuttosto che cercare costantemente di imporle dall'alto».
Saggia riflessione quella del Wall Street Journal nell'edizione odierna. Lo slancio riformatore di un governo tecnico, anche il più autorevole, non è durevole, le sue riforme non irreversibili e comunque parziali e insufficienti. Il quotidiano però boccia l'attuale offerta politica: Bersani resta inaffidabile, nonostante la rassicurante intervista proprio al WSJ, perché troppo «dipendente» dall'estrema sinistra, e di Berlusconi si ricorda «il fallimento nel mantenere le promesse», nonostante il «chiaro mandato» per le riforme liberali, e che oggi, elettoralmente, secondo i sondaggi, il suo partito vale la metà di quello di Bersani.

«Qualcuno - conclude il WSJ - ha visto in Monti un'occasione per realizzare con mezzi tecnocratici ciò che il corso ordinario della politica italiana aveva mancato di realizzare». Ma una vasta riforma dell'economia, perché sia accettata in democrazia, deve avere un «mandato». «Monti non ne ha mai avuto uno e quindi è stato limitato in ciò che ha potuto fare. Adesso, grazie alla credibilità a pezzi di Berlusconi, la destra riformista è priva di un serio leader proprio nel momento in cui l'Italia ne ha più bisogno».

Anche l'altro autorevole quotidiano finanziario, il Financial Times, non mostra il minimo rimpianto per la stagione dei tecnici, anzi «il ritorno della politica a Roma è benvenuto». «La parentesi tecnocratica era necessaria per aiutare l'Italia a restaurare la sua credibilità, ma solo un governo eletto avrà la legittimazione per completare le riforme di cui l'Italia ha bisogno». Certo, «sfortunatamente» l'offerta politica sembra «inadeguata allo scopo». Per diversi motivi, che possiamo facilmente intuire, il quotidiano boccia Berlusconi, Grillo, ma anche Bersani. Vede invece uno «spazio politico» per Monti: «La sua presenza nella contesa elettorale darebbe agli elettori maggiore scelta e porterebbe la qualità necessaria nella politica italiana». Da "grand commis" è preoccupato di perdere il suo ruolo super-partes. «Ma in questo passaggio critico, i suoi istinti liberali potrebbero essere un'alternativa vincente al populismo di Berlusconi e un utile contrappeso al dubbio spirito riformista dei Democratici», conclude il Ft, dando l'impressione di protendere per un Monti alternativo a Berlusconi ma complementare, invece, a Bersani.

Anti-montiano, invece, fino al punto di concedere all'odiato Berlusconi qualche ragione, l'editoriale di Wolfganf Munchau, per il quale Monti è stato «una bolla» - un bluff, insomma, quante volte l'ho scritto su questo blog - buona finché politica e mercati ci credono, ma non si tarderà a scoprire che «nell'anno trascorso poco è davvero cambiato, tranne il fatto che l'economia è caduta in una profonda depressione».

I problemi dell'Italia si possono risolvere solo "politicamente" e «per quanto Berlusconi possa essere stato incapace e comico nel suo ultimo mandato, la sua diagnosi dei problemi dell'Italia è esatta», riconosce Munchau, coerente con la sua linea anti-austerità. Quindi suggerisce 1) di ribaltare l'operato di Monti (gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa); 2) di contrapporsi ad Angela Merkel, cosa che Monti non ha voluto, o è stato incapace di fare.

Curiosamente c'è una linea sottile che sembra unire certi autorevoli commentatori ed economisti, nostrani e non, il politico più screditato del continente (Berlusconi) e la sinistra più conservatrice: il rifiuto dell'austerity in qualsiasi forma si presenti, senza distinguere tra un rigore solo depressivo e una via virtuosa - possibile - al risanamento.

Monti, che si prepara a guardare da bordo campo la partita, pur senza rinunciare a "orientare" le scelte dei cittadini, dovrebbe riflettere su quanto scrivono WSJ e Ft circa la necessità di un mandato politico forte per le riforme economiche. Se pensa che basti tornare a Palazzo Chigi anche senza prima accettare il giudizio/raccogliere il consenso degli italiani, sostenuto da una coalizione post-voto tra progressisti e moderati, o addirittura di "garantire" per essa dal Colle, si sbaglia di grosso e sciupa un'occasione storica.

Di segno opposto il suggerimento di Angelo Panebianco: candidarsi per intercettare l'elettorato deluso da Berlusconi ma che non si rassegna ad affidarsi alla sinistra (o ad un'offerta di centro che odora di alleanza con la sinistra, aggiungo io). A quel punto la «misteriosa agenda Monti» dovrebbe diventare un programma, facendo cadere parecchi alibi: si potrebbe valutare la vera cifra riformatrice del professore e di chi oggi chiede voti in suo nome ma non su un programma concreto. Ma senza un'indicazione precisa, avverte Panebianco, sull'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese, e sul "come", marcando quindi una discontinuità rispetto alla politica fiscale di questi 12 mesi, difficilmente Monti potrebbe conquistare quell'elettorato.

Wednesday, September 12, 2012

Istruzione: il guaio è che spendiamo male

Anche quest'anno il rapporto Ocse Education at Glance (su dati 2009) suggerisce che il problema del sistema educativo italiano non è legato tanto alla quantità della spesa, quanto alla sua qualità ed efficienza, smentendo così i soliti luoghi comuni statalisti. La nostra spesa è troppo squilibrata, da un lato a favore di scuole primarie e secondarie inferiori, mentre soffrono licei e università, dall'altro sulla spesa corrente (salari) a danno degli investimenti (edilizia e strumenti). In Italia gli insegnanti vengono pagati molto meno dei loro colleghi ma sono uno ogni 11,3 alunni nella scuola primaria (media Ocse 15,8, Francia 18,7 e Germania 16,7) e uno ogni 12 nelle secondarie (media Ocse 13,8, Francia 12,3 e Germania 14,4). Le famiglie fanno la loro parte, semmai è quasi trascurabile il contributo di enti privati, che non sono incentivati ad investire nell'istruzione né da vantaggi fiscali né da una governance aperta e trasparente. E a fronte di una spesa che rispetto al Pil pro-capite è in linea con le medie Ocse e Ue, e con quella dei paesi europei più simili al nostro, sforniamo pochi laureati e i nostri studenti sono mediamente meno preparati. Ma scendiamo nel dettaglio.
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Friday, September 07, 2012

Ma il problema del moral hazard resta

Come prevedibile la stampa nazionale e la politica italiane (nonché i mercati) hanno celebrato enfaticamente il piano Draghi, mentre in Germania sono molto meno contenti. Le polemiche aizzate dalla Bundesbank e da alcune testate sono talmente chiassose e sopra le righe, a tal punto da ignorare gli aspetti del piano che obiettivamente vanno incontro alle preoccupazioni tedesche, da dare l'idea di una vera e propria sollevazione anti-Bce, che a ben vedere non c'è stata. Se il silenzio-assenso da parte del governo Merkel viene criticato dai falchi all'interno della stessa maggioranza, anche il mondo produttivo e la comunità degli economisti sono divisi tra falchi e colombe. Ma non siamo certo noi, con la nostra stampa che titola "IV Reich" o peggio, a poter dare lezioni di sobrietà alla stampa tedesca che parla alla pancia dei suoi lettori.

Draghi ha senz'altro mantenuto fede alle promesse di luglio («faremo tutto quanto necessario per difendere l'euro e, credetemi, sarà abbastanza»). I mercati festeggiano perché forse per la prima volta dall'inizio della crisi si è avuta la dimostrazione concreta della volontà delle istituzioni europee di difendere l'integrità dell'Eurozona. Il combinato disposto di ESM e OTM rappresenta un firewall che quanto meno promette di scongiurare in futuro il caos gestionale della crisi greca. Se altri Paesi entreranno in crisi, da oggi c'è una strada tracciata, una via al commissariamento - più rigido o soft a seconda dei casi, dipenderà dal negoziato politico - che allontana le prospettive di fallimenti traumatici e riduce i rischi di rottura dell'euro.

Ma se è fuori luogo strapparsi i capelli in Germania, lo è altrettanto brindare e darsi ai festeggiamenti in Italia e Spagna, fingendo di ignorare il nodo delle "condizionalità". L'attivazione del programma prevede comunque una forma di commissariamento, anche se soft. Perché il meccanismo messo in piedi da Draghi non regala nulla. Monti ha invocato più volte opportuni «riconoscimenti», in termini di interventi per "calmierare" i rendimenti, dei progressi compiuti nella politica di bilancio e nelle riforme. Ecco, lo scudo Draghi non è nulla di simile. Non è una ricompensa per i "compiti a casa" fatti, né formalmente un aiuto a fronte di condizioni, bensì uno strumento per depurare dallo spread i fattori di rischio estranei alla situazione macroeconomica del singolo Paese. Semplificando si potrebbe dire che lo scudo Draghi è concepito per far rientrare le paure di reversibilità dell'euro piuttosto che per "salvare" Spagna o Italia.

Limitare gli acquisti ai titoli a scadenza da 1 a 3 anni significa monetizzare il meno possibile il debito; evitare di quantificare ex ante i titoli da acquistare e di fissare tetti ai rendimenti vuol dire sì non dare riferimenti agli speculatori, ma anche porre un freno al moral hazard degli Stati. Così come la trasparenza sugli acquisti servirà a mantenere alta la pressione politica su di essi. La «piena sterilizzazione» svuota le critiche tedesche sul rischio inflazione, mentre lo status paritario della Bce nei confronti degli altri creditori rassicura i mercati ma rappresenta dei rischi, che in ultima analisi gravano sulle spalle dei contribuenti europei.

A voler essere onesti, l'accusa alla Bce di mettere i piedi nella politica fiscale non è del tutto infondata, ma lo era di più con il vecchio programma, l'SMP (infatti stoppato dagli euromembri più rigorosi), che con l'OMT. Non solo i tedeschi, anche il Wall Street Journal parla di «giant step into fiscal policy», che «costerà caro all'indipendenza politica della Bce». Diciamo che siamo al limite, a cavallo di un confine molto labile. Se è vera l'interpretazione secondo cui gli spread elevati incorporano distorsioni ormai non tutte dipendenti dalla situazione macroeconomica dei Paesi in difficoltà, allora si pone un problema di efficacia della politica monetaria, che va curato. Oggi sappiamo che in parte è così, ma un domani potremo esserne ugualmente certi?

Di buono c'è che a questo punto la politica non ha più alibi. Il nuovo firewall, se attivato, consentirà ai Paesi in difficoltà di guadagnare tempo per aggiustare il bilancio e approvare le riforme, ma gli acquisti di bond non potranno durare a lungo, perché sarebbe insostenibile politicamente. Ma c'è anche il rischio che, come in passato, il significato dello scudo venga equivocato dalle classi politiche e percepito come una rete di salvataggio pronta a "coprire" il loro moral hazard. La sola prospettiva degli acquisti "calmieranti" potrebbe far calare lo spread "gratuitamente", come in questi due giorni, e allentare quindi la pressione per le riforme e la disciplina di bilancio. In questo caso, i problemi di scarsa crescita e divario di competitività dei Paesi eurodeboli non verrebbero risolti e la rottura dell'euro sarebbe solo rinviata.

Dunque, tornare al business as usual perché tanto la Bce è pronta a soccorrerci sarebbe da pazzi e in caso di richiesta di intervento, che nei prossimi mesi, o settimane, il governo dovrà valutare attentamente, l'ipotesi Monti-bis diventerebbe più che probabile.

Lo scudo Draghi c'è. Ma la palla passa ai governi

Lo scudo anti-spread c'è, Draghi ha impugnato il "bazooka" che in tanti invocavano, ma il succo è che come previsto non si attiverà in automatico e "gratis", come ricompensa per i progressi compiuti nella politica di bilancio dagli stati in difficoltà, bensì su richiesta formale di questi ultimi e a «severe condizioni». I governi interessati dovranno prima chiedere l'intervento dei fondi Efsf/Esm (quest'ultimo non ancora operativo, in attesa della decisione della Corte costituzionale tedesca), che a sua volta è condizionato alla sottoscrizione di un memorandum di impegni secondo linee guida già previste.
(...)
La contrarietà del presidente della Bundesbank non implica anche quella del governo tedesco, la cui posizione coincide invece con il voto favorevole di un altro membro del direttivo, Joerg Asmussen. «La Bce agisce in modo indipendente, nel quadro del suo mandato», ha dichiarato la cancelliera Merkel apprese le decisioni, pur avvertendo che «tutte le misure necessarie per la stabilità monetaria, come quelle della Bce, non possono sostituire le azioni politiche». Un concetto più volte espresso dallo stesso governatore Draghi: la Bce non può sostituirsi ai governi. Sbagliate, quindi, tutte le ricostruzioni che leggerete e ascolterete sulla Germania «isolata», addirittura umiliata da Draghi. In realtà, il compromesso è il frutto della sintonia e dell'azione combinata di Mario e Angela. Senza la disponibilità alla mediazione di quest'ultima, Draghi avrebbe potuto ben poco.

Dalle modalità operative del programma Omts si deduce che in ultima analisi le «severe condizioni» di cui ha parlato Draghi verranno poste agli stati in sede di attivazione dei fondi Efsf/Esm, quindi in sede politica, dall'Eurogruppo. Se nei memorandum verranno previsti gli impegni già esistenti o condizioni aggiuntive, e se queste saranno severe o morbide, verrà deciso caso per caso. E ovviamente un paese che sta compiendo progressi nel consolidamento fiscale, che sta facendo i suoi "compiti a casa", è ragionevole ritenere che possa strappare condizioni non troppo gravose. Aggiustamento fiscale, riforme e controlli serrati, dunque uno schema non troppo diverso dai piani imposti a Grecia, Portogallo e Irlanda, solo più flessibile. Il nodo delle condizioni verrà sciolto dal negoziato politico, è questa la vera polizza di assicurazione dei tedeschi, e allo stesso tempo il piccolo margine di tolleranza concesso a Spagna e Italia.

Ed ecco perché ora la palla passa ai governi, in primis di Madrid e Roma. Per una duplice ragione. Primo, perché saranno loro a dover decidere se, e quando, chiedere l'intervento dei fondi Efsf/Esm, il solo modo per attivare anche gli acquisti "calmieranti" da parte della Bce; secondo, perché il "bazooka", la cui attivazione è comunque politicamente costosa, resta una toppa, un modo per guadagnare tempo, ma da solo non può risolvere tutti i problemi. Restano essenziali l'attuazione del fiscal compact e le riforme strutturali per migliorare la competitività e rilanciare la crescita.
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Saturday, August 04, 2012

Il "Lodo" Draghi mette in fuori gioco il Pds Bersani-Vendola

(...)
Bazooka sì, quindi, ma nessuna scappatoia per Spagna e Italia: dovranno chiedere gli aiuti e fare le riforme. Sarebbe impensabile, infatti, far digerire ai tedeschi l'acquisto di bond da parte della Bce senza allinearsi alla loro politica di stringenti condizionalità. Condizionando il proprio intervento alla richiesta di soccorso ai fondi salva-stati, quindi all'iniziativa dei leader politici dei paesi interessati, la Bce mantiene le mani libere: nessun acquisto sarà automatico o "dovuto". Un margine di incertezza che responsabilizza sia i mercati sia i politici, e che soprattutto preserva la funzione di stimolo, di pressione sui governi, esercitata dai mercati attraverso lo spread (nella cui efficacia Berlino crede fermamente).

Le condizioni che si vanno delineando per l'attivazione dello scudo anti-spread – richiesta formale e firma del memorandum – sembrano mettere in fuori gioco l'alleanza elettorale Pd-Sel, il nuovo Pds ("Polo della speranza"), a cui sta faticosamente lavorando Pierluigi Bersani. La "Carta d'intenti" del Pd (un'analisi approfondita è uscita su queste pagine due giorni fa), che getta le basi per l'intesa programmatica tra i due partiti, è un manifesto di discontinuità, nemmeno troppo sfumata, rispetto all'"agenda Monti". Certo, l'Europa è il «nostro posto», non c'è alcuna strizzata d'occhio alle pulsioni antieuro, ma Bersani è convinto di poter restare ancorato alla visione di un'Italia saldamente nell'euro, con un ruolo da protagonista nell'Ue, attuando politiche da sinistra novecentesca. Gli "intenti" del Pd, sommati a quelli ancor più esplicitamente anti-montiani enunciati da Vendola, delineano un'alleanza che esprime una politica di sinistra "identitaria" per fare il pieno di voti a sinistra, pronta eventualmente a contaminarsi con le istanze montiane dell'Udc dopo il voto, se necessario per formare una maggioranza parlamentare. Ma in questo modo rischiando una riedizione dei conflitti interni all'Unione prodiana.

Un'alleanza siffatta sarebbe "unfit" a rispettare gli impegni eventualmente assunti dall'Italia con Ue e Bce a seguito della richiesta di attivazione dello scudo, che potrebbe essere avanzata già a settembre. Ecco perché il "lodo" Draghi (bazooka della Bce sì, ma a condizioni "tedesche") mette in fuori gioco la coppia Bersani-Vendola e aumenta invece le chance di un Monti-bis dopo il voto, l'unica prospettiva, al momento, che renderebbe credibile il rispetto degli impegni da parte del nostro paese.

Se dopo le parole di Draghi possiamo essere ragionevolmente ottimisti sullo scudo europeo, ora serve immediatamente uno scudo anti-spread italiano: un programma credibile e concreto per l'abbattimento, in tempi ragionevoli, dello stock di debito pubblico e una riduzione della spesa pubblica tale da permettere di ridurre gradualmente ma sensibilmente la pressione fiscale. Una proposta di abbattimento del debito è giunta nei giorni scorsi dal Pdl e finirà sul tavolo di Monti: un piano da 400 miliardi, il quadruplo di quello di Grilli (15-20 miliardi l'anno per 5 anni), per riportare il debito sotto il 100%.

Ma c'è uno strano spread tra Pdl e Pd: il Pdl soffre di scarsa credibilità, paradossalmente il Pd di troppa credibilità. Nel senso che il Pdl, pur avendo di recente formulato una proposta articolata e interessante per l'abbattimento del debito e la riduzione delle tasse, ha dimostrato al governo di non saper mantenere le proprie promesse e, anzi, di fare l'esatto contrario. Il Pd, al contrario, quando minaccia la patrimoniale, quando promette investimenti e dirigismo (quindi più spesa), quando parla di "redistribuzione" e di gestione pubblica dei "beni comuni", può essere creduto sulla parola, ma se lasciato fare ci porterebbe dritti in Grecia.
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Friday, August 03, 2012

Il bazooka c'è, ma non gratis: su richiesta e condizionato

Anche su L'Opinione

Nessun automatismo nell'attivazione dello scudo anti-spread, che dipende, invece, dalla richiesta degli stati interessati con tutte le condizionalità previste. E' questo il nodo politico: lo scudo come meccanismo di stabilità che scatta in modo autonomo, o come forma di "salvataggio", quindi su richiesta e condizionato? Le aspettative innescate dal discorso di Draghi del 26 luglio a Londra - che forse perché inaspettato, o perché così volitivo («la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro e, credetemi, sarà abbastanza»), aveva rassicurato i mercati e allentato le tensioni sui titoli di stato - si sono infrante ieri sulle sue parole al termine del direttorio della Bce, provocando il nuovo tonfo in Borsa (-4,6%) e il rialzo dello spread (511). «Nessuna retromarcia», assicura Draghi. Solo che i mercati avevano interpretato le sue parole di una settimana fa come il segnale di un prossimo intervento della Bce sui mercati obbligazionari di Spagna e Italia, ma in realtà, fa notare, non c’era alcun riferimento esplicito ad una ripresa degli acquisti di bond.

Consapevole che gli spread sono «eccezionalmente alti», a livelli «inaccettabili», a causa delle paure di reversibilità dell'euro, Draghi ha ribadito che la moneta unica è «irreversibile» e che l'intenzione di «fare di tutto» per preservarla c'è ed è «unanime». Questo solenne impegno dovrà bastare a dissuadere gli speculatori nel mese di agosto, perché la «decisione finale» sugli interventi della Bce sarà presa solo «nelle prossime settimane» (a settembre). L'accordo con i tedeschi sulle modalità ancora non c'è. Draghi ha ripetuto che la Bce «nell'ambito del suo mandato per mantenere la stabilità dei prezzi nel medio termine e in osservanza della sua indipendenza nel determinare la politica monetaria, può eseguire operazioni di mercato di una dimensione adeguata a raggiungere il suo obiettivo». Ma sugli acquisti di bond, ha avvertito, restano le note «riserve» della Bundesbank, forse un vero e proprio veto. Quindi i negoziati continuano. Al momento, la situazione è che prima deve arrivare la richiesta formale di assistenza da parte di Spagna e Italia, e solo dopo la Bce si affiancherebbe al fondo salva-Stati (Efsf o Esm) con gli acquisti di bond sul mercato secondario, i quali sarebbero concentrati sui titoli a breve scadenza e non sui decennali. Da qui la raccomandazione ai governi di «tenersi pronti» a inoltrare la richiesta.

Come riferito dalla "Sueddeutsche Zeitung", Draghi pensa ad una «doppia strategia», «un'azione concertata» tra Bce e fondo salva-stati. Quest'ultimo acquisterebbe i titoli direttamente dai governi, alle aste, mentre la Bce sul mercato secondario. Dalle parole di Monti pare di capire che il nostro governo spera nella seconda opzione, senza passare per una richiesta esplicita, ma il premier, alla vigilia del vertice del 29 giugno, e da allora in altre occasioni, non ha nemmeno escluso la richiesta d'aiuto. L'Italia, ha detto ieri da Madrid, «non ha bisogno di alcun salvataggio», ha i conti a posto, e al momento «non c'è alcuna intenzione» di chiedere l'attivazione dello scudo, ma «ci riserviamo di valutare azioni di accompagnamento» per far calare gli spread.

Ricapitolando: Monti distingue tra salvataggio, di cui l'Italia non ha bisogno, e strumento per raffreddare lo spread, per la stabilità dell'Eurozona. Per i tedeschi invece è la stessa cosa, da attivare previa richiesta formale di aiuto e firma del memorandum d'intesa, che porta al monitoraggio Commissione Ue-Bce. La posizione di Monti - compiti a casa da una parte, «soluzione europea» per calmierare lo spread dall'altra, per dare tempo alle riforme di produrre i loro effetti - sembra ragionevole. Il problema è che non abbiamo ancora compreso che i soldi della Bce non sono la soluzione alla crisi, ma solo uno strumento per guadagnare tempo. Strumento che non può durare all'infinito. Fino ad oggi, purtroppo, ad ogni calo dello spread si è puntualmente registrato un rallentamento, o annacquamento, delle riforme, a conferma dei pregiudizi tedeschi.