Cosa c'è dietro le recenti mosse di
Riad, dalla rottura con il Qatar all'ascesa del nuovo principe
ereditario Mohammed bin Salman
L'Arabia Saudita è storicamente uno
degli attori più cauti nel teatro mediorientale e che più ha
resistito alle sirene della modernità dalla sua fondazione nel 1932.
Da qualche tempo, tuttavia, sembra aver sostituito la sua proverbiale
cautela, quasi immobilismo, con un attivismo senza precedenti e non
privo di rischi, da cui trapela un senso di urgenza. In tre
settimane, i sauditi hanno concertato con altre nazioni arabe
l'isolamento del vicino Qatar, posto le basi per nuovi rapporti con
Israele, strigliato il Pakistan, alzato il livello del loro confronto
con l'Iran e portato avanti una guerra verbale con la Turchia di
Erdogan. Nel frattempo, continuano a bombardare lo Yemen a sostegno
dei loro alleati locali nella guerra civile che dilania il Paese.
Dopo l'ondata delle cosiddette primavere arabe nel 2011 Riad ha
elevato il proprio grado di allarme per la minaccia sovversiva
dell'islam politico radicale. La storica ambivalenza saudita nei
confronti dell'estremismo e del terrorismo islamista, sulla base
delle affinità con il wahabismo, sembra lasciare il posto alla
ragion di Stato, dal momento che i piani di califfato di
organizzazioni quali Al Qaeda e Isis, e l'ideologia politica dei
Fratelli musulmani, che puntano a rovesciare i regimi arabi,
rappresentano una minaccia esistenziale per le monarchie del Golfo.
Il recente attivismo saudita non è
rivolto solo all'estero ma anche all'interno del Regno. Un altro
segnale che l'Arabia Saudita si sta avviando verso un'epoca di grandi
cambiamenti è la recente decisione di Re Salman di cambiare la linea
di successione in favore del figlio 31enne Mohammed bin Salman,
ministro della difesa, al posto del nipote Mohammed bin Nayef,
potente ministro dell'interno che per un decennio ha condotto una
lotta spietata contro il terrorismo e il dissenso politico, ma
indebolito dal tentativo di assassinio subito nel 2009 per mano di al
Qaeda. Non solo un grande salto generazionale, soprattutto una decisa
rottura con la tradizione, che vuole la linea di successione saudita
passare non di padre in figlio ma da un fratello all'altro, di solito
non meno che settantenni, dei numerosi figli del fondatore del Regno,
Abdulaziz Ibn Saud. E il Concilio Reale, in cui sono rappresentate
tutte le discendenze, avrebbe approvato il passaggio a grande
maggioranza, 31 a 3.
Ma cosa c'è dietro questo improvviso
attivismo saudita? La paura, secondo uno dei maggiori studiosi di
politica estera americani, Walter Russell Mead. Per anni proprio la
paura ha reso i sauditi cauti, anche perché fiduciosi nella
protezione americana. Ma con Obama è iniziata a Riad "l'età
dell'insicurezza". L'apertura della precedente amministrazione
Usa all'Iran – e la sua intenzione di ignorare l'approccio
aggressivo di Teheran nella regione pur di non compromettere
l'accordo sul nucleare – ha lasciato nei sauditi la sensazione del
tradimento e dell'isolamento. Con l'egemonia iraniana che si
espandeva in Iraq, Siria e Libano, i sauditi hanno concluso che la
loro sicurezza non era più considerata a Washington come parte
dell'interesse nazionale americano. Con la sua svolta
l'amministrazione Trump sta cercando di rassicurare i sauditi che la
politica filo-iraniana è finita, ma il senso di insicurezza è ormai
profondo a Riad, perché la politica estera americana è diventata
meno prevedibile e più incostante. In una parola, inaffidabile, per
chi ha fondato la sua strategia di sicurezza nazionale sulla
stabilità dell'alleanza con gli Stati Uniti.
Poi c'è il tema del petrolio. Con le
sue enormi riserve, l'Arabia Saudita ha sempre usato la sua posizione
di forza per mantenere il più possibile la stabilità dei prezzi
rispetto ai tentativi di produttori più aggressivi che avevano
interesse ad alzarli. Un ruolo particolarmente apprezzato a
Washington. L'interesse saudita era quello di impegnare i suoi
clienti nel lungo termine ed evitare che gli investimenti prendessero
la via di fonti energetiche alternative. Ma la "shale
revolution" sta cambiando gli equilibri e Washington e Riad non
hanno più interessi così allineati nel mercato petrolifero. Gli
estrattori americani, che possono rapidamente aumentare o diminuire
la produzione al variare dei prezzi, rappresentano una sfida al ruolo
dell'Arabia Saudita come produttore leader. Inoltre, i progressi
nell'efficienza energetica e le fonti alternative stanno spostando la
curva di domanda di lungo termine degli idrocarburi.
La combinazione tra petrolio meno
redditizio e pressione demografica mette a rischio il fragile
contratto sociale del Regno basato sui proventi petroliferi: Riad
teme che l'oro nero non basti più a sostenere il benessere dei suoi
sempre più numerosi (e giovani) sudditi. Insomma, temendo di non
poter più contare solo sul petrolio per la propria ricchezza e
fidarsi ciecamente di Washington per la propria sicurezza, i sauditi
si stanno assumendo dei rischi. L'età e il profilo riformatore del
nuovo erede al trono, Mohammed bin Salman, sono il segno
dell'accelerazione impressa alla vita politica e sociale del Regno.
Il giovane Salman crede che le risposte a queste sfide siano una
politica estera assertiva, nel contrapporre all'espansionismo
iraniano un fronte sunnita compatto e determinato, e un piano di
riforme interne per emanciparsi dalla dipendenza dal petrolio. Come
ministro della difesa è stato l'architetto della campagna militare
nello Yemen contro i ribelli Houthi sostenuti dall'Iran e uno dei
sostenitori della linea dura nei confronti del Qatar.
Il principe ereditario non è stato
istruito all'estero, è popolare tra i giovani sauditi che chiedono
più opportunità economiche e meno restrizioni sociali. Il giovane
principe Salman è l'artefice di "Vision 2030", il più
ampio e ambizioso programma di riforme mai proposto per diversificare
l'economia saudita ed espandere il ruolo dell'impresa privata. Al
centro del piano l'aumento della quota privata dell'economia dal 40
al 65% entro il 2030 e la riduzione della dipendenza del governo dai
proventi del petrolio, ora al 70%. Tra le misure, la parziale
privatizzazione della compagnia petrolifera statale Aramco e una
maggiore partecipazione delle donne alla forza-lavoro (il diritto
alla guida sarebbe solo l'inizio). In un paese dove il 45% della
popolazione, di 32 milioni, ha meno di 25 anni sarebbe una spinta
decisiva alla crescita economica. Ma il nuovo erede al trono è anche
un convinto sostenitore di cambiamenti culturali: concerti dal vivo
vengono autorizzati e cinema aperti per la prima volta nel Regno. Il
che ha già innescato scontri con il potente establishment religioso
wahabita. Per gli standard sauditi un programma rivoluzionario, che
implica anche un certo grado di separazione tra politica e religione.
Tutto questo, osserva WRM, indica che
l'attuale turbolenza nel Golfo sia destinata a durare. Per riportare
la stabilità l'amministrazione Trump "dovrebbe pensare ai
problemi economici e di sicurezza dell'Arabia Saudita nel loro
complesso, e in modo creativo a come questa alleanza, un pilastro
della stabilità del Medio Oriente dalla Seconda Guerra Mondiale,
possa essere rinnovata". Un'Arabia Saudita moderata e prospera
rafforzerebbe la stabilità nel mondo arabo e sarebbe quindi
nell'interesse nazionale degli Stati Uniti.
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