... e il solito assist alle dittature
I Paesi arabi che fremono per un attacco militare contro l'Iran per fermare il programma nucleare; il governo cinese dietro gli attacchi cibernetici; la corruzione in Afghanistan e l'ansia per il controllo delle testate nucleari pakistane; la Russia «virtualmente uno Stato della mafia» o «un'oligarchia nelle mani dei servizi di sicurezza»; le offerte in denaro per convincere alcuni Paesi ad ospitare i detenuti di Guantanamo; la rinuncia allo scudo antimissile servita a ottenere la collaborazione russa nel dossier iraniano; i missili passati dalla Corea del Nord all'Iran; le armi dalla Siria ad Hezbollah e i sauditi che finanziano al Qaeda. Questi i non-segreti, anzi le cose arcinote che emergono dai
cables trafugati da
Wikileaks e passati alle principali testate planetarie (snobbati
Corriere e
Repubblica!).
Anche sui leader una serie di non-notizie e di sentito dire. E allora ecco le bizzarrie di Gheddafi, ecco che Ahmadinejad, Chavez e Mugabe sono definiti «pazzi», la salute di Khamenei è compromessa, Assad e Netanyahu non mantengono le promesse, Erdogan è influenzato da collaboratori e media islamisti, Sarkozy è permaloso e Berlusconi festaiolo. Fonti di terz'ordine, diplomatici e funzionari la cui principale attività notoriamente è di leggere i giornali (e in Italia c'è di che leggere su Berlusconi, non c'è dubbio), giudizi poco qualificati, parziali, incompleti, non definitivi, che non rappresentano le valutazioni, e ancor meno le linee politiche di Washington, ma che vengono elevati di rango, presentati come chissà quali "segreti", con il rischio concreto di gettare nel caos i rapporti tra alleati e non.
Nulla che già non sapessimo, o non avessimo comunque intuito usando la logica, ma i media tutti a fare il gioco di quel furbetto di Assange. Ma se nei contenuti il danno è piuttosto limitato, e l'evento di
Wikileaks da questo punto di vista somiglia a un flop, seria è invece la turbativa politico-diplomatica, che potrebbe vanificare gli sforzi per la stabilità in varie aree del mondo, e quindi minacciare la sicurezza; è di per sé dannosa e destabilizzante la sensazione di vulnerabilità degli Stati Uniti rispetto ai loro interlocutori e avversari autocratici; ma soprattutto è grave culturalmente il malinteso su cui si basa l'intera operazione
Wikileaks, ovvero uno splendido esempio di come manipolare i principi della democrazia contro di essa, che culmina con l'accusa lanciata oggi da Assange all'amministrazione Obama di essere un «regime che non crede nella libertà di stampa».
Questa non è libertà di stampa, è puro e semplice spionaggio, da cui occorre difendersi, perché mette a repentaglio la nostra sicurezza. Un conto è denunciare una malefatta governativa come lo scandalo
Watergate, altra cosa è violare la necessaria riservatezza in cui opera normalmente (e a cui ha diritto, come un individuo) qualsiasi istituzione - la diplomazia, ma anche un'azienda o una procura durante un'indagine - con il rischio (o l'intenzione?) di sabotarne l'azione. Nessuna istituzione - che sia uno Stato o una normalissima famiglia - può sopravvivere alla trasparenza totale (o, piuttosto, al suo mito) senza che il sospetto e le incomprensioni ne compromettano irremediabilmente il corretto funzionamento.
Se l'11 settembre ha dimostrato che nel mondo di oggi non solo gli Stati, ma anche organizzazioni non statuali hanno capacità distruttive di massa, così
Wikileaks dimostra che lo spionaggio non è più prerogativa esclusiva degli Stati. Invece di celebrare la libertà di stampa, bisognerebbe chiedersi a chi giova questa immensa operazione di spionaggio, come mai coinvolge solo gli Stati Uniti, mentre non si pretende la medesima "apertura" da regimi come Cina, Russia e Iran, solo per citarne alcuni.
Senza girarci troppo intorno, non credo che Assange sia al soldo di qualche potente dittatura, ma certo il suo è un regalo enorme alle dittature, rivela un'idea distorta - complottistica e infantile al tempo stesso - del potere, che purtroppo sembra avere sempre più presa sui media e sull'opinione pubblica, e in nome della quale rischiamo di disarmare le nostre democrazie; nonché la solita preoccupante visione che vuole gli Stati Uniti, e le democrazie occidentali, sempre su una sorta di banco degli imputati planetario. Spinti dall'irresistibile fascino dell'ignoto che circonda il 'Potere', viene naturale andare a cercare nei meandri degli Stati - solo di quelli democratici ovviamente, approfittando delle libertà che solo le democrazie garantiscono, persino contro loro stesse - la prova delle magagne, salvo poi mostrare al mondo la banalità di un potere nient'affatto inaccessibile, e nient'affatto intento ad intessere chissà quali inconfessabili piani. Insomma, è tutto qui? Dov'è questa diabolica America?
Per quanto riguarda l'Italia, dai file di
Wikileaks emergono la trasparenza dell'Eni sui suoi affari in Iran e i rapporti tra il nostro Paese e la Russia, e tra Berlusconi e Putin, che non sono certo un mistero. A prescindere dal giudizio di merito, da sempre, a dispetto di analisi e retroscena che si leggono sui giornali, ritengo che non rappresentino un serio motivo di tensione tra Roma e Washington. Ovvio che gli americani siano sensibili su questo punto e cerchino di "informarsi" su cosa combinano Berlusconi e Putin, o Berlusconi e Gheddafi, ma non è un tema che mette a rischio le buone relazioni tra i due Paesi (tutt'al più Berlusconi potrebbe essere chiamato a riferire alle commissioni affari esteri, non certo al Copasir).
Gli interessi italiani sono alla luce del sole e piuttosto, come ricorda oggi
Edward Luttvak al
Corriere della Sera, sono stati ben altri, e ben più gravi in passato i motivi di disaccordo e sospetto degli Usa nei nostri confronti: «In Medio Oriente e in Libia con Andreotti, con Craxi in Somalia e nella vicenda dell'Achille Lauro, con il rilascio clandestino del terrorista Abu Abbas. E poi, ancora, con Dini...», o in piena Guerra Fredda con gli investimenti della
Fiat in Urss. «Berlusconi parla chiaro: l'alleanza con gli Stati Uniti è strategica per lui; Libia e Russia solo tattica, in difesa degli interessi nazionali, primo tra tutti l'approvvigionamento di gas con l'Eni». Gli alleati «non sono schiavi», osserva Luttvak, capita che per certi interessi nazionali si abbiano pareri diversi. «Gli Stati Uniti - ribadisce a
Cnr Media - hanno i loro interessi, l'Italia i suoi, è normale. Possiamo non esserne contenti, e infatti non lo siamo, ma non ci sentiamo traditi. Perché sono cose che l'Italia fa apertamente. Una volta, invece, c'erano tanti sorrisi e poi di nascosto gli italiani facevano i furbi. Andreotti faceva il furbo con gli arabi, Craxi tradiva. Oggi questo non succede».
E comunque sono stati gli Usa e il Regno Unito a sdoganare Gheddafi; è stato proprio Obama a voler inaugurare con la Russia una nuova fase dopo le tensioni durante il secondo mandato di Bush; e comunque nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, Berlusconi è stato al fianco dell'America quando sarebbe stato più comodo e politicamente corretto accodarsi al fronte anti-guerra Francia-Germania-Russia; e comunque in Afghanistan siamo tra i pochi alleati ad accrescere il nostro sforzo; e comunque in
South Stream entreranno anche i francesi, in
North Stream ci sono già tedeschi e francesi, mentre il progetto concorrente, il
Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue è di più complessa realizzazione.