«Gli occhi amorevoli di Dio si rivolgono all'essere umano, considerato nel suo inizio pieno e completo mentre è ancora informe nell'utero materno». Pare, ci fidiamo della sapienza di Papa Ratzinger, che il vocabolo ebraico usato sia da intendere come rimando all'«embrione», descritto come «una piccola realtà ovale, arrotolata, ma sulla quale si pone già lo sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio».
Nella rubrica "Dizionario", in prima pagina su il Riformista di ieri, Polito (credo si tratti di lui) commentava: «Quanti non credenti potrebbero condividere le parole pronunciate ieri da papa Benedetto XVI? Molti, noi di certo». Chi non crede non vedrà lo «sguardo amorevole» di Dio, ma senz'altro almeno «il miracolo della vita e dell'amore che si compie, fin dal concepimento, nel corpo della madre».
Tuttavia pochi mezzi di stampa hanno riportato il resto del discorso del Pontefice, che citando, speriamo fedelmente e rispettandone il senso del pensiero, Gregorio Magno (2, 3, 12-13, Opere di Gregorio Magno, III/2, Roma 1993, pp. 79.81), aggiunge: «È vero, sono imperfetti e piccoli, tuttavia per quanto riescono a comprendere, amano Dio e il prossimo e non trascurano di compiere il bene che possono. Anche se non arrivano ancora ai doni spirituali, tanto da aprire l'anima all'azione perfetta e all'ardente contemplazione, tuttavia non si tirano indietro dall'amore di Dio e del prossimo, nella misura in cui sono in grado di capirlo. Per cui avviene che anch'essi contribuiscono, pur collocati in posto meno importante, all'edificazione della Chiesa, poiché, sebbene inferiori per dottrina, profezia, grazia dei miracoli e completo disprezzo del mondo, tuttavia poggiano sul fondamento del timore e dell'amore, nel quale trovano la loro solidità».
A preoccuparci non è l'«elogio biblico dell'essere umano dal primo momento della sua esistenza», né il "laico" vedere nel concepimento «il miracolo della vita e dell'amore», ma il passo successivo: vedere nell'embrione (di embrione si parla e non di feto al sesto mese) una forma di vita tanto autonoma da essere capace, per quanto riesce a comprendere (ma quindi un poco deve comprendere), di fare consapevolmente del bene. Ne consegue che se l'embrione sa anche minimamente discernere nelle proprie azioni (l'embrione agisce) tra bene e male è una persona soggetto di diritti al pari o in modo superiore alla madre e non una forma di vita oggetto di doveri.
Attenzione che non si finisca per anteporre a tutto e a tutti, agli individui e al loro diritto all'autodeterminazione, la sacralità dell'«embrione» antropomorfizzato.
Friday, December 30, 2005
Il neo che pochi ricordano nel curriculum di Draghi
Sarà pure una scelta di alto profilo, ma nel curriculum prestigioso di Mario Draghi, nuovo governatore della Banca d'Italia, c'è un bel neo da 456 milioni di euro. E' la somma che nel '97 Telecom Italia, allora azienda di Stato in mano al Tesoro, versò direttamente nei conti bancari di Slobodan Milosevic, come accertato dalla Procura di Torino. Draghi in qualità di direttore generale del Tesoro (dal 1991 al 2001), braccio destro dell'allora ministro Ciampi, si fece passare sotto il naso quel denaro. Interrogato dalla procura come persona informata dei fatti, ammise di essersi accorto solo nell'ottobre 1997, ben quattro mesi dopo la sua conclusione (giugno 1997), dell'affaire Telekom Serbia, che i radicali Piero Milio e Giulio Manfredi (autore del libro "Telekom Serbia – Presidente Ciampi, nulla da dichiarare?") denunciarono subito come vergognoso finanziamento al regime nazicomunista serbo.
Fu odioso e scellerato l'operato della Commissione parlamentare d'inchiesta Telekom Serbia, che alla ricerca di fantomatiche responsabilità penali (poi del tutto escluse dalla Procura di Torino) per incastrare i leader del centrosinistra, finì per trascurare quelle, più gravi e certe, politiche. No, ciò che importa è ricostruire le responsabilità politiche di un'operazione - catastrofica sotto il profilo finanziario e della politica estera - che permise al dittatore serbo di mantenersi al potere. Draghi, per errore o negligenza, porta con sé, nel suo nuovo incarico, parte di quelle responsabilità.
Fu odioso e scellerato l'operato della Commissione parlamentare d'inchiesta Telekom Serbia, che alla ricerca di fantomatiche responsabilità penali (poi del tutto escluse dalla Procura di Torino) per incastrare i leader del centrosinistra, finì per trascurare quelle, più gravi e certe, politiche. No, ciò che importa è ricostruire le responsabilità politiche di un'operazione - catastrofica sotto il profilo finanziario e della politica estera - che permise al dittatore serbo di mantenersi al potere. Draghi, per errore o negligenza, porta con sé, nel suo nuovo incarico, parte di quelle responsabilità.
Thursday, December 29, 2005
Non "esportare", ma rimuovere gli ostacoli...
«Rendere capaci i popoli del Medio Oriente di conseguire o recuperare la loro libertà, alla quale hanno diritto non meno che qualsiasi altro [popolo] nel mondo... Il nostro lavoro non è creare democrazia. Il nostro lavoro è rimuovere gli ostacoli e lasciare che la creino per loro conto».
Dove ho già sentito prima parole come queste? Non si tratta di "esportare" la democrazia, ma di rimuovere gli ostacoli che si frappongono... eccetera eccetera. Direi ascoltando qualche decina di conversazioni settimanali di Marco Pannella a Radio Radicale.
Eppure queste parole sono state scelte dall'autorevole storico del Medio Oriente e dell'islam Bernard Lewis per sintetizzare il senso della sua «strategia della liberazione». Lewis è molto ascoltato alla Casa Bianca. Si mette a ridere a sentir parlare di "Dottrina Lewis", ma dopo l'11 settembre 2001 la sua teoria e le idee di politica estera dei neconservatori sono state prese in prestito dall'amministrazione Bush, che le ha trasformate in una vincente strategia politica di lungo termine per battere il terrorismo e cambiare il volto del Medio Oriente.
Lewis ha criticato l'amministrazione per non essere riuscita a mantenere il controllo sul territorio in Iraq subito dopo la veloce vittoria militare contro l'esercito di Saddam, ma ha condiviso la scelta di instaurare rapidamente un governo ad interim di iracheni invece di mettere su una reggenza in perfetto stile colonialista ottocentesco. Infatti, se non si tratta di "esportare" alcunché, ma di rimuovere gli ostacoli, che bisogno c'era di ritardare a restituire agli iracheni il loro paese? E come giustificare il ricorso ad amministrazioni "badanti" – americane o internazionali - o ad improbabili governi dell'Onu?
Per coerenza se l'obiettivo è il rimuovere anziché l'"esportare", ma soprattutto alla luce dei fatti che sono seguiti alla caduta di Saddam, un governo dell'Onu come immaginato per esempio nella proposta di Pannella "Iraq libero" non avrebbe retto un solo istante sotto i colpi della guerra terroristica e senza la legittimazione del voto degli iracheni. Non sarebbe stato un buon governo della situazione.
Dove ho già sentito prima parole come queste? Non si tratta di "esportare" la democrazia, ma di rimuovere gli ostacoli che si frappongono... eccetera eccetera. Direi ascoltando qualche decina di conversazioni settimanali di Marco Pannella a Radio Radicale.
Eppure queste parole sono state scelte dall'autorevole storico del Medio Oriente e dell'islam Bernard Lewis per sintetizzare il senso della sua «strategia della liberazione». Lewis è molto ascoltato alla Casa Bianca. Si mette a ridere a sentir parlare di "Dottrina Lewis", ma dopo l'11 settembre 2001 la sua teoria e le idee di politica estera dei neconservatori sono state prese in prestito dall'amministrazione Bush, che le ha trasformate in una vincente strategia politica di lungo termine per battere il terrorismo e cambiare il volto del Medio Oriente.
Lewis ha criticato l'amministrazione per non essere riuscita a mantenere il controllo sul territorio in Iraq subito dopo la veloce vittoria militare contro l'esercito di Saddam, ma ha condiviso la scelta di instaurare rapidamente un governo ad interim di iracheni invece di mettere su una reggenza in perfetto stile colonialista ottocentesco. Infatti, se non si tratta di "esportare" alcunché, ma di rimuovere gli ostacoli, che bisogno c'era di ritardare a restituire agli iracheni il loro paese? E come giustificare il ricorso ad amministrazioni "badanti" – americane o internazionali - o ad improbabili governi dell'Onu?
Per coerenza se l'obiettivo è il rimuovere anziché l'"esportare", ma soprattutto alla luce dei fatti che sono seguiti alla caduta di Saddam, un governo dell'Onu come immaginato per esempio nella proposta di Pannella "Iraq libero" non avrebbe retto un solo istante sotto i colpi della guerra terroristica e senza la legittimazione del voto degli iracheni. Non sarebbe stato un buon governo della situazione.
Assolutisti, relativisti, deterministi
Parlando della «pace democratica» sul Washington Post, Condoleezza Rice ha definito gli scettici sulla compatibilità di certe culture con la democrazia non relativisti, ma «deterministi culturali». Una scelta linguistica non priva di implicazioni nel nostro dibattito sulla «dittatura del relativismo». Relativisti sono coloro i quali assumono i valori (morali, culturali o scientifici) come validi anche se "solo" relativamente, mai assoluti né definitivi, sempre falsificabili. Posizione ben diversa da quella degli scettici a oltranza, che abbandonandosi all'impossibilità teorica di attribuire valore, ricadono non tanto nella definizione di relativisti, quanto in quella più appropriata di deterministi, poiché a una visione descrittiva e determinista della realtà sono costretti dal loro stesso scetticismo. Il caso esemplare è proprio di coloro che rifiutano qualsiasi impegno per la promozione della democrazia ritenendola incompatibile ora con i valori dell'islam, ora con quelli asiatici, ora con la cultura latina, ora con il dispotismo slavo, ora con il tribalismo africano.
Fa comodo a chi si propone di propagandare la necessità di assoluti colpire i relativisti confondendoli con quegli scettici a oltranza, i deterministi. A Teheran come a Roma vengono dipinti come esseri senza valori e indicati come responsabili della decadenza morale dell'occidente.
Fa comodo a chi si propone di propagandare la necessità di assoluti colpire i relativisti confondendoli con quegli scettici a oltranza, i deterministi. A Teheran come a Roma vengono dipinti come esseri senza valori e indicati come responsabili della decadenza morale dell'occidente.
Per Ayman Nour la beffa dopo il danno
Oltre al danno, la beffa per Ayman Nour, leader del partito liberaldemocratico egiziano Al Ghad. Vittima delle elezioni-farsa orchestrate da Mubarak tra violenze e intimidazioni di cui avevamo già parlato, proprio lui è stato condannato a cinque anni per brogli elettorali. Senza limiti l'arroganza del regime di Mubarak, che accusa i suoi oppositori laici e democratici delle sue stesse nefandezze. Dove la vede Magdi Allam la democrazia che consegna il potere agli islamisti? Qui il potere agli islamisti prima o poi lo consegna direttamente Mubarak stesso se continua a soffocare ogni alternativa liberale e realmente democratica.
Scuola, lui la vuole pubblica
Ieri su L'opinione «Scuola, Boselli tradisce Blair», ma niente di nuovo per i miei più attenti lettori.
La vorremmo di qualità, mentre Enrico Boselli ci fa sapere (Avvenimenti, 16.12.2005) che la vuole innanzitutto pubblica, intendendo per "pubblica" in realtà "statale". Il presidente dello Sdi ha l'ardire di cominciare parafrasando – lui sostiene – Tony Blair e il suo motto "Education, education, education". Più che a parafrasarlo riesce a tradirlo trasformandolo in "Scuola pubblica, scuola pubblica, scuola pubblica", che è tutt'altra cosa. E tradire Blair, per una forza politica come la Rosa nel pugno, che si richiama a Blair, Fortuna e Zapatero, non è un buon inizio.
Erano tutti troppo entusiasti per ciò che si stava costruendo al Congresso di Radicali italiani lo scorso novembre per rimarcare lo scivolone già allora, ma ora è possibile fermarsi a ragionare. Nella sua riforma scolastica, durata un decennio e non ancora completata, Blair si è guardato bene dal mettersi nelle mani della scuola statale concentrando su di essa tutti i finanziamenti.
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La vorremmo di qualità, mentre Enrico Boselli ci fa sapere (Avvenimenti, 16.12.2005) che la vuole innanzitutto pubblica, intendendo per "pubblica" in realtà "statale". Il presidente dello Sdi ha l'ardire di cominciare parafrasando – lui sostiene – Tony Blair e il suo motto "Education, education, education". Più che a parafrasarlo riesce a tradirlo trasformandolo in "Scuola pubblica, scuola pubblica, scuola pubblica", che è tutt'altra cosa. E tradire Blair, per una forza politica come la Rosa nel pugno, che si richiama a Blair, Fortuna e Zapatero, non è un buon inizio.
Erano tutti troppo entusiasti per ciò che si stava costruendo al Congresso di Radicali italiani lo scorso novembre per rimarcare lo scivolone già allora, ma ora è possibile fermarsi a ragionare. Nella sua riforma scolastica, durata un decennio e non ancora completata, Blair si è guardato bene dal mettersi nelle mani della scuola statale concentrando su di essa tutti i finanziamenti.
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Wednesday, December 28, 2005
Un primo bilancio tra buonismi e pietismi
L'obiettivo, come sempre, un atto di buon governo. Pannella e i radicali hanno fatto il possibile, le hanno tentate tutte. Ad oggi, se volessimo tracciare un primo bilancio delle iniziative sull'amnistia, non potremmo nasconderci che alla marcia c'erano mille persone e non un milione come auspicato da Pannella. Sono rimasti inascoltati i suoi numerosi appelli rivolti a sindacati e ai leader dei partiti perché mettessero in moto la loro macchina organizzativa. Alla seduta straordinaria della Camera hanno partecipato neanche la metà dei 207 deputati che avevano sottoscritto la richiesta. Tra questi molti della sinistra sono favorevoli solo all'indulto e non all'amnistia. E' vero, l'iter per un provvedimento di clemenza si è rimesso in moto, ma probabilmente non l'amnistia, solo l'indulto.
Molto buonismo e molto pietismo cattolico (e quindi opportunismi e ipocrisie) si sono confusi con la ragionevolezza di un atto di semplice buon governo volto a fermare la mano «criminale e criminogena» della macchina della giustizia italiana, pluricondannata dalla Corte europea. L'amnistia come «terapia del dolore» che dovrebbe accompagnare la terapia delle riforme del sistema penale e carcerario.
«Non ho marciato per bontà», chiariva in un recente post Malvino: «Io, l'amnistia, non la voglio perché ho pena dei detenuti che versano in condizioni – appunto – penose. Io, l'amnistia, la voglio perché ho pena del mio paese il cui stato della giustizia versa in condizioni – appunto – penose». Sì, siamo per la certezza della pena, «ma così tanto che non tollero che essa sia maggiore di quanto effettivamente contenuto dalla sentenza. E nessuna sentenza potrà mai allegare alla pena il sovrappiù di condizione disumana che è data dalla perdita di dignità intrinseca a un regime detentivo senza garanzie».
La violenza è alla legalità del nostro paese e c'entriamo tutti. «Quindi la richiesta di Karol Wojtyla e ogni altra analoga ragione umanitaria sentono che mi marciano a lato, non davanti. Cammino con le mie gambe, non con le gambe della bontà». «Preferisco che si dica buona la cosa maggiormente conveniente al maggior numero di individui. E dunque, in tutta onestà: ho marciato per l'amnistia che sarebbe la cosa maggiormente conveniente al maggior numero di individui, ora, in Italia, presto».
Alessandro Geradi su Notizie Radicali invita a «non confendere l'amnistia con il perdonismo cattolico»:
Anche i problemi dell'amministrazione della giustizia sembrano «tutti imperniati su quel micidiale meccanismo peccato-assoluzione», poiché «in Italia, la morale illuminista, che quando non è laica può confluire nel calvinismo o nel puritanesimo luterano, non esiste. Papa, cardinali, vescovi e preti: questi sono gli unici fornitori ufficiali di morale e di moralismo rimasti nel nostro Paese».
Molto buonismo e molto pietismo cattolico (e quindi opportunismi e ipocrisie) si sono confusi con la ragionevolezza di un atto di semplice buon governo volto a fermare la mano «criminale e criminogena» della macchina della giustizia italiana, pluricondannata dalla Corte europea. L'amnistia come «terapia del dolore» che dovrebbe accompagnare la terapia delle riforme del sistema penale e carcerario.
«Non ho marciato per bontà», chiariva in un recente post Malvino: «Io, l'amnistia, non la voglio perché ho pena dei detenuti che versano in condizioni – appunto – penose. Io, l'amnistia, la voglio perché ho pena del mio paese il cui stato della giustizia versa in condizioni – appunto – penose». Sì, siamo per la certezza della pena, «ma così tanto che non tollero che essa sia maggiore di quanto effettivamente contenuto dalla sentenza. E nessuna sentenza potrà mai allegare alla pena il sovrappiù di condizione disumana che è data dalla perdita di dignità intrinseca a un regime detentivo senza garanzie».
La violenza è alla legalità del nostro paese e c'entriamo tutti. «Quindi la richiesta di Karol Wojtyla e ogni altra analoga ragione umanitaria sentono che mi marciano a lato, non davanti. Cammino con le mie gambe, non con le gambe della bontà». «Preferisco che si dica buona la cosa maggiormente conveniente al maggior numero di individui. E dunque, in tutta onestà: ho marciato per l'amnistia che sarebbe la cosa maggiormente conveniente al maggior numero di individui, ora, in Italia, presto».
Alessandro Geradi su Notizie Radicali invita a «non confendere l'amnistia con il perdonismo cattolico»:
«Istituti di pena che scoppiano, carcerati che a causa del sovraffollamento patiscono condizioni di vita spesso disumane e degradanti, milioni di processi penali pendenti, centinaia di migliaia di misure alternative alla detenzione chieste ma mai esaminate dalla magistratura di sorveglianza o, peggio, esaminate con notevole ritardo (...) è il quadro desolante di un sistema penale e carcerario ridotto oramai al collasso ed alla paralisi pressoché completa».Come ha dichiarato Emma Bonino «l'incapacità di garantire in Italia il diritto alla giustizia in tempi ragionevoli... nega alle vittime il diritto alla giustizia», favorisce una certa impunità, indebolisce lo stato di diritto e la stessa sicurezza. Proprio queste ragioni, la certezza del diritto e la sicurezza, «trasformano l'amnistia e l'indulto... in atti di buon governo oggi assolutamente necessari e non più differibili». A queste ragioni, leggendo i giornali e guardando la tv, si associa spesso la categoria del perdono, che appartiene di competenza a un'altra sfera umana. Eppure, è così presente che «sembra una moda, una tendenza. Perdonare è ormai diventato trendy».
Anche i problemi dell'amministrazione della giustizia sembrano «tutti imperniati su quel micidiale meccanismo peccato-assoluzione», poiché «in Italia, la morale illuminista, che quando non è laica può confluire nel calvinismo o nel puritanesimo luterano, non esiste. Papa, cardinali, vescovi e preti: questi sono gli unici fornitori ufficiali di morale e di moralismo rimasti nel nostro Paese».
«Almeno noi laici evitiamo dunque di confondere le solide e pratiche ragioni che sono oggi alla base della richiesta di amnistia con gli appelli del Santo Padre, del Cardinale Tettamanzi o di Don Mazzi ed i loro continui accenni al perdono cristiano che servono solo a denunciare la totale estraneità ed ostilità della Chiesa cattolica al concetto di Stato di diritto (la giustizia è un interesse collettivo di cui la parte lesa non può disporre né il perdono della vittima estingue il reato)».
Ds e Margherita affossano l'amnistia. Vince il partito dei giudici
Polemizzare con Casini avendo il fianco scoperto dai deputati sciatori
E' inutile prendersela con l'arbitro cornuto, se la squadra non è scesa in campo. Il presidente Casini ha certamente con qualche malizia convocato l'assemblea alle 9,30, fatto insolito per la Camera dopo un giorno di festa, ma da che mondo è mondo gli assenti hanno sempre torto. E' vero che quasi mai si danno calci di rigore per spintoni o trattenute in area, ma è pur vero che se una trattenuta c'è stata e questa volta l'arbitro - cornuto com'è - decide di fischiarla, non ha molto senso protestare. Anzi, a maggior ragione sapendo fin dal 23 dicembre che Casini aveva deciso l'orario come sfida ai firmatari della convocazione straordinaria, questa sfida bisognava prepararsi a raccoglierla per non fornire un fianco scoperto.
Diciamola tutta: in molti se ne sono fregati. Se 207 deputati firmano una convocazione straordinaria della Camera e questa viene convocata nel rispetto dei tempi d'urgenza che quella misura richiede, ma di quei deputati se ne presentano una novantina, sono indubbiamente criticabili i convocatori e l'astuzia di Casini passa del tutto in secondo piano. Bisognerebbe invece avere l'intelligenza di riconoscere e prendere atto come dato politico che quelle numerose assenze proprio fra i promotori della seduta straordinaria indicano inequivocabilmente l'opportunismo e l'ipocrisia con cui molte firme erano state apposte. Per carità, nessuno giudica il diritto a qualche giorno di vacanza natalizia, ma allora cade la credibilità della richiesta di convocazione straordinaria che si è sottoscritta.
Insomma, se si guarda alle pagliuzze negli occhi altrui mentre nei propri si porta una trave non si fa una gran bella figura. Insistere su una polemica quando si ha torto non mi pare una mossa astuta. Soprattutto perché andateglielo a spiegare ai cittadini che alle 9,30 del 27 dicembre è troppo presto per iniziare un dibattito che si era chiesto di affrontare con la massima urgenza. Lo scandalo semmai è la prassi dell'aula deserta e delle sedute che partono a mezzogiorno e non se per una volta si comincia alle 9,30, rendendo tra l'altro possibile intervenire a un maggior numero di deputati.
Dunque, se è vero che i presidenti delle Camere in questi mesi hanno usato il proprio ruolo per avvantaggiare le loro posizioni, addirittura per lanciare la propria personale campagna elettorale, stavolta mi pare che l'attacco a Casini sia del tutto inopportuno, perché non c'era alcun reale impedimento per fare una bella figura e presentarsi numerosi in aula. E allora sì che in quel caso poteva esser mossa una critica al presidente.
Si preferisce in queste ore indulgere nella polemica sul presidente della Camera quasi a chiudere un occhio su quello che è il dato politico più rilevante della giornata di ieri. Perché costringe a riflettere. Il dibattito di ieri sull'amnistia è stato molto positivo, anzi istruttivo, perché ha chiarito le posizioni dei gruppi al di là delle frasi di circostanza e del buonismo delle marce. Il sostegno più vigoroso, più vibrante, all'amnistia, attento al complesso del sistema giustizia, con motivazioni liberali prive di riflessi buonisti, è venuto da Forza Italia (Pecorella, Biondi, Pepe, Sterpa, Taormina) e non dai due maggiori partiti della sinistra, Ds (Finocchiaro) e Margherita (Fanfani), che anzi si sono detti contrari all'amnistia, perché toglie le cartelle dalle scrivanie dei magistrati, e favorevoli all'indulto.
Pecorella ha cercato di togliere di mezzo ogni possibile alibi: «Amici dei Ds, non vi tormenti l'idea che noi vogliamo favorire qualcuno. Noi siamo disponibili al confronto: ci sono reati odiosi che colpiscono interessi diffusi che non meritano clemenza. Forza Italia è disponibile a tutte le soluzioni compatibili». Niente da fare, un rifiuto pregiudiziale e ideologico. E come ha osservato Pannella, dagli interventi dei deputati, soprattutto di sinistra, che invitavano a non illudere i detenuti, «il solito disprezzo dei rappresentanti per coloro che pretendono di rappresentare».
Il dato politico su cui urge una riflessione è che i due maggiori partiti della sinistra, Ds e Margherita, hanno affossato l'amnistia. Al di là di adesioni individuali alla marcia e anche della partecipazione inaspettata del presidente D'Alema, i leader Ds ieri in aula hanno disertato lasciando campo libero al partito dei giudici. A guidare la posizione del gruppo sono stati Violante e Finocchiaro e ancora una volta, come non si verificava da parecchio tempo in modo così eclatante, i giudici con la loro cultura giustizialista si sono dimostrati padroni dei Ds. Non vogliono che gli siano sottratti gli attuali procedimenti perché costituiscono la loro fonte di potere politico, di ricatto nei confronti del sistema politico.
La cultura ancora dominante a sinistra dovrebbe preoccupare più che le astuzie del presidente Casini se s'intendono portare a sinistra le battaglie radicali.
Partendo proprio da quei dati che ci hanno giustamente scandalizzato occorre elaborare proposte che sanno andare al di là dell'amnistia e dell'indulto. 1) Circa 20 mila sono i detenuti in attesa di giudizio. E' da questi innocenti che bisogna partire e tornare alla scandalosa questione dei tempi di carcerazione preventiva. Un istituto di cui i magistrati abusano: una forma di potere illecito esercitato sull'imputato per supplire all'incapacità degli inquirenti di trovare prove a suo carico. 2) Migliaia i tossicodipendenti in carcere per piccolo spaccio o piccoli furti. Spaccio e furti causati interamente dal proibizionismo sulle droghe. Sciogliendo questi due nodi si può mettere mano in modo strutturale al problema del sovraffollamento delle carceri.
E' inutile prendersela con l'arbitro cornuto, se la squadra non è scesa in campo. Il presidente Casini ha certamente con qualche malizia convocato l'assemblea alle 9,30, fatto insolito per la Camera dopo un giorno di festa, ma da che mondo è mondo gli assenti hanno sempre torto. E' vero che quasi mai si danno calci di rigore per spintoni o trattenute in area, ma è pur vero che se una trattenuta c'è stata e questa volta l'arbitro - cornuto com'è - decide di fischiarla, non ha molto senso protestare. Anzi, a maggior ragione sapendo fin dal 23 dicembre che Casini aveva deciso l'orario come sfida ai firmatari della convocazione straordinaria, questa sfida bisognava prepararsi a raccoglierla per non fornire un fianco scoperto.
Diciamola tutta: in molti se ne sono fregati. Se 207 deputati firmano una convocazione straordinaria della Camera e questa viene convocata nel rispetto dei tempi d'urgenza che quella misura richiede, ma di quei deputati se ne presentano una novantina, sono indubbiamente criticabili i convocatori e l'astuzia di Casini passa del tutto in secondo piano. Bisognerebbe invece avere l'intelligenza di riconoscere e prendere atto come dato politico che quelle numerose assenze proprio fra i promotori della seduta straordinaria indicano inequivocabilmente l'opportunismo e l'ipocrisia con cui molte firme erano state apposte. Per carità, nessuno giudica il diritto a qualche giorno di vacanza natalizia, ma allora cade la credibilità della richiesta di convocazione straordinaria che si è sottoscritta.
Insomma, se si guarda alle pagliuzze negli occhi altrui mentre nei propri si porta una trave non si fa una gran bella figura. Insistere su una polemica quando si ha torto non mi pare una mossa astuta. Soprattutto perché andateglielo a spiegare ai cittadini che alle 9,30 del 27 dicembre è troppo presto per iniziare un dibattito che si era chiesto di affrontare con la massima urgenza. Lo scandalo semmai è la prassi dell'aula deserta e delle sedute che partono a mezzogiorno e non se per una volta si comincia alle 9,30, rendendo tra l'altro possibile intervenire a un maggior numero di deputati.
Dunque, se è vero che i presidenti delle Camere in questi mesi hanno usato il proprio ruolo per avvantaggiare le loro posizioni, addirittura per lanciare la propria personale campagna elettorale, stavolta mi pare che l'attacco a Casini sia del tutto inopportuno, perché non c'era alcun reale impedimento per fare una bella figura e presentarsi numerosi in aula. E allora sì che in quel caso poteva esser mossa una critica al presidente.
Si preferisce in queste ore indulgere nella polemica sul presidente della Camera quasi a chiudere un occhio su quello che è il dato politico più rilevante della giornata di ieri. Perché costringe a riflettere. Il dibattito di ieri sull'amnistia è stato molto positivo, anzi istruttivo, perché ha chiarito le posizioni dei gruppi al di là delle frasi di circostanza e del buonismo delle marce. Il sostegno più vigoroso, più vibrante, all'amnistia, attento al complesso del sistema giustizia, con motivazioni liberali prive di riflessi buonisti, è venuto da Forza Italia (Pecorella, Biondi, Pepe, Sterpa, Taormina) e non dai due maggiori partiti della sinistra, Ds (Finocchiaro) e Margherita (Fanfani), che anzi si sono detti contrari all'amnistia, perché toglie le cartelle dalle scrivanie dei magistrati, e favorevoli all'indulto.
Pecorella ha cercato di togliere di mezzo ogni possibile alibi: «Amici dei Ds, non vi tormenti l'idea che noi vogliamo favorire qualcuno. Noi siamo disponibili al confronto: ci sono reati odiosi che colpiscono interessi diffusi che non meritano clemenza. Forza Italia è disponibile a tutte le soluzioni compatibili». Niente da fare, un rifiuto pregiudiziale e ideologico. E come ha osservato Pannella, dagli interventi dei deputati, soprattutto di sinistra, che invitavano a non illudere i detenuti, «il solito disprezzo dei rappresentanti per coloro che pretendono di rappresentare».
Il dato politico su cui urge una riflessione è che i due maggiori partiti della sinistra, Ds e Margherita, hanno affossato l'amnistia. Al di là di adesioni individuali alla marcia e anche della partecipazione inaspettata del presidente D'Alema, i leader Ds ieri in aula hanno disertato lasciando campo libero al partito dei giudici. A guidare la posizione del gruppo sono stati Violante e Finocchiaro e ancora una volta, come non si verificava da parecchio tempo in modo così eclatante, i giudici con la loro cultura giustizialista si sono dimostrati padroni dei Ds. Non vogliono che gli siano sottratti gli attuali procedimenti perché costituiscono la loro fonte di potere politico, di ricatto nei confronti del sistema politico.
La cultura ancora dominante a sinistra dovrebbe preoccupare più che le astuzie del presidente Casini se s'intendono portare a sinistra le battaglie radicali.
Partendo proprio da quei dati che ci hanno giustamente scandalizzato occorre elaborare proposte che sanno andare al di là dell'amnistia e dell'indulto. 1) Circa 20 mila sono i detenuti in attesa di giudizio. E' da questi innocenti che bisogna partire e tornare alla scandalosa questione dei tempi di carcerazione preventiva. Un istituto di cui i magistrati abusano: una forma di potere illecito esercitato sull'imputato per supplire all'incapacità degli inquirenti di trovare prove a suo carico. 2) Migliaia i tossicodipendenti in carcere per piccolo spaccio o piccoli furti. Spaccio e furti causati interamente dal proibizionismo sulle droghe. Sciogliendo questi due nodi si può mettere mano in modo strutturale al problema del sovraffollamento delle carceri.
Saturday, December 24, 2005
Democrazia è pornografia
Vogliono salvare democrazie in crisi, ma impersonano essi stessi la crisi della democrazia. Ne vestono i panni e ne sono i migliori interpreti. Ne avevamo già parlato la scorsa estate riguardo le tesi espresse dal presidente del Senato Marcello Pera al Meeting di Rimini. Ne riparliamo oggi con riferimento all'articolo di Irving Kristol pubblicato su Corriere Magazine di venerdì scorso.
Non credo che ci debbano essere etichette, categorie o scuole di intellettuali sulle quali ci possiamo esimere dall'esercitare il nostro giudizio critico. Quindi, pur condividendo molte delle tesi soprattutto di politica estera di parecchi studiosi americani cosiddetti neoconservatori, oggi ho i miei buoni motivi per dissentire totalmente da quanto scrive Kristol. Nel suo articolo auspica una «censura liberal» della pornografia, ma non è il merito della proposta che avanza a preoccuparmi più di tanto, quanto il ragionamento di fondo, quello di un Pera qualsiasi: non ci basta la società democratica e liberale, dev'essere anche virtuosa, buona, migliore.
Non so dire se quella di Kristol sia propaganda, come afferma Castaldi (Notizie Radicali, 23.12.05), o quel po' di retorica che tutti noi siamo inclini a usare per attribuire ai nostri argomenti maggiore autorevolezza. Ciò che importa è lo schema argomentativo usato dal padre dei neocon. Quello che Castaldi riassume bene come la «disillusione» del liberale. I liberali, «persone intelligenti, benintenzionate ed eloquenti» concede Kristol, volevano la libertà pensando che fosse il sommo bene e l'hanno ottenuta, ma ora si accorgono che «in qualche modo le cose non sono andate come avrebbero dovuto». Per esempio la pornografia: siamo in una situazione in cui «oscenità e democrazia vengono messe sullo stesso livello», mentre «pornografia e democrazia sono incompatibili».
Quale soluzione indica Kristol per proteggere la democrazia dalla pornografia? «La pornografia dovrebbe essere illegale e allo stesso tempo disponibile per coloro che la desiderano così tanto da fare sforzi estremi pur di procurarsela». Ciò che comunemente, se non si trattasse di un illustre intellettuale, chiameremmo ipocrisia. Non conosco così bene Leo Strauss, e non so se sia un'«eco straussiana», come sostiene Castaldi, ma concordo con lui che la soluzione proposta da Kristol è quella della "nobile menzogna", cioè l'ipocrisia che diventa strumento di potere. Così come diventano strumenti di potere la religione (Dio non esiste, ma è necessario), la morale (non c'è alcun Bene oggettivo, ma un Bene oggettivo è necessario ci sia) e la conoscenza (al popolo non si può dire tutta la verità, cioè che non esiste alcuna Verità). I sapienti che custodiscono gelosamente il sapere, lo gestiscono politicamente diffondendo mezze verità e "nobili menzogne", perché li mette nelle condizioni di governare il popolo in vista del suo Bene e del loro potere.
Credo però che l'espressione che più di ogni altra viene usata per definire i neocon, «liberal assaliti dalla realtà», non possa essere intesa in modo univoco. Nel caso dell'articolo di Kristol la realtà che assale è senz'altro quella della necessità della "nobile menzogna" per esercitare il potere. In altri casi, la realtà che assale può essere intesa nel modo di Aron, di Tocqueville, di Montesquieu, di Weber, filosofi interessati ai fatti, fautori della metodologia del dubbio nel prestare ascolto a quanto i fatti hanno da dirci, convinti che non vadano rimossi qualora ostacolino le nostre teorie. Per lo meno, è così che mi sento «assalito dalla realtà».
E' sorprendente come il discorso di Kristol sia interamente sovrapponibile a quelli di Pera. Non ha importanza che il «capriccio» sia la pornografia o i Pacs. La democrazia va difesa da se stessa, dalla decadenza morale che è sotto gli occhi di tutti. Ma chi dovrebbe difenderla? E in che modo? Ci vorrebbe un liberalismo moderato per mezzo del quale perseguire la «società buona» (Pera), una «società migliore» (Kristol). A dirci a che cosa e come applicare questa moderazione è la morale tradizionale. Ma le domande sorgono spontanee. Dove si trova? Chi ne sono i legittimi eredi? La democrazia, scrive Kristol, «per meritarsela bisogna che gli eletti siano degni di assumere questo compito». Insomma, annota Castaldi, c'è bisogno che siano davvero eletti, non di un'elezione che venga «da quel "basso" che potrebbe anche fare scelte sbagliate, ma da quell'"alto" che sappia veramente interpretare il bene necessario».
Non so dire se ci sia dolo nei ragionamenti di Kristol e Pera, ma lo schema non è nuovo. Negli anni Venti e Trenta molti sinceri democratici e liberali furono presi da un profondo scetticismo. In una sorta di "fuga dalla libertà", cercando chi un'alternativa chi un aggiustamento, finirono per rifugiarsi in nuovi vincoli autoritari. Per i filosofi della crisi, la democrazia soffriva di una debolezza intrinseca, l'assenza di un fondamento morale, di valori che riempissero di senso il vuoto formalistico delle sue regole. Incapaci di fare un salto logico, di comprendere cioè che il "valore" che dà senso alla democrazia è il suo insieme di regole formali, e pensando "a partire dalla crisi", essi non facevano altro che alimentare la stessa crisi che si proponevano di superare.
Per Pera esiste un Bene obiettivamente inteso (la sostanza della democrazia) che viene prima del voto popolare (la sua vuota forma). Allo stesso modo per Kristol è «qualcosa di ridicolo» che la democrazia sia ridotta a «una serie di regole e procedure in cui la maggioranza governa e i diritti della minoranza vengono riconciliati in uno stato di equilibrio», perché il vero scopo della democrazia, come «di qualsiasi regime politico», è una «società migliore». E senza la virtù, la democrazia non può mirare al Bene della società. Dunque, il Bene ha bisogno di virtù, non è cosa da poter essere desunta dalla conta dei voti. Ci vogliono uomini virtuosi, non che si ammazzano di pippe. Ma se una maggioranza prendesse una decisione che rinneghi, a loro avviso, il Bene come ci viene insegnato dalla morale tradizionale, cosa farebbero i suoi legittimi eredi?
Nelle democrazie non deve mai accadere che Bene e virtù vengano prima del voto popolare. E non per altro, ma semplicemente perché altrimenti esse non sono più democrazie. Kristol accetta che il prezzo da pagare per difendere la democrazia dalla pornografia sia la perdita di qualche opera d'arte censurata poiché scambiata erroneamente per pornografia. Ma la virtù pubblica che, ammettiamo pure, si perde legalizzando la pornografia non sarà mai della stessa quantità e della stessa qualità che si perde con la censura. Se, per esempio, quanto scrive Kristol sulla pornografia lo dicessi anch'io del suo ragionamento, cioè che è «incompatibile con la democrazia», e per questa incompatibilità invocassi la censura (chi vuole così tanto leggerlo se lo procuri clandestinamente)?
Non sarà qualche tassa in più sul materiale pornografico o il divieto di vendita nei giornalai a metterla in pericolo, ma esiste una distanza della democrazia dal confine oltre il quale essa non è più tale. Quella distanza stessa è la democrazia. Più si riduce, più la democrazia viene snaturata. E' compito della politica trovare la distanza di sicurezza da quel confine. Non tema Kristol, non ci preoccupa il suo articolo, né il saluto romano di Paolo Di Canio – che nel loro piccolo impersonano la crisi della democrazia – perché sappiamo che per sua stessa natura la democrazia è sempre in crisi in quanto forma che in una certa misura riesce a corrispondere alla natura aperta e contraddittoria dell'esistenza umana e delle sue istituzioni. La democrazia tollera l'errore e il conflitto, include la contraddizione, per questo è allo stesso tempo insostituibile e, come l'uomo, sempre in crisi, costantemente alla ricerca di equilibri. E' fisiologico che una tale forma politica venga continuamente messa in pericolo dalla sua stessa apertura. Per alcuni il pericolo a cui la democrazia si apre è la pornografia, e sostengono che va censurata, per altri i pericoli sono nell'articolo di Kristol e nelle tesi di Pera, ma anziché invocarne la censura li confutano.
Ciò che Pera e Kristol temono nell'affidarsi completamente alla conta dei voti è la «tirannide della maggioranza» di cui parlava Alexis de Tocqueville come uno dei pericoli dei regimi democratici. Non agisce tanto a livello istituzionale, ma a livello del pensiero e dello spirito, dando luogo a una forma ancor più temibile di dispotismo. Il principio del governo della maggioranza abitua all'idea che la maggioranza abbia ragione in forza del suo numero, generando uniformità, conformismo e mediocrità. E' spesso comodo e gratificante avere torto con la maggioranza quanto penalizzante, difficile e rischioso avere ragione in compagnia di una minoranza. Naturalmente uno dei principi classici del liberalismo è che una maggioranza non è in possesso della verità, ma solo della facoltà di operare temporaneamente decisioni politiche, che con la verità nulla hanno a che fare. Se così non fosse non avrebbero senso le tutele della minoranza, consentirle cioè di divenire a sua volta maggioranza. Non può essere liberale chi crede a un legame forte tra la decisione politica e la Verità. Se esistesse non avrebbero senso la democrazia e il liberalismo. Quindi sì, è vero, «quel basso» che elegge i propri governanti può compiere scelte sbagliate e gli eletti potrebbero non essere «degni» di assumersi il compito. Ma la democrazia non può funzionare se il principio di maggioranza vale solo finché la maggioranza non sbaglia. Non può vivere sotto la tutela di una cerchia di veri eletti che sanno veramente interpretare il bene necessario. E' una regola del gioco democratico che non si può emendare senza ritrovarci in un altro gioco.
E' Tocqueville stesso a scorgere nelle democrazie gli anticorpi alla «tirannide della maggioranza». L'unico antidoto sta proprio in quelle libertà che qualcuno vorrebbe moderare in nome della qualità morale della vita pubblica. Esse favoriscono in uomini e donne l'indipendenza di spirito e di giudizio, le virtù pubbliche per criticare le decisioni della maggioranza e contestare l'opinione dominante, quando ritengano che queste vadano contro il bene comune. Anche se non incoraggia «le più elevate qualità dell'animo umano», scrive Tocqueville, la democrazia «ha una sua bellezza». Sotto il «mantello democratico» riaffiorano di tanto in tanto «i vecchi colori dell'aristocrazia». L'osservazione di Tocqueville è ragionevole: non dice però che limitando la libertà o moderando il liberalismo le virtù «aristocratiche» di tanto in tanto riaffiorano come anticorpi. Al contrario, riaffiorano solo grazie alla libertà e all'assenza di censura. O è la democrazia a trovare in sé gli anticorpi a quel degrado provocato secondo Kristol dalla pornografia – noi diremmo a quella crisi permanente e fisiologica di cui i suoi ragionamenti sono i migliori interpreti – o essa si perde. Ove un processo di degrado della democrazia fosse in atto, conservando le nostre libertà conserviamo anche la possibilità di invertirlo. Viceversa, se provassimo noi stessi a vaccinarla, con la censura, restringendo le nostre libertà per paura di dove esse ci possano condurre, allora l'avremmo persa in quello stesso istante. E' un gioco complesso e sottile al quale se ci si affida completamente tutto sommato funziona, ma appena si introducono correzioni il meccanismo s'inceppa.
Nessun sistema di governo è perfettamente stabile. Nessun sistema di governo garantisce ciò che la stessa condizione umana non è in grado di garantire. La democrazia in particolare non è un bene acquisito per sempre, ma una scelta da rinnovare quasi quotidianamente. Bisogna mettere nel conto che esercitando la nostra libertà di cittadini potremmo allontanarci dalla democrazia. Nel lungo periodo c'è il rischio che il corso degli eventi e scelte sbagliate conducano una società ad abbandonare la democrazia per il dispotismo. Siamo di fronte a un rischio rispetto al quale nulla può davvero garantirci. Tuttavia, a fronte del rischio futuro e ipotetico di perdere la democrazia, decidere oggi di difenderci da essa vuol dire abbandonarla subito. Se facciamo pedinare la nostra compagna perché non ci fidiamo e pensiamo che ci possa tradire, ciò che vogliamo difendere già non c'è più.
Al fondo dei ragionamenti di Kristol e Pera c'è un senso di sfiducia nella democrazia, sfiducia nella libertà, in quello a cui la libertà può portare, sia essa la libertà degli individui o quella dei popoli. Della libertà fa parte la libertà di sbagliare, di dannarsi individualmente o collettivamente tramite i rappresentanti democraticamente eletti. Una teoria politica che volesse mettere a priori, o a posteriori, al riparo la democrazia dagli errori della maggioranza non sarebbe certo una teoria liberale e democratica. L'errore concettuale sta nel cercare un sistema di governo capace di eliminare del tutto il rischio che la libertà comporta, eliminando con ciò la libertà stessa.
Come scrive Castaldi, «a noi la democrazia non piace perché è buona e bella, ma perché è economicamente la forma politica più vantaggiosa per tutti e per ciascuno». In una parola, funziona. Niente di assoluto, non un intoccabile feticcio, ma con i suoi onesti limiti un modello tutto sommato abbastanza funzionante. Se qualcuno propone un altro sistema, un nuovo modello, ce lo spieghi nei particolari. E non è per bontà che vogliamo promuovere la democrazia in regioni che non l'hanno ancora conosciuta, ma perché conviene. I neoconservatori hanno fatto dell'«esportazione della democrazia» la loro politica estera proprio nella convinzione che fosse il modo migliore per tutelare gli interessi nazionali americani. Conviene a tutti e a ciascuno.
La vera virtù in democrazia sta nel dire che siamo noi, i cittadini di oggi, qui e ora, a essere i pieni titolari del diritto di decidere (e di sbagliare), dello stesso diritto e della stessa responsabilità che ebbero i cittadini del tempo della Costituente. Possiamo soggettivamente ricondurci alla tradizione che vogliamo, ma non esiste nessuna tradizione che oggettivamente valga più del nostro sentire di adesso. Quando ci ritroviamo a parlare di come difendere la democrazia che può distruggere se stessa, e proponiamo di chiudere la porta della stalla, è ormai troppo tardi. I buoi sono scappati.
P.S. Di una cosa si può dar atto a Kristol. Nel suo articolo, perorando la causa della censura della pornografia chiamandola provocatoriamente «censura liberal», ci ricorda che esistono già «censure liberal», cioè di sinistra. Anzi, «l'abitudine di limitare la libertà individuale, in modo liberal, è abbastanza familiare» e non suscita abbastanza scandalo. Da noi si sottovalutano, per esempio, le restrizioni delle libertà economiche e il loro impatto sulla libertà individuale. E' il sussidio di Stato che rende i cittadini sudditi. Ma questo magari sarà tema di un'altra riflessione.
Non credo che ci debbano essere etichette, categorie o scuole di intellettuali sulle quali ci possiamo esimere dall'esercitare il nostro giudizio critico. Quindi, pur condividendo molte delle tesi soprattutto di politica estera di parecchi studiosi americani cosiddetti neoconservatori, oggi ho i miei buoni motivi per dissentire totalmente da quanto scrive Kristol. Nel suo articolo auspica una «censura liberal» della pornografia, ma non è il merito della proposta che avanza a preoccuparmi più di tanto, quanto il ragionamento di fondo, quello di un Pera qualsiasi: non ci basta la società democratica e liberale, dev'essere anche virtuosa, buona, migliore.
Non so dire se quella di Kristol sia propaganda, come afferma Castaldi (Notizie Radicali, 23.12.05), o quel po' di retorica che tutti noi siamo inclini a usare per attribuire ai nostri argomenti maggiore autorevolezza. Ciò che importa è lo schema argomentativo usato dal padre dei neocon. Quello che Castaldi riassume bene come la «disillusione» del liberale. I liberali, «persone intelligenti, benintenzionate ed eloquenti» concede Kristol, volevano la libertà pensando che fosse il sommo bene e l'hanno ottenuta, ma ora si accorgono che «in qualche modo le cose non sono andate come avrebbero dovuto». Per esempio la pornografia: siamo in una situazione in cui «oscenità e democrazia vengono messe sullo stesso livello», mentre «pornografia e democrazia sono incompatibili».
Quale soluzione indica Kristol per proteggere la democrazia dalla pornografia? «La pornografia dovrebbe essere illegale e allo stesso tempo disponibile per coloro che la desiderano così tanto da fare sforzi estremi pur di procurarsela». Ciò che comunemente, se non si trattasse di un illustre intellettuale, chiameremmo ipocrisia. Non conosco così bene Leo Strauss, e non so se sia un'«eco straussiana», come sostiene Castaldi, ma concordo con lui che la soluzione proposta da Kristol è quella della "nobile menzogna", cioè l'ipocrisia che diventa strumento di potere. Così come diventano strumenti di potere la religione (Dio non esiste, ma è necessario), la morale (non c'è alcun Bene oggettivo, ma un Bene oggettivo è necessario ci sia) e la conoscenza (al popolo non si può dire tutta la verità, cioè che non esiste alcuna Verità). I sapienti che custodiscono gelosamente il sapere, lo gestiscono politicamente diffondendo mezze verità e "nobili menzogne", perché li mette nelle condizioni di governare il popolo in vista del suo Bene e del loro potere.
Credo però che l'espressione che più di ogni altra viene usata per definire i neocon, «liberal assaliti dalla realtà», non possa essere intesa in modo univoco. Nel caso dell'articolo di Kristol la realtà che assale è senz'altro quella della necessità della "nobile menzogna" per esercitare il potere. In altri casi, la realtà che assale può essere intesa nel modo di Aron, di Tocqueville, di Montesquieu, di Weber, filosofi interessati ai fatti, fautori della metodologia del dubbio nel prestare ascolto a quanto i fatti hanno da dirci, convinti che non vadano rimossi qualora ostacolino le nostre teorie. Per lo meno, è così che mi sento «assalito dalla realtà».
E' sorprendente come il discorso di Kristol sia interamente sovrapponibile a quelli di Pera. Non ha importanza che il «capriccio» sia la pornografia o i Pacs. La democrazia va difesa da se stessa, dalla decadenza morale che è sotto gli occhi di tutti. Ma chi dovrebbe difenderla? E in che modo? Ci vorrebbe un liberalismo moderato per mezzo del quale perseguire la «società buona» (Pera), una «società migliore» (Kristol). A dirci a che cosa e come applicare questa moderazione è la morale tradizionale. Ma le domande sorgono spontanee. Dove si trova? Chi ne sono i legittimi eredi? La democrazia, scrive Kristol, «per meritarsela bisogna che gli eletti siano degni di assumere questo compito». Insomma, annota Castaldi, c'è bisogno che siano davvero eletti, non di un'elezione che venga «da quel "basso" che potrebbe anche fare scelte sbagliate, ma da quell'"alto" che sappia veramente interpretare il bene necessario».
Non so dire se ci sia dolo nei ragionamenti di Kristol e Pera, ma lo schema non è nuovo. Negli anni Venti e Trenta molti sinceri democratici e liberali furono presi da un profondo scetticismo. In una sorta di "fuga dalla libertà", cercando chi un'alternativa chi un aggiustamento, finirono per rifugiarsi in nuovi vincoli autoritari. Per i filosofi della crisi, la democrazia soffriva di una debolezza intrinseca, l'assenza di un fondamento morale, di valori che riempissero di senso il vuoto formalistico delle sue regole. Incapaci di fare un salto logico, di comprendere cioè che il "valore" che dà senso alla democrazia è il suo insieme di regole formali, e pensando "a partire dalla crisi", essi non facevano altro che alimentare la stessa crisi che si proponevano di superare.
Per Pera esiste un Bene obiettivamente inteso (la sostanza della democrazia) che viene prima del voto popolare (la sua vuota forma). Allo stesso modo per Kristol è «qualcosa di ridicolo» che la democrazia sia ridotta a «una serie di regole e procedure in cui la maggioranza governa e i diritti della minoranza vengono riconciliati in uno stato di equilibrio», perché il vero scopo della democrazia, come «di qualsiasi regime politico», è una «società migliore». E senza la virtù, la democrazia non può mirare al Bene della società. Dunque, il Bene ha bisogno di virtù, non è cosa da poter essere desunta dalla conta dei voti. Ci vogliono uomini virtuosi, non che si ammazzano di pippe. Ma se una maggioranza prendesse una decisione che rinneghi, a loro avviso, il Bene come ci viene insegnato dalla morale tradizionale, cosa farebbero i suoi legittimi eredi?
Nelle democrazie non deve mai accadere che Bene e virtù vengano prima del voto popolare. E non per altro, ma semplicemente perché altrimenti esse non sono più democrazie. Kristol accetta che il prezzo da pagare per difendere la democrazia dalla pornografia sia la perdita di qualche opera d'arte censurata poiché scambiata erroneamente per pornografia. Ma la virtù pubblica che, ammettiamo pure, si perde legalizzando la pornografia non sarà mai della stessa quantità e della stessa qualità che si perde con la censura. Se, per esempio, quanto scrive Kristol sulla pornografia lo dicessi anch'io del suo ragionamento, cioè che è «incompatibile con la democrazia», e per questa incompatibilità invocassi la censura (chi vuole così tanto leggerlo se lo procuri clandestinamente)?
Non sarà qualche tassa in più sul materiale pornografico o il divieto di vendita nei giornalai a metterla in pericolo, ma esiste una distanza della democrazia dal confine oltre il quale essa non è più tale. Quella distanza stessa è la democrazia. Più si riduce, più la democrazia viene snaturata. E' compito della politica trovare la distanza di sicurezza da quel confine. Non tema Kristol, non ci preoccupa il suo articolo, né il saluto romano di Paolo Di Canio – che nel loro piccolo impersonano la crisi della democrazia – perché sappiamo che per sua stessa natura la democrazia è sempre in crisi in quanto forma che in una certa misura riesce a corrispondere alla natura aperta e contraddittoria dell'esistenza umana e delle sue istituzioni. La democrazia tollera l'errore e il conflitto, include la contraddizione, per questo è allo stesso tempo insostituibile e, come l'uomo, sempre in crisi, costantemente alla ricerca di equilibri. E' fisiologico che una tale forma politica venga continuamente messa in pericolo dalla sua stessa apertura. Per alcuni il pericolo a cui la democrazia si apre è la pornografia, e sostengono che va censurata, per altri i pericoli sono nell'articolo di Kristol e nelle tesi di Pera, ma anziché invocarne la censura li confutano.
Ciò che Pera e Kristol temono nell'affidarsi completamente alla conta dei voti è la «tirannide della maggioranza» di cui parlava Alexis de Tocqueville come uno dei pericoli dei regimi democratici. Non agisce tanto a livello istituzionale, ma a livello del pensiero e dello spirito, dando luogo a una forma ancor più temibile di dispotismo. Il principio del governo della maggioranza abitua all'idea che la maggioranza abbia ragione in forza del suo numero, generando uniformità, conformismo e mediocrità. E' spesso comodo e gratificante avere torto con la maggioranza quanto penalizzante, difficile e rischioso avere ragione in compagnia di una minoranza. Naturalmente uno dei principi classici del liberalismo è che una maggioranza non è in possesso della verità, ma solo della facoltà di operare temporaneamente decisioni politiche, che con la verità nulla hanno a che fare. Se così non fosse non avrebbero senso le tutele della minoranza, consentirle cioè di divenire a sua volta maggioranza. Non può essere liberale chi crede a un legame forte tra la decisione politica e la Verità. Se esistesse non avrebbero senso la democrazia e il liberalismo. Quindi sì, è vero, «quel basso» che elegge i propri governanti può compiere scelte sbagliate e gli eletti potrebbero non essere «degni» di assumersi il compito. Ma la democrazia non può funzionare se il principio di maggioranza vale solo finché la maggioranza non sbaglia. Non può vivere sotto la tutela di una cerchia di veri eletti che sanno veramente interpretare il bene necessario. E' una regola del gioco democratico che non si può emendare senza ritrovarci in un altro gioco.
E' Tocqueville stesso a scorgere nelle democrazie gli anticorpi alla «tirannide della maggioranza». L'unico antidoto sta proprio in quelle libertà che qualcuno vorrebbe moderare in nome della qualità morale della vita pubblica. Esse favoriscono in uomini e donne l'indipendenza di spirito e di giudizio, le virtù pubbliche per criticare le decisioni della maggioranza e contestare l'opinione dominante, quando ritengano che queste vadano contro il bene comune. Anche se non incoraggia «le più elevate qualità dell'animo umano», scrive Tocqueville, la democrazia «ha una sua bellezza». Sotto il «mantello democratico» riaffiorano di tanto in tanto «i vecchi colori dell'aristocrazia». L'osservazione di Tocqueville è ragionevole: non dice però che limitando la libertà o moderando il liberalismo le virtù «aristocratiche» di tanto in tanto riaffiorano come anticorpi. Al contrario, riaffiorano solo grazie alla libertà e all'assenza di censura. O è la democrazia a trovare in sé gli anticorpi a quel degrado provocato secondo Kristol dalla pornografia – noi diremmo a quella crisi permanente e fisiologica di cui i suoi ragionamenti sono i migliori interpreti – o essa si perde. Ove un processo di degrado della democrazia fosse in atto, conservando le nostre libertà conserviamo anche la possibilità di invertirlo. Viceversa, se provassimo noi stessi a vaccinarla, con la censura, restringendo le nostre libertà per paura di dove esse ci possano condurre, allora l'avremmo persa in quello stesso istante. E' un gioco complesso e sottile al quale se ci si affida completamente tutto sommato funziona, ma appena si introducono correzioni il meccanismo s'inceppa.
Nessun sistema di governo è perfettamente stabile. Nessun sistema di governo garantisce ciò che la stessa condizione umana non è in grado di garantire. La democrazia in particolare non è un bene acquisito per sempre, ma una scelta da rinnovare quasi quotidianamente. Bisogna mettere nel conto che esercitando la nostra libertà di cittadini potremmo allontanarci dalla democrazia. Nel lungo periodo c'è il rischio che il corso degli eventi e scelte sbagliate conducano una società ad abbandonare la democrazia per il dispotismo. Siamo di fronte a un rischio rispetto al quale nulla può davvero garantirci. Tuttavia, a fronte del rischio futuro e ipotetico di perdere la democrazia, decidere oggi di difenderci da essa vuol dire abbandonarla subito. Se facciamo pedinare la nostra compagna perché non ci fidiamo e pensiamo che ci possa tradire, ciò che vogliamo difendere già non c'è più.
Al fondo dei ragionamenti di Kristol e Pera c'è un senso di sfiducia nella democrazia, sfiducia nella libertà, in quello a cui la libertà può portare, sia essa la libertà degli individui o quella dei popoli. Della libertà fa parte la libertà di sbagliare, di dannarsi individualmente o collettivamente tramite i rappresentanti democraticamente eletti. Una teoria politica che volesse mettere a priori, o a posteriori, al riparo la democrazia dagli errori della maggioranza non sarebbe certo una teoria liberale e democratica. L'errore concettuale sta nel cercare un sistema di governo capace di eliminare del tutto il rischio che la libertà comporta, eliminando con ciò la libertà stessa.
Come scrive Castaldi, «a noi la democrazia non piace perché è buona e bella, ma perché è economicamente la forma politica più vantaggiosa per tutti e per ciascuno». In una parola, funziona. Niente di assoluto, non un intoccabile feticcio, ma con i suoi onesti limiti un modello tutto sommato abbastanza funzionante. Se qualcuno propone un altro sistema, un nuovo modello, ce lo spieghi nei particolari. E non è per bontà che vogliamo promuovere la democrazia in regioni che non l'hanno ancora conosciuta, ma perché conviene. I neoconservatori hanno fatto dell'«esportazione della democrazia» la loro politica estera proprio nella convinzione che fosse il modo migliore per tutelare gli interessi nazionali americani. Conviene a tutti e a ciascuno.
La vera virtù in democrazia sta nel dire che siamo noi, i cittadini di oggi, qui e ora, a essere i pieni titolari del diritto di decidere (e di sbagliare), dello stesso diritto e della stessa responsabilità che ebbero i cittadini del tempo della Costituente. Possiamo soggettivamente ricondurci alla tradizione che vogliamo, ma non esiste nessuna tradizione che oggettivamente valga più del nostro sentire di adesso. Quando ci ritroviamo a parlare di come difendere la democrazia che può distruggere se stessa, e proponiamo di chiudere la porta della stalla, è ormai troppo tardi. I buoi sono scappati.
P.S. Di una cosa si può dar atto a Kristol. Nel suo articolo, perorando la causa della censura della pornografia chiamandola provocatoriamente «censura liberal», ci ricorda che esistono già «censure liberal», cioè di sinistra. Anzi, «l'abitudine di limitare la libertà individuale, in modo liberal, è abbastanza familiare» e non suscita abbastanza scandalo. Da noi si sottovalutano, per esempio, le restrizioni delle libertà economiche e il loro impatto sulla libertà individuale. E' il sussidio di Stato che rende i cittadini sudditi. Ma questo magari sarà tema di un'altra riflessione.
Thursday, December 22, 2005
Venghino siori, Venghino...
Una marcia con tutti i crismi
Con l'adesione di Walter Veltroni, il Caro Sindaco, e l'articolo di oggi di Barbara Palombelli su Corriere Magazine - l'amnistia per dare un «senso» al Natale - si è chiuso il cerchio. La marcia di Natale per l'amnistia ha tutti i crismi dell'evento. E con la benedizione del Sindaco Buono anche quelli del buonismo d'establishment. E' indubbiamente un grande successo per Pannella aver costretto i professionisti del buonismo, i tromboni della Repubblica, e le penne più snob del nostro giornalismo, da Carlo Rossella ad Antonio Padellaro, a pagare dazio su un'iniziativa da lui promossa.
C'è ancora posto per gli ultimi arrivati, gli ultimi confaloni, gli ultimi presidenti di regione, da Formigoni e Marrazzo, le ultime delegazioni, nessuno vuol far mancare la sua firma in calce, il suo volto in posa, e nelle ultime ore piovono adesioni, tra foto opportunity e presenzialismo buonista. La corsa alle adesioni dell'ultima ora sembra la corsa agli ultimi acquisti natalizi. Ché tanto si sa, "finita la festa, gabbato lo santo".
In realtà, tutte le personalità che hanno aderito lo hanno fatto a titolo personale, mentre nessun grande partito o sindacato, come chiedeva Pannella, si è offerto di mettere in moto la grande macchina organizzativa delle adunate di massa a cui vengono chiamati a raccolta gli adepti per difendere i privilegi acquisiti. Fuggi-fuggi generale davanti a Giachetti e Cappato che raccolgono le firme alla Camera per convocare una seduta straordinaria. Sì, sì, d'accordo l'amnistia, ma il viaggio prenotato, il panettone caldo-caldo. Né alcun leader ha di fatto preso impegni. Pannella è ben consapevole degli atteggiamenti dei leader della sinistra: «Chiamala ripulsa, non diffidenza. I Ds non ci trattano da compagni, ma ci guardano come fossimo una tempesta che si avvicina. Ma stai tranquillo, la base dei Ds sorride quando ci incrocia».
Ci sono molte ragioni per sostenere l'amnistia, ma quella della «giustizia di classe» proprio non regge. «Non è uno stato di diritto». E fin qui nulla da obiettare. «E' uno stato classista. Non vuole l'amnistia ma accetta la prescrizione. Che è un'amnistia di classe... perché senza pagare dei buoni avvocati non si arriva alla prescrizione». Embè, scopriamo ora che la nostra società è di classe? C'è la sanità di classe perché non tutti possono pagarsi le cure migliori, c'è la ristorazione di classe perché non tutti possono pagarsi i ristoranti più cari, c'è l'automobilismo di classe perché non tutti possono avere auto potenti, e la casa di classe perché non tutti possono permettersi lussuosi appartamenti. Che fare?
Criminalizziamo la prescrizione, un fondamentale istituto di garanzia dei cittadini, che prima di essere merito di bravi avvocati è responsabilità di magistrati inefficienti e incompetenti, solo perché non riusciamo ad assicurare una giustizia di qualità? E quale sarebbe il rimedio a questo classismo? Quando si entra nella logica che questo o quello sono «di classe» non se ne esce facilmente. E' così che si arrivano a ipotizzare redditi di reinserimento ai detenuti.
Certo, è ragionevole, per quello che alla comunità costa al giorno mantenere un detenuto, tanto vale dargli uno stipendio e via, non c'è più ragione per delinquere. Ma quale sarebbe l'effetto di una misura simile? Delinquere diventerebbe a tutti gli effetti un lavoro, almeno il primo lavoro, finché non ti beccano. E viste le statistiche dei reati di cui si trovano i colpevoli significa mettere prima da parte un bel gruzzoletto con 8/10 scippi, poi starsene un po' dentro in attesa della pensione di reinserimento. Decarcerizzazione? Sì, volentieri. Ma piuttosto che i sussidi, le pene alternative, programmi di lavoro e di formazione, la depenalizzazione dei molti reati dove non c'è una vittima, e soprattutto il grande scandalo della carcerazione preventiva, se le statistiche ci dicono che sono riconosciuti innocenti il 40 per cento delle migliaia di detenuti in attesa di giudizio.
L'impatto sociale ed economico di redditi di reinserimento ai detenuti, sussidi di disoccupazione troppo generosi, pensioni d'invalidità elargite come sappiamo, pensioni d'anzianità e quant'altro assistenzialismo ce l'abbiamo sotto gli occhi: il declino. La sfida invece è più libertà per creare maggiore ricchezza. E una volta creata, lasciarla in mano all'individuo che sa disporne per il proprio benessere meglio di qualunque burocrazia.
Con l'adesione di Walter Veltroni, il Caro Sindaco, e l'articolo di oggi di Barbara Palombelli su Corriere Magazine - l'amnistia per dare un «senso» al Natale - si è chiuso il cerchio. La marcia di Natale per l'amnistia ha tutti i crismi dell'evento. E con la benedizione del Sindaco Buono anche quelli del buonismo d'establishment. E' indubbiamente un grande successo per Pannella aver costretto i professionisti del buonismo, i tromboni della Repubblica, e le penne più snob del nostro giornalismo, da Carlo Rossella ad Antonio Padellaro, a pagare dazio su un'iniziativa da lui promossa.
C'è ancora posto per gli ultimi arrivati, gli ultimi confaloni, gli ultimi presidenti di regione, da Formigoni e Marrazzo, le ultime delegazioni, nessuno vuol far mancare la sua firma in calce, il suo volto in posa, e nelle ultime ore piovono adesioni, tra foto opportunity e presenzialismo buonista. La corsa alle adesioni dell'ultima ora sembra la corsa agli ultimi acquisti natalizi. Ché tanto si sa, "finita la festa, gabbato lo santo".
In realtà, tutte le personalità che hanno aderito lo hanno fatto a titolo personale, mentre nessun grande partito o sindacato, come chiedeva Pannella, si è offerto di mettere in moto la grande macchina organizzativa delle adunate di massa a cui vengono chiamati a raccolta gli adepti per difendere i privilegi acquisiti. Fuggi-fuggi generale davanti a Giachetti e Cappato che raccolgono le firme alla Camera per convocare una seduta straordinaria. Sì, sì, d'accordo l'amnistia, ma il viaggio prenotato, il panettone caldo-caldo. Né alcun leader ha di fatto preso impegni. Pannella è ben consapevole degli atteggiamenti dei leader della sinistra: «Chiamala ripulsa, non diffidenza. I Ds non ci trattano da compagni, ma ci guardano come fossimo una tempesta che si avvicina. Ma stai tranquillo, la base dei Ds sorride quando ci incrocia».
Ci sono molte ragioni per sostenere l'amnistia, ma quella della «giustizia di classe» proprio non regge. «Non è uno stato di diritto». E fin qui nulla da obiettare. «E' uno stato classista. Non vuole l'amnistia ma accetta la prescrizione. Che è un'amnistia di classe... perché senza pagare dei buoni avvocati non si arriva alla prescrizione». Embè, scopriamo ora che la nostra società è di classe? C'è la sanità di classe perché non tutti possono pagarsi le cure migliori, c'è la ristorazione di classe perché non tutti possono pagarsi i ristoranti più cari, c'è l'automobilismo di classe perché non tutti possono avere auto potenti, e la casa di classe perché non tutti possono permettersi lussuosi appartamenti. Che fare?
Criminalizziamo la prescrizione, un fondamentale istituto di garanzia dei cittadini, che prima di essere merito di bravi avvocati è responsabilità di magistrati inefficienti e incompetenti, solo perché non riusciamo ad assicurare una giustizia di qualità? E quale sarebbe il rimedio a questo classismo? Quando si entra nella logica che questo o quello sono «di classe» non se ne esce facilmente. E' così che si arrivano a ipotizzare redditi di reinserimento ai detenuti.
Certo, è ragionevole, per quello che alla comunità costa al giorno mantenere un detenuto, tanto vale dargli uno stipendio e via, non c'è più ragione per delinquere. Ma quale sarebbe l'effetto di una misura simile? Delinquere diventerebbe a tutti gli effetti un lavoro, almeno il primo lavoro, finché non ti beccano. E viste le statistiche dei reati di cui si trovano i colpevoli significa mettere prima da parte un bel gruzzoletto con 8/10 scippi, poi starsene un po' dentro in attesa della pensione di reinserimento. Decarcerizzazione? Sì, volentieri. Ma piuttosto che i sussidi, le pene alternative, programmi di lavoro e di formazione, la depenalizzazione dei molti reati dove non c'è una vittima, e soprattutto il grande scandalo della carcerazione preventiva, se le statistiche ci dicono che sono riconosciuti innocenti il 40 per cento delle migliaia di detenuti in attesa di giudizio.
L'impatto sociale ed economico di redditi di reinserimento ai detenuti, sussidi di disoccupazione troppo generosi, pensioni d'invalidità elargite come sappiamo, pensioni d'anzianità e quant'altro assistenzialismo ce l'abbiamo sotto gli occhi: il declino. La sfida invece è più libertà per creare maggiore ricchezza. E una volta creata, lasciarla in mano all'individuo che sa disporne per il proprio benessere meglio di qualunque burocrazia.
Tuesday, December 20, 2005
Se anche Magdi Allam cade nella trappola
Stavolta dissento da Magdi Allam. Chiede a Bush e ai leader occidentali impegnati nella promozione della democrazia nel mondo arabo e musulmano una pausa di riflessione. «Il successo dei Fratelli Musulmani in Egitto, che gestiscono la maggiore rete dell'integralismo islamico nel mondo, e di Hamas nei territori palestinesi, che primeggia tra i gruppi terroristici che vogliono la distruzione di Israele», richiede di «sospendere» l'esportazione della democrazia. Il pericolo è che l'islamismo radicale possa sfruttare il «rito» delle elezioni, strumentalizzare la democrazia formale, per arrivare al potere e far fuori la democrazia sostanziale.
Prima delle elezioni, prima della democrazia formale, scrive Magdi, bisogna «radicare e diffondere i valori del primato della persona e della sacralità della vita di tutti». Il suo mi sembra un errore fondamentale. Com'è possibile che questi valori si affermino, che almeno formalmente siano riconosciuti i diritti umani e politici dei cittadini in società chiuse? Come provocare quella «rivoluzione di valori» se non a partire proprio dalla democrazia formale? No alla democrazia formale, dice Allam, ma i due esempi che cita - Egitto e Iran - non sono affatto di democrazie formali. Esse sono, anche formalmente, delle dittature.
Se è vero, come lo stesso Magdi scrive, che «le dittature e l'opposizione teocratica sono due facce della stessa medaglia, il prodotto della stessa ideologia dell'intolleranza, della violenza e della morte», più consentiamo il protrarsi nel tempo di questo circolo vizioso della dittatura che alimenta l'integralismo e dell'integralismo che richiede la dittatura per arginarlo e più sarà difficile provocare e aiutare qualsiasi cambiamento.
Ciò che succede in Egitto è emblematico proprio dell'urgenza democratica. Prima di tutto non è ancora dimostrato che quando i popoli arabi e musulmani sono messi in condizione di scegliere, essi scelgono l'integralismo. In Egitto (e men che meno in Iran) non abbiamo visto elezioni libere, ma un'operazione messa su dal presidente Mubarak per scegliersi la controparte con la quale venire più facilmente a patti per conservare il proprio potere. Illegali ma tollerati, i Fratelli Musulmani hanno avuto miglior trattamento (finché non si sono avvicinati alla soglia di seggi che il regime aveva stabilito di concedergli) di quello riservato ad Ayman Nour e al suo partito liberaldemocratico Al-Ghad, sui quali si sono concentrati gli atteggiamenti intimidatori del regime. Chiaro il messaggio di Mubarak all'occidente, e alla Casa Bianca in particolare: "Vedete? io li faccio votare, ma poi vincono gli integralisti islamici". C'è da scommettere che sia stata questa la frase che Mubarak ha pronunciato al telefono con Bush.
Non dobbiamo cadere in questa trappola retorica che ha il solo scopo di minare la nostra determinazione a promuovere la democrazia in Medio Oriente. Magdi Allam c'è caduto. Anche la dicotomia tra democrazia formale e sostanziale è fonte di troppi equivoci. La forma è sostanza. Questo pregiudizio di nuovo di moda in certi intellettuali - in fondo dettato dalla paura - che i cosiddetti valori danno sostanza alla democrazia, mentre le regole si risolvono in vuote forme, fa perdere di vista la premessa di qualsiasi democrazia, cioè proprio le regole che garantiscono il suo corretto funzionamento formale. Per rincorrere i valori pensati in astratto si perdono spesso di vista le regole empiriche che li fanno vivere.
Un rischio ineluttabile nel dare una possibilità alla democrazia in Medio Oriente è anche quello di veder vincere componenti integraliste. In una società chiusa è fisiologico che la voce dell'integralismo diffusa dalle moschee sia la sola a essere ascoltata oltre a quella del regime, ma sono persuaso che in una società aperta e in elezioni libere, che solo il rispetto formale delle regole democratiche può garantire, forze autenticamente liberali e democratiche possano dire la loro. Comunque dalla democrazia formale e dal «rito» delle elezioni si dovrà passare. Meglio prima che poi.
UPDATE: Anche Carlo Panella ha risposto a Magdi Allam:
Prima delle elezioni, prima della democrazia formale, scrive Magdi, bisogna «radicare e diffondere i valori del primato della persona e della sacralità della vita di tutti». Il suo mi sembra un errore fondamentale. Com'è possibile che questi valori si affermino, che almeno formalmente siano riconosciuti i diritti umani e politici dei cittadini in società chiuse? Come provocare quella «rivoluzione di valori» se non a partire proprio dalla democrazia formale? No alla democrazia formale, dice Allam, ma i due esempi che cita - Egitto e Iran - non sono affatto di democrazie formali. Esse sono, anche formalmente, delle dittature.
Se è vero, come lo stesso Magdi scrive, che «le dittature e l'opposizione teocratica sono due facce della stessa medaglia, il prodotto della stessa ideologia dell'intolleranza, della violenza e della morte», più consentiamo il protrarsi nel tempo di questo circolo vizioso della dittatura che alimenta l'integralismo e dell'integralismo che richiede la dittatura per arginarlo e più sarà difficile provocare e aiutare qualsiasi cambiamento.
Ciò che succede in Egitto è emblematico proprio dell'urgenza democratica. Prima di tutto non è ancora dimostrato che quando i popoli arabi e musulmani sono messi in condizione di scegliere, essi scelgono l'integralismo. In Egitto (e men che meno in Iran) non abbiamo visto elezioni libere, ma un'operazione messa su dal presidente Mubarak per scegliersi la controparte con la quale venire più facilmente a patti per conservare il proprio potere. Illegali ma tollerati, i Fratelli Musulmani hanno avuto miglior trattamento (finché non si sono avvicinati alla soglia di seggi che il regime aveva stabilito di concedergli) di quello riservato ad Ayman Nour e al suo partito liberaldemocratico Al-Ghad, sui quali si sono concentrati gli atteggiamenti intimidatori del regime. Chiaro il messaggio di Mubarak all'occidente, e alla Casa Bianca in particolare: "Vedete? io li faccio votare, ma poi vincono gli integralisti islamici". C'è da scommettere che sia stata questa la frase che Mubarak ha pronunciato al telefono con Bush.
Non dobbiamo cadere in questa trappola retorica che ha il solo scopo di minare la nostra determinazione a promuovere la democrazia in Medio Oriente. Magdi Allam c'è caduto. Anche la dicotomia tra democrazia formale e sostanziale è fonte di troppi equivoci. La forma è sostanza. Questo pregiudizio di nuovo di moda in certi intellettuali - in fondo dettato dalla paura - che i cosiddetti valori danno sostanza alla democrazia, mentre le regole si risolvono in vuote forme, fa perdere di vista la premessa di qualsiasi democrazia, cioè proprio le regole che garantiscono il suo corretto funzionamento formale. Per rincorrere i valori pensati in astratto si perdono spesso di vista le regole empiriche che li fanno vivere.
Un rischio ineluttabile nel dare una possibilità alla democrazia in Medio Oriente è anche quello di veder vincere componenti integraliste. In una società chiusa è fisiologico che la voce dell'integralismo diffusa dalle moschee sia la sola a essere ascoltata oltre a quella del regime, ma sono persuaso che in una società aperta e in elezioni libere, che solo il rispetto formale delle regole democratiche può garantire, forze autenticamente liberali e democratiche possano dire la loro. Comunque dalla democrazia formale e dal «rito» delle elezioni si dovrà passare. Meglio prima che poi.
UPDATE: Anche Carlo Panella ha risposto a Magdi Allam:
«Magdi Allam ha ragione a prevedere questi esiti elettorali catastrofici. Ma ha torto nel pensare che vi sia un'alternativa. Questa tematica è molto presente nel dibattito dottrinale che attraversa da anni gli Stati Uniti dai tempi di Kennedy, tanto che la "Great Middle East Strategy" presentata da George W. Bush al G8 di Savannah, nel 2004, s'impernia innanzitutto sulla diffusione della parità di diritti della donna, dell'istruzione, dell'informazione, e non soltanto sull'indizione di elezioni democratiche (Magdi comunque sbaglia a citare quelle iraniane, che sono una farsa in salsa bulgara). Il problema è, però, che non esistono nei paesi musulmani forti leadership nè di governo nè di opposizione disposte a diffondere i diritti umani, neanche in cambio della garanzie di continuità dei loro regimi».
Idee regalo
Cosa regalare per Natale al vostro uomo che ha già tutto? Al costo di poche migliaia di dollari potreste regalargli la vostra verginità ritrovata. Negli Stati Uniti infatti, è boom per ogni fascia di età della imenoplastica, pratica chirurgica per la ricostruzione dell'imene finora riservata alle ragazze per tornare illibate prima del matrimonio. Ora, secondo il Wall Street Journal, è sempre più richiesta da signore attempate per dare nuovo slancio al matrimonio.
Fonte: Yahoo News
La Chiesa: sì all'imenoplastica, ma solo se il nuovo imene è per sempre. Trattamenti agevolati per chi vuol farsi suora.
Auguri a Elton John. Uno dei primi gay a sposarsi grazie alla nuova normativa inglese, che non ha destato scandalo come quella spagnola.
Fonte: Yahoo News
La Chiesa: sì all'imenoplastica, ma solo se il nuovo imene è per sempre. Trattamenti agevolati per chi vuol farsi suora.
Auguri a Elton John. Uno dei primi gay a sposarsi grazie alla nuova normativa inglese, che non ha destato scandalo come quella spagnola.
In solidarietà del leghista e del fascista
Bisogna dare atto alla Lega Nord che in quasi 20 anni di attività non è mai stata protagonista di atti di violenza politica, nonostante idee spesso estremiste espresse in modo rozzo e facinoroso. La violenza politica oggi abita a sinistra, in un quartiere comodo e dabbene nel quale nessuno osa entrare. Capita quindi che decine di fascisti rossi possano malmenare selvaggiamente il "mostro" leghista, senza che nessuno si sconvolga più di tanto che per molti l'avversario politico sia meritevole di linciaggio. E la reazione quando va bene è qualche dichiarazione rituale, quando va male è il silenzio, e quando va peggio - su Liberazione, su l'Unità e sul Nazifesto - la vittima diventa persino provocatore. E scopriamo che ci sono in giro gang di picchiatori cui vengono riservati treni - zone off limits per la legalità - per recarsi alle manifestazioni. Non è difficile immaginare se fosse accaduto qualcosa di simile a qualche parlamentare di sinistra.
Mi è difficile invece indicare - anche per la mia fede calcistica - molti altri calciatori più antipatici di Paolo Di Canio, squalificato per una giornata a causa del saluto romano rivolto ai suoi tifosi al termine di una partita. Pensare che un saluto possa essere considerato reato, che un provvedimento disciplinare possa colpire qualcuno per il modo in cui saluta, è una cosa che mi fa rabbrividire. Ognuno è libero di farsi l'opinione che ritiene di quel fascistello di Di Canio, e la mia è delle peggiori, ma un saluto rimane un saluto. Punto.
Saluti romanisti
Mi è difficile invece indicare - anche per la mia fede calcistica - molti altri calciatori più antipatici di Paolo Di Canio, squalificato per una giornata a causa del saluto romano rivolto ai suoi tifosi al termine di una partita. Pensare che un saluto possa essere considerato reato, che un provvedimento disciplinare possa colpire qualcuno per il modo in cui saluta, è una cosa che mi fa rabbrividire. Ognuno è libero di farsi l'opinione che ritiene di quel fascistello di Di Canio, e la mia è delle peggiori, ma un saluto rimane un saluto. Punto.
Saluti romanisti
Vespa, petto in fuori e giù la maschera
Vespa, il gioco è finito, giù la maschera che hai portato per tutti questi anni. Pancia in dentro, petto in fuori, con fierezza a rivendicare la patria genìa. Bruno Vespa è figlio di Benito Mussolini. «La mascella è uguale, è identico negli occhi, lo sguardo, questa bocca, queste labbra... quello è il figlio, è mio zio», ha esclamato Alessandra Mussolini ospite della puntata di questa sera di Markette, la trasmissione condotta da Chiambretti su La7. «È vero, non dobbiamo fare il test del Dna su Vespa, Vespa è mio zio. Questa è la verità».
Nel periodo di detenzione del Duce a Campo Imperatore, cioè da fine agosto 1943 al 12 settembre 1943, giorno della sua liberazione ad opera dei nazisti, egli fu assistito da varie famiglie dell'acquilano tra cui la famiglia Vespa... Bruno è nato nel maggio 1944. Come si dice? Basta farsi due conti.
Comincio ad avere sospetti anche su Giulietto Chiesa. Qualcuno sa indicarmi le date che fanno al caso suo?
Nel periodo di detenzione del Duce a Campo Imperatore, cioè da fine agosto 1943 al 12 settembre 1943, giorno della sua liberazione ad opera dei nazisti, egli fu assistito da varie famiglie dell'acquilano tra cui la famiglia Vespa... Bruno è nato nel maggio 1944. Come si dice? Basta farsi due conti.
Comincio ad avere sospetti anche su Giulietto Chiesa. Qualcuno sa indicarmi le date che fanno al caso suo?
Monday, December 19, 2005
Il cocalero Morales alla guida della Bolivia
E' stato eletto il primo presidente autenticamente indio d'America latina. Evo Morales, leader del Movimento al socialismo (Mas). A preoccuparci non dovrebbe essere il fatto che Morales è anche massimo dirigente della Federazione dei coltivatori di coca del Chapare. Non condividendo la lotta alla droga e le politiche proibizioniste credo sia nel pieno diritto di ogni agricoltore coltivare il prodotto che ritiene più vantaggioso. Estirpare le piantagioni di coca dal Sud America, o bruciare quelle di papavero da oppio in Afghanistan, non serve contro la droga ma solo a impoverire aree già immensamente povere del mondo.
E comunque Morales sembra che abbia promesso di continuare la lotta contro il narcotraffico, «né la cocaina né il narcotraffico fanno parte della cultura boliviana...», ma la politica antidroga «non può voler dire zero coca e zero cocalero». Insomma, la tutela degli agricoltori mi pare legittima.
Piuttosto, Morales preoccupa perché socialista e anti-americano. Si è attribuito il titolo di «incubo per gli Stati Uniti» e annuncia di voler mettere «fine al neoliberalismo sfruttatore». Ha tutta l'aria di colui che condannerà la sua gente al sottosviluppo e condurrà il suo paese verso l'asse dei due dittatori antiamericani del continente Castro e Chavez. Staremo a vedere.
E comunque Morales sembra che abbia promesso di continuare la lotta contro il narcotraffico, «né la cocaina né il narcotraffico fanno parte della cultura boliviana...», ma la politica antidroga «non può voler dire zero coca e zero cocalero». Insomma, la tutela degli agricoltori mi pare legittima.
Piuttosto, Morales preoccupa perché socialista e anti-americano. Si è attribuito il titolo di «incubo per gli Stati Uniti» e annuncia di voler mettere «fine al neoliberalismo sfruttatore». Ha tutta l'aria di colui che condannerà la sua gente al sottosviluppo e condurrà il suo paese verso l'asse dei due dittatori antiamericani del continente Castro e Chavez. Staremo a vedere.
Stiamo vincendo, ma occorre pazienza
Non è stato un «missione compiuta» come pure qualcuno aveva ipotizzato, né un via al ritiro come anticipava qualcun altro. Il discorso di Bush di ieri alla nazione rifletteva invece i consigli e le argomentazioni dei neoconservatori e in questa occasione dello stesso Henry Kissinger. No al ritiro prima che la vittoria sia completa. Ritirarsi ora dall'Iraq, oltre a essere «disonorevole», perché significa abbandonare gli iracheni democratici, metterebbe in pericolo l'America, consegnando un paese al nemico che «ha giurato di attaccare» e mandando al mondo un segnale di cedimento dal quale i terroristi si sentirebbero galvanizzati e più pericolosi che mai. Le decisioni sui livelli delle truppe da mantenere in Iraq verranno prese non sulla base di calendari di ritiro artificiali, decisi a tavolino, con un occhio alla politica interna, ma sulle raccomandazioni dei comandanti sul campo.
«Possiamo vincere la guerra in Iraq e la stiamo vincendo», ma «il lavoro non è finito»: iracheni, americani e loro alleati hanno ancora di fronte «più prove e più sacrifici».
E' vero, «la guerra s'è rivelata più difficile del previsto e la ricostruzione più lenta», ma Bush ha invitato gli americani a non prestare attenzione ai «disfattisti» che credono che la guerra sia persa e non valga un sacrificio in più. Non è così, perché per ogni scena di violenza ce ne sono molte altre di ricostruzione. «Non lo credono neppure i terroristi: sappiamo dalle loro comunicazioni che sentono il laccio stringersi e temono la nascita di un Iraq democratico». Il voto «non significa la fine della violenza», ma «l'inizio di qualcosa di nuovo: una democrazia nel cuore del Grande Medio Oriente».
I terroristi non diventano pacifici se noi smettiamo di provocarli. E' esattamente il contrario. «Non si crea il terrorismo combattendo i terroristi, ma si alimenta il terrorismo ignorandoli».
«Possiamo vincere la guerra in Iraq e la stiamo vincendo», ma «il lavoro non è finito»: iracheni, americani e loro alleati hanno ancora di fronte «più prove e più sacrifici».
E' vero, «la guerra s'è rivelata più difficile del previsto e la ricostruzione più lenta», ma Bush ha invitato gli americani a non prestare attenzione ai «disfattisti» che credono che la guerra sia persa e non valga un sacrificio in più. Non è così, perché per ogni scena di violenza ce ne sono molte altre di ricostruzione. «Non lo credono neppure i terroristi: sappiamo dalle loro comunicazioni che sentono il laccio stringersi e temono la nascita di un Iraq democratico». Il voto «non significa la fine della violenza», ma «l'inizio di qualcosa di nuovo: una democrazia nel cuore del Grande Medio Oriente».
I terroristi non diventano pacifici se noi smettiamo di provocarli. E' esattamente il contrario. «Non si crea il terrorismo combattendo i terroristi, ma si alimenta il terrorismo ignorandoli».
In Solidarietà con Alain Finkielkraut
La voglia di individuare il nemico è più forte di quella di risolvere i problemi. Quel «modo adolescenziale di concepire la politica, e gli intellettuali sono i più adolescenti fra gli adolescenti»
E' diventato un intellettuale scomodo. Le Monde lo presenta come «una voce molto deviante, che dice cose che non escono nemmeno dalla bocca di Jean-Marie Le Pen». L'etichetta di razzista è stata attribuita ad Alain Finkielkraut per i suoi commenti sulla crisi delle banlieues di Parigi. Il politicamente corretto, ha detto Enrico Rufi introducendo la trasmissione che Radio Radicale gli ha dedicato, «si è scatenato contro di lui sbattendo il "mostro" in prima pagina», come nella copertina del Nouvel Observateur. «Come è stato possibile nella Francia di oggi che un filosofo che si nutre dell'insegnamento di umanisti della statura di Albert Camus e Hannah Arendt possa essere rappresentato con i tratti odiosi del razzismo?». La stampa italiana ha prontamente importato la categoria dei neo-reactionaries, di cui Finkielkraut sarebbe l'orchestratore. «Io cerco la verità – ha spiegato Finkielkraut – e a volte per trovare il vero, devo strappare il velo dei discorsi convenzionali. Lo faccio a mio rischio e pericolo, col rischio di sbagliare e di suscitare, per quel poco di verità che riesco a scoprire, odi inespiabili».
Radio Radicale ha pensato di dedicare una trasmissione in solidarietà di Finkielkraut, alla quale hanno partecipato, oltre a Rufi, il direttore di Tempi Luigi Amicone, il direttore del Foglio Giuliano Ferrara, il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin e lo stesso intellettuale francese in collegamento. Bordin ha spiegato i perché della solidarietà. Anche i radicali sono «abituati a combattere battaglie sul fronte dell'informazione perché le loro posizioni vengano correttamente riportate e riconoscono nelle operazioni contro Finkielkraut le operazioni che hanno dovuto subire». Inoltre, aggiunge Bordin, nei ragionamenti di Finkielkraut ritroviamo «la complessità dei ragionamenti radicali» e spesso dei richiami a Camus, molto caro a Pannella, a Rufi e ai radicali. Soprattutto «il concetto che i dominati non sempre sono innocenti è molto radicale e molto poco politically correct». Su temi quali il divieto del velo islamico nelle scuole francesi e il giudizio sull'attuale Papa, Bordin e Rufi sentono più «assonanza» con Finkielkraut che con Amicone e Ferrara, i quali comunque hanno espresso la loro solidarietà al filosofo.
La realtà fa paura. E' questo il problema della Francia e dell'Europa per Finkielkraut. Siamo di fronte a «un fenomeno senza precedenti, un'immigrazione piena di odio». Di fronte a essa, temendo l'accusa di razzismo, vi è la «tendenza a minimizzare, nella lingua rassicurante del progressismo che divide il mondo fra dominanti (sempre colpevoli) e dominati (sempre innocenti anche quando sembrano colpevoli)». Al di là degli schieramenti politici, ovunque vi è «la tentazione a sostituire la preoccupazione per il mondo con la voglia di individuare un nemico; invece di affrontare i problemi in Francia si preferisce individuare i nemici tra coloro che indicano i problemi». E' «un modo adolescenziale di concepire la politica, e gli intellettuali sono i più adolescenti fra gli adolescenti», osserva il filosofo. In questo modo «l'antirazzismo eredita ciò che il razzismo ha di peggiore in sé, l'essenzializzazione dell'uomo».
Un politico in Francia che ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome è il ministro dell'Interno Sarkozy, sostiene Ferrara. Non tutte le cose che dice Sarkozy lo convincono, ma secondo Finkielkraut gran parte dei media francesi sbaglia a identificarlo come leader del fronte di Le Pen. Per aver chiamato «feccia» i rivoltosi delle banlieues, ora si dice che il ministro pensi che lo siano tutti i neri e gli arabi, ma è «una bugia enorme che soddisfa solo la voglia del nemico e di rappresentare un ministro dell'Interno fascista». «Ci rassegneremo alla protezione del Papa - ha detto con ironia Ferrara - la più importante autorità laica». Ma Finkielkraut si è detto molto «impressionato» da Benedetto XVI, perché gli sembra un «dissidente all'interno della sua stessa Chiesa».
E' diventato un intellettuale scomodo. Le Monde lo presenta come «una voce molto deviante, che dice cose che non escono nemmeno dalla bocca di Jean-Marie Le Pen». L'etichetta di razzista è stata attribuita ad Alain Finkielkraut per i suoi commenti sulla crisi delle banlieues di Parigi. Il politicamente corretto, ha detto Enrico Rufi introducendo la trasmissione che Radio Radicale gli ha dedicato, «si è scatenato contro di lui sbattendo il "mostro" in prima pagina», come nella copertina del Nouvel Observateur. «Come è stato possibile nella Francia di oggi che un filosofo che si nutre dell'insegnamento di umanisti della statura di Albert Camus e Hannah Arendt possa essere rappresentato con i tratti odiosi del razzismo?». La stampa italiana ha prontamente importato la categoria dei neo-reactionaries, di cui Finkielkraut sarebbe l'orchestratore. «Io cerco la verità – ha spiegato Finkielkraut – e a volte per trovare il vero, devo strappare il velo dei discorsi convenzionali. Lo faccio a mio rischio e pericolo, col rischio di sbagliare e di suscitare, per quel poco di verità che riesco a scoprire, odi inespiabili».
Radio Radicale ha pensato di dedicare una trasmissione in solidarietà di Finkielkraut, alla quale hanno partecipato, oltre a Rufi, il direttore di Tempi Luigi Amicone, il direttore del Foglio Giuliano Ferrara, il direttore di Radio Radicale Massimo Bordin e lo stesso intellettuale francese in collegamento. Bordin ha spiegato i perché della solidarietà. Anche i radicali sono «abituati a combattere battaglie sul fronte dell'informazione perché le loro posizioni vengano correttamente riportate e riconoscono nelle operazioni contro Finkielkraut le operazioni che hanno dovuto subire». Inoltre, aggiunge Bordin, nei ragionamenti di Finkielkraut ritroviamo «la complessità dei ragionamenti radicali» e spesso dei richiami a Camus, molto caro a Pannella, a Rufi e ai radicali. Soprattutto «il concetto che i dominati non sempre sono innocenti è molto radicale e molto poco politically correct». Su temi quali il divieto del velo islamico nelle scuole francesi e il giudizio sull'attuale Papa, Bordin e Rufi sentono più «assonanza» con Finkielkraut che con Amicone e Ferrara, i quali comunque hanno espresso la loro solidarietà al filosofo.
La realtà fa paura. E' questo il problema della Francia e dell'Europa per Finkielkraut. Siamo di fronte a «un fenomeno senza precedenti, un'immigrazione piena di odio». Di fronte a essa, temendo l'accusa di razzismo, vi è la «tendenza a minimizzare, nella lingua rassicurante del progressismo che divide il mondo fra dominanti (sempre colpevoli) e dominati (sempre innocenti anche quando sembrano colpevoli)». Al di là degli schieramenti politici, ovunque vi è «la tentazione a sostituire la preoccupazione per il mondo con la voglia di individuare un nemico; invece di affrontare i problemi in Francia si preferisce individuare i nemici tra coloro che indicano i problemi». E' «un modo adolescenziale di concepire la politica, e gli intellettuali sono i più adolescenti fra gli adolescenti», osserva il filosofo. In questo modo «l'antirazzismo eredita ciò che il razzismo ha di peggiore in sé, l'essenzializzazione dell'uomo».
Un politico in Francia che ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome è il ministro dell'Interno Sarkozy, sostiene Ferrara. Non tutte le cose che dice Sarkozy lo convincono, ma secondo Finkielkraut gran parte dei media francesi sbaglia a identificarlo come leader del fronte di Le Pen. Per aver chiamato «feccia» i rivoltosi delle banlieues, ora si dice che il ministro pensi che lo siano tutti i neri e gli arabi, ma è «una bugia enorme che soddisfa solo la voglia del nemico e di rappresentare un ministro dell'Interno fascista». «Ci rassegneremo alla protezione del Papa - ha detto con ironia Ferrara - la più importante autorità laica». Ma Finkielkraut si è detto molto «impressionato» da Benedetto XVI, perché gli sembra un «dissidente all'interno della sua stessa Chiesa».
Sunday, December 18, 2005
Cari Nobili e Lioni...
Cari Nobili e Lioni,
con la vostra appassionata lettera aperta al Riformista (10.12.2005) avete centrato la vera questione sociale del nostro paese: la mancanza di ricambio generazionale nelle università, nel lavoro, nelle professioni, nella politica. La responsabilità politica – ed è il caso di dirlo, morale – della nostra vecchia classe dirigente è delle più gravi. Non ha assolto uno dei principali compiti della leadership di un paese: immaginare, programmare, non ipotecare il futuro dei suoi figli. Invece, attingendo a piene mani alla spesa pubblica, ha garantito per sé un tenore di vita al di sopra delle possibilità reali, scaricando sulle spalle delle generazioni future l'onere dei debiti contratti. La crisi del sistema pensionistico è emblematica del carattere generazionale della questione sociale.
I figli escono tardi dalla casa dei genitori? C'entrano forse gli studi completati fra i 28 e 30 anni? C'entrano affitti e mutui alle stelle e banche che non finanziano le idee? La nostra fiducia nel futuro è sotto i tacchi. A deprimerla è lo spreco generato dai mille privilegi. Pensiamo al nostro studio, al nostro lavoro, alle nostre imprese, ai nostri risparmi, alle professioni blindate, agli svantaggiati e ai meritevoli esclusi. Su ogni aspetto della nostra vita grava l'enorme spreco di risorse. Ecco dove muore, oggi, la nostra fiducia. Di fronte ai privilegi dei burocrati, dei professionisti iscritti agli ordini, delle imprese operanti in regime di oligo-mono-polio, dei senza lavoro dotati di posti di lavoro, di corrotti e collusi, di evasori e abusivi, dei settori industriali assistiti ma decotti da decenni e sì, anche della chiesa, con il denaro pubblico che riceve. Qualunque spesa o norma dello Stato che distorce le logiche del merito, del mercato e della concorrenza, comprime le opportunità, si risolve in uno spreco, crea ingiustizie. Chi meglio di noi può rendersene conto?
Gli obiettivi di crescita economica, mobilità sociale, e servizi di qualità, richiedono l'approccio liberale e blairiano dell'Enabling State. Lo Stato che abilita, accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo lìinscindibile binomio libertà/responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori. «Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone», dice Tony Blair. E parafrasando Blair, con i miei amici dellìAssociazione on line Lievito Riformatore diciamo "Tough on Waste": duri contro i privilegi, contro tutti i privilegi.
Servono i punti chiari dell'«agenda Giavazzi» e la cultura liberale dei radicali, visti spesso con insofferenza proprio dalla Margherita. E' necessario e salutare lo scontro con le corporazioni e con i sindacati più conservatori, lo scontro tra una sinistra liberale e l'«ultrasinistra» corporativa, che sul Riformista Biagio De Giovanni non esita a definire reazionaria. Non dovendo ricorrere alla preposizione "ex" per definire la nostra identità politica, né difendere il percorso di una vita o posizioni acquisite, né nascondere i segni del tempo su vecchie tradizioni politiche, chi può esserne migliore interprete se non la nostra generazione? Poniamoci non la speranza, ma l'obiettivo di un Partito Democratico all'americana. Non veicolo dei pregiudizi della cultura catto-comunista nel XXI secolo, ma di un Dna preciso: individuo, mercato, interventismo democratico. E una laicità non ritorsiva che si contrapponga a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica.
con la vostra appassionata lettera aperta al Riformista (10.12.2005) avete centrato la vera questione sociale del nostro paese: la mancanza di ricambio generazionale nelle università, nel lavoro, nelle professioni, nella politica. La responsabilità politica – ed è il caso di dirlo, morale – della nostra vecchia classe dirigente è delle più gravi. Non ha assolto uno dei principali compiti della leadership di un paese: immaginare, programmare, non ipotecare il futuro dei suoi figli. Invece, attingendo a piene mani alla spesa pubblica, ha garantito per sé un tenore di vita al di sopra delle possibilità reali, scaricando sulle spalle delle generazioni future l'onere dei debiti contratti. La crisi del sistema pensionistico è emblematica del carattere generazionale della questione sociale.
I figli escono tardi dalla casa dei genitori? C'entrano forse gli studi completati fra i 28 e 30 anni? C'entrano affitti e mutui alle stelle e banche che non finanziano le idee? La nostra fiducia nel futuro è sotto i tacchi. A deprimerla è lo spreco generato dai mille privilegi. Pensiamo al nostro studio, al nostro lavoro, alle nostre imprese, ai nostri risparmi, alle professioni blindate, agli svantaggiati e ai meritevoli esclusi. Su ogni aspetto della nostra vita grava l'enorme spreco di risorse. Ecco dove muore, oggi, la nostra fiducia. Di fronte ai privilegi dei burocrati, dei professionisti iscritti agli ordini, delle imprese operanti in regime di oligo-mono-polio, dei senza lavoro dotati di posti di lavoro, di corrotti e collusi, di evasori e abusivi, dei settori industriali assistiti ma decotti da decenni e sì, anche della chiesa, con il denaro pubblico che riceve. Qualunque spesa o norma dello Stato che distorce le logiche del merito, del mercato e della concorrenza, comprime le opportunità, si risolve in uno spreco, crea ingiustizie. Chi meglio di noi può rendersene conto?
Gli obiettivi di crescita economica, mobilità sociale, e servizi di qualità, richiedono l'approccio liberale e blairiano dell'Enabling State. Lo Stato che abilita, accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo lìinscindibile binomio libertà/responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori. «Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone», dice Tony Blair. E parafrasando Blair, con i miei amici dellìAssociazione on line Lievito Riformatore diciamo "Tough on Waste": duri contro i privilegi, contro tutti i privilegi.
Servono i punti chiari dell'«agenda Giavazzi» e la cultura liberale dei radicali, visti spesso con insofferenza proprio dalla Margherita. E' necessario e salutare lo scontro con le corporazioni e con i sindacati più conservatori, lo scontro tra una sinistra liberale e l'«ultrasinistra» corporativa, che sul Riformista Biagio De Giovanni non esita a definire reazionaria. Non dovendo ricorrere alla preposizione "ex" per definire la nostra identità politica, né difendere il percorso di una vita o posizioni acquisite, né nascondere i segni del tempo su vecchie tradizioni politiche, chi può esserne migliore interprete se non la nostra generazione? Poniamoci non la speranza, ma l'obiettivo di un Partito Democratico all'americana. Non veicolo dei pregiudizi della cultura catto-comunista nel XXI secolo, ma di un Dna preciso: individuo, mercato, interventismo democratico. E una laicità non ritorsiva che si contrapponga a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica.
E' svolta vera?/2
Con i soliti esperti che vedendo ogni volta smentite le loro fosche previsioni continuano a fare i pompieri sulle fiammelle di ottimismo se la prendono Robert Kagan e William Kristol dalle pagine del Weekly Standard. Stavolta è un lavoro particolarmente duro spiegare perché elezioni pacifiche di un'assemblea nazionale in una democrazia araba completamente indipendente non rappresentino una svolta. C'è qualcuno a sinistra che senza ambiguità e distinguo celebra l'«eruzione della democrazia nel cuore del mondo arabo»? Non è forse uno «spartiacque» l'elevata partecipazione dei sunniti al voto?
La strategia antiguerriglia adottata dalle forze americane impegnate sul campo e sempre maggiori truppe irachene finalmente operative hanno creato un contesto di maggiore sicurezza nel quale più iracheni hanno trovato il coraggio di recarsi alle urne. Era la paura di essere uccisi, non la contrarietà al processo democratico, che teneva lontani anche molti sunniti.
E siamo sicuri che non si tratti di un punto di svolta anche per l'intera regione? Un insegnante sciita ha detto al Los Angeles Times di essere «orgoglioso come iracheno perché il nostro paese sta diventando un centro di attrazione per tutti i paesi arabi. La nuova situazione in Iraq, il sistema democratico, sta iniziando a esercitare pressione sui sistemi arabi perché si faccia qualche cambiamento verso la democrazia». Kagan e Kristol osservano che «tali considerazioni non possono ancora essere liberamente espresse nelle sale di Washington e New York. Ma sembrano avere senso nell'Iraq di oggi».
Anche il "pragmatico" Kissinger ritiene «plausibile» la strategia di Bush in Iraq e avverte che «la pazienza, questo la storia insegna, è prerequisito indispensabile per la vittoria...». L'ex segretaio di Stato affronta in modo pragmatico lo spinoso tema del rientro delle truppe, spiegando che questo non deve dipendere da fattori di politica interna.
Il ruolo delle nuove truppe irachene non dovrà essere di sostituire quelle americane, ma di affiancarsi a quelle della coalizione. E il grado della loro preparazione non dev'essere misurato tanto in abilità tecniche quanto nella consapevolezza di ciò per cui combattono, cioè la difesa del processo politico democratico e degli interessi della nazione, e non regionali o etnici.
Kissinger rilancia la sua proposta di un gruppo di contatto per la stabilità della regione che includa i paesi europei alleati chiave, India, Pakistan, Turchia e i paesi confinanti con l'Iraq. Perché il processo politico in Iraq non avrà successo finché non verrà «ancorato» a un qualche consenso internazionale, non in ossequio al multilateralismo, ma per determinare un nuovo sistema regionale condiviso.
La strategia antiguerriglia adottata dalle forze americane impegnate sul campo e sempre maggiori truppe irachene finalmente operative hanno creato un contesto di maggiore sicurezza nel quale più iracheni hanno trovato il coraggio di recarsi alle urne. Era la paura di essere uccisi, non la contrarietà al processo democratico, che teneva lontani anche molti sunniti.
E siamo sicuri che non si tratti di un punto di svolta anche per l'intera regione? Un insegnante sciita ha detto al Los Angeles Times di essere «orgoglioso come iracheno perché il nostro paese sta diventando un centro di attrazione per tutti i paesi arabi. La nuova situazione in Iraq, il sistema democratico, sta iniziando a esercitare pressione sui sistemi arabi perché si faccia qualche cambiamento verso la democrazia». Kagan e Kristol osservano che «tali considerazioni non possono ancora essere liberamente espresse nelle sale di Washington e New York. Ma sembrano avere senso nell'Iraq di oggi».
Anche il "pragmatico" Kissinger ritiene «plausibile» la strategia di Bush in Iraq e avverte che «la pazienza, questo la storia insegna, è prerequisito indispensabile per la vittoria...». L'ex segretaio di Stato affronta in modo pragmatico lo spinoso tema del rientro delle truppe, spiegando che questo non deve dipendere da fattori di politica interna.
Il ruolo delle nuove truppe irachene non dovrà essere di sostituire quelle americane, ma di affiancarsi a quelle della coalizione. E il grado della loro preparazione non dev'essere misurato tanto in abilità tecniche quanto nella consapevolezza di ciò per cui combattono, cioè la difesa del processo politico democratico e degli interessi della nazione, e non regionali o etnici.
Kissinger rilancia la sua proposta di un gruppo di contatto per la stabilità della regione che includa i paesi europei alleati chiave, India, Pakistan, Turchia e i paesi confinanti con l'Iraq. Perché il processo politico in Iraq non avrà successo finché non verrà «ancorato» a un qualche consenso internazionale, non in ossequio al multilateralismo, ma per determinare un nuovo sistema regionale condiviso.
Nella tortura il seme del totalitarismo
«Se tortura, l'America perde se stessa». «Legalizzare gli abusi significa rimuovere i valori che vogliamo promuovere». E' una replica con solide argomentazioni quella di Andrew Sullivan a Charles Krauthammer, che aveva ipotizzato giorni fa la necessità di legalizzare la tortura in condizioni strettamente limitate e solo previa autorizzazione di alte autorità istituzionali. Oggi sappiamo che il presidente Bush ha espresso il suo favore all'emendamento McCain che bandisce ogni «trattamento crudele, inumano e degradante» dei prigionieri.
Ma gli argomenti di Sullivan meritano un'attenta lettura. Spiega quanto sia profondamente disumano «spezzare» un individuo, perché lo si priva per sempre della sua «integrità».
Ma gli argomenti di Sullivan meritano un'attenta lettura. Spiega quanto sia profondamente disumano «spezzare» un individuo, perché lo si priva per sempre della sua «integrità».
«Nella relazione tra torturato e torturatore si mostra la cieca tenebra del totalitarismo... Siamo di fronte all'utilizzo di un riflesso umano elementare e insopprimibile... finalizzato alla distruzione dell'autonomia di una persona».Lo scopo dei torturatori di Stato delle epoche passate era quello di «annientare l'autonomia dell'eretico» ricorrendo al terrore fisico. In altre parole, «distruggere l'anima di un essere umano per salvarla». A quelle pratiche si contrapposero le teorie della libertà individuale su cui si fonda oggi l'Occidente. Se democrazia e liberalismo non mettono l'uomo al riparo dal commettere crimini e atrocità, tuttavia gli forniscono gli strumenti culturali per riconoscerli come tali e correggersi. I trattamenti degradanti riservati da alcuni secondini americani ai prigionieri iracheni ad Abu Ghraib, proprio perché illegali e perseguiti dalle autorità, non devono indurre a porre sullo stesso piano gli Stati Uniti e il regime di Saddam o altri regimi che si avvalgono della tortura di stato.
«... il concetto stesso di libertà occidentale è scaturito dalla consapevolezza che, se lo Stato ha il potere di arrivare tanto a fondo nell'anima di una persona e può a tal punto danneggiare un individuo, lo Stato stesso ha esaurito tutto l'ossigeno necessario alla sopravvivenza della libertà. Qualsiasi sistema di governo approvi la tortura, ha incorporato nel suo Dna un gene totalitario».Se vogliamo combattere in modo coerente ed efficace le peggiori disumanità del nostro tempo, come il nazismo ieri e il terrorismo oggi, è sbagliato ritenere che colui che si macchia di atti atroci abbia in qualche modo titolo a un trattamento inumano. Dobbiamo guardarci dalla tentazione di negare il carattere di umanità a coloro che ci appaiono dei «mostri» assetati di morte, non solo per uno scrupolo morale, ma anche perché dal punto di vista culturale e concettuale «ridurli a un livello subumano significa esonerarli dalla responsabilità dei loro atti».
Saturday, December 17, 2005
CapezzOne politico dell'anno?
«L'immagine che Daniele Capezzone dà di sé come uomo politico è la migliore che abbiamo mai riscontrato, forse perché non è mai stato ricondotto ad un "politico vero". Nell'immaginario collettivo, il segretario dei Radicali Italiani, pur operando nello stesso settore, è stato sempre collocato a grande distanza dagli altri politici, come se fosse un politico che lavora non per la politica, ma contro la politica».
E' il commento con cui il numero di dicembre del periodico Il Clandestino, diretto da Luigi Crespi, presenta la ricerca dell'istituto Ekma dedicata al personaggio politico Daniele Capezzone.
Un vero trionfo sotto le voci competente (per il 93,5% degli intervistati che hanno dichiarato di sapere chi è) e onesto (94,7%). Bene anche sulle voci sincero (73,3%), dinamico (78,8%) e simpatico (57,6%). Da migliorare la voce indipendente (solo per il 47,2%), sulla quale evidentemente pesa la figura di Pannella.
E' il commento con cui il numero di dicembre del periodico Il Clandestino, diretto da Luigi Crespi, presenta la ricerca dell'istituto Ekma dedicata al personaggio politico Daniele Capezzone.
Un vero trionfo sotto le voci competente (per il 93,5% degli intervistati che hanno dichiarato di sapere chi è) e onesto (94,7%). Bene anche sulle voci sincero (73,3%), dinamico (78,8%) e simpatico (57,6%). Da migliorare la voce indipendente (solo per il 47,2%), sulla quale evidentemente pesa la figura di Pannella.
L'Europa si trascina avanti
E' forte in molti la tentazione di addebitare a Blair questo compromesso al ribasso sul bilancio dell'Ue. Non è così: la responsabilità è di quei paesi che hanno difeso strenuamente lo status quo impedendo ogni revisione delle voci di spesa. Mi sembrava coerente che la presidenza di turno britannica, che ritiene oggi il bilancio dell'Ue male investito e inadeguato a sostenere le politiche di sviluppo necessarie, tendesse a ridurre la spesa piuttosto che incrementarla in assenza della disponibilità degli altri paesi a invertire drasticamente la rotta nel senso indicato da Blair all'apertura del semestre. E mi sembrava ragionevole che la Gran Bretagna fosse pronta a rivedere il suo privilegio solo a patto che gli altri paesi facessero altrettanto con i loro. E invece Blair, pur di dare all'Ue un bilancio, qualche che fosse, ha accettato di rivedere il suo sconto senza ottenere nulla di concreto in cambio.
Cosa ha ottenuto Blair: nell'accordo i 25 paesi membri invitano «la Commissione europea a realizzare un'ampia revisione di tutti gli aspetti della spesa dell'Ue, inclusa la Pac ma anche il rimborso britannico», rapporto che dovrà essere «presentato nel 2008-09». E «il Consiglio europeo potrà prendere decisioni su tutti le tematiche incluse» in tale documento. In pratica Blair ha ottenuto da Parigi e Berlino di non escludere in linea di principio che una revisione del bilancio da attuare nel 2008 possa ridurre le spese per la politica agricola comune, tanto cara a Chirac, anche prima della scadenza prevista per il 2013.
Cosa ha concesso Blair: la Gran Bretagna rinuncia a 10,5 miliardi del suo sconto anziché 8 come inizialmente offerti da Blair. Il bilancio passa dall'1,03% della proposta Gb all'1,045% (862,363 miliardi) della proposta Merkel, il che significa un aumento delle risorse per i paesi dell'allargamento.
Cosa ha ottenuto Blair: nell'accordo i 25 paesi membri invitano «la Commissione europea a realizzare un'ampia revisione di tutti gli aspetti della spesa dell'Ue, inclusa la Pac ma anche il rimborso britannico», rapporto che dovrà essere «presentato nel 2008-09». E «il Consiglio europeo potrà prendere decisioni su tutti le tematiche incluse» in tale documento. In pratica Blair ha ottenuto da Parigi e Berlino di non escludere in linea di principio che una revisione del bilancio da attuare nel 2008 possa ridurre le spese per la politica agricola comune, tanto cara a Chirac, anche prima della scadenza prevista per il 2013.
Cosa ha concesso Blair: la Gran Bretagna rinuncia a 10,5 miliardi del suo sconto anziché 8 come inizialmente offerti da Blair. Il bilancio passa dall'1,03% della proposta Gb all'1,045% (862,363 miliardi) della proposta Merkel, il che significa un aumento delle risorse per i paesi dell'allargamento.
Friday, December 16, 2005
Se Boselli tradisce Tony Blair
Capirete che a me è preso un colpo quando l'ho letto. La vorrei di qualità, mentre lui, Boselli, la vuole pubblica, intendendo per «pubblica» in realtà «statale». E' il titolo di un editoriale del presidente dello Sdi sul settimanale Avvenimenti. E Boselli ha l'ardire di cominciare parafrasando, dice lui, Tony Blair e il suo motto Education Education Education. Più che a parafrasarlo, riesce a tradirlo, trasformandolo in Scuola pubblica Scuola pubblica Scuola pubblica, che è tutt'altra cosa. Eravamo tutti troppo entusiasti per ciò che si stava costruendo al Congresso di Radicali italiani per rimarcare il suo scivolone già allora, ma ora possiamo fermarci a ragionare.
Nella sua riforma scolastica, durata un decennio e non ancora completata, Blair si è guardato bene dal mettersi nelle mani della scuola statale concentrando su di essa tutti i finanziamenti. Non è questo che s'intende quanto si dice che bisogna investire sulla formazione. I temi dell'innovazione, della ricerca e della formazione devono essere senz'altro centrali nella proposta politica della Rosa nel pugno, ma continuare a foraggiare l'attuale sistema scuola e università senza riforme capaci di provocare una profonda ristrutturazione significa buttare i soldi dalla finestra. Quindi, inutile protestare contro i presunti tagli in finaziaria, soprattutto quando non si dice da quali voci di spesa si preleverebbero i finanziamenti ritenuti adeguati. Si tratta di un punto qualificante per la Rosa. Non siamo affatto per «dislocare ulteriori risorse» sulla scuola statale.
Prima di tutto, come metodo, il punto di partenza dev'essere la riforma Moratti. Poi, investire molto sì, ma nel contesto di una riforma blairiana che nessuno mi pare abbia il coraggio di declinare senza tradire Blair. Se l'obiettivo è la qualità della formazione, se al centro devono ritornare gli studenti e le loro famiglie, i mezzi non possono che essere concorrenza spietata e meritocrazia, proprio i due principi su cui Blair ha fondato la sua politica scolastica.
Leggi tutto su Notizie Radicali
Nella sua riforma scolastica, durata un decennio e non ancora completata, Blair si è guardato bene dal mettersi nelle mani della scuola statale concentrando su di essa tutti i finanziamenti. Non è questo che s'intende quanto si dice che bisogna investire sulla formazione. I temi dell'innovazione, della ricerca e della formazione devono essere senz'altro centrali nella proposta politica della Rosa nel pugno, ma continuare a foraggiare l'attuale sistema scuola e università senza riforme capaci di provocare una profonda ristrutturazione significa buttare i soldi dalla finestra. Quindi, inutile protestare contro i presunti tagli in finaziaria, soprattutto quando non si dice da quali voci di spesa si preleverebbero i finanziamenti ritenuti adeguati. Si tratta di un punto qualificante per la Rosa. Non siamo affatto per «dislocare ulteriori risorse» sulla scuola statale.
Prima di tutto, come metodo, il punto di partenza dev'essere la riforma Moratti. Poi, investire molto sì, ma nel contesto di una riforma blairiana che nessuno mi pare abbia il coraggio di declinare senza tradire Blair. Se l'obiettivo è la qualità della formazione, se al centro devono ritornare gli studenti e le loro famiglie, i mezzi non possono che essere concorrenza spietata e meritocrazia, proprio i due principi su cui Blair ha fondato la sua politica scolastica.
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E' svolta vera?
Avendo annunciato molte altre volte la svolta a ogni passaggio del processo democratico iracheno, per poi constatare per la violenza crescente che nulla sembrava essere cambiato, i critici dell'amministrazione hanno buon gioco a parlare di ennesima tappa anche in questa occasione. Eppure le elezioni di ieri sono state davvero una «pietra angolare» del nuovo Iraq secondo Lawrence F. Kaplan, che scrive su New Republic. Al contrario dell'opinione prevalente, «la strategia politica di Washington in Iraq ha sempre avuto più senso di quella militare», se davvero tutti gli iracheni, sunniti compresi, hanno deciso di partecipare al processo democratico.
«Gli iracheni stanno praticando la democrazia che gli Stati Uniti gli avevano promesso quando deposero Saddam Hussein», osserva il Wall Street Journal, e stanno mandando un messaggio preciso a Jack Murtha e Howard Dean. «Mentre qui parlano là agiscono», scrive John Podhoretz sul New York Post. Thomas Smith su National Review racconta l'atmosfera «elettrizzante» della giornata elettorale e la cronaca fedele da molte delle principali città irachene, corredata da foto, la offre Iraq the Model.
Il «nuovo mondo arabo» di Bush sta riuscendo meglio di quanto si possa credere, osserva Duncan Currie sul Weekly Standard. Tra i progressi in Iraq, le dimostrazioni popolari in vari paesi arabi, le prime elezioni multipartitiche in Egitto, «molti liberal americani - e con essi le loro controparti in Canada e in Europa occidentale - si sono ritrovati a chiedersi se la cacciata di Saddam Hussein e la conseguente spinta per la democrazia irachena non siano dopo tutto valsi la pena. Uno a uno, come tessere di un domino, i critici di Bush fanno passi avanti riconoscendo una parte d'errori».
«L'approccio di Bush era quello di tenere elezioni velocemente; ma un'altra scuola di pensiero, che tra gli aderenti vedeva l'editore di Newsweek Fareed Zakaria, il consigliere dell'ex Autorità provvisoria Larry Diamond, e chi scrive, ha a lungo sostenuto che l'amministrazione fosse precipitosa a instaurare una democrazia elettorale che per lo più ignorava i requisiti della democrazia liberale - ignorando, per esempio, che i benefici della democrazia nella prassi si perdono in società divise per motivi etnici e religiosi».Me se queste elezioni hanno davvero creato un'arena politica, allora la fretta era giustificata.
«E non solo come espediente politico: forse il principio del consenso che sta alla base del liberalismo significa davvero fare le elezioni per prima cosa. Se emergerà una democrazia stabile, non sarà perfetta. Ma Washington non sta rincorrendo un puro idealismo fine a se stesso in Iraq. Piuttosto il contrario: oggi, per lo meno, sembra che gli Stati Uniti sappiano cosa stanno facendo da sempre. Assaporiamo il momento».Victor Davis Hanson, su National Review, nota che «un grande numero di americani ha vissuto per un certo periodo come in un universo parallelo, dove tutto sembrava andare alla malora», a leggere il New York Times o il Washington Post la mattina e Newsweek la sera, a guardare John Murtha o Howard Dean nei talk show mattutini, as ascoltare la radio pubblica a pranzo. Adesso si ritorna nel «mondo reale degli adulti».
«Gli iracheni stanno praticando la democrazia che gli Stati Uniti gli avevano promesso quando deposero Saddam Hussein», osserva il Wall Street Journal, e stanno mandando un messaggio preciso a Jack Murtha e Howard Dean. «Mentre qui parlano là agiscono», scrive John Podhoretz sul New York Post. Thomas Smith su National Review racconta l'atmosfera «elettrizzante» della giornata elettorale e la cronaca fedele da molte delle principali città irachene, corredata da foto, la offre Iraq the Model.
Il «nuovo mondo arabo» di Bush sta riuscendo meglio di quanto si possa credere, osserva Duncan Currie sul Weekly Standard. Tra i progressi in Iraq, le dimostrazioni popolari in vari paesi arabi, le prime elezioni multipartitiche in Egitto, «molti liberal americani - e con essi le loro controparti in Canada e in Europa occidentale - si sono ritrovati a chiedersi se la cacciata di Saddam Hussein e la conseguente spinta per la democrazia irachena non siano dopo tutto valsi la pena. Uno a uno, come tessere di un domino, i critici di Bush fanno passi avanti riconoscendo una parte d'errori».
Rice contro Rice
Ecco come si risponde da "realisti" alla politica estera dell'amministrazione Bush. Non sostenendo che la «promessa della pace democratica» sia solo retorica per nascondere la continuità di una politica necessariamente "realista". Leggete Susan E. Rice, della Brookings Institution, sul Washington Post, per la quale Bush «rischia di riporre tutte le uova della sicurezza» degli Stati Uniti nel «cesto sbagliato». Il «cesto sbagliato» sarebbe la democrazia nel mondo arabo, ma la Rice "realista" non fa l'errore di negare che sia proprio quello il cesto cui l'amministrazione affida le sue uova.
«The jury remains out over whether democracy in the Arab world would yield governments more supportive of U.S. interests, produce populaces less sympathetic to jihadists or prevent al Qaeda from pursuing its goals through terrorism. At stake is more than presidential rhetoric. Democracy promotion has become the sole and defining element of President Bush's long-term counterterrorism approach. That is why the administration has an obligation to go beyond assertion and demonstrate convincingly that its one-dimensional strategy will yield the desired result. If it cannot, the administration risks putting all of our security eggs in the wrong basket».
Thursday, December 15, 2005
Sinistra indifferente alle questioni sociali
Su il Riformista di oggi:
Caro direttore, è vero: che un provvedimento d'amnistia veda la luce ci sono poche speranze. Ci vogliono i 2/3 del Parlamento e in questa legislatura una maggioranza così ampia non s'è mai vista. In periodo pre-elettorale poi, è ancora più improbabile. Ma questo non significa che Pannella e i radicali stiano illudendo i detenuti, anzi. La premessa di tutto è che la sinistra marci a Natale. E' in gioco il Dna stesso della sinistra e la sua amnesia. Efficiente nel convocare grandi manifestazioni ed eventi mediatici «per tutelare i già tutelati», nel mobilitare spesso un'area di consenso dove risiede un potere di conservazione, la sinistra è indifferente alle questioni sociali. Sociali non perché socialiste, ma perché interessano milioni di non tutelati nella nostra società. L'amnistia è la prima posta da Pannella, ma ne seguiranno altre: i Pacs, l'eutanasia, la ricerca scientifica, l'"agenda Giavazzi" per le liberalizzazioni e la lotta ai privilegi che comprimono la libertà e le opportunità dei non privilegiati. Se la sinistra non sa cominciare a battersi per i non tutelati, per gli esclusi, come può pensare al governo di risolvere le grandi questioni sociali?
Segnalo «Amnistia sconfitta necessaria», di Carlo Federico Grosso su La Stampa
Caro direttore, è vero: che un provvedimento d'amnistia veda la luce ci sono poche speranze. Ci vogliono i 2/3 del Parlamento e in questa legislatura una maggioranza così ampia non s'è mai vista. In periodo pre-elettorale poi, è ancora più improbabile. Ma questo non significa che Pannella e i radicali stiano illudendo i detenuti, anzi. La premessa di tutto è che la sinistra marci a Natale. E' in gioco il Dna stesso della sinistra e la sua amnesia. Efficiente nel convocare grandi manifestazioni ed eventi mediatici «per tutelare i già tutelati», nel mobilitare spesso un'area di consenso dove risiede un potere di conservazione, la sinistra è indifferente alle questioni sociali. Sociali non perché socialiste, ma perché interessano milioni di non tutelati nella nostra società. L'amnistia è la prima posta da Pannella, ma ne seguiranno altre: i Pacs, l'eutanasia, la ricerca scientifica, l'"agenda Giavazzi" per le liberalizzazioni e la lotta ai privilegi che comprimono la libertà e le opportunità dei non privilegiati. Se la sinistra non sa cominciare a battersi per i non tutelati, per gli esclusi, come può pensare al governo di risolvere le grandi questioni sociali?
Segnalo «Amnistia sconfitta necessaria», di Carlo Federico Grosso su La Stampa
Civiltà cattolica sbaglia bersaglio
Al solito, un problema di equazioni sbagliate. La «retorica» di Bush «sulla guerra mondiale contro il terrorismo è politicamente controproducente, perché porta acqua al mulino di quegli stessi che pretende di combattere». Lo scrive sul prossimo numero di Civiltà cattolica Christian Mellon, che mostra di non aver capito gran ché:
Più convincenti i suggerimenti dell'editoriale.
«Globalizzare la nozione di terrorismo, negando la specificità di ognuno dei "diversi terreni" del terrorismo, significa fare precisamente quello che vogliono gli islamici radicali; annettendo in qualche modo alla strategia non legata al territorio di al-Qaeda azioni che sono invece molto legate al territorio, si aiuta Bin Laden e i suoi seguaci a consolidare il mito di un'unica impresa di opposizione frontale, su scala mondiale, tra l'umma musulmana e un Occidente demonizzato in blocco. Parlare di "guerra mondiale al terrorismo" significa favorire uno degli obiettivi che si può attribuire all'islamismo più radicale: dare ragione alla celebre tesi di Huntington sullo scontro di civiltà: non basta dire che tale tesi ha scarso fondamento bisogna anche agire in maniera tale che essa non finisca per realizzarsi».Non è sottolineando il carattere mondiale dello scontro, o la comune matrice del terrorismo, che si avvalora la tesi dello scontro di civiltà. Il presidente Bush, gli esponenti della sua amministrazione, gli intellettuali di riferimento, non hanno mai parlato di scontro di civiltà o di religione. Hanno sempre sostenuto anche in articoli e documenti, come per esempio i consiglieri per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Stephen J. Hadley e Frances Fragos, la natura politico-ideologica dello scontro. Un confronto non fra culture ma fra sistemi politici e modelli di convivenza. Di scontro di civiltà e di religione si è parlato molto di più in Italia. Più equivoche le posizioni della Fallaci, di Pera e di Ferrara, qualche gaffe - prontamente corretta - di Ratzinger.
Più convincenti i suggerimenti dell'editoriale.
«Privilegiare piuttosto la sicurezza o piuttosto la libertà, accettare rischi più o meno gravi, andare più o meno lontano nelle misure eccezionali dipende da opzioni politiche ed etiche», ma «se una società democratica ne discute serenamente, se per tutelare i propri principi resiste ai richiami dovuti ai timori per la sicurezza pubblica, se rifiuta di farsi dettare le proprie opzioni politiche, nazionali e internazionali, per il timore di eventuali attentati, accetta con successo la sfida terroristica».
Gli iracheni si riprendono il futuro
Stavolta il botto più grande sarà il dato dell'affluenza (vicino al 70%), con le tre etnie irachene impegnate a confrontarsi all'ultimo voto anziché all'ultimo sangue. E solo questo passo avanti dovrebbe convincere che i sacrifici ne valgono la pena
Si sono svolte in Iraq le prime elezioni parlamentari dopo la caduta di Saddam Hussein. E' la terza volta in un anno che gli iracheni vengono chiamati alle urne. A gennaio hanno eletto un'assemblea costituente, a ottobre approvato il referendum sulla Costituzione. Centinaia i partiti e le coalizioni che si presentano nelle 18 province e migliaia i candidati. Il 25% degli eletti dovranno essere donne. Tra i principali partiti ci sono la coalizione curda di Jalal Talabani e Massoud Barzani, la coalizione di Iyyad Allawi (Lista nazionale irachena, Lni) e quella di Ahmed Chalabi (Alleanza unita irachena, Aui). Di matrice più strettamente religiosa sono i due partiti sciiti, il Dawa del premier Ibrahim Jaafari e lo Sciri di Abdulaziz al Hakim e il sunnita Fronte dell'accordo iracheno (Fai). I due nodi politici di queste elezioni sono il peso che avranno nel prossimo Parlamento i partiti religiosi e la riconciliazione nazionale.
«Il numero delle persone che stanno partecipando alle elezioni è molto, molto alto», ha commentato stamani l'Ambasciatore Usa in Iraq, Zalmay Khalilzad, precisando che una grande affluenza viene registrata anche nelle aree sunnite del paese. Sporadici gli atti di violenza. «Finora è una giornata positiva, positiva per noi e per l'Iraq, questo è il primo passo per far aderire gli arabi sunniti al processo politico e coinvolgerli nel governo». Una coalizione di governo moderata, inter-etnica, ma anche competente ad affrontare i problemi del nuovo Iraq (la riconciliazione, la sicurezza, la ricostruzione e lo sviluppo) è l'esito del voto auspicato da Khalilzad.
Tutte le tre principali etnie del paese (sciiti, sunniti, curdi) sono pienamente coinvolte nel voto. Anche la massima guida spirituale degli sciiti iracheni, il grande Ayatollah Ali al Sistani, ha invitato i fedeli a votare, ma fornendo solo un'indicazione generica a votare per i candidati che ritengano in grado di salvaguardare i loro interessi e principi.
C'è in gioco «ben più che la scelta di 275 parlamentari», scrive Peter Brookes sul New York Post. E' un momento chiave per «provocare il cambiamento in Iran e Siria, battere al Qaeda e rendere noto agli altri despoti del Medio Oriente che i loro giorni sono contati». Il voto di oggi potrebbe «scuotere come un terremoto i pilastri del terrore e della tirannia», creando «incubi democratici a coloro che si oppongono all'avanzata della libertà nella regione». "Why not us?", si potrebbero chiedere tutti i cittadini del Medio Oriente guardando votare gli iracheni.
Bernard Lewis, uno dei più autorevoli storici del Medio Oriente, non è tanto preoccupato dalla violenza degli insorti sunniti e dei terroristi quanto dalla crescente opposizione interna all'impegno del presidente Bush in Iraq: «Il mio ottimismo deriva dagli eventi in Medio Oriente e la mia cautela deriva guardando gli Stati Uniti». Si mette a ridere a sentir parlare di "Dottrina Lewis", ma se gli si chiede di descrivere il suo equivalente della teoria del containment utilizza l'espressione «strategia della liberazione»: «Rendere capaci i popoli del Medio Oriente a conseguire o recuperare la loro libertà, alla quale essi hanno diritto non meno che qualsiasi altro nel mondo... Il nostro lavoro non è creare democrazia. Il nostro lavoro è rimuovere gli ostacoli e lasciare che la creino per loro conto».
Lewis ha criticato l'amministrazione Bush per non essere riuscita a controllare il territorio subito dopo la veloce vittoria militare contro l'esercito di Saddam e ha concordato con la scelta di instaurare rapidamente un governo ad interim di iracheni invece di mettere su una reggenza in stile '800 coloniale. «Nonostante le difficoltà interne e il sabotaggio dall'esterno, il processo di democratizzazione ha avuto più successo di quanto chinque potesse sognarsi». E' improbabile che il cambiamento futuro avvenga sulla punta delle baionette americane. Più di esse, ritiene Lewis, possono fare l'assistenza dall'esterno alle forze di opposizione e lo sviluppo della società civile: «Iraniani e siriani con un piccolo aiuto dall'esterno possono fare da sé il lavoro».
Molti paragonano la sfida della trasformazione democratica del Medio Oriente a quella dell'ex blocco sovietico. Lewis invece preferisce paragonare la minaccia del radicalismo islamico all'Europa dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale, e osserva che «se Churchill e la sua squadra avessero dovuto affrontare lo stesso tipo di opposizione che affronta oggi il presidente Bush, Hitler avrebbe potuto benissimo vincere la guerra».
RadioRadicale.it
Si sono svolte in Iraq le prime elezioni parlamentari dopo la caduta di Saddam Hussein. E' la terza volta in un anno che gli iracheni vengono chiamati alle urne. A gennaio hanno eletto un'assemblea costituente, a ottobre approvato il referendum sulla Costituzione. Centinaia i partiti e le coalizioni che si presentano nelle 18 province e migliaia i candidati. Il 25% degli eletti dovranno essere donne. Tra i principali partiti ci sono la coalizione curda di Jalal Talabani e Massoud Barzani, la coalizione di Iyyad Allawi (Lista nazionale irachena, Lni) e quella di Ahmed Chalabi (Alleanza unita irachena, Aui). Di matrice più strettamente religiosa sono i due partiti sciiti, il Dawa del premier Ibrahim Jaafari e lo Sciri di Abdulaziz al Hakim e il sunnita Fronte dell'accordo iracheno (Fai). I due nodi politici di queste elezioni sono il peso che avranno nel prossimo Parlamento i partiti religiosi e la riconciliazione nazionale.
«Il numero delle persone che stanno partecipando alle elezioni è molto, molto alto», ha commentato stamani l'Ambasciatore Usa in Iraq, Zalmay Khalilzad, precisando che una grande affluenza viene registrata anche nelle aree sunnite del paese. Sporadici gli atti di violenza. «Finora è una giornata positiva, positiva per noi e per l'Iraq, questo è il primo passo per far aderire gli arabi sunniti al processo politico e coinvolgerli nel governo». Una coalizione di governo moderata, inter-etnica, ma anche competente ad affrontare i problemi del nuovo Iraq (la riconciliazione, la sicurezza, la ricostruzione e lo sviluppo) è l'esito del voto auspicato da Khalilzad.
Tutte le tre principali etnie del paese (sciiti, sunniti, curdi) sono pienamente coinvolte nel voto. Anche la massima guida spirituale degli sciiti iracheni, il grande Ayatollah Ali al Sistani, ha invitato i fedeli a votare, ma fornendo solo un'indicazione generica a votare per i candidati che ritengano in grado di salvaguardare i loro interessi e principi.
C'è in gioco «ben più che la scelta di 275 parlamentari», scrive Peter Brookes sul New York Post. E' un momento chiave per «provocare il cambiamento in Iran e Siria, battere al Qaeda e rendere noto agli altri despoti del Medio Oriente che i loro giorni sono contati». Il voto di oggi potrebbe «scuotere come un terremoto i pilastri del terrore e della tirannia», creando «incubi democratici a coloro che si oppongono all'avanzata della libertà nella regione». "Why not us?", si potrebbero chiedere tutti i cittadini del Medio Oriente guardando votare gli iracheni.
Bernard Lewis, uno dei più autorevoli storici del Medio Oriente, non è tanto preoccupato dalla violenza degli insorti sunniti e dei terroristi quanto dalla crescente opposizione interna all'impegno del presidente Bush in Iraq: «Il mio ottimismo deriva dagli eventi in Medio Oriente e la mia cautela deriva guardando gli Stati Uniti». Si mette a ridere a sentir parlare di "Dottrina Lewis", ma se gli si chiede di descrivere il suo equivalente della teoria del containment utilizza l'espressione «strategia della liberazione»: «Rendere capaci i popoli del Medio Oriente a conseguire o recuperare la loro libertà, alla quale essi hanno diritto non meno che qualsiasi altro nel mondo... Il nostro lavoro non è creare democrazia. Il nostro lavoro è rimuovere gli ostacoli e lasciare che la creino per loro conto».
Lewis ha criticato l'amministrazione Bush per non essere riuscita a controllare il territorio subito dopo la veloce vittoria militare contro l'esercito di Saddam e ha concordato con la scelta di instaurare rapidamente un governo ad interim di iracheni invece di mettere su una reggenza in stile '800 coloniale. «Nonostante le difficoltà interne e il sabotaggio dall'esterno, il processo di democratizzazione ha avuto più successo di quanto chinque potesse sognarsi». E' improbabile che il cambiamento futuro avvenga sulla punta delle baionette americane. Più di esse, ritiene Lewis, possono fare l'assistenza dall'esterno alle forze di opposizione e lo sviluppo della società civile: «Iraniani e siriani con un piccolo aiuto dall'esterno possono fare da sé il lavoro».
Molti paragonano la sfida della trasformazione democratica del Medio Oriente a quella dell'ex blocco sovietico. Lewis invece preferisce paragonare la minaccia del radicalismo islamico all'Europa dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale, e osserva che «se Churchill e la sua squadra avessero dovuto affrontare lo stesso tipo di opposizione che affronta oggi il presidente Bush, Hitler avrebbe potuto benissimo vincere la guerra».
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L'Iran fuori dai Mondiali di calcio. Israele al suo posto
La Fifa non abbia fifa
Furio Colombo, intervistato sul Corriere della Sera, lancia l'idea dell'esclusione della rappresentativa iraniana dai prossimi Mondiali di calcio del giugno/luglio 2006 in Germania come reazione alle numerose dichiarazioni antisemite del presidente Ahmadinejad, per «punire le sue frasi naziste». Doloroso, imbarazzante prendersela con lo sport, ma un «necessario segnale di fermezza». Certo, poi l'Europa dovrebbe metterci del suo.
Concordo, e aggiungo: la squadra di Israele al posto di quella iraniana.
Furio Colombo, intervistato sul Corriere della Sera, lancia l'idea dell'esclusione della rappresentativa iraniana dai prossimi Mondiali di calcio del giugno/luglio 2006 in Germania come reazione alle numerose dichiarazioni antisemite del presidente Ahmadinejad, per «punire le sue frasi naziste». Doloroso, imbarazzante prendersela con lo sport, ma un «necessario segnale di fermezza». Certo, poi l'Europa dovrebbe metterci del suo.
Concordo, e aggiungo: la squadra di Israele al posto di quella iraniana.
La questione della Fratellanza
Joshua Muravchik riprende sul Wall Street Journal la questione dei Fratelli Musulmani usciti vincitori delle elezioni parlamentari in Egitto e sostiene la tesi della «collusione» con il regime dietro il loro successo. Sono un problema per la democrazia, ma un rischio che dev'essere corso, come avevamo provato a spiegare qui.
«Is there a danger that the Brotherhood could ride to power through the democratic system and then destroy it, as Hitler once did? Yes, there is. But there is a rising tide of democratic sentiment in the Middle East, and if it leads to the triumph of democracy in Egypt, it will not be so easy to turn around and snuff it out... Of course such parchment barriers can be overridden by raw force. The risks cannot be reduced to zero. But the bold policy of democratizing the Middle East, like any grand undertaking that promises substantial rewards, cannot be risk free».I Fratelli Musulmani sono un «pericolo reale» anche per Bernard Lewis:
«The Muslim Brotherhood in Egypt represents a real danger. Yet if they come into power they will have to cope with the monstrous problems Egypt faces. If, like the theocracy in Iran, they fail to deal with these problems, they will have to face the anger of their own people. The danger: they wouldn't leave office by the same way they came, through free elections».
Wednesday, December 14, 2005
Ha di nuovo ragione Blair
Nessuno ci spiega cosa propone Blair di così «inaccettabile» per il bilancio dell'Unione europea. Ha ragione Antonio Tombolini, su Notizie Radicali, a richiamare la nostra attenzione e a invitarci a diffidare di questo coro unanime di critiche che rischia di nascondere il merito delle questioni e i veri interessi in gioco.
Blair propone una drastica riduzione delle spese complessive, guarda un po', destinate per oltre il 40% ai sussidi all'agricoltura. Il problema non sono gli sconti di cui gode la Gran Bretagna per merito della Thatcher, ma ottenere «un aumento e non un taglio delle spese», ha ammesso il presidente della Commissione Barroso. Trovo invece coerente che una presidenza dell'Ue come quella Blair, che ritiene oggi il bilancio dell'Ue male investito e inadeguato a sostenere le politiche di sviluppo necessarie, tenda a ridurre la spesa piuttosto che incrementarla in assenza della disponibilità degli altri paesi a invertire drasticamente la rotta nel senso indicato all'apertura del semestre britannico.
Fa comodo ignorare che anche oggi la Gran Bretagna, per bocca del ministro degli Esteri Jack Straw, ha accettato di rimettere in discussione il suo sconto. E' disposta a rivedere il suo privilegio a patto che gli altri paesi facciano altrettanto. A patto però, e mi sembra ragionevole, che venga riformato il bilancio individuando nuove priorità, come l'innovazione e la ricerca, a scapito dei vecchi settori privilegiati come l'agricoltura francese. «Senza una riforma sostanziale della Politica agricola comunitaria non potrà esserci un cambio sostanziale del rimborso»
In realtà tutti i paesi europei, spiega bene Giuliano Cazzola oggi su il Riformista, difendono strenuamente lo status quo, quel modello sociale europeo che si è già dimostrato fallimentare, ciascuno attaccato ai suoi privilegi. Ce la siamo presa con il "cattivo" Rumsfeld che ha parlato di «vecchia Europa», ma non diamo ascolto neanche all'"amico" Bill Clinton che la definisce un «museo», dove tutte le risorse sono impiegate a custodire un passato indifendibile e destinato comunque a tramontare. Almeno Blair aveva indicato una «nuova frontiera». Perché dovrebbe essere considerato un suo successo trovare un compromesso comunque, a scapito della «nuova frontiera» che aveva indicato?
E ogni volta che nel consesso europeo il governo di Sua Maestà viene attaccato c'è un modo per verificare la malafede dei suoi critici. A corto di argomenti, accusano la Gran Bretagna di antieuropeismo, di volere «meno Europa». Non sorprende che a superare il test della malafede sia Romano Prodi:
Blair propone una drastica riduzione delle spese complessive, guarda un po', destinate per oltre il 40% ai sussidi all'agricoltura. Il problema non sono gli sconti di cui gode la Gran Bretagna per merito della Thatcher, ma ottenere «un aumento e non un taglio delle spese», ha ammesso il presidente della Commissione Barroso. Trovo invece coerente che una presidenza dell'Ue come quella Blair, che ritiene oggi il bilancio dell'Ue male investito e inadeguato a sostenere le politiche di sviluppo necessarie, tenda a ridurre la spesa piuttosto che incrementarla in assenza della disponibilità degli altri paesi a invertire drasticamente la rotta nel senso indicato all'apertura del semestre britannico.
Fa comodo ignorare che anche oggi la Gran Bretagna, per bocca del ministro degli Esteri Jack Straw, ha accettato di rimettere in discussione il suo sconto. E' disposta a rivedere il suo privilegio a patto che gli altri paesi facciano altrettanto. A patto però, e mi sembra ragionevole, che venga riformato il bilancio individuando nuove priorità, come l'innovazione e la ricerca, a scapito dei vecchi settori privilegiati come l'agricoltura francese. «Senza una riforma sostanziale della Politica agricola comunitaria non potrà esserci un cambio sostanziale del rimborso»
In realtà tutti i paesi europei, spiega bene Giuliano Cazzola oggi su il Riformista, difendono strenuamente lo status quo, quel modello sociale europeo che si è già dimostrato fallimentare, ciascuno attaccato ai suoi privilegi. Ce la siamo presa con il "cattivo" Rumsfeld che ha parlato di «vecchia Europa», ma non diamo ascolto neanche all'"amico" Bill Clinton che la definisce un «museo», dove tutte le risorse sono impiegate a custodire un passato indifendibile e destinato comunque a tramontare. Almeno Blair aveva indicato una «nuova frontiera». Perché dovrebbe essere considerato un suo successo trovare un compromesso comunque, a scapito della «nuova frontiera» che aveva indicato?
E ogni volta che nel consesso europeo il governo di Sua Maestà viene attaccato c'è un modo per verificare la malafede dei suoi critici. A corto di argomenti, accusano la Gran Bretagna di antieuropeismo, di volere «meno Europa». Non sorprende che a superare il test della malafede sia Romano Prodi:
«Se il bilancio europeo deve essere questa miseria proposta dalla presidenza britannica, è meglio una crisi che deriva da un mancato accordo piuttosto che un accordo al ribasso che sancirebbe la crisi dell'Europa... La proposta di Blair significa meno Europa in un momento in cui avremmo disperatamente bisogno di più Europa. E tutto questo per mantenere l'ingiusto privilegio dell'assegno britannico a danno dei paesi più poveri. In fondo, Blair sta cercando di ripetere su scala europea quello che Berlusconi ha già fatto in Italia: tagliare le tasse ai più ricchi riducendo gli aiuti ai più poveri. In Italia, Berlusconi c'è riuscito, e se ne vedono i risultati. Mi auguro che Tony Blair sia fermato dal buonsenso degli europei».Prodi ha decisamente fatto un grande complimento a Berlusconi paragonandolo a Tony Blair.
Non esistono terze vie
«Non credo esista, questa terza via», dice Milton Friedman. «Ma è vero che un mercato competitivo non significa assenza di società. L'approccio sociale va bene quando non c'è di mezzo il mercato».
Il socialismo è cambiato e in un certo senso non è più se stesso. Una volta «comportava la proprietà e la gestione pubblica dei fattori di produzione, ora, identifica solo un governo che si preoccupa di spostare il reddito, trasferendo da chi ne ha verso chi non ne ha. E' un problema di distribuzione della ricchezza. Non di proprietà». Il modello scandinavo è possibile grazie a «comunità piccole e omogenee».
Friedman è scettico sul miracolo cinese. «Non si può incoraggiare lo sviluppo ed essere autoritari perché si provoca un conflitto tra popolazione e Stato. Senza libertà, la crescita si ferma». Anch'io ritengo la libertà politica sia «essenziale» e che a Pechino non siano affatto riusciti a far quadrare il cerchio, come molti sostengono, coniugando libertà economiche, capitalismo e sviluppo con un sistema politico autoritario a partito unico. La crescita in realtà è garantita dalla riduzione in schiavitù di milioni di lavoratori e al prezzo di affamare le campagne. Le contraddizioni esplodono già oggi ed esploderanno sempre di più: Tienanmen è «solo il primo episodio di una lunga serie».
Oggi tutti si rendono conto che «la strada per il successo dei paesi sottosviluppati passa su mercati più aperti e la globalizzazione». E Internet è «lo strumento più efficace». La spesa americana preoccupa Friedman: «Se il governo degli Stati Uniti impegna il 40% del reddito nazionale nel servizio del debito e in prelievi fiscali, quel denaro non è più disponibile per i consumi».
Il socialismo è cambiato e in un certo senso non è più se stesso. Una volta «comportava la proprietà e la gestione pubblica dei fattori di produzione, ora, identifica solo un governo che si preoccupa di spostare il reddito, trasferendo da chi ne ha verso chi non ne ha. E' un problema di distribuzione della ricchezza. Non di proprietà». Il modello scandinavo è possibile grazie a «comunità piccole e omogenee».
Friedman è scettico sul miracolo cinese. «Non si può incoraggiare lo sviluppo ed essere autoritari perché si provoca un conflitto tra popolazione e Stato. Senza libertà, la crescita si ferma». Anch'io ritengo la libertà politica sia «essenziale» e che a Pechino non siano affatto riusciti a far quadrare il cerchio, come molti sostengono, coniugando libertà economiche, capitalismo e sviluppo con un sistema politico autoritario a partito unico. La crescita in realtà è garantita dalla riduzione in schiavitù di milioni di lavoratori e al prezzo di affamare le campagne. Le contraddizioni esplodono già oggi ed esploderanno sempre di più: Tienanmen è «solo il primo episodio di una lunga serie».
Oggi tutti si rendono conto che «la strada per il successo dei paesi sottosviluppati passa su mercati più aperti e la globalizzazione». E Internet è «lo strumento più efficace». La spesa americana preoccupa Friedman: «Se il governo degli Stati Uniti impegna il 40% del reddito nazionale nel servizio del debito e in prelievi fiscali, quel denaro non è più disponibile per i consumi».
Tuesday, December 13, 2005
Fra amnistia e amnesia. E' in gioco il Dna della sinistra
«Lo accuseranno, come al solito, di velleitarismo. Ma è sempre la stessa accusa di chi non tollera di essere scosso dal proprio torpore». Così, ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.
Molti giudicheranno velleitaria la campagna di Marco Pannella e dei radicali per l'amnistia. Ma siamo sicuri che in questo momento non conti più il mezzo (la marcia di Natale) che non il fine (il provvedimento di amnistia in sé)? Vediamo di vederci più chiaro.
E' vero: che un provvedimento d'amnistia veda la luce ci sono poche speranze. Ci vogliono i 2/3 del Parlamento e in questa legislatura una maggioranza così ampia non s'è mai vista. In periodo pre-elettorale poi, è ancora più improbabile. Ma questo non significa che Pannella e i radicali stanno illudendo i detenuti, anzi. Affinché un'amnistia, in futuro, cioè nella prossima legislatura, ci sia, e perché vengano affrontate le tante altre e più gravi questioni sociali, è necessario che la sinistra marci a Natale.
Come dire, è la premessa a tutto. E' in gioco qualcosa di più importante di una seppur importante questione. E' in gioco il Dna stesso della sinistra e la sua decennale amnesia. Efficiente nel convocare grandi manifestazioni ed eventi mediatici «per tutelare i già tutelati», nel mobilitare spesso un'area di consenso dove risiede un potere di conservazione, che Biagio De Giovanni su il Riformista non ha esitato a definire reazionario, la sinistra è indifferente alle vere questioni sociali. Sociali non perché socialiste, ma perché interessano milioni di non tutelati nella nostra società.
L'amnistia è la prima in ordine di tempo posta da Pannella, ma ne seguiranno altre: i Pacs, l'eutanasia, la ricerca scientifica, e poi secondo me la principale delle questioni sociali, quella economica: l'"agenda Giavazzi" per le liberalizzazioni e la lotta ai privilegi che comprimono la libertà e le opportunità dei non privilegiati. Se la sinistra non sa cominciare a battersi per i non tutelati, per gli esclusi, come può pensare una volta al governo di risolvere le grandi questioni sociali? Per questo anche l'adesione alla marcia di Natale darà la misura delle capacità di governo che potremo attenderci da questa sinistra.
Ed è su questo che ruota tutto il personale dialogo di Pannella con la sinistra. E' il modo di Pannella di "impegnare" la sinistra senza sconti, facendo emergere, costruttivamente, per risolverle, a una a una le sue contraddizioni. E nella risposta che riceverà non ci sono in gioco solo il provvedimento di amnistia o la marcia di Natale. C'è in gioco il rapporto dei radicali con la sinistra. Ricordate il segnale che non molto tempo fa Berlusconi lanciò a Pannella dall'assemblea dei Riformatori Liberali, cogliendo nell'intervento della mattina l'insoddisfazione del leader radicale per non essere ancora mai stato ricevuto dai leader della sinistra? Il Cav. non mancò di rivolgersi a Marco come al possibile «figliol prodigo» di domani. Oggi, in un'intervista sul Corriere, quel segnale viene ricambiato da Pannella: «Chissà che a Natale con Silvio non ci si possa ritrovare».
Che la sinistra muti il suo Dna è ancora una priorità del leader radicale, al contrario di quanti pensano che sia mutato il Dna radicale per adeguarsi alla sinistra prodinottiana.
Molti giudicheranno velleitaria la campagna di Marco Pannella e dei radicali per l'amnistia. Ma siamo sicuri che in questo momento non conti più il mezzo (la marcia di Natale) che non il fine (il provvedimento di amnistia in sé)? Vediamo di vederci più chiaro.
E' vero: che un provvedimento d'amnistia veda la luce ci sono poche speranze. Ci vogliono i 2/3 del Parlamento e in questa legislatura una maggioranza così ampia non s'è mai vista. In periodo pre-elettorale poi, è ancora più improbabile. Ma questo non significa che Pannella e i radicali stanno illudendo i detenuti, anzi. Affinché un'amnistia, in futuro, cioè nella prossima legislatura, ci sia, e perché vengano affrontate le tante altre e più gravi questioni sociali, è necessario che la sinistra marci a Natale.
Come dire, è la premessa a tutto. E' in gioco qualcosa di più importante di una seppur importante questione. E' in gioco il Dna stesso della sinistra e la sua decennale amnesia. Efficiente nel convocare grandi manifestazioni ed eventi mediatici «per tutelare i già tutelati», nel mobilitare spesso un'area di consenso dove risiede un potere di conservazione, che Biagio De Giovanni su il Riformista non ha esitato a definire reazionario, la sinistra è indifferente alle vere questioni sociali. Sociali non perché socialiste, ma perché interessano milioni di non tutelati nella nostra società.
L'amnistia è la prima in ordine di tempo posta da Pannella, ma ne seguiranno altre: i Pacs, l'eutanasia, la ricerca scientifica, e poi secondo me la principale delle questioni sociali, quella economica: l'"agenda Giavazzi" per le liberalizzazioni e la lotta ai privilegi che comprimono la libertà e le opportunità dei non privilegiati. Se la sinistra non sa cominciare a battersi per i non tutelati, per gli esclusi, come può pensare una volta al governo di risolvere le grandi questioni sociali? Per questo anche l'adesione alla marcia di Natale darà la misura delle capacità di governo che potremo attenderci da questa sinistra.
Ed è su questo che ruota tutto il personale dialogo di Pannella con la sinistra. E' il modo di Pannella di "impegnare" la sinistra senza sconti, facendo emergere, costruttivamente, per risolverle, a una a una le sue contraddizioni. E nella risposta che riceverà non ci sono in gioco solo il provvedimento di amnistia o la marcia di Natale. C'è in gioco il rapporto dei radicali con la sinistra. Ricordate il segnale che non molto tempo fa Berlusconi lanciò a Pannella dall'assemblea dei Riformatori Liberali, cogliendo nell'intervento della mattina l'insoddisfazione del leader radicale per non essere ancora mai stato ricevuto dai leader della sinistra? Il Cav. non mancò di rivolgersi a Marco come al possibile «figliol prodigo» di domani. Oggi, in un'intervista sul Corriere, quel segnale viene ricambiato da Pannella: «Chissà che a Natale con Silvio non ci si possa ritrovare».
Che la sinistra muti il suo Dna è ancora una priorità del leader radicale, al contrario di quanti pensano che sia mutato il Dna radicale per adeguarsi alla sinistra prodinottiana.
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