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Tuesday, March 22, 2005

Aron vs. Sartre. I perché di una sinistra che preferisce perseverare nell'errore

Raymond AronAron era un pensatore liberale interessato ai fatti (come Tocqueville, Costant, Montesquieu, Max Weber), mentre un certo ceto intellettuale, francese e italiano, più in generale europeo e non anglosassone, tende a rimuovere i fatti qualora essi ostacolino le sue teorie. «Non può essere liberale chi crede a un legame forte tra la decisione politica e la Verità. Se esistesse non avrebbero senso la democrazia e il liberalismo»

«Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron», era il motto dei sessantottini francesi - intellettuali, studenti, politici. Ma come è possibile che fosse preferibile sbagliare con il fiancheggiatore del comunismo sovietico Sartre, piuttosto che avere ragione con il liberale Aron? Domanda che si è posto, il 6 marzo scorso, Pierluigi Battista sul Corriere della Sera (Leggi). Se ancora oggi, gli intellettuali che preferirono sbagliare con Sartre stentano ad ammettere di aver avuto torto, è perché «c'è una storia esemplare che dimostra in modo paradigmatico come l'avere avuto torto non produca alcuna conseguenza e l'aver avuto ragione in anticipo addirittura penalizzi chi è stato dalla parte giusta troppo precocemente». Incredibilmente, Aron, che «ha avuto ragione quando era difficile e rischioso avere ragione non vede riconosciuta la sua grandezza», mentre Sartre, che «ha avuto torto quando era comodo e gratificante avere torto e ha riconosciuto le ragioni dell'altro solo molto tardivamente, appare ancora circonfuso da un alone fascinoso e seducente».

La lezione di Aron. Questioni che rimandano all'attualità del pensiero di Raymond Aron, il tema di una lezione tenuta ieri alla Fondazione Ideazione dal prof. Dino Cofrancesco (l'audiovideo). Nel leggere la realtà umana Aron combinava teoria delle elites, analisi delle strutture economiche e sociali e analisi delle strutture costituzionali. Aron dimostrò di aver compreso pienamente gli eventi del '68 francese, dando alle stampe un libro di analisi e articoli contemporanei agli eventi. Accanto a cause contingenti, vi furono cause strutturali. Dal punto di vista del sistema politico francese e della sua storia, Aron notò il problema della ricorrente divisione delle elites, mai omogenee, prive una cultura politica comune, l'assenza dei corpi intermedi nella società, e la precaria legittimità dell'intero sistema. Il mondo politico e intellettuale francese agiva «con l'atteggiamento di chi si aspetta», e ritiene normale, che da un momento all'altro il mutamento dei governi avvenga per l'azione di «sommosse di piazza». Istinti simili attraggono ancora, qui da noi, qualche prof. girotondino.

Dal punto di vista economico e sociale, Aron individuò nel processo di modernizzazione la causa del «disagio» delle società moderne. Il progresso tecnico non è portatore solo di benefici, ma anche di aspetti di «incompatibilità tra la richiesta di dignità e partecipazione» e la razionalità tecnica, provocando in generale una riduzione del «potere di controllo» dell'uomo sui processi, fino alla consapevolezza dell'economia come «destino delle società». La ineluttabile «fragilità» insita nelle società moderne, concludeva Aron, è spiegabile con l'elevato grado di «cooperazione volontaria», di «consenso», di cui necessitano per funzionare, tanto che minoranze compatte ideologicamente e ben organizzate possono paralizzare il sistema.

Aron è un liberale, ma certo non alla Von Hayek. In lui era presente una forte componente storicistica che manca in Hayek, e una «grande lezione di realismo politico». E' possibile affermare che Croce sta a Einaudi come Aron sta a Von Hayek. Dunque, tra Croce e Aron «affinità profonde», rifiuto da parte di entrambi di qualsiasi filosofia della storia. Quella di Aron è una «scommessa pascaliana sulla ragione», «un liberalismo alla Costant», un illuminismo della ragionevolezza più che della Ragione come Dea, che trova i suoi riferimenti in Tocqueville, Costant, Montesquieu, Max Weber, con la sua preoccupazione per la distinzione tra fatti e valori.

Tra fatti e ideologia. Dunque, se la stella di Sartre non smette di brillare e nessuno legge più Aron è perché nessun autore con la metodologia del dubbio ha successo presso, o appassiona, chi cerca verità etico-politiche. Prevale «il profetismo incendiario dei devoti delle "idee generali" sordi al richiamo dei "dati di fatto"» (Battista), «il venditore di miti è inevitabilmente preferito al maestro delle analisi sottili» (Panebianco). Aron era un pensatore interessato ai fatti, mentre un certo ceto intellettuale, francese e italiano, più in generale europeo e non anglosassone, tende a rimuovere i fatti qualora essi ostacolino le sue teorie. Come scriveva Aron, intellettuali «implacabili verso le debolezze delle democrazie ma indulgenti nei confronti dei più grandi crimini, purché perpetrati in nome delle buone dottrine».

Nonostante le affinità storiche con la Francia, in Italia è mancato un Aron. E' anzi singolare osservare come un intellettuale come Norberto Bobbio abbia svolto sia la funzione di Aron sia quella di Sartre, ha osservato il prof. Giovanni Belardelli, mentre nel panorama culturale italiano di quegli anni venivano completamente ostracizzati autori come Solzenicyn e Kundera.

Il «continuismo». È probabilmente il «continuismo», ha scritto Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, «ossia l'assenza di una seria riflessione critica sulle proprie idee di un tempo, la causa principale del fatto che un'ampia parte dell'intellighenzia di sinistra, in Francia come in Italia, preferisca glissare sui mille torti di Sartre».

Il «continuismo» come irrefrenabile volontà di salvaguardare quale ricchezza collettiva - e non invece come un cumulo di errori - la storia e la tradizione teorica e politica del comunismo spiega la necessità delle tante "svolte" degli eredi del PCI dalla caduta del Muro, tutte di mera facciata. Sempre nuovi impegni per il riformismo purché non implicassero atti effettivi che, rompendo con l'area massimalista e pacifista, mettessero in discussione il tabù dell'unità della sinistra costruendo sulle sue ceneri.

Quando sbagliare è vantaggioso. «L'aver avuto, non sporadicamente, ma sistematicamente torto, nella certezza che mai verrà pagato un prezzo per gli innumerevoli errori commessi, costituisce di necessità un potente incentivo alla tentazione di commettere nuovi sbagli. Ma anche uno straordinario impedimento a riconoscere con dolore e senza autoindulgenza giustificazionista i motivi che hanno ispirato in passato la scelta di vivere dalla parte del torto... Sbagliare è addirittura vantaggioso: non è una boutade, ma lo spettacolo che dal Novecento prosegue indisturbato fino al nuovo millennio», conclude Panebianco. (Leggi). Anche Ernesto Galli della Loggia, di recente sul Corriere della Sera, contava (dal 1948 al 1991), ben 14 errori, nelle analisi e nelle scelte politiche, del PCI, spiegando cosa, a sinistra, «ha favorito e favorisce questa duplice fenomenologia dell'abbaglio culturale prima e del rifiuto a riconoscerlo poi».

L'impunità, politica e culturale, garantita dall'egemonia esercitata da decenni sui centri mediatici, accademici e culturali del Paese, ha avuto sui vertici comunisti e il mondo intellettuale di riferimento un effetto deresponsabilizzante che li ha portati a perseverare nell'errore, che è connotato ormai irriducibile della sinistra italiana. Se la storia gli dà torto, non importa, hanno conquistato la potenza di fuoco, culturale e mediatica, per riscriverla a loro vantaggio. I "treccartari della memoria", quelli che i fatti gli danno torto ma hanno il potere di raccontarteli come vogliono.

Sotto-sotto, il rifuto dei principi liberali. La sicurezza di non pagar pegno, dunque, protetti dalla propria egemonia culturale, ma vi è un'altra ragione di fondo per cui anche dopo l'89, crollato il comunismo sovietico, tutti quelli «che avevano avuto torto» con Sartre hanno per lo più «fatto finta di niente». Va cercata, spiega Panebianco, nel rifiuto della «superiorità, politica e morale insieme, delle idee liberali... Le persone, per il liberalismo, sono individui dotati, fino a prova contraria, di autonomia e di razionalità. Ma accettare questa premessa disarmerebbe l'intellettuale che, interpretando il proprio ruolo come un ruolo di denuncia e "disvelamento", di messa a nudo di false coscienze e manipolazioni occulte ai danni dei più, può così rivendicare solo per se stesso quell'autonomia di pensiero e quella razionalità che nega a tutti gli altri».

Dea Ragione e Verità in possesso di pochi iniziati intellettuali, e quindi contesa politica vissuta come scontro tra Verità e Falsità, sono nozioni che fanno a pugni con il liberalismo. «Non può essere liberale chi crede a un legame forte tra la decisione politica e la Verità. Se esistesse non avrebbero senso la democrazia e il liberalismo», afferma il prof. Cofrancesco. Chi esercita il potere attribuitogli dalla maggioranza non è in possesso della verità, ma solo della facoltà di operare decisioni politiche, che con la verità nulla hanno a che fare. Su questo principio si basano le tutele della minoranza, a cui deve essere sempre consentito di divenire a sua volta maggioranza. La sinistra sembra ancora ignorare che la libertà dell'individuo dai poteri coercitivi dello Stato dovrebbe rappresentare la motivazione ideale e l'obiettivo concreto di una forza di sinistra democratica.

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