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Friday, November 30, 2012

Chi ha paura della sconfitta

La «paura della sconfitta», scrive oggi Massimo Franco sul Corriere, spinge Renzi al «tutto per tutto». E' vero al contrario: di Bersani e non di Renzi. Il «tutto per tutto», la «forzatura» di quest'ultimo sarebbe cercare fino all'ultimo di convincere i cittadini ad andare a votare, per qualunque dei candidati rimasti in gara; il «tutto per tutto» di Bersani e dei suoi uomini consiste nel piegare le regole a competizione in corso per cercare di impedirglielo. Chi dei due finge di giocare alla democrazia e ha «paura della sconfitta»? La spregiudicatezza con cui Bersani da una parte, in tv, si atteggia a leader serio, pacato e bonario, con tanto di lacrimuccia, ma dall'altra si avvale del 98% dei membri dei comitati provinciali e del Comitato dei garanti per garantirsi la vittoria, è degna di quella dei leader comunisti dell'Est europeo nel prendere il potere nel II dopoguerra.

Le regole sono un pasticcio, scritte così appositamente per lasciare il potere a chi sarebbe stato chiamato ad applicarle, ma una norma è abbastanza chiara: l'art. 14 del regolamento consente la registrazione per il ballottaggio di coloro che «dichiarino» di aver avuto un impedimento, non dipendente dalla loro volontà, a registrarsi prima del 25 novembre, non di coloro che «dimostrino» o che «risultino». Un'autocertificazione, insomma, dovrebbe bastare. Così sembrava pensarla anche Berlinguer in un'intervista diffusa domenica sera su Youdem, in cui non menzionava affatto giustificazioni di sorta. Dunque, il contestato sito domenicavoto.it è perfettamente legale. Non le delibere che di ora in ora cambiano le regole del gioco in corsa per tentare di arginare il fenomeno Renzi dopo la disastrosa performance tv del segretario. In ogni caso, con queste regole praticamente il Pd costringe migliaia di elettori, anche suoi elettori, a inventarsi una scusa, a mentire, per esercitare il diritto di voto.

Per non parlare, poi, della bislacca concezione del sistema a doppio turno di Bersani e i suoi, secondo cui aprire a nuove registrazioni sarebbe una presa in giro nei confronti dei tre milioni di elettori che hanno votato al primo. Qui bisogna mettersi d'accordo. In effetti un problema c'è, e non è di poco conto: nei sistemi a doppio turno, infatti, in teoria al ballottaggio potrebbe risultare eletto un candidato con meno voti di quanti ne abbia presi il suo avversario al primo turno. Un peccato originale di questo sistema, ma non si può adottarlo e poi pretendere di mantenere bloccato il corpo elettorale tra primo e secondo turno, è un controsenso. Alle primarie dei Socialisti francesi Hollande ha vinto al secondo turno con 600 mila elettori in più rispetto al primo. E quando il Pd proporrà il doppio turno di collegio per le elezioni politiche cosa si inventerà? Scommettiamo che il problema di "bloccare" il corpo elettorale tra i due turni svanirà nel nulla?

Gli italiani, insomma, sono avvertiti: Bersani governerà il paese con lo stesso eccesso di burocrazia, con la stessa arbitrarietà nell'interpretare delle regole, con la stessa mancanza di rispetto per la democrazia e i cittadini applicati alle primarie.

Perché il voto di ieri all'Onu non è per la pace, ma solo anti-israeliano

Parlamento e Farnesina esautorati: nelle mani di chi è finita la politica mediorientale italiana?

Dunque, come ampiamente previsto l'Assemblea generale ha approvato la risoluzione che sancisce per la "Palestina" all'Onu lo status di «Stato osservatore non membro». Hillary Clinton ha bollato il voto come «controproducente» per il processo di pace. Ancor più duramente ha reagito Israele: «Andando all'Onu i palestinesi hanno violato gli accordi (di Oslo, ndr), agiremo di conseguenza». «Grande delusione» è stata trasmessa dall'ambasciata israeliana a Roma per la scelta dell'Italia. Dalle ricostruzioni di stampa di questa mattina emerge che:
1) più che dalla presunzione di rilanciare il processo di pace, la scelta del governo italiano di votare "sì" è stata dovuta alla preoccupazione di non restare indietro rispetto agli altri Paesi europei del Mediterraneo nei «buoni rapporti» con i Paesi arabi. Altro che pace e questione palestinese, una scelta d'amicizia!
1a) ha giocato un ruolo anche l'idea di indebolire il premier israeliano Netanyahu in vista delle prossime elezioni politiche. Ma la mia sensazione è che, invece, alla lunga questo voto lo rafforzerà e radicalizzerà le posizioni dell'opinione pubblica israeliana. E' comunque scandaloso che Netanyahu venga equiparato ad Hamas come ostacolo alla pace.
2) gli Stati Uniti avevano chiesto all'Italia di votare "no", ma Obama non si è speso personalmente per convincere gli alleati europei. E per il fatto che non ci sono stati «contatti ai massimi livelli», il nostro sì «non si è trasformato in una questione di vita o di morte». Un altro successone di Obama, insomma.
3) il governo italiano, come conferma anche stamattina il ministro Terzi, ha concesso il suo sì all'Anp a tre condizioni: accettare che il riconoscimento dello Stato palestinese può arrivare «solo ed esclusivamente» attraverso il negoziato e l'intesa diretta tra le parti; non sfruttare il nuovo status per adire la Corte penale internazionale; impegnarsi a riaprire «immediatamente» il negoziato con Israele «senza pre-condizioni». Le stesse condizioni erano state poste da altri paesi europei, come la Gran Bretagna, che però si è astenuta, perché l'Anp non ha accolto, almeno ufficialmente, nessuna di queste tre condizioni. E anzi, è evidente anche ai più sprovveduti osservatori che l'insistenza dei palestinesi per ottenere il nuovo status all'Onu è dovuta precisamente all'obiettivo di usarlo per esercitare ulteriore pressione giuridica e politica su Israele, anche ricorrendo alla Corte penale internazionale.
4) ed emergono, infine, inquietanti risvolti dal punto di vista istituzionale: se è vero che Napolitano ha avuto un peso determinante sulla decisione del governo, allora siamo fuori - per l'ennesima volta - dal dettato costituzionale: o l'attuale e i futuri presidenti della Repubblica rientrano nel ruolo previsto dalla Costituzione, oppure diventa urgente cambiare la loro legittimazione prevedendo l'elezione diretta e popolare del capo dello Stato. Ed è accettabile che il governo abbia ribaltato la politica mediorientale senza il pronunciamento del Parlamento che l'aveva espressa, non 10 anni fa ma in questa legislatura? Sarebbe interessante, inoltre, capire se c'è anche il ministro Riccardi dietro questa scelta: la Farnesina è stata esautorata dal Vaticano e dal Ministero degli esteri di Trastevere, la Comunità di Sant'Egidio, da sempre filo-araba e filo-islamica?

Ma veniamo ai principali argomenti a sostegno del sì alla risoluzione:
1) la soluzione dei "due stati per due popoli" alla base della posizione favorevole di molti degli stati europei non è stata nemmeno citata da Abbas nel suo discorso all'Onu.
2) si concede questo riconoscimento ad Abbas perché "moderato", ma nel frattempo Israele resta oggetto del lancio dei missili da Gaza? E' pensabile far compiere passi avanti ad un processo di pace in questo modo? Servirebbe l'impegno di tutte le fazioni palestinesi - Hamas compresa - non solo quello (solo presunto) dell'Anp. Come ho cercato di spiegare nel post di ieri, al di là delle migliori (o peggiori) intezioni, l'effetto di questo voto non è sganciare la causa palestinese da quella di Hamas. L'unica cosa che si sgancia è la questione - su cui non sono affatto contrario in linea di principio - della statualità, di uno Stato palestinese, dalla questione sicurezza ed esistenza di Israele. Se la prima viene affrontata, muove passi avanti, al di fuori della bilateralità, e "gratis", senza che tutte le fazioni palestinesi si impegnino ad assicurare a Israele sicurezza e diritto all'esistenza, si priva Israele dell'unica arma negoziale al di fuori della sua forza militare. A me sembra chiaro e lapalissiano, ma mi sento sempre più un pazzo nel deserto.

Thursday, November 29, 2012

Una ignobile marchetta al mondo arabo

Un'altra brutta, ignobile pagina di politica estera (dopo l'incredibile vicenda dei due marò, da ben 288 giorni prigionieri e sotto processo in India, con il nostro governo incapace di muovere un dito!) è quella che ci regalano il presidente Napolitano, il premier Monti, e il ministro degli esteri Terzi schierando l'Italia a favore della risoluzione che riconosce alla Palestina, o meglio all'Anp, lo status di «stato non membro osservatore permanente» all'Onu.

Una posizione che lungi dal favorire il processo di pace, lo indebolisce, aumentando le tensioni diplomatiche e ponendo le premesse per ulteriori rivendicazioni che alimenteranno gli estremismi. Questo voto, infatti, rappresenta - e così lo presenteranno i palestinesi e i paesi arabi - una "validazione" de facto da parte della comunità internazionale dei confini pre-1967. Riconoscendo all'Anp lo status di "Stato", seppure non membro, l'Onu ne riconosce implicitamente il territorio, quindi i confini, su iniziativa unilaterale dei palestinesi. Il che rende praticamente carta straccia gli accordi di Oslo (quelli che Hamas disconosce e che il nuovo Egitto dei Fratelli musulmani non vede l'ora di poter disconoscere), secondo cui uno Stato di Palestina sarebbe dovuto nascere a seguito di negoziati bilaterali.

Attenzione, questo è un punto fondamentale: perché il territorio, i confini, la statualità, sono le uniche merci di scambio che Israele può offrire in cambio di pace, della fine delle minacce alla sua esistenza. Se la questione dello Stato palestinese e del suo territorio viene risolta prima, o quanto meno "pregiudicata", al di fuori di un negoziato bilaterale, si toglie a Israele l'unica arma negoziale per ottenere la pace. Ecco perché si tratta di un voto profondamente anti-israeliano e chi ai vertici delle nostre istituzioni non lo capisce è o incompetente o in malafede.

Inoltre, un governo che volesse rilanciare il processo di pace non premierebbe con un tale riconoscimento i palestinesi, che per quattro anni si sono rifiutati di riaprire i negoziati con Israele. Per non parlare, poi, delle iniziative che potrebbe avviare l'Anp presso l'Onu grazie al nuovo status, tanto che lo stesso governo Monti ha chiesto ad Abbas di «astenersi dall'utilizzare l'odierno voto dell'Assemblea generale per ottenere l'accesso ad altre agenzie specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte penale internazionale o per farne un uso retroattivo». Raccomandazione indicativa di come i palestinesi tenteranno di strumentalizzare il voto di oggi.

«Siamo molto delusi dalla decisione dell'Italia», è stata la reazione dell'ambasciata israeliana a Roma. Nel comunicato del governo naturalmente si spiega la decisione con la volontà di «rilanciare il processo di pace», la soluzione "due stati per due popoli", ma la geografia del voto rivela le motivazioni reali. L'Italia ha votato sì insieme agli altri paesi europei del Mediterraneo, mentre contro si sono schierati Usa, Canada, Gran Bretagna e Germania. E' evidente, quindi, che il vero scopo è accattivarsi le simpatie dei paesi arabi, vicini dell'altra sponda del Mediterraneo, contro il diritto di Israele all'autodifesa, contro la pace, la giustizia e i diritti umani degli stessi palestinesi e degli altri cittadini del mondo arabo.

Non meno grave, dal punto di vista istituzionale, che un governo tecnico, nato per far fronte ad un'emergenza finanziaria, ribalti la politica mediorientale italiana senza il pronunciamento del Parlamento che l'ha espressa non dieci anni fa, ma in questa stessa legislatura.

Bersani asfaltato in tv, ma lo salveranno regole e terrore di cambiare

Con ogni probabilità le vincerà Bersani le primarie del centrosinistra. Perché l'elettorato tradizionale della sinistra è molto conservatore e diffida delle ricette dal retrogusto liberale di Renzi e persino del suo modo "moderno" di comunicare (solo perché brillante si merita l'accusa di "cripto-berlusconiano"); e perché le regole (doversi impegnare a votare il centrosinistra qualunque candidato vinca e inventare una giustificazione plausibile per votare al ballottaggio se non ci si è registrati al primo turno) hanno reso le primare molto meno aperte di quanto sarebbe servito a Renzi. Fondamentalmente il popolo "de sinistra" è terrorizzato dalla prospettiva di un proprio leader capace di attirare l'elettorato indipendente o di centrodestra, preferisce restare nel proprio rassicurante recinto, anche se minoritario.

Ma siamo seri: se il dibattito di ieri sera l'avessimo visto non su Raiuno ma sulle tv americane, tra due candidati alle primarie Usa, oggi nessuno avrebbe dubbi: Renzi ha completamente asfaltato Bersani. Al contrario del primo dibattito su Sky, a mio avviso vinto dal segretario - mai attaccato, quindi mai a disagio o irritato dalla sfida, e abile a piazzarsi come via di mezzo ragionevole e affidabile tra gli opposti "estremismi" di Renzi e Vendola - ieri sera Bersani è uscito con le ossa rotte, è stato costretto sempre sulla difensiva - con rare eccezioni - ed in generale è sembrato irritato per gli attacchi e fuori posto in un contesto così competitivo.

Sono emerse due visioni di sinistra diametralmente opposte sulla politica economica, sui soldi ai partiti, sulle alleanze e persino sul Medio Oriente. Sarebbe quindi un peccato se dovessimo assistere ad una qualche forma di "ticket", che non converrebbe di certo a Matteo Renzi. Il quale dovrebbe sedersi in riva al fiume ad aspettare che passi il cadavere politico di Bersani, dal momento che se ci arriva davvero a Palazzo Chigi, se Monti non gli soffia la poltrona, con Vendola (e Casini?) non dura più di un anno.

Ieri sera la strategia di Renzi è riuscita alla perfezione. Praticamente su ogni argomento ha sottolineato errori e mancanze del centrosinistra del passato: i poteri concessi a Equitalia da Visco-Bersani; la politica industriale pseudo-keynesiana, con i sussidi ai soliti noti e le grandi opere; il tradimento del referendum sul finanziamento pubblico ai partiti (con citazione della proposta Sposetti); la controriforma delle pensioni che ha abolito lo "scalone", costata 9 miliardi; le alleanze litigiose che hanno riconsegnato il paese a Berlusconi; la legge mai fatta sul conflitto di interessi. Su tutto questo Renzi ha picchiato duro: ogni volta che ricordava i «nostri errori» come centrosinistra si rivolgeva con il linguaggio del corpo e gli sguardi a Bersani, chiamandolo «segretario», ricordando i suoi 2.547 giorni al governo e costringendolo, nella migliore delle ipotesi, ad ammettere che si poteva fare meglio ma cose buone si son fatte, nella peggiore a farfugliare o accampare scuse patetiche. Sul conflitto d'interessi, per esempio, Bersani si è giustificato dicendo che all'epoca non era la sua materia di competenza e non aveva sufficiente credibilità per imporsi.

Ma Renzi ha davvero ridicolizzato Bersani sui soldi alla politica, quando il segretario ha chiamato in causa la democrazia ateniese («sì, ma da Pericle siamo arrivati a Fiorito»), e su una domanda riguardante il primo incontro da premier con il presidente Obama: Renzi parlerebbe al presidente Usa del ruolo e del futuro dell'Europa, e dell'Italia nell'Ue. Bersani ha farfugliato qualcosa su ritiro dall'Afghanistan ed F35. A quel punto il sindaco ha avuto gioco facile nel ricordare a «Pierluigi» che per il rientro dall'Afghanistan le tappe sono già fissate e che sui caccia F35 «non c'entra Obama, dobbiamo decidere noi, e io sono per il dimezzamento».

Nel merito, mai si era sentito un esponente del Pd esporre con tale chiarezza, senza ambiguità, così tanti concetti liberali e blairiani. Dal modello di flexsecurity di Ichino al fisco (meno spesa pubblica, meno tasse); dalla de-burocratizzazione alla scuola («portare il merito nella scuola e premiare gli insegnanti più bravi è di sinistra», ha rivendicato Renzi, mentre Bersani non è riuscito ad andare oltre «almeno a parole trattiamoli bene»); dal finanziamento pubblico ai partiti (da abolire completamente) alle alleanze (no alla nuova "Unione" e no all'inciucio con Casini, un chiaro messaggio ai vendoliani).

Va dato atto a Renzi del coraggio di non aver voluto compiacere a tutti i costi gli elettori su temi in cui di solito si fa molta retorica: ecco, quindi, che la riforma delle pensioni «è ok»; che il Sud deve darsi «una scossa», cambiare mentalità (basta con «raccomandazioni e dintorni»); che il problema del Medio Oriente non è la questione israelo-palestinese, come ha ripetuto Bersani ricorrendo a una retorica di sinistra vecchia di vent'anni, ma l'Iran e i diritti umani; che bisogna ridurre il debito pubblico non perché ce lo impone l'Ue, o la Merkel, ma perché è immorale indebitare i nostri figli e nipoti.

Battuto Bersani anche nelle prime tre misure da adottare una volta al governo: per Renzi tutte e tre sul lavoro, con in testa la flexsecurity di Ichino, mentre il segretario si è limitato ad un generico «qualcosa su lavoro e impresa» (qualcosa?), come terzo punto dopo cittadinanza agli immigrati e anti-corruzione/anti-mafia.

Bersani - che per l'occasione sembrava avesse tirato fuori da un armadio di Botteghe oscure lo stesso completo marrone che indossava Occhetto contro Berlusconi nel '94 - ha puntato sull'orgoglio di partito, sulla sua esperienza, da non rottamare, e sull'insicurezza crescente dovuta alla crisi, che richiede presenza dello Stato e pochi grilli per la testa. Ma molto genericamente, non è riuscito a dire una cosa una che apparisse concreta di politica economica in tutto il dibattito, nemmeno nelle prime tre misure che adotterebbe da premier («governare vuol dire anche sorprendere»).

«Qualcosa bisognerà fare» per questo o quest'altro, è stata la sua risposta buona per tutti gli argomenti. Cose da fare qui e là, roba generica, il «saper fare italiano», «cerchiamo di dare un po' di lavoro» (come se l'economia funzionasse così, con il governo che può «dare» il lavoro), di «muovere l'economia», «mica siamo qui a suonare i mandolini». E' stato più a suo agio sulle liberalizzazioni, finalmente un sorriso rilassato, ma neanche qui ha saputo indicare di preciso cosa ci sarebbe da liberalizzare: «c'è da fare lì, ma meglio non dirlo».

Bene l'appello finale di Renzi - «oggi il vero rischio è non cambiare» - anche se si è segnato l'unico autogol del dibattito, riconoscendo a Bersani di rappresentare il «cambiamento nella sicurezza».

Con Monti abbiamo solo guadagnato tempo, ma non basta

Le stime diffuse dall'Ocse delineano una prospettiva nient'affatto incoraggiante per la nostra economia. Nel 2012 il calo del Pil sarà del 2,2%. Tutto sommato un dato a cui ci eravamo abituati dopo le stime del governo e di altre autorevoli istituzioni, tutte intorno al -2,4%. Ciò che preoccupa è che l'Ocse prevede una cospicua contrazione del Pil anche nel 2013 (-1%), ancor più grave sia perché tra il 2008 e il 2012 si è già contratto molto – alla fine di quest'anno il nostro Pil tornerà ai livelli del 2001 – sia perché a dispetto di una serie di misure che secondo l'esecutivo avrebbero dovuto invertire il trend e rimettere il nostro paese sul sentiero della crescita, seppur flebile. Oltre all'effetto negativo sulla disoccupazione, che nel 2013 salirebbe all'11,4%, restare in una recessione così marcata avrebbe effetti disastrosi sul deficit, che l'Ocse prevede al 2,9% nel 2013 e al 3,4% nel 2014, e che richiederebbe quindi un'ulteriore «stretta di bilancio» nel 2014 per rispettare il previsto percorso di riduzione del debito. Insomma, i sacrifici chiesti agli italiani in questo biennio sarebbero completamente vanificati.

Ma com'è possibile che a fronte dei dati impietosi della nostra economia e di prospettive ancora fosche, i rendimenti sui nostri titoli di stato siano ai minimi? All'asta di ieri il Tesoro ha collocato 7,5 miliardi di Bot a sei mesi con tassi sotto la soglia dell'1%, che non si vedevano dall'aprile 2010, mentre i decennali sul mercato secondario sono tornati ai livelli di giugno 2011. Più che ai risultati concreti e agli effetti di medio termine delle riforme avviate, l'apertura di credito dei mercati nei nostri confronti sembra legata alla credibilità personale del presidente del Consiglio, all'aspettativa di una sua permanenza a Palazzo Chigi, e al miglioramento del "mood" generale dopo le azioni intraprese dalla Bce e le decisioni prese su Grecia e Spagna.

Si può sempre sperare che i mercati tornino più o meno "irrazionalmente" – cioè senza cambiamenti strutturali nei nostri fondamentali economici – ad applicarci tassi di interesse pre-crisi. Ma ciò che emerge da queste stime sull'economia reale è che il governo Monti ci ha fatto solo guadagnare tempo. Forse nell'emergenza, con una coalizione eterogenea e i partiti in crisi, non avrebbe potuto fare di meglio, ma certo non ha alcun senso auspicare "continuità", come fanno gli "scudieri" centristi del Monti-bis. Per uscire davvero dalla crisi, non restare in balìa dell'umore dei mercati, serve altro: un risanamento virtuoso, cioè meno recessivo, sulla linea indicata da Draghi – tagli alla spesa e non aumenti di tasse – che è opposta a quella perseguita da Monti quest'anno.

Se il professore ha un'agenda per i prossimi anni, è il momento di esporla. Per ora, invece, si è limitato ad affacciarsi nell'agone politico con uscite sibilline, cerchiobottiste, da vecchio democristiano.
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Wednesday, November 28, 2012

Scomode verità sulla sanità pubblica

L'ultima uscita del prof Monti, sulla sanità pubblica, ha scatenato i riflessi pavloviani della sinistra.
«La sostenibilità futura dei nostri sistemi sanitari, incluso il nostro servizio sanitario nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantito se non si individuano nuove modalità di finanziamento e di organizzazione dei servizi e delle prestazioni».
Un'affermazione meramente descrittiva di una realtà incontestabile, persino banale. Il premier non ha accennato a "privatizzare" alcunché, probabilmente per nuove forme di finanziamento intendeva fondi integrativi, ticket per fasce di reddito e spending review. E anzi, ha detto che c'è motivo di andare «fieri» dell'attuale sistema, quindi anche della sua natura pubblica ed universalistica.

Ma tanto è bastato a suscitare la levata di scudi, all'unisono, del segretario del Pd Bersani e della segretaria della Cgil Camusso. E' allarmante la negazione, da parte di chi si candida a governare il paese, anche della più elementare e conclamata realtà: la difficoltà finanziaria in cui si troverà, in un futuro non lontano, il sistema sanitario, per l'invecchiamento della popolazione e, quindi, l'allungamento delle cure. Bersani non chiede agli italiani di piacergli, ma di essere creduto perché dirà loro soltanto la verità. Eppure, di fronte alla verità - banalissima - raccontata da Monti preferisce chiudere gli occhi. Rifiutare la realtà e biasimare chiunque la richiami, piuttosto che rinnegare l'utopia in cui si è vissuti per troppi decenni, è tipico, purtroppo, di una vecchia sinistra.

Sulla sanità pubblica c'è bisogno, invece, di un discorso di verità. Se l'obiettivo era di garantire a tutti gli italiani standard dignitosi di assistenza sanitaria, allora bisogna riconoscere che siamo di fronte a un fallimento. Già oggi la sanità pubblica non è universale né gratuita, è spaccata in due sia per territorio – a livelli europei in alcune regioni, nordafricani in altre – che per classi sociali: i ricchi possono permettersi di evitare inefficienze e lungaggini del pubblico. E già oggi, anziani a parte, la gratuità del servizio è rara. Non solo i ricchi, anche i ceti medio-bassi pagano due volte le prestazioni più comuni, come visite specialistiche ed esami diagnostici: il ticket "a consumo", più le tasse versate allo Stato. A chi non è capitato di dover sborsare cifre non lontane, anzi quasi coincidenti, a quelle chieste dai privati, dovendo poi rassegnarsi a lunghe attese e inefficienze? Che significa? Come hanno speso le tasse che in teoria, così ce l'hanno raccontata per decenni, dovevano servire a rendere "gratuito" il servizio?

Facile pontificare sulla sanità pubblica come "principio sacro", diritto inalienabile. Molti di quelli che pontificano, però, questo il guaio, non vivono sulla propria pelle inefficienze e costi diretti della sanità pubblica, o perché possono permettersi di rivolgersi ai privati, o perché iscritti a fondi negoziali, casse e mutue varie (circa 6,4 milioni di italiani, per un totale di 10 milioni di assistiti). Anche loro pagano due volte, ma non se ne accorgono.

Precisione da ingegnere

E' confortante che per il nono giorno consecutivo al Cairo e in altre città egiziane ci sia ancora chi non si piega, si vede che alcuni anticorpi democratici sono rimasti dalla "primavera araba" dello scorso anno. Ma l'opposizione laica e liberale continua ad essere frammentata, a non avere una leadership e a non essere sostenuta, mentre gli Stati Uniti minimizzano il rischio di svolta autoritaria da parte del presidente Morsi. Il quale farà quanto basta per sbloccare i fondi del Fmi, ma non quanto sarebbe necessario per rendere irreversibile il processo democratico e davvero contendibile la guida del paese.

«Gli osservatori hanno costantemente sottovalutato la forza e l'ambizione dei Fratelli musulmani», di cui Morsi è espressione, scrive Bret Stephens sul Wall Street Journal, citando il già lungo elenco di menzogne e promesse disattese dal presidente e dal suo partito dal gennaio 2011. Messo il cappello all'ultimo momento utile sulla rivoluzione di piazza Tahrir, in pochi mesi la Fratellanza ha disatteso la promessa di non correre per le presidenziali; una volta eletto Morsi ha sostituito in fretta i vertici dell'esercito e tollerato un assalto all'ambasciata Usa.

L'amministrazione Obama, presidente in testa, non sembra dare molto peso a questi inequivocabili primi segnali di inaffidabilità e, anzi, avrebbe apprezzato il pragmatismo di Morsi nel risolvere la crisi di Gaza. Ma c'è il rischio, avverte Stephens, di scambiare per «moderazione» quella che è solo «flessibilità tattica». Il tempismo perfetto della sua mossa sul fronte interno, spendendo subito il capitale politico incassato a Gaza, dimostra infatti che «il suo reale obiettivo prioritario è consolidare il potere della Fratellanza musulmana, non migliorare gli standard di vita degli egiziani».

E' ingenuo pensare che la «precisione da ingegnere» che Obama avrebbe riconosciuto in Morsi non sia messa al servizio della sua ideologia islamista, e che voglia disfarsene in nome del realismo politico. Non sarà così. Resta solo da vedere quanto tempo osservatori e Casa Bianca ci metteranno per accorgersene.

Tuesday, November 27, 2012

Renzi ha osato poco, Monti-bis più lontano se il premier non si sveglia

Anche su L'Opinione

Pur con qualche macchia e interrogativo di troppo sullo scrutinio, la vittoria di Pierluigi Bersani è piuttosto netta. Si sapeva che Renzi per insidiare il primo posto del segretario avrebbe avuto bisogno di un'affluenza altissima, più vicina ai 4 milioni che ai 3, perché avrebbe indicato una massiccia partecipazione al voto di un elettorato diverso da quello tradizionale del Pd e della sinistra. Il boom in cui sperava il sindaco di Firenze non c'è stato, ma a conti fatti il suo risultato è ragguardevole proprio perché ottenuto nonostante un'affluenza – la meno alta della breve storia delle primarie – che avrebbe potuto penalizzarlo molto. Dunque, delle due l'una: o Renzi "pesa" in tutto il "tradizionale" centrosinistra, non solo nel Pd, il 36%, oppure è riuscito ad attirare parecchi elettori non di sinistra, non sufficienti a strappare la leadership a Bersani, ma quanto basta a dimostrare di poter cambiare connotati al Pd.

Tendiamo per questa seconda ipotesi. Che Renzi potesse contare sull'appoggio di una percentuale minima dell'apparato del Pd, il 2-3% tra parlamentari, dirigenti e altri eletti, e che suscitasse una profonda ostilità presso la "base" del suo stesso partito, per non parlare degli elettori ancora più a sinistra, non è una notizia. Lo è, invece, che abbia saputo attirare elettori che probabilmente non hanno mai votato Pd, né una coalizione di centrosinistra, ma che hanno preso in considerazione questa ipotesi nel caso a prevalere fosse la nuova offerta politica rappresentata da Renzi. Insomma, sapevamo già quanto fosse minoritario nel ristretto giro del Pd e del tradizionale "popolo" di sinistra. La sua sfida era un'altra: dar vita ad un'altra sinistra cambiando letteralmente pelle all'elettorato del Pd.

Un'operazione purtroppo per lui rimasta a metà. Per poter riuscire nell'impresa Renzi avrebbe dovuto osare molto di più in termini di "rottura" con le vecchie idee di sinistra e con il suo principale avversario: Bersani. Ha scelto, invece, e lo si è visto durante il confronto televisivo su Sky, una linea più morbida e conciliante per non essere dipinto come "guastafeste", non riuscendo nemmeno a dissociarsi dall'alleanza con Sel, mentre Bersani dava prova di solidità e affidabilità senza mai perdere la calma. Adesso il rischio è che la tenaglia delle regole si chiuda al ballottaggio e il signor secondo posto del primo turno venga offuscato da una pesante debàcle: se Bersani, infatti, avrà gioco facile nel riportare alle urne i voti "strutturati", e nel convincere gli elettori di Vendola al voto utile, sarà arduo per il sindaco mobilitare per la seconda volta nell'arco di una settimana un voto d'opinione e non di appartenenza. Per riuscirci dovrà sforzarsi di far apparire la sua vittoria ancora a portata di mano.

In ogni caso, il richiamo all'ordine pro-Bersani di Susanna Camusso, domenica su Raitre, a urne ancora aperte, è la conferma che la Cgil detiene la quota di maggioranza del Pd. Una realtà politica inoppugnabile, quasi tangibile, di cui il premier Monti – che da Fazio, a Che tempo che fa, si è mostrato ancora una volta troppo sibillino riguardo le sue intenzioni nell'immediato futuro – dovrebbe tener conto, se pensa di poter guidare un governo di cui l'azionista di maggioranza sarebbe proprio quel Pd fortemente condizionato dalla Cgil. Lo scenario che si prospetta con l'inerzia politica attuale – probabile forte affermazione di Bersani al ballottaggio delle primarie; una coalizione di sinistra-sinistra pienamente mobilitata e lanciata verso il 30-35% (più eventuali premi di maggioranza); un panorama di macerie, disgregazione e frammentazione nel centrodestra – renderebbe assai difficile, proprio per la doppia legittimazione popolare – primarie più elezioni politiche – scippare la vittoria al Pd a vantaggio di un Monti-bis. Il premier dovrà ripensare a come giocare le sue carte, perché una candidatura implicita, un sostegno tacito ai suoi "scudieri" centristi, potrebbero non bastare più per determinare condizioni favorevoli alla sua permanenza a Palazzo Chigi. E se anche ci restasse, rischierebbe di trovarsi ostaggio di una maggioranza troppo sbilanciata a sinistra.

Monday, November 26, 2012

Tregua a Gaza, golpe al Cairo, gli Usa ingoiano

Non basta affatto, "in questi momenti", ricordare cosa pensa il presidente Obama di Hamas, cioè che è «un'organizzazione terroristica con cui non bisogna trattare fin quando non riconosceranno Israele, rinunceranno al terrorismo e rispetteranno i precedenti accordi». Con l'organizzazione terroristica si può non trattare direttamente, si può a parole ricordare il diritto di Israele all'autodifesa, ma dalla crisi e dalla tregua di Gaza Hamas esce meno isolata di prima e rafforzata politicamente. E pazienza se militarmente ha perso quasi tutti i suoi missili, l'Iran è pronto - potete scommetterci - a spedirne quanto prima degli altri e probabilmente l'Egitto a consentire che il carico transiti per le frontiere.

Proprio sull'Egitto si sono concentrati gli sforzi diplomatici americani, affinché si dimostrasse un attore di stabilità riuscendo a far ragionare Hamas. Ma il presidente Morsi non ha esitato un secondo a sfruttare sul fronte interno il capitale politico derivante dalla prova di leadership chiesta dagli Usa, e mostrata, nel disinnescare la crisi di Gaza: appena annunciata la tregua si è attribuito pieni poteri, certo di poter contare sul silenzio/assenso degli Stati Uniti, che pochi giorni prima si erano completamente affidati alla sua gentile intercessione.

«Il presidente - si legge nel decreto - è autorizzato a prendere qualsiasi misura reputi idonea a preservare e difendere la rivoluzione, l'unità nazionale o la sicurezza nazionale». Le decisioni presidenziali non potranno essere in alcun modo giudicate o cancellate dall'autorità giudiziaria, almeno fino a quando non ci sarà una nuova Costituzione e non sarà eletto un nuovo Parlamento. In quattro righe quindi Morsi si pone al di sopra del Parlamento e del potere giudiziario, la sua parola è legge finché non ci sarà una nuova Costituzione. La quale, ovviamente, non riceverà luce verde finché non soddisferà pienamente i Fratelli musulmani, il partito del presidente egiziano. Un golpe bianco, insomma, che preannuncia la definitiva mutazione della rivoluzione della primavera del 2011 da democratica in islamica.

Lo permetteranno i cittadini egiziani? Sembra comunque che alcuni anticorpi democratici facciano ormai parte del tessuto civile del Cairo e di Alessandria, se migliaia di manifestanti hanno riempito le piazze accorrendo allo slogan "Morsi come Mubarak" e si sono scontrati con le forze di sicurezza e i militanti del partito islamico. Nei prossimi giorni, tra l'altro, la suprema autorità giudiziaria del paese dovrà pronunciarsi sui numerosi ricorsi presentati contro il decreto.

Fatto sta che l'attore che solo ieri gli Stati Uniti accreditavano come "responsabile" per il ruolo di mediazione svolto nella crisi di Gaza - concedendo al suo ministro degli esteri l'onore di poter dare l'annuncio ufficale della tregua al fianco di Hillary Clinton - oggi si proclama di fatto dittatore nel paese più influente del mondo arabo, mossa che potrebbe preludere all'instaurazione di un regime islamico sunnita.

Si avrà nei prossimi mesi la prova definitiva della sincerità o del doppio gioco di Morsi: se gli arsenali di Hamas, oggi quasi azzerati, torneranno a riempirsi di missili in grado di colpire Tel Aviv e Gerusalemme, allora vorrà dire che l'Egitto resta su una posizione ambigua: cerca di rafforzare la propria centralità politica nella regione non favorendo la stabilità, bensì giocando cinicamente la carta dei gruppi terroristici palestinesi. Se questa sarà la strategia di Morsi, e se il primo presidente espressione dei Fratelli musulmani liquiderà la democrazia egiziana ancora in fasce, allora Hamas non avrà di fronte un modello di "normalizzazione" da seguire, non verrà mai costretta a scegliere tra il Cairo e Teheran, potrà continuare ad avvalersi dell'amicizia degli uni e degli altri a seconda delle convenienze del momento.

Friday, November 23, 2012

Napolitano sequestra il cantiere dei "montiani": Pdl isolato e senza Cav

Anche su L'Opinione

Il presidente Napolitano ha voluto togliere dalla mischia elettorale il nome di Monti per preservare il suo profilo super-partes e, dunque, la praticabilità sia di un Monti-bis, sia di un'ascesa del professore al Colle, o – perché no? – a via XX settembre come ministro dell'Economia. Insomma, ha voluto preservarlo come "riserva della Repubblica": non si può candidare né può essere candidato da un partito, perché si vota per il Parlamento ed è già senatore a vita. Ma è disponibile «a chiunque, dopo le elezioni, volesse chiedergli un parere, un contributo, un impegno» (da notare le parole "chiunque" e "impegno"). Ha quindi ricordato alle forze politiche che non esistono candidati premier: né Monti, né chi uscirà vincitore dalle primarie. Perché i partiti hanno sì il diritto, o meglio la «facoltà» di avere in mente un nome, di «evocarlo» direbbe Casini (come si fa con gli spiriti), ma sono le consultazioni al Quirinale «la sede in cui ogni partito può esprimere una sua preferenza o una sua proposta». Napolitano ha anche voluto farci sapere che sarà il suo successore a sbrigare la pratica dell'incarico. Il che vuol dire che nel puzzle post-voto la casella del Quirinale sarà riempita prima di quella di Palazzo Chigi. E potrebbe rappresentare un equo indennizzo per il Pd, nel caso accettasse un Monti-bis: 7 anni garantiti di poteri sempre più "presidenzialisti" potrebbero far gola più di 5 traballanti al timone di un paese ancora nella tempesta. Il 10 marzo, o quando sarà, in filigrana sulla scheda ci sarà il nome del prossimo presidente della Repubblica, non del premier.

Molto poco istituzionalmente corretta, va detto, l'uscita di Napolitano: la carica di senatore a vita non implica la rinuncia al diritto di elettorato passivo (candidarsi, per esempio, alla Camera), o un'interdizione dai pubblici uffici (proporsi come candidato premier di una o più forze politiche). Scorrettezza però soltanto teorica, perché non sembra che Monti abbia intenzione di "bruciarsi" politicamente. Continuerà a non respingere i tanti "scudieri" che si accalcano alla sua corte, non sconfesserà chi lo evoca, ma non è interessato a ricevere uno scomodo mandato politico dal corpo elettorale. Anzi, meglio non averne e continuare a giocare da riserva della Repubblica, buona per qualsiasi maggioranza. Ammiccamenti sì, candidatura no. E' comprensibile: da un lato non vuole fungere da zattera di salvataggio per un ceto politico vecchio e screditato (e chi può biasimarlo?); dall'altro, non è nelle sue corde creare dal nulla una sua forza politica, né ha i mezzi per farlo.

Neanche Monti, tuttavia, può aggirare la questione del mandato politico. A parte la prospettiva poco edificante dal punto di vista democratico, è pensabile realizzare le riforme di cui questo paese ha disperatamente bisogno senza un preciso mandato elettorale, senza prima esporre la propria agenda ai cittadini per ricevere il loro consenso, e per di più con l'appoggio di una "grande coalizione" sbilanciata a sinistra? Il Cav ha fallito nonostante tre forti mandati popolari, ma ciò non significa che sia destinata al successo una strategia del "si fa ma non si dice". E nel caso del piano B - Monti al Quirinale a coprire le spalle a Bersani premier - il professore si troverebbe a dover esercitare un potere di veto sull'indirizzo politico-economico del governo, accentuando così la deriva "presidenzialista" in atto.

Nella stessa giornata in cui Alfano otteneva le sue primarie, al prezzo di uno strappo forse irreversibile con il Cav per inseguire con gran parte del suo gruppo dirigente il sogno di un non meglio precisato cantiere dei moderati, di cui Monti dovrebbe essere il «federatore» (definizione di Frattini), il presidente Napolitano chiudeva di fatto il cantiere: nessuna candidatura di Monti prima del voto. E così Alfano e i suoi si ritrovano d'un tratto senza Berlusconi (anzi, probabilmente se lo ritroveranno contro) e privi di uno sbocco politico. L'unico che il segretario rischia di riuscire a rottamare è il Cav, mentre si tiene i vecchi colonnelli, tutti aggrappati ad uno zatterone in patetico inseguimento di Monti, Casini e Montezemolo, i quali non mostrano il minimo interesse per il Pdl, se non per indurlo a sacrificare Berlusconi e, così, liquidarlo.

Le prossime elezioni rischiano di rivelarsi un esercizio inutile. Giocate pure fino al 10 marzo, bambini, ma poi la sera del voto il pallone vi verrà tolto, sembra avvertire Napolitano. E che idea di centrodestra si può coltivare attorno al Monti-bis se Monti, in qualunque casella istituzionale finisse, fosse solo una specie di argine, una badante democristiana per una maggioranza di centro-sinistra?

Thursday, November 22, 2012

La guerra di Befera sempre più psicologica e ideologica

Anche su L'Opinione

Nella migliore delle ipotesi il "redditest" è inutile, quindi uno spreco di soldi pubblici. «Non cerchiamo la piccola evasione o l'errore materiale», rassicura il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. Dunque, il software non è rivolto ai contribuenti onesti, i quali possono incappare al massimo in qualche errore di dichiarazione. «Non deve terrorizzare chi già paga le tasse – spiega – ma dovrebbe essere usato da chi evade». Ma cosa se ne fa chi evade consapevolmente e sistematicamente, e quindi sa già che le sue spese non sono in linea con il reddito dichiarato? Al massimo lo utilizzerà per carpire criteri e misure usati dal fisco per circoscrivere l'area della sospetta evasione, al fine di affinare le proprie tecniche evasive, o anche solo verificare fino a che soglia può spendere il reddito evaso senza correre il rischio di insospettire troppo. Insomma, un software che paradossalmente rischia di aiutare l'evasore, piuttosto che indurlo all'adempimento spontaneo.

Il contribuente onesto, invece, che riscontrasse una "non coerenza" tra le proprie spese e il reddito dichiarato ne ricaverebbe solo ansia e allarme. Non sarebbe portato a dichiarare reddito che non ha percepito, ma potrebbe essere indotto a moderare in ogni caso le sue spese per non rischiare di finire tra i "sospetti".

Ma il redditest è solo l'antipasto del redditometro, al via dal gennaio prossimo. L'Agenzia delle Entrate potrà calcolare il reddito che le famiglie dovrebbero dichiarare alla luce delle spese sostenute, invertendo sul contribuente l'onere di provare che la spesa eccedente non è il frutto di reddito non dichiarato. L'accertamento scatta quando lo scostamento supera la soglia di tolleranza del 20%, anche se «nella prima fase saremo molto cauti», assicura Befera.

Intendiamoci: giusto concentrarsi non solo là dove il reddito viene prodotto, ma anche sulle spese incoerenti con il reddito dichiarato, per verificare che non siano frutto di evasione. Ma "assolutizzare" su una platea di 25 milioni di famiglie il concetto che le spese debbano corrispondere al reddito dichiarato per non destare sospetti è puro delirio di onnipotenza statalista.

Soprattutto in tempi di crisi, infatti, le famiglie possono sostenere i loro consumi quotidiani o spese eccezionali ricorrendo al risparmio, al credito o all'aiuto dei parenti. I mezzi più che leciti attraverso i quali con un reddito medio ci si può permettere un auto da 30 mila euro, una vacanza da sogno, una ristrutturazione di casa o l'acquisto di una seconda casa, possono essere i più disparati: risparmi accumulati in una vita, il tfr, redditi esenti, un aiuto dei genitori ai figli o viceversa, vincite ed eredità. E siccome prima di avviare l'accertamento l'agenzia è comunque obbligata ad un contraddittorio preliminare, il rischio è che milioni di contribuenti siano chiamati a spiegare casi banalissimi, con una enorme perdita di tempo e di denaro da parte di tutti, fisco in primis. Inoltre, se dal possesso e dalle spese di gestione, anche presunte, di certi beni mobili e immobili si può dedurre un certo reddito, presumendo anche i consumi quotidiani, per esempio utenze e generi alimentari, sulla base di medie Istat, senza riscontri oggettivi, si rischia di incorrere in errori clamorosi, perché tra famiglie del tutto simili e in uno stesso territorio le abitudini possono differire enormemente, determinando livelli di spesa molto diversi da quelli presunti dal fisco.

La stima secondo cui una famiglia su cinque, secondo i criteri utilizzati dal redditest, sosterrebbe spese «non coerenti» con i redditi dichiarati dai propri componenti, dimostra la fallacia del sistema e l'allarme sociale che può provocare: che farà Befera, chiamerà in contraddittorio 5 milioni di famiglie? Il direttore si raccomanda di non attribuire a questi strumenti un effetto depressivo sui consumi, ma è la logica a suggerirlo. Se passa il concetto che sostenendo spese superiori al proprio reddito si rientra automaticamente in un'area di sospetta evasione, e si può incorrere quindi nelle verifiche del caso – che possono sì avere esito negativo ma sono comunque motivo di angoscia – rischiamo che all'occultamento del reddito si aggiungano diminuzione, occultamento o delocalizzazione dei consumi.

In questo periodo di crisi e di scarsa fiducia le fasce di popolazione più benestanti possono permettersi di continuare a sostenere i consumi, la produzione e quindi l'economia. Ma se queste famiglie, la maggior parte delle quali dobbiamo presumere oneste, si convincono che spendere può procurargli fastidiose noie o un marchio d'infamia, saranno indotte o a spendere meno o, chi può permetterselo, a "delocalizzare" i propri consumi e il godimento dei propri beni. Se per recuperare una manciata di miliardi, perché tanto finora ha prodotto l'inasprimento della lotta all'evasione, perdiamo altrettanto gettito e distruggiamo posti di lavoro e interi comparti, come quello del lusso, possiamo avere la coscienza a posto ma stiamo impoverendo il paese, non gli evasori.

Wednesday, November 21, 2012

E' una guerra regionale, media pecoroni!

Anche su Rightnation.it

E', senza forse, uno dei più grandi tumori del nostro tempo in Italia, ma anche in Europa e nell'intero Occidente: il conformismo e il politicamente corretto nel mondo dell'informazione mainstream. Un'informazione che sempre più disinforma perché relativizza, perché in nome di una ipocrita imparzialità calpesta l'obiettività, ha perso ogni riferimento valoriale nella lettura degli eventi, il cui susseguirsi viene riportato privo di nesso causa-effetto, in un flusso di notizie accompagnato da finte analisi e pervaso di un moralismo istantaneo e superficiale, dove prevale la preoccupazione di apparire equanimi e di uniformare la realtà ai propri rassicuranti tabù politicamente corretti. Va bene, non esisteranno il bianco e il nero, ma almeno riportateci le diverse sfumature piuttosto che un unico tono di grigio.

La copertura mediatica dell'ennesima crisi di Gaza è l'ennesima, lampante dimostrazione. L'incapacità di distinguere tra un'organizzazione ferocemente terrorista e barbara come Hamas, che opera non nell'interesse dei palestinesi, ma di uno stato terrorista come l'Iran, e uno stato democratico e civile come Israele, è una vergogna insopportabile, ripugnante. Se il governo israeliano decide di agire sulla spinta dei propri cittadini che in grande maggioranza chiedono un intervento militare per far cessare il lancio di missili sul loro territorio, allora è un bieco calcolo elettorale. Pelo sullo stomaco nei confronti di Israele, però ci si beve la propaganda di Hamas come nemmeno la propaganda nazista negli anni '30.

Hamas spara centinaia di missili (1.500 in pochi giorni), e indiscriminatamente, sulle città israeliane, ma sotto processo mediatico finisce Israele per raid mirati contro obiettivi militari (depositi di armi o leader terroristi). Fa vittime civili? Sicuramente (anche se a dare i numeri, a decidere chi sono i civili e chi i militanti è la stessa Hamas e i media registrano senza verificare). Ma si dimenticano di dire che Hamas non difende minimamente la sua popolazione, anzi usa i civili come "scudi umani", come strumento di propaganda politica: più vittime, più biasimo internazionale si può aizzare contro Israele. Sotto accusa finisce Israele perché la sua reazione è "sproporzionata": la contabilità dei morti a suo favore sottintende che in fondo i razzetti di Hamas sono poco più che fuochi d'artificio. Pazienza se le limitate vittime israeliane sono il risultato degli sforzi del loro governo di proteggere la popolazione, al contrario di Hamas che la usa come "scudo umano".

Ieri sera Hamas ha annunciato un accordo che di fatto non c'era, le trattative erano ancora in pieno svolgimento. Ma era strumentale ad alimentare le aspettative di una tregua imminente, così da far titolare i giornali, l'indomani, sull'accordo sfumato facendo ricadere la colpa su Israele. I media ovviamente hanno abboccato in pieno, nonostante il fatto stesso che Hillary Clinton dovesse ancora giungere nella regione avrebbe dovuto far presagire che l'accordo era ancora lungi dall'essere raggiunto.

Nonostante l'Iran non faccia mistero (anzi, lo rivendica ufficialmente) di aiutare militarmente sia il regime di Assad contro i ribelli, sia Hamas fornendogli missili di gittata sempre maggiore, che mi risulti nessuna delle assennate analisi apparse sui mainstream media si è azzardata ad interpretare quanto sta accadendo come un diversivo iraniano per alleggerire la pressione internazionale su Assad, impegnato in una durissima repressione interna. Ma non lo capite, stupidi, che non c'entrano più le rivendicazioni dei palestinesi, che la "questione palestinese" è morta e sepolta, e che Siria, Gaza, Assad, Hamas, tutto quanto sta accadendo, è parte di un'unica guerra regionale il cui attore, anzi burattinaio principale è l'Iran?

Ebbene, Hamas, che appartiene alla Fratellanza musulmana, lo stesso movimento che esprime il presidente egiziano Morsi, è a un bivio: deve scegliere se affidarsi alla mediazione dei suoi "fratelli" egiziani, se farsi "normalizzare" e moderare dall'Egitto, o se invece giurare fedeltà a Teheran, che gli fornisce i preziosi missili con i quali può ricattare Israele e proseguire la sua guerra. Egitto o Iran, insomma? Sotto esame è anche il nuovo Egitto in mano ai Fratelli musulmani: gli Stati Uniti, ma anche Israele, vogliono capire se è o no un attore di stabilità e se la sua "parentela" con Hamas è d'aiuto o un'ulteriore complicazione.

E invece niente di tutto questo, sui media, siti internet e social network compresi, prosegue lo stucchevole rito - il "terzismo" - di politici e giornalisti tweetstar: condannare la guerra sporca e cattiva, che non serve a nessuno, e mettere sullo stesso piano Hamas e Israele (semmai facendo le pulci a quest'ultimo, colpevole di accanirsi su innocenti e indifesi palestinesi). Facile starsene comodomente seduti davanti al pc in redazione o sul divano di casa e pontificare sull'inutilità della guerra. E' una posa comoda e da persone perbene, che garantisce bella figura a buon mercato, esentati dalla fatica intellettuale e anche dalla responsabilità morale e professionale di distinguere tra aggressore e vittima, di distribuire torti e ragioni.

Tuesday, November 20, 2012

Il marchio Monti in franchising non può bastare

Anche su L'Opinione

Pensavate di averle viste di tutte? Vi sbagliavate. Il meglio deve ancora venire: il meglio del peggio, s'intende. Nel weekend Montezemolo ha lanciato la sua alleanza con l'associazionismo cattolico-solidarista Verso la Terza Repubblica (tutta gente che ha pasteggiato allegramente anche nella prima e nella seconda) in appoggio al Monti-bis. La non discesa in campo del presidente della Ferrari dà vita all'ennesimo paradosso della politica italiana: un non candidato che lancia una lista per sostenere un'altra non candidatura, quella di Mario Monti a Palazzo Chigi. Un'operazione davvero troppo fumosa, persino per i tempi eccezionali che viviamo. Monti non si candida, nemmeno Montezemolo (e nemmeno Bonanni), ma ci sarà una lista Montezemolo col nome di Monti nel simbolo e come programma. Una fiduciaria, un franchising, più che una lista politica.

Afferriamo l'idea di porre fine alla stagione dell'uomo solo al comando, ma questa sorta di "leading from behind" – metterci la faccia e anche la firma, ma senza scendere in campo, senza misurarsi personalmente nelle urne – offre davvero maggiori garanzie di serietà e trasparenza rispetto agli interessi, evidentissimi, di cui la lista LCdM-Todi è espressione? Ci sarà dato di sapere almeno se il professore ha effettivamente concesso a Montezemolo & soci il diritto di "commercializzare" politicamente il suo ben affermato marchio, o se invece si tratta di uno sfruttamento non autorizzato? Davvero pensa di appaltare a tali "scudieri" (Montezemolo, Bonanni, Riccardi, Casini, Fini) il compito di fornirgli una legittimazione elettorale, senza degnarsi di esporre lui stesso agli italiani la sua agenda per i prossimi anni? E se la sente il presidente del Consiglio di garantire sui candidati che saranno inseriti (da chi?) nelle liste che invocano il suo bis?

Il guaio, dal punto di vista politico, è che il marchio Monti rischia di rivelarsi poco più che una furba trovata dei Montezemolo e dei Casini per risparmiarsi il gravoso onere della chiarezza della loro proposta politica. Insomma, non serve faticare troppo per spiegare agli italiani che cosa si vuole fare in concreto: il riferimento a Monti basta e avanza. Ma così è difficile scorgere nell'operazione LCdM-Todi qualcosa di più di una lobby centrista alla ricerca di un posto al sole nel più che probabile bis del professore. Si dirà che tanto il programma è obbligato, che tutti lo conoscono. Come dice Napolitano, «Monti ha segnato il cammino ai partiti». Vero solo in parte. Perché il marchio Monti richiama molte cose diverse – alcune buone, altre meno – ma anche molti vuoti, capitoli nemmeno aperti. Sarebbe interessante, quindi, capire in concreto rispetto a quali politiche dovrebbe esserci «continuità». Continuità, per esempio, anche nel non abbattere lo stock di debito pubblico e negli esigui tagli alla spesa? Se la mera «continuità» con l'esperienza Monti è una garanzia dal punto di vista della cultura di governo, non può bastare, invece – lo ammetteranno anche i più montiani – dal punto di vista dei contenuti. O meglio, dipende da come si pensa di uscire dalla crisi italiana, iniziata ben prima del crack Lehmann o di quello greco: uscire dalla crisi cambiando il paese da cima a fondo, oppure manovrando con astuzia sperando, con l'aiuto dell'Europa, che il costo del nostro debito torni magicamente ai livelli pre-crisi, cioè vicino a quello tedesco?

Nel secondo caso, nient'affatto peregrino data la componente di irrazionalità che anima i mercati, potrebbe bastare la sola presenza di Monti a Palazzo Chigi, nel primo no. Ci sta che in questo anno il professore, ritrovatosi all'improvviso il timone tra le mani, non abbia voluto rischiare una virata a 180 gradi che avrebbe potuto ribaltare la barca Italia e far finire in mare milioni di connazionali. E così si è limitato ad usare la leva più immediata e sicura: più tasse. Ma ora, pur nei vincoli di bilancio ristrettissimi, qualche spazio di manovra c'è, alcune opzioni di fondo, molto diverse tra di loro, tra cui scegliere ci sono. Per esempio, Draghi insiste nel raccomandare un risanamento meno recessivo, centrato cioè sui tagli alla spesa e non su aumenti di tasse. Fino ad oggi Monti ha intrapreso la via opposta. Nel suo bis a Palazzo Chigi seguirebbe o no i suggerimenti di Draghi?

Insomma, se l'operazione Monti-bis è cambiare il paese, ma senza proclami per non spaventare l'elettorato e i "poteri forti", e per evitare di infiammare le piazze, tatticamente può avere un senso. Il sospetto, tuttavia, guardando l'operato di questi mesi, gli scudieri che si accalcano ansiosi di fargli strada, e la sua ambiguità sull'agenda per i prossimi anni, è che l'obiettivo sia minimale: non affondare, tenersi a galla aspettando che la tempesta passi, dunque evitare di consegnare il timone a Bersani-Vendola, che ci porterebbero contro gli scogli, ma sostanzialmente senza cambiare il paese, quindi garantendo tutti i soggetti interessati al mantenimento dello status quo.

Monday, November 19, 2012

Il ritorno del broker Monti

Monti in versione broker è tornato, con un road show negli stati del Golfo Persico a caccia di acquirenti per i nostri titoli di stato e altri asset. Peccato che in Kuwait, forse tradito da un'eccessiva autostima e dal desiderio di essere richiamato a Palazzo Chigi, sia incorso in una gaffe attutita solo dalla benevolenza di media compiacenti. Affermare che «ora l'Italia è affidabile», mentre interrogato sul dopo elezioni rispondere «non posso garantire per il futuro» è un'uscita davvero molto istituzionalmente scorretta: come si può accettare che un premier, in visita all'estero, metta in dubbio l'affidabilità del suo paese dopo le elezioni che si terranno solo fra pochi mesi? Per altro, dopo aver esortato ad investire in Italia sfruttando le "basse" valutazioni degli asset del paese? E' sembrato quasi un invito a investire e a disinvestire nell'arco dei tre mesi che ci separano dal voto.

Anche se ci fosse del vero, e se pensasse in cuor suo di non poter garantire sull'affidabilità futura del paese, il suo ruolo gli imporrebbe di non dirlo, almeno non all'estero. L'avesse fatto Berlusconi sarebbe stato - giustamente - crocifisso. E il ministro Riccardi, esponente di punta della lista montezemoliana, probabilmente al di là delle sue intenzioni ha peggiorato la gaffe, confermando che l'impossibilità di offrire garanzie sull'affidabilità politica del nostro paese dopo il voto è proprio ciò che il premier «ha percepito» e ha voluto dire, e che sta agli italiani «fare i conti con le loro scelte». Come dire: siete avvertiti, senza Monti l'Italia non è affidabile.

Dal Qatar Monti, da politico accorto, ha poi corretto il tiro dicendosi «certo» che dopo il voto, «qualsiasi cosa accadrà nella politica italiana», «i governi che verranno opereranno per il risanamento e le riforme». Anzi, di più, «faranno ancora meglio per far progredire l'economia italiana». E anche Napolitano si è affrettato a rassicurare i nostri partner: «Monti ha segnato il cammino ai partiti». Incidente chiuso, insomma, e della gaffe "anti-italiana" non sembra essersi risentito nessuno.

Friday, November 16, 2012

E' un'altra America, il dilemma del GOP

Versione integrale su Rightnation.it

Tutte le analisi sulla vittoria di Obama che puntano l'indice sulla debolezza intrinseca della candidatura di Mitt Romney, sugli errori di comunicazione del GOP, sull'eccezionalità irripetibile della figura di Barack Obama, sull'effetto rivitalizzante che ha avuto Sandy per l'incumbent, o sull'influenza dei media, sono senz'altro fondate, colgono aspetti importanti, ma tutto sommato congiunturali delle presidenziali 2012, e rischiano quindi di assecondare uno stato di "denial" nel campo conservatore, persino consolatorio: per tornare alla Casa Bianca nel 2016 basterà presentare un candidato meno "bostoniano", meno freddino, capace di scaldare i cuori e le menti della Right Nation, e il limite dei due mandati farà il resto (difficilmente i Democratici riusciranno a tirar fuori dal cilindro uno "special one" come Obama).

E' comprensibile: più tranquillizzante sedersi in riva al fiume aspettando che l'eccezione Obama passi, come un uragano. Peccato che potrebbe non bastare. Non negare i dati strutturali della vittoria di Obama è invece il primo passo per porvi rimedio. Nella sua rielezione si intravedono mutamenti profondissimi nella composizione e nella mentalità - quindi demografici ma anche ideali e politici - dell'elettorato americano, molto diverso da quello del 2004. Il che è molto più terrificante (dal mio punto di vista di liberista) della semplice idea che Romney fosse il candidato sbagliato e Obama troppo carismatico ed hollywoodiano per essere battuto. Ma è Obama ad aver cambiato connotati all'America, o lui stesso è il prodotto di questo cambiamento? Probabilmente entrambe le cose insieme.
(...)
Non si può non prendere almeno in considerazione l'ipotesi che la coalizione progressista messa insieme nel 20008 e nel 2012 da Obama possa costituire una "maggioranza permanente", cioè in grado di sopravvivergli politicamente e di aprire un ciclo, come suggeriscono Sam Tanenhaus nel suo "The death of conservatism" e Ruy Teixeira in "The emerging democratic majority". Prima di Obama l'unico presidente del II dopoguerra ad essere rieletto nonostante la disoccupazione oltre il 7% fu Reagan nel 1984. Un presidente che guarda caso fu capace di forgiare una coalizione conservatrice che avrebbe segnato culturalmente due decenni, gli anni '80 e '90, e retto per un soffio fino al secondo mandato di George W. Bush, nonostante fossero già in atto i cambiamenti demografici che vediamo esplodere oggi. Più saggio, quindi, non escludere che Obama possa rivelarsi il Reagan dei democratici, che insomma possa aver aperto un nuovo ciclo destinato a non esaurirsi con il suo secondo mandato.

Nel 1992 i Democratici tornarono alla Casa Bianca con Clinton, vagheggiando di "terza via" e governando dal centro un paese in maggioranza conservatore. Come i Democratici di allora anche il GOP oggi è di fronte a un dilemma simile: come reagire all'emersione in superficie di questo popolo di sinistra? Inseguirlo, smussando i propri angoli sulle social issues e attenuando la propria rigidità in tema fiscale, ma rischiando di perdere la Right Nation, o tenere il punto, se non radicalizzarsi, rischiando però di perdere indipendenti e moderati? Nel primo caso si tratta di trovare un candidato vincente per riconquistare la Casa Bianca nel 2016, ma inevitabilmente dal profilo, e su una piattaforma, più centrista, cioè più disponibile a soluzioni di compromesso con le istanze welfariste, che a quanto pare sempre più americani e nuovi immigrati non vedono come fumo negli occhi, e più aperta su immigrazione e diritti civili. Nel secondo di mantenere saldi e non negoziabili i propri principi, nella speranza che il nuovo ciclo politico passi in fretta e il riflusso spinga gli americani di nuovo a destra.

Il dibattito nel GOP è aperto: a cosa è dovuta la sconfitta? S'insinua il dubbio che sia sbagliato il messaggio, ormai non in sintonia con una popolazione in rapido mutamento, e che quindi occorrano cambiamenti fondamentali nella linea politica. Nulla di drammatico, sembra però rispondere la maggior parte del partito, soprattutto i governatori, più sicuri della sintonia con i propri elettori e già proiettati verso il 2016: candidati scadenti, errori di comunicazione e insufficienti sforzi per portare gli elettori alle urne. «E' essenziale rimanere fedeli a ciò che siamo - spiega il governatore della Virginia Bob McDonnell - dobbiamo capire come rendere i nostri principi più interessanti agli elettori emergenti, ma se abdichiamo ad essi diventiamo un'entità molto diversa».

Un problema di identità, o di comunicazione, dunque? Piegarsi alla nuova demografia o insistere nel tentativo di avvicinare i nuovi elettori ai principi conservatori? Nel primo caso i Repubblicani temono di presentarsi come "cripto-Democratici". E resterebbe un problema, diciamo, di marketing, di brand: se anche si convincessero ad offrire un prodotto politico più simile a quello dei Democratici, perché gli elettori dovrebbero preferire la copia all'originale? E se anche preferissero la copia, e un repubblicano tornasse alla Casa Bianca da liberal moderato, l'America non sarebbe comunque più la stessa. «L'America non ha bisogno di due partiti liberal», avverte il governatore della Louisiana Bobby Jindal. Fra quattro anni gli elettori potrebbero preferire una versione più edulcorata delle politiche obamiane, ma anche sviluppare una totale repulsione verso di esse.

Entrambe le strade presentano quindi degli inconvenienti. Proposte politiche specificamente rivolte verso le etnie emergenti potrebbero non bastare, ed è vero che in teoria il libero mercato crea un contesto economico più meritocratico, che offre a tutti, minoranze comprese, l'opportunità di migliorare il proprio status, ma restano pur sempre allettanti politiche che promettono (che mantengano è tutt'altra storia) un'esistenza meno ambiziosa ma comunque dignitosa con il minimo sforzo. Una via di mezzo per il GOP potrebbe consistere nell'ammorbidire la propria posizione sull'immigrazione, col rischio però di alimentare ancor più rapidamente il serbatoio di voti democratico, e aggiornarla sull'omosessualità, mantenendo invece ferma la linea di politica fiscale. Fiducia nell'impresa individuale e Stato leggero sono infatti le fondamenta dell'"eccezionalismo" Usa e del loro potere economico, il resto - forse - è aggiornabile.
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Thursday, November 15, 2012

In piazza l'ideologia non il disagio

Le buone ragioni di chi - famiglie e imprese - è massacrato di tasse da uno Stato che non vuole dimagrire, da un governo che interpreta l'austerità come dieta da infliggere ai cittadini (mentre il risanamento dev'essere centrato su riduzioni della spesa e non su aumenti delle tasse, ripete Draghi), non si difendono confondendole con gli slogan dei manifestanti di ieri, scesi in piazza per preservare un modello sociale insostenibile e rivendicarne uno ancor più insostenibile, da finanziare ovviamente con più patrimoniali, e le cui proteste - per altro violente - hanno a che fare più con vecchie ideologie, rigurgiti dalla pattumiera della storia, che con un reale disagio sociale, come l'esperienza degli anni passati dovrebbe insegnarci. Passato solo un anno, già ci siamo scordati la lezione del 15 ottobre scorso a Roma e vengono poste sullo stesso piano le «due violenze», quella dei manifestanti e quella delle forze dell'ordine.

Ancora una volta si torna a distinguere, come fa Giannini su la Repubblica, tra «le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarco-insurrezionalista», e le «ragioni di una maggioranza rumorosa», in una sorta di riedizione dei "compagni che sbagliano". Ovviamente i violenti - minoritari ma non così pochi - meritano solo manganellate, mentre il diritto a manifestare pacificamente è sacrosanto. Ma l'ideologia, molto più che il disagio sociale, che muove gli uni e gli altri, è la stessa: è l'ideologia statalista e assistenzialista, dunque conservatrice e regressiva. Diciamolo forte e chiaro: non è che quelli che distruggono banche e assaltano le forze dell'ordine, o inneggiano a Saddam Hussein, hanno torto solo perché sono violenti, mentre gli altri hanno ragione. Hanno torto entrambi, perché entrambi la pensano allo stesso modo, si differenziano solo nell'"azione", nelle modalità della loro lotta al "sistema". Una generazione, ma forse più d'una, è stata «derubata del futuro», non c'è dubbio, ma non a causa delle politiche di austerità, bensì del debito pubblico e della scarsa crescita economica causati proprio dal modello sociale che con forme di protesta come l'Eurostrike di ieri si vuole difendere.

Ciò per cui lottano i manifestanti scesi in piazza ieri è esattamente ciò che ci ha portati in questa crisi, è parte, almeno una gran parte del problema, non della soluzione. Non chiedono meno Stato e meno tasse, chiedono istruzione e sanità gratuite, posto fisso e ben retribuito (perché il lavoro è un diritto, non una merce), di andare in pensione prima possibile, insomma un percorso di vita, dalla culla alla tomba, in cui tutto è dovuto, garantito, a prescindere da meriti e responsabilità individuali, e naturalmente a spese di qualcun altro (e se i soldi non bastano, che si stampi moneta fasulla).

Gli studenti veri - quelli che studiano davvero, o vorrebbero studiare, e non i fancazzisti, baby professionisti della protesta permanente - sono «umiliati» non da «anni di tagli alla scuola pubblica» (ma de' che?), ma da un'istruzione che costa tanto (anche alla famiglia che non manderà mai i suoi figli all'università!) e produce poco, di qualità scadente, e non perché manchino le risorse ma perché vengono gestite male, in modo improduttivo e anti-meritocratico da una casta di irresponsabili.

La cosa più avvilente, però, è vedere come pur di prendersela con Monti e con le istituzioni europee anche giornali e commentatori di destra, sedicenti liberali o dell'establishment arrivino ad attribuire dignità di «disagio», di «scontro sociale», a scioperi e manifestazioni che da sempre prendono a pretesto qualsiasi cosa per sfogare una rabbia ideologica, strumentalizzando un'ignoranza di massa abissale. Naturalmente Monti e le istituzioni europee sono criticabilissimi - e su questo blog non ho certo risparmiato critiche - ma per motivi esattamente opposti a quelli sbandierati in piazza ieri.

Wednesday, November 14, 2012

Sulla patrimoniale Monti strizza l'occhio alla coppia Pd-Sel?

Dopo la smentita ufficiale di martedì, anche ieri autorevoli esponenti dell'esecutivo – i sottosegretari Catricalà e Polillo, i ministri Giarda e Fornero – sono tornati a negare che in questo momento il governo stia pensando ad una nuova imposta patrimoniale o ad accrescere quelle esistenti. Imposte sul patrimonio, tra l'altro, il governo le ha già introdotte: sugli immobili, sui beni di lusso e sui conti deposito e titoli. E' assodato, dunque, che al "Financial Times Italy Summit" il presidente del Consiglio non abbia voluto annunciare alcuna nuova patrimoniale. Come interpretare, allora, le sue parole? Giocando un po' tra passato (quello che avrebbe voluto fare ma non ha potuto) e futuro  («siamo all'inizio del lavoro») dell'azione di governo, Monti ha spiegato che non ha introdotto una patrimoniale «generalizzata», e non ha intenzione di introdurla ora, non perché sia contrario in linea di principio, ma semplicemente perché non ha gli strumenti tecnici per "scovare" le ricchezze evitando una fuga dei capitali dall'Italia che metterebbe al tappeto la nostra economia. Lascia tuttavia intendere che se li avesse...

La materia è molto delicata.
(...)
E' dunque un irresponsabile, il premier, a parlare così alla leggera di patrimoniale? Ha voluto in qualche modo sdrammatizzare e "deideologizzare" il dibattito sul tema, osservando che imposte patrimoniali esistono in molti paesi «estremamente capitalisti». Vero, ma ciò che ci si dimentica sempre di aggiungere, e nemmeno al professore è tornata in mente, è l'altra metà della verità: in quei paesi «estremamente capitalisti» dove è considerevole la tassazione sul patrimonio, è allo stesso tempo di molto inferiore alla nostra l'imposizione sui redditi personali, sul lavoro e sull'impresa. La logica, insomma, è quella di penalizzare i capitali "immobilizzati" e le rendite come incentivo indiretto ad investirli nelle attività produttive. In Italia, invece, le patrimoniali introdotte negli ultimi due anni, prima dal governo Berlusconi-Tremonti, poi dal governo Monti, sono servite a tappare i buchi dello Stato spendaccione.

Un rapporto della Corte dei Conti attesta che nell'ultimo anno, soprattutto con l'introduzione dell'Imu, nella quota di gettito derivante da tasse patrimoniali siamo passati da una posizione leggermente al di sotto della media europea al secondo posto tra i paesi Ue, preceduti solo dalla Francia, mentre manteniamo saldamente le primissime posizioni nel prelievio su redditi da lavoro e da impresa. Dunque, abbiamo esaurito ogni margine di aumento di imposte anche sul lato patrimoniale. Se vogliamo ridurre la pressione su lavoro e impresa per stimolare la crescita non è ai patrimoni che dobbiamo puntare, perché rischieremmo la fuga dei capitali, ma alla spesa pubblica ancora elefantiaca.

Sarà stata una «discussione teorica» quella di Monti, ma non per questo priva di significati politici. Basta aver visto, su Sky, il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra per sapere che tutti – tranne Renzi – propongono una qualche forma di patrimoniale: dalla versione «dolce» di Tabacci all'«imposta personale sui patrimoni» di Bersani, passando ovviamente per Vendola. A pochi mesi dal voto, con un centrodestra frammentato e i sondaggi che danno in vantaggio l'alleanza Pd-Sel, con il vento in poppa delle primarie, non si può escludere che Monti abbia voluto mandare un messaggio distensivo al centrosinistra possibile vincitore delle elezioni. Sta forse offrendo la patrimoniale «generalizzata» che, confessa oggi, avrebbe sempre voluto introdurre, per ottenere l'appoggio di Pd e Sel ad un suo bis a Palazzo Chigi? Davvero Monti pensa che non faccia alcuna differenza quale coalizione troverà a sostenerlo? E davvero si crede intercambiabile, un premier buono per qualsiasi maggioranza?
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Tuesday, November 13, 2012

Dibattito non sposterà voti, ma lo vince Bersani

Due i sicuri vincitori del dibattito tv di ieri sera tra i candidati alle primarie del centrosinistra: decisamente Sky, che ha costruito un format nient'affatto male per essere la prima volta, con un ritmo serrato e coinvolgente. Pochi 90 secondi? Il numero degli oratori - cinque - imponeva tempi ristretti per le risposte (immaginate la sonnolenza a concedere più di due minuti a Vendola o alla Puppato) e in ogni caso trovo che sapere esprimere un concetto chiaro, incisivo, con il giusto mix di retorica e concretezza in un minuto circa sia un'abilità che bisogna imparare a pretendere/apprezzare in un politico e che i politici devono coltivare. E diciamola tutta: a volte 90 secondi sono sembrati anche troppi, così poco avevano da dire alcuni. Ma hanno vinto anche le primarie stesse, che obbligano tutti ad una comunicazione politica più stringente, più sul punto, meno autoreferenziale e da talk show. Ormai imprescindibili, il centrodestra ha solo da imparare.

Non ha vinto, invece, come si potrebbe pensare, l'alleanza Pd-Sel. Sì, ok, aiutata dal vuoto, dalla nullità del centrodestra, il pienone alle primarie è garantito. Ma il dibattito di ieri sera non ha certo aiutato il centrosinistra ad andare oltre il suo elettorato tradizionale, semmai a rivitalizzarlo (che comunque non è poco). Grigiore e inconcludenza generale, nessuna idea nuova, nessuna proposta concreta, numeri alla mano su debito, Pil, tagli fiscali e come finanziarli. Niente di tutto questo, ma solita sinistra tasse e welfare, l'usato sicuro (Bersani) contro il giovane furbetto (Renzi), appena più fresco; gli altri vecchissimi, salme novecentesche. Insomma, nulla che possa attrarre un elettore non di sinistra.

Il dibattito di per sé non dovrebbe nemmeno spostare molti voti tra i candidati alle primarie, non essendoci stati colpi di scena o scivoloni eclatanti. Detto questo, considerando l'elettorato di riferimento e le aspettative, e la performance comunicativa più che il merito delle politiche, direi che ha vinto Bersani (voto: 8). Ha tutto sommato consolidato la sua posizione di front-runner, non apparendo nient'affatto bollito e impacciato come ci si poteva immaginare al confronto con il giovane Renzi, mai a disagio o troppo in tensione o irritato dalla sfida (anche perché nessuno lo ha minimamente attaccato). Look ordinato, composto, pacato, sobrio, ha saputo gestire i momenti dosando retorica e concretezza, prendendosi la scena con tono assertivo, con un cambio di registro per far capire che le sfide saranno tremende e c'è bisogno di esperienza e affidabilità. Ha saputo piazzarsi come via di mezzo ragionevole tra Renzi e Vendola («cambiare senza spaventare») e con il suo fare bonario da padre di famiglia che sa ascoltare li ha neutralizzati.

Renzi (voto: 6) è apparso più fresco, il più brillante e a suo agio con il format, sue le battute più efficaci, ma non rappresentando politicamente niente di così nuovo, Bersani è apparso più solido e affidabile per la premiership. La simpatia non basta più, è stato deludente sui contenuti: nessun elemento di vera rottura con la sinistra tradizionale. Non riesce nemmeno a scaricare Vendola dall'alleanza. Riprende gli altri avversari ma non attacca mai Bersani. Renzi ieri sera ha scelto di non creare problemi, di fare "l'amico", per scrollarsi di dosso l'etichetta del guastafeste. Ha fatto il suo compitino, svolto la parte della giovane leva ma negli schemi, facendo così il gioco del segretario. In fondo la competizione vera adesso è per il secondo posto, per andare al ballottaggio, e non ha voluto rischiare. Ma è una strategia utile, appunto, per arrivare bene secondo, non per tentare di battere Bersani.

Emblematico l'appello finale: da Renzi una generica dichiarazione d'amore, di passione per la politica «bella», e di desiderio di «futuro», mentre a mio avviso Bersani ha toccato tasti più concreti e sensibili per gli elettori di centrosinistra. Basta con la «fabbrica delle illusioni», ora verità: «Non vi chiedo di piacervi ma di credermi, perché dirò le cose come stanno, con verità e semplicità», come a mettere in guardia gli elettori da chi tenta di "piacere", sottintendendo non solo Berlusconi ma anche i "compagni" Matteo e Nichi.

Vendola (voto 4) è stato disastroso, sembrava la parodia di se stesso ("acchiappanuvole"!?), look tetro, pallido, sudato, retorica oltre qualsiasi soglia di sopportabilità, ad ascoltarlo veniva voglia di toccare ferro tanto era fosca l'immagine del paese che tratteggiava (e sorvoliamo sulla figuraccia della sua fan). Gli altri in pratica si sono autoeliminati: troppo vago, democristiano e dinosauro della politica Tabacci (voto: 4); non pervenuta la Puppato, sempre a disagio, confonde la riforma del lavoro con quella delle pensioni, Brunetta con Padoa-Schioppa, evasiva e fumosa.

Saturday, November 10, 2012

Le ragioni politiche dietro lo sfogo del Cav

Anche su L'Opinione

Proviamo una lettura meno caricaturale dello psicodramma del Pdl. Secondo Berlusconi le primarie non bastano, anzi così organizzate (provincia per provincia) rischiano di alimentare le faide interne e dar vita ad uno spettacolo ancor più disgustoso agli occhi degli elettori. Ci vorrebbe il Berlusconi del 1994, un nuovo Berlusconi, o almeno un leader con il famoso "quid", di cui però il Cav non vede traccia nel partito. Come dargli torto? Ha corteggiato invano suoi possibili successori, da Montezemolo a Monti, i quali hanno cortesemente declinato. In parte per la natura stessa del personaggio, che non ammette co-protagonisti, in parte per l'assalto mediatico-giudiziario, intorno al Cav c'è solo terra bruciata. Personalità esterne alla politica esitano a farsi avanti per paura di ricevere lo stesso trattamento, e in ogni caso non accetterebbero mai di caricarsi sulle spalle il corpaccione dello screditato Pdl e la pesante, controversa eredità del suo fondatore.

Il Cav capisce che la sua stagione è finita e fatica ad accettarlo. Quindi continua a "sragionare" di un nuovo Berlusconi e di "shock". Il partito dovrebbe aspettare che si manifesti, come una sorta di messia, o andarselo a cercare. Dopo aver sbraitato, è lui stesso ad ammettere di non avere assi nella manica, di non sapere neanche lui cosa fare, e a definire il suo uno «sfogo». Fin qui l'aspetto psicologico. Ora quello politico. Legittimo che Alfano e i suoi coltivino ambizioni, ma commettono il tragicomico errore di ignorare i propri limiti se pensano di costruire il proprio futuro politico rompendo con Berlusconi, nell'illusione che ciò renda possibili chissà quali nuove e formidabili alleanze. E senza di lui, o peggio avendolo contro, nemmeno le primarie sovvertirebbero il clima di smobilitazione. Comprensibile che il malumore del Cav aumenti sentendosi epurato da un gruppo dirigente mediocre – il cui appeal sull'elettorato non è ancora nemmeno lontanamente comparabile al suo – convinto che il sacrificio del capo e appiattirsi su Monti servano ad un disegno politico in realtà manifestamente suicida.

Dopo un anno, a nulla sono serviti i passi indietro di Berlusconi (se non ad irritarlo), anzi l'agognata unità dei "moderati" che avrebbero dovuto favorire è quanto mai lontana. Il gioco di Casini è un altro: la deberlusconizzazione del Pdl non come precondizione di un'alleanza, ma come premessa della sua liquefazione. Quello di Fini di ieri mattina (con Alfano possibile una «pagina nuova per tutti i moderati») è solo l'ultimo dei "baci della morte". Lo stesso D'Alimonte, rivelando candidamente il senso della sua proposta di riforma elettorale, dà la misura della stupidità del Pdl che in Senato ha votato, con Udc e Lega, un testo simile: «Con questo meccanismo Casini potrebbe decidere di fare un'alleanza elettorale con il Pd sul modello siciliano. Arriverebbero al 40%, e con 14 punti di premio arriverebbero al 54%: se il Pd facesse un listone unico con Sel potrebbe disinnescare la pregiudiziale di Casini nei confronti di Vendola». Biscotto servito e tanti saluti al Pdl.

La soglia – per ora al 42,5%, ma Pd e Udc sono già d'accordo sul 40 – è funzionale ad un'alleanza Pd-Sel-Udc o, in ogni caso, regala una enorme rendita di posizione post-voto ad un Casini in crisi, che nelle ultime tornate elettorali non è apparso in grado di intercettare voti Pdl e il cui progetto Terzo polo si è dimostrato velleitario. Tra l'altro, è una legge peggiorativa del porcellum in termini di governabilità: se nessuno raggiunge la soglia, non scatta il premio ed è proporzionale puro; ma la coalizione che la raggiungesse potrebbe comunque essere troppo disomogenea, come lo sarebbe una formata da Pd, Sel e Udc.

Friday, November 09, 2012

Fondo Giavazzi? Più che una goccia, una lacrima

Renato Brunetta è tornato a confermarlo anche ieri: nella legge di stabilità, all'esame della Camera, ci sarà spazio per un "fondo Giavazzi" – la cui formula lo stesso ex ministro ammette essere «un po' vaga» – in cui far confluire le risorse provenienti dal riordino del sistema dei sussidi pubblici alle imprese (una spesa totale di 33 miliardi annui) per finanziare un credito d'imposta per ricerca e innovazione e la riduzione dell'Irap, secondo lo schema suggerito dal professore bocconiano.

Passi il fatto che il rapporto Giavazzi non contemplava l'ennesimo credito d'imposta (semmai si limitava a "salvare" dai tagli suggeriti le agevolazioni fiscali sulle spese per ricerca e sviluppo), della proposta originaria sembra essere rimasto solo il nome del suo autore, il quale a questo punto dovrebbe dire la sua. Il rapporto che il governo stesso gli ha commissionato, infatti, si è perso per quasi sei mesi nelle stanze dei ministeri per riemergere, infine, completamente svuotato. I 10 miliardi di risparmi ipotizzati, passati al vaglio dei "tecnici" dei ministeri, sono diventati prima 3, poi 500 milioni, secondo quanto riporta Alessandro Barbera su La Stampa: un ventesimo (l'1,5% della spesa totale).
(...)
Un po' poco perché si possa ritenere credibile lo sforzo compiuto e perché si possa parlare di una vera “spending review”, che per definizione di chi l'ha inventata dovrebbe portare a rigiustificare da zero euro ogni singolo programma di spesa. E qui si tratta di mille minuscoli rivoli, alcuni tra l'altro con denominazioni talmente oscure e incomprensibili da legittimare il sospetto che chi li gestisce, nei ministeri, abbia interesse a non condividere lealmente le informazioni e a lasciare tutto com'è.

I “poteri forti” che si oppongono, evidentemente con successo, ad ogni taglio ai cosiddetti «contributi alle imprese» si possono distinguere in tre diverse categorie. Ci sono i grandi gruppi pubblici, che grazie ai trasferimenti statali si garantiscono una posizione di monopolio, o comunque di forza, nei loro rispettivi mercati. Le aziende municipalizzate, quindi gli enti locali, e le Regioni, che attraverso l'elargizione dei fondi, in forme più o meno velate, più o meno spudorate, controllano il consenso sul territorio. E infine, a livello centrale e apicale della pubblica amministrazione, i vertici dei ministeri, dove il gioco si fa più sottile e inafferrabile. E' enorme, infatti, nei decenni, accelerata dal rapido susseguirsi dei governi, la stratificazione di fondi e crediti d'imposta di cui i politici non possono avere memoria ma certo la conservano gli apparati burocratici, che li conoscono e, di fatto, li gestiscono. Il rischio è che questa miriade di minuscoli fondi, dalla denominazione incomprensibile e dagli scopi ancor più ambigui, vengano utilizzati con estrema discrezionalità, e spesso come strumenti di autopromozione presso i politici e dei ministri di turno, dagli alti e inamovibili burocrati dei ministeri. Gli stessi guarda caso chiamati a verificare la fattibilità di un rapporto che propone di tagliarli. E che con un'opacità più che sospetta, una padronanza della materia un po' “sacerdotale”, ci spiegano che servono, anche se non a cosa, e che si possono tagliare solo 500 milioni.

Possibile che il professor Giavazzi e il suo team siano stati così imprecisi nella stima dei fondi da tagliare? Sarà questa la dotazione del fondo dei "volenterosi" Brunetta e Baretta? E dei 6,7 miliardi liberati dalla rinuncia alla riduzione dell'Irpef (1 miliardo nel 2013, 3,2 nel 2014 e altri 2,5 nel 2015), cosa rimane per il taglio dell'Irap se nei primi due anni se ne spendono 2 per lavoro e famiglia, come previsto dall'accordo tra i relatori, e se restano da finanziare la salvaguardia di altri "esodati", minori tagli ai Comuni, alla scuola e al comparto sicurezza, e altre misure «per il sociale»? Resta una goccia, o piuttosto una lacrima. Nominare "Giavazzi" un fondo così finanziato e concepito sarebbe solo un modo per confondere le acque. Far credere che si è agito laddove non si è mosso un dito è il miglior modo per difendere lo status quo.
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Thursday, November 08, 2012

L'inizio della fine dell'America per come l'abbiamo conosciuta

Anche su L'Opinione

C'è un piccolo paradosso nella rielezione di Obama: la sua vittoria è sì netta nei numeri, ma molto meno di quattro anni fa. Eppure, è incomparabilmente più epocale. Quattro anni fa l'evento era il primo presidente di colore nella storia degli Usa. "Esperimento" eccitante, che ha sedotto molti elettori moderati e centristi, portandolo alla Casa Bianca sull'onda di uno spirito bipartisan. Logorato da quattro duri anni di presidenza, in cui è uscito fuori il suo lato più ideologico, Obama ha perso molti di quei voti (in totale ne ha presi quasi 10 milioni in meno del 2008). Ma proprio per questo la sua è una vittoria di portata storica, perché di (e da) sinistra (niente a che vedere con la "terza via" clintoniana), e perché indice di mutamenti strutturali, profondissimi nella composizione e nella mentalità dell'elettorato americano, demograficamente molto diverso da quello del 2004 e più spostato a sinistra. E' Obama ad aver cambiato connotati all'America, o è lui stesso il prodotto di tale cambiamento? Probabilmente entrambe le cose insieme.

Una rielezione nonostante dati macroeconomici così avversi, soprattutto la disoccupazione all'8%, fa riflettere sul reale peso dell'economia nelle scelte dell'elettorato. L'economia conta, certo, ma forse in modo diverso che in passato. Da un lato chi ha perso il lavoro può contare su sussidi più generosi e chi sta per perderlo sul salvataggio della sua industria, come in Ohio; dall'altro, tra no tax area e detrazioni molti americani non avvertono il peso del fisco, quindi sono meno preoccupati dei costi del welfare, della sanità pubblica, di cui vedono solo il lato "rassicurante" e umano. E' un approccio ai temi economici più "europeo", più orientato alle protezioni sociali che non al dinamismo tipico dell'economia americana. E senz'altro le variazioni demografiche – l'incidenza sul voto di afroamericani e ispanici, più inclini all'assistenzialismo – e le politiche obamiane stanno contribuendo alla diffusione di questo modo "europeo" di guardare all'economia.

Temi quali l'immigrazione, l'aborto, le unioni gay, sono stati decisivi in negativo per Romney, l'hanno reso invotabile anche da parte di elettori sull'economia critici nei confronti di Obama, perché il GOP resta drammaticamente arretrato su questi temi, ormai chiave per far breccia su elettorati determinanti. Obama ha infatti surclassato Romney oltre che nel voto femminile (+12 punti) e in quello degli afroamericani (+87), anche nel voto di ispanici (+40) e asiatici (+49), persino più di McCain (distanziato rispettivamente di 36 e di 27 punti), mentre ha mantenuto un ampio margine nel voto dei giovani (24 punti contro i 34 del 2008).

La forza di Obama, grazie al colore della sua pelle, sta nell'aver dato rappresentanza a una parte di America che fino ad oggi era rimasta divisa (troppo distanti tra loro giovani liberal, afroamericani e ispanici) e lontana dalle urne e che oggi, invece, si è risvegliata unita e maggioritaria nel paese.

Ma sarebbe sbagliato mettere sotto processo Romney. Nel voto popolare ha recuperato molto (da -7,3% a -2,3%) e ha strappato a Obama North Carolina e Indiana. Non era il candidato perfetto, probabilmente non ha scaldato i cuori e le menti della Right Nation, ma se ci fosse riuscito avrebbe perso troppi voti moderati e centristi, che invece ha in parte recuperato. Il tipico dramma della coperta troppo corta, insomma. Una sfida tremenda che ha di fronte tutto il GOP: come rappresentare la Right Nation e allo stesso tempo aprirsi su temi quali l'immigrazione e i diritti civili?

Da oggi, insomma, l'America è un po' meno "eccezionale". Da altri quattro anni di Obama alla Casa Bianca possiamo aspettarci la prosecuzione a tappe forzate del processo di "europeizzazione" degli Stati Uniti, una svolta storica.

Wednesday, November 07, 2012

Benvenuti in Eumerica

Qualche flash "grezzo" sulla rielezione di Obama:

1) Vittoria netta, sia nei collegi elettorali (332 a 206) che nel voto popolare (50,3% a 48,1%), ma con margini inferiori rispetto al 2008, quando finì 365 a 173 e 52,9% a 45,7%. Il presidente ha vinto largamente perché alla fine si è aggiudicato tutti gli stati-chiave, ma i distacchi sono stati minimi e il testa-a-testa è durato fino a notte inoltrata (49,8-49,3 in Florida, 50,8-47,8 in Virginia, 50,1-48,2 in Ohio, 50,7-47 in Colorado). Romney ha recuperato molto rispetto a McCain, riducendo il distacco soprattutto nel voto popolare da -7,3% a circa un -2%, e strappando a Obama due stati - North Carolina e Indiana - ma non abbastanza da impedirgli la rielezione. Va detto però che con dati macroeconomici così avversi, soprattutto quello sulla disoccupazione all'8%, la vittoria di Obama è piena e ha il sapore della grande impresa.

2) Sarebbe sbagliato mettere sotto processo Romney. Che non era certo il candidato perfetto, lo sapevamo. Probabilmente non ha scaldato i cuori e le menti della Right Nation, ma se ci fosse riuscito, a quel punto avrebbe perso troppi voti moderati e centristi, che invece a mio avviso ha recuperato, e il risultato sarebbe stato uguale se non peggiore. Il solito dramma della coperta troppo corta, insomma. Si è rivelato comunque tosto, "presidenziale", ha dato il massimo, ha messo paura ad Obama e reso la sfida aperta fino all'ultimo.

3) Nei sondaggi della vigilia c'è un prima e un dopo Sandy. Sia gli istituti più favorevoli a Romney che quelli pro-Obama avevano registrato una cospicua rimonta dello sfidante a partire dal primo dibattito tv di Denver. Gallup e Rasmussen erano arrivati ad attribuire a Romney un 5-6% di vantaggio su Obama nel voto popolare, e gli altri una sostanziale parità. Solo l'uragano sembra aver stoppato il "momentum" di Romney.

4) Va preso in considerazione il peso dei media, schierati come mai prima forse nella storia americana, e in modo virulento, dalla parte di Obama: quale altro presidente in carica avrebbe avuto la stessa "copertura", in una fase delicatissima della campagna elettorale, sul disastro di incompetenze che ha portato all'uccisione dell'ambasciatore Stevens a Bengasi? A quale altro presidente sarebbe stato "perdonato"?

5) Meno netta nei numeri rispetto a quattro anni fa, la vittoria di oggi di Obama è però più strutturale, di portata storica, perché indica mutamenti profondissimi nella composizione e nella mentalità dell'elettorato americano, molto diverso da quello del 2004: ma è Obama ad aver cambiato connotati all'America, o lui stesso è il prodotto di questo cambiamento? La sua forza, grazie al suo carisma, nonostante in parte logorato dai quattro duri anni di presidenza, è aver dato rappresentanza a una parte di America, che fino ad oggi era rimasta divisa (ceti sociali ed etnie troppo distanti tra di loro) e lontana dalle urne, che oggi si risveglia maggioritaria nel paese. E' un'America più "europea", dove la cultura latina comincia a pesare, per la quale l'economia conta ma in termini di protezione sociale e non di dinamismo. Mentre nel 2008 l'"esperimento" Obama aveva attratto molti voti moderati e centristi, ed era arrivato alla Casa Bianca sull'onda di uno spirito bipartisan, quella di ieri è stata una vittoria di (e da) sinistra, resa possibile dalla mobilitazione di un elettorato di sinistra. Niente a che vedere, insomma, con la "terza via" di Clinton.

6) Non solo sull'economia, non solo con un occhio al portafogli hanno votato gli americani. Temi quali l'immigrazione, l'aborto, i gay, sono stati decisivi in negativo per Romney, l'hanno reso invotabile anche da parte di elettori che sull'economia probabilmente bocciano o criticano Obama. Il GOP resta drammaticamente arretrato su questi temi, che sono chiave per far breccia su elettorati ormai decisivi come gli ispanici e le donne.

7) Da oggi, insomma, l'America è un po' meno "eccezionale", un po' più simile all'Europa. E con altri quattro anni di Obama proseguirà a tappe forzate il processo di "europeizzazione" degli Stati Uniti.