«Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti». Così Benjamin Constant nel 1819, distinguendo libertà positiva e libertà negativa, quest'ultima tipica degli uomini moderni.
Su La Stampa, ieri, una bella intervista a Nadia Urbinati, della Columbia University, studiosa di John Stuart Mill che nel suo ultimo studio si è concentrata in particolare su un aspetto meno noto del celebre filosofo liberale, la sua riflessione sulla democrazia rappresentativa.
Mill non si fermò a una concezione meramente elettoralistica della democrazia, che «presta attenzione solo al momento topico della decisione, in cui opera il principio di maggioranza», ma approfondì il tema della democrazia moderna prestando attenzione «all'intero processo che precede e che segue la decisione politica», sviluppando quella che la Urbinati chiama «teoria deliberativa della democrazia».
Ciò che Mill capì benissimo è che «in democrazia, il dibattito e la decisione sono due momenti entrambi essenziali, in quanto senza una deliberazione aperta e pubblica ne avremmo una versione del tutto insoddisfacente». Così, il filosofo liberale coniò l'espressione «government by discussion», governo per mezzo del dibattito, per descrivere il sistema rappresentativo. In questo senso, secondo la Urbinati, fu «il primo teorico consapevole della politica deliberativa».
Si tratta dell'einaudiano «conoscere per deliberare», motto fatto proprio dai radicali nelle loro battaglie sull'informazione.
La riflessione di Mill quindi, comprese anche la nozione di opinione pubblica, nel suo duplice aspetto. Da una parte, spiega la Urbinati, essa rappresenta «il "governo informale", il giudizio diffuso, in grado, grazie al sistema rappresentativo, di creare un ponte fra la società e lo Stato... in cui la persuasione sostituisce la semplice imposizione»; ma dall'altra, con il conformismo, «può soffocare le opinioni degli individui ed esercitare forti pressioni, limitare la loro libertà agendo come potente fattore di auto-censura». Per contrastare questa «censura invisibile», Mill riteneva che si dovesse coltivare la «contro-opinione» e che la valorizzazione del «dissenso» fosse «il maggior pregio della democrazia e la grande virtù politica degli uomini moderni».
Il contributo di Mill in questo senso è attualissimo per almeno tre motivi. Solo attribuendo il giusto peso alla circolazione dell'informazione, alla trasparenza dei processi decisionali, al corretto svolgersi della discussione, che sia pubblica e il più possibile aperta a tutti gli attori politici e sociali, solo avendo presente quanto sia vitale tutto ciò per una democrazia piena, dei moderni, ci si può rendere conto della mancanza di democrazia qui in Italia, dove in tutti i campi un potere di tipo oligarchico nasconde, sottrae, alla cittadinanza le sue dinamiche e le sue decisioni, esclude temi e soggetti dall'agorà.
In questo contesto è da apprezzare la lettera di Michele, che oggi su il Riformista ci invita a riflettere su un tema molto sentito, quello delle intercettazioni telefoniche:
«Mi domando che tipo di uso si fa delle intercettazioni. (...) Pensi che ricchezza per lo storico sarebbe avere il materiale, che so, dei giorni a cavallo del 25 luglio o dell'8 settembre 1943. D'Alema tempo fa, ricordando Berlinguer, ha detto che la vita di un leader politico è tutta pubblica, anche nei suoi aspetti privati. Mi chiedo se arriveremo mai ad avere regole chiare e precise sul privato-pubblico che passa nei fili del telefono, e che rappresenta di fatto, in alcuni casi, una parte importante del patrimonio storico del nostro paese, o continueremo a lasciare in mano questo materiale a chi se ne può servire, dosandone come crede l'afflusso nei media, a suo piacimento, conflitti d'interesse permettendo».Insomma, è senz'altro un malcostume che dalle procure trapelino intercettazioni telefoniche che riguardano indagati e non e che finiscano sui giornali, ma lo è ancor di più in condizioni di democrazia piena e stato di diritto. Nell'attuale situazione italiana non rappresentano invece preziosi ritagli di conoscenza del modo di funzionare dell'oligarchia? Non costituiscono elementi di giudizio indispensabili, a un'opinione pubblica matura, per riprendere il controllo sui processi decisionali che riguardano la cittadinanza? Oppure, visto che questo materiale esiste, dovrebbe rimanere a disposizione di poche ristretti circoli che se ne servono a seconda dei propri interessi?
Tornando al «government by discussion», al governo per mezzo del dibattito, il carattere aperto e pubblico della decisione politica, connotato distintivo della democrazia dei moderni ancor più del principio di maggioranza, è da tenere in massima considerazione nelle politiche volte a promuovere, sostenere, esportare democrazia. Libertà d'espressione e d'associazione; libertà d'impresa; sistema dei media e tecnologie; accesso alle agorà e circolazione delle idee; sono tutti elementi essenziali da sviluppare nelle società non libere o parzialmente libere. La società aperta prima o contestualmente al momento elettorale, che è condizione necessaria ma di per sé non sufficiente per una democrazia, poiché il voto non è pienamente libero se non si alimenta del pane della conoscenza.
Inoltre, quanti sono ancora convinti che il dispotismo, la tirannia, sia lo stato naturale di certe società e zone del mondo, dovrebbero considerare che del carattere aperto e pubblico della decisione politica quasi tutti i popoli hanno in qualche modo, per periodi più o meno lunghi nel loro passato, fatto esperienza, come hanno ben ricordato sia il Nobel Amartya Sen che il prof. Bernard Lewis riguardo le società islamiche e orientali, con le loro antiche tradizioni di «governo attraverso il confronto».
4 comments:
Bel post. Ti segnalo sull'argomento questo articolo di David Brin (l'autore di The Transparent Society, un libro che ha suscitato un dibattito piuttosto ampio in America, qualche anno fa): «Disputation Arenas: Harnessing Conflict and Competition for Society's Benefit», American Bar Association's Journal on Dispute Resolution 15 (2000): 597-618.
Wow. grazie Fede per la citazione. In mezzo a Mill, Sen e gli altri che hai usato per questo tuo bel post mi sento lusingato assai ;-)
Il fatto che ci sia chi controlla senza regole alcuni "giacimenti" di formazione dell'opinione e di informazione è senz'altro uno dei problemi più gravi nella nostra realtà sempre più oligarchica.
Bravo Fede e bravo Michè!
Saluti,
Inoz
http://inoz.ilcannocchiale.it
jim... ma la urbinati è una rognosa accademica (oltretutto di Torino!)... non dovresti rifiutare quanto afferma proprio in quanto "cattedratica"?
aa
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