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Monday, December 20, 2010

Chiuso per lutto

Scusate, sono letteralmente sfiancato di dolore e rabbia per questa ennesima crudele perdita. Questa mattina se n'è andato improvvisamente l'amico e il collega con cui ho pranzato quasi ogni giorno nell'ultimo anno. Un liberale e un giornalista impermeabile ai conformismi e agli odiosi tic dei mainstream media. Addio Maurizio, negli ultimi mesi eri stato sottoposto a stress insopportabili, più di quanto potessimo immaginare, ma che stavi affrontando con la tua grande passione di sempre e con il tuo stoico e "bresciano" senso del dovere. E' stato un onore e un piacere lavorare con te, una delle poche persone leali che ho incontrato in questo ambiente, che sapeva riconoscere e apprezzare il valore altrui. Sempre cari mi saranno il tuo esempio e le nostre discussioni.

Attenuante di gruppo

Dopo la bufala dell'"infiltrato", ecco la bufala del ragazzo pestato - pestato sì, ma da un "compagno" incaricato di picchiare chi avesse contravvenuto agli "ordini" decisi in un'assemblea «tecnica» tenutasi a La Sapienza (video). E' comprensibile il senso di frustrazione per la scarcerazione dei ragazzi fermati nei disordini di piazza del 14, ma dobbiamo ricordarci - e il sindaco Alemanno dovrebbe saperlo - che la responsabilità penale è sempre personale e le posizioni degli arrestati vanno valutate singolarmente. Tutti abbiamo negli occhi le immagini delle violenze, ma se il reato contestato è resistenza a pubblico ufficiale, se si tratta di incensurati, e per lo più di minorenni, quella che è stata a tutti gli effetti una guerriglia e una tentata insurrezione, finisce per essere derubricata a marachella giovanile.

Ora si parla di Daspo per le manifestazioni politiche e di fermi preventivi, misure dal sapore autoritario e dalla dubbia efficacia. Si cominci, piuttosto, con il togliere ai "Collettivi" gli spazi più o meno abusivamente occupati nelle Facoltà; con il consentire agli Atenei di espellere gli studenti protagonisti di violenze dentro o fuori i propri spazi; con il limitare l'accesso alle strutture universitarie ai soli iscritti; e, infine, con il fissare pesanti cauzioni pecuniarie per la scarcerazione prima del processo (a carico delle famiglie se minorenni).

Ma soprattutto, abbiamo un serissimo problema di sproporzione di giudizio: come già accade negli stadi, anche nelle manifestazioni politiche la violenza di gruppo è quasi depenalizzata rispetto a quella commessa individualmente. Se io, da solo, spacco una vetrina, o aggredisco un pubblico ufficiale, passo guai seri, soprattutto vengo subito inquadrato come criminale. Se tiro pugni o sassate durante una partita posso prendermi una diffida ad andare allo stadio, il cosiddetto Daspo, e se durante una manifestazione un rimbrotto dal giudice, ma avrò trasmissioni televisive a iosa in cui sarò difeso pubblicamente come "giovane cui hanno rubato futuro" e quindi in diritto di sfogare in modo violento la propria rabbia "sociale".

Rispetto all'attenuante vigente de facto oggi, bisognerebbe introdurre nel codice un'aggravante di gruppo. Lo stesso identico reato è più grave, non meno grave, se commesso allo stadio o durante manifestazioni politiche, o in qualsiasi altra situazione in cui si agisce in gruppo. Introdurre una sorta di aggravante associativa, anche perché agendo in gruppo, magari nel caos di una folla, si corrono minori rischi di essere beccati o individuati, ma è innegabile che in quei momenti la folla o il gruppo agiscono con una comunanza di obiettivi criminali. In particolare lo scorso 14 dicembre (ma anche nel tentato assalto al Senato di alcuni giorni prima), è apparso evidente il tentativo di dare l'assalto alle istituzioni democratiche, o almeno di turbarne il funzionamento. Quindi non sarebbe esagerato da parte della Procura ipotizzare anche il reato di attentato agli organi costituzionali (art. 289 del C.p.), ma ovviamente questo aspetto - il più grave dell'intera vicenda - nessuno osa sollevarlo.

Infine c'è la questione, anche questa per lo più taciuta, dell'arretratezza e inadeguatezza del materiale in dotazione alle forze dell'ordine negli stadi o durante le manifestazioni politiche. C'è davvero bisogno che tutti gli agenti portino con sé armi da fuoco? Non mi preoccupo per l'incolumità del Carlo Giuliani di turno, ma degli agenti stessi, che possono venire aggrediti e privati dell'arma, come stava per accadere lo scorso 14 dicembre a quel finanziere che ha dimostrato non poco sangue freddo. Perché, invece, non dotare le forze dell'ordine di pallottole di gomma, taser, idranti (anche coloranti)? Sarebbe possibile in questo modo immobilizzare un gran numero di persone con danni lievi, evitando brutte scene di pestaggi.

Friday, December 17, 2010

Fini neocentrista perde appeal

Non sono la laicità e i temi della bioetica i principali motivi di contraddizione di un terzo polo Fini-Casini. Per due motivi. Primo, perché Fini è una banderuola, non ha problemi a "cambiare idea", e tra i suoi i liberali sono al massimo un paio; secondo, perché si può sempre dire che su quei temi c'è "libertà di coscienza" e a ben vedere è ormai da parecchio tempo che lo stesso Fini sembra averli accantonati. No, la contraddizione strategica è sull'assetto del sistema politico e sul posizionamento in esso, ed è su questa che quattro finiani hanno scelto di non votare la sfiducia.

Fli nasce bipolarista - lo ricordano oggi gli "intellettuali" finiani della prima ora Campi e Ventura - si vorrebbe proporre come "vero" e nuovo centrodestra, alternativo alla sinistra. Casini e l'Udc, invece, vogliono un "grande centro", perno del sistema e quindi pronto a governare sia con la destra (senza Lega) che con la sinistra (senza Di Pietro e i neocomunisti). Si tratta di visioni strategiche alternative e Fini non può pensare di costituire un terzo polo con Casini, anche solo tatticamente, senza dare l'idea di aver abbandonato la logica bipolare in favore di quella centrista. E' su questo, e non sui temi cari alla Chiesa, che rischia non solo di perdere parlamentari, come è accaduto il 14, ma soprattutto consensi. Ed è anche per questo che a mio avviso Fini in un terzo polo avrebbe minore capacità attrattiva sugli elettori del Pdl, per non parlare del fatto che quasi certamente non ne sarebbe il leader. La sensazione è che lo schema qualsiasi alleato, qualsiasi manovra, anche se solo tattica, pur di abbattere Berlusconi non incontri l'approvazione neanche degli elettori di centrodestra più stufi del premier. A Casini che importa? Fini rafforza le chance centriste ma si danneggia personalmente. Meglio di così...

I poveri seguaci di Fini, per lo più per debito personale, hanno visto in pochi mesi trasformarsi il progetto. All'inizio doveva essere una corrente - e nei gruppi autonomi l'hanno seguito in più di trenta. Poi si è andati verso un movimento e si faceva fatica a parlare esplicitamente di partito. Quindi la richiesta di un "nuovo patto di legislatura" in qualità di "terza gamba" nel centrodestra, che però sarebbe rimasta leale al governo e mai - si giurava - avrebbe negato la fiducia. Fin qui Fini non ha avuto problemi a tenere compatti i suoi. Dopo, con la richiesta di dimissioni del premier prima, la presentazione della sfiducia poi, mentre nel frattempo l'atteggiamento di Berlusconi e del Pdl si era fatto più dialogante, è apparso evidente che il progetto stava mutando: Fli avrebbe sommato i propri voti a quelli dell'Udc e della sinistra, rendendo inevitabile, dall'indomani, l'annuncio di terzo polo. E non ha torto Berlusconi nel denunciare, dal suo punto di vista, il terzo polo come spalla della sinistra, dal momento che nell'auspicio centrista di un sistema di fatto tripolare non si esclude affatto un'alleanza col Pd.

Altro che "calciomercato", Fini deve prendersela con la sua ambiguità, le sue sbandate e i suoi colpi di testa, che hanno portato le sue truppe molto lontano dal percorso cui inizialmente molti avevano dato il loro assenso. Non vi verrebbe qualche dubbio se avendo concordato una gita a Napoli, dopo due-tre giri sul Raccordo l'autista imbocca l'autostrada Roma-Firenze? Dopo la rottura di aprile ad ogni passo successivo Fini non ha fatto altro che confermare le peggiori accuse e i sospetti sul suo disegno politico sollevati dai suoi avversari e detrattori, da Berlusconi a Feltri.

E ora, anche se tardivamente rispetto a chi la denuncia da aprile, l'incompatibilità del suo ruolo politico di oppositore aggressivo con quello istituzionale e "terzo" viene riconosciuta da tutti i commentatori, anche i non e gli anti berlusconiani, persino gli "intellettuali" finiani, che chiedono le sue dimissioni da presidente della Camera. Su questo si legga l'editoriale di Giuliano Ferrara, oggi su Il Foglio, certo non pregiudizialmente ostile a Fini.

Wednesday, December 15, 2010

Sfatare il mito dei Black Bloc

L'Oscar degli articoli più vergognosi scritti in questi giorni sulla gestione dell'ordine pubblico nella giornata di ieri va a Fiorenza Sarzanini (Corriere della Sera), non nuova a imprese del genere. Così come vergognosa è la polemica sul finanziere ripreso con l'arma d'ordinanza in pugno e sui presunti "infiltrati". Ovviamente ci sono già le prime interrogazioni parlamentari, ma basterebbe guardare le immagini per capire come si sono svolti realmente i fatti. Da tutte le sequenze fotografiche, e dal video, disponibili in rete o sui giornali appare chiaramente che il finanziere protegge l'arma, uscita dalla fondina dopo essere stato scaraventato a terra e già privato di casco e altro, per impedire che gli venga sottratta anche quella.

E non manca ovviamente chi cerca di aumentare ulteriormente la tensione parlando di "infiltrati". La cosa grave è che il Pd, in uno stato confusionale e demenziale, e in piena deriva antagonista, è in prima linea con la Finocchiario (capogruppo al Senato), che si chiede chi ha pagato i presunti "infiltrati" invece di chiedersi chi pagherà i danni.

Ma torniamo alla Sarzanini, che prima di ieri si era lamentata per i Palazzi blindati e oggi, con il senno di poi, ha la faccia tosta di criticare il ministro Maroni («li avete lasciati fare»). Provate a immaginare cosa avrebbero scritto se fosse stato torto un capello a un "manifestante". Alla vigilia aveva accusato le forze dell'ordine e il ministro di contribuire ad alimentare la tensione adottando misure di sicurezza esagerate, ma nel contempo era lei stessa, che parlando di «zona rossa», richiamando quindi il G8 di Genova, le descriveva con evidente esagerazione.

Semplicemente le forze dell'ordine si sono organizzate per difendere le istituzioni democratiche da un assalto annunciato che si è puntualmente verificato. Piuttosto, bisognerebbe chiedersi perché in Italia siamo così tecnologicamente arretrati da non dotarli di pallottole di gomma e taser. La triste verità con cui dobbiamo fare i conti è che in Italia neanche di fronte ai peggiori criminali, e neanche a difesa delle più importanti istituzioni democratiche, si è disposti ad accettare l'uso legittimo della forza e quindi assistiamo impotenti a giornate come quella di ieri. Con le mani legate dietro la schiena e i pochi mezzi a disposizione, forze dell'ordine e ministro hanno fatto davvero il massimo.

Già prima dei fatti di ieri Il Foglio aveva denunciato l'atteggiamento irresponsabile del Corriere, con riferimento proprio alla Sarzanini:
«L'allarmismo sull'ordine pubblico è un genere giornalistico che un tempo era riservato ai giornali d'opposizione più politicamente scalmanati, e di cui non si sentiva particolare nostalgia. E' probabile che i settori più estremisti puntino a creare incidenti, ed è doveroso evitarlo. Ma è davvero difficile vedere nella polizia un mostruoso apparato repressivo a difesa del governo. La libertà di manifestazione non sembra davvero in pericolo, e la democrazia ancor meno. La stessa Sarzanini ammette che i divieti sono indispensabili, per poi aggiungere che "se sono indiscriminati rischiano di ottenere l'effetto opposto". Anche gli allarmismi indiscriminati, per la verità».
Oggi Giuliano Ferrara si pone le domande giuste...
«Chi ha organizzato la canaglia squadrista contro il Parlamento? Chi ha promosso i suoi slogan, oltre che i suoi pullman? Chi ha creato lo stato emotivo teppistico per un attacco a freddo alla vita democratica, mandando allo sbaraglio giovanotti attempati e carichi di libidine violenta?»
... e arriva alle conclusioni sotto gli occhi di tutti:
«Una sinistra imbevuta ormai di bolsa ma aggressiva retorica anti-istituzionale, sulla scia di un ex poliziotto dalla vita difficile che lasciò tanti anni fa per una ambigua fuga verso la politica la magistratura, dopo aver contribuito in modo ancor oggi misterioso alla destabilizzazione della Repubblica dei partiti. E una borghesia priva di senno e di potere coesivo, che ha approntato il clima attraverso i suoi giornali, con una speciale menzione per la performance allarmistica e incitatoria del Corriere della Sera, che fingeva di scongiurare un clima giottino nel momento in cui lo fomentava tra le righe. Sotto il miserabile pretesto della "compravendita" di parlamentari si è scatenata una campagna di qualunquismo becero e di odio contro le istituzioni, e l'hanno chiamata "sfiducia dal basso" o "faremo l'inferno se il governo non cade". Una performance di sordido cinismo dalla quale la sinistra e i borghesi decaduti di un establishment intollerante e ambiguo non si risolleveranno tanto presto...».
IL MITO DEI BLACK BLOC - Infine, bisognerebbe anche sfatare una volta per tutte questo mito dei Black bloc. I Black bloc non esistono, nel senso che i media li chiamano in causa come entità misteriosa per depoliticizzare gli scontri, per evitare di spiegare chiaro e tondo all'opinione pubblica la loro natura politica, per tracciare una linea di confine netta tra violenti e i manifestanti pacifici. Una linea così netta che purtroppo non esiste. Basta ipocrisie: quelli che hanno provocato gli scontri di ieri non spuntano dal nulla, sono le frange più estreme e violente di una manifestazione, ma ne fanno parte e tutti gli altri ne sono nella migliore delle ipotesi consapevoli, nella peggiore complici un po' meno coraggiosi. E' una violenza tecnicamente "fascista", ma che culturalmente e politicamente trova origine nell'estrema sinistra e occorre dirlo chiaramente, perché sono i movimenti di sinistra che devono farci i conti e isolarla.

UPDATE ORE 15:48
Il ragazzo col giaccone chiaro additato come "agente infiltrato" (perché ripreso con delle manette in mano, probabilmente sottratte agli agenti), e che evidentemente ha tratto in inganno il Riformista e la Finocchiaro, pare sia stato arrestato: «Sono minorenne, sono minorenne», si giustificava il poveretto con gli agenti (quelli veri) che l'hanno fermato.

Tuesday, December 14, 2010

O Berlusconi o il voto

Vince la linea più comprensibile, più trasparente rispetto alla volontà degli elettori: o Berlusconi o il voto. E' del tutto evidente, infatti - non ci sarebbe neanche bisogno di ricordarlo - che con questi numeri (intendo quelli della Camera) non si governa. Ma il voto di oggi non per questo era senza significato. E' stata una prova di forza tra Berlusconi e la Lega da una parte e Fini e il terzo polo dall'altra. Berlusconi è riuscito a dimostrare che non ci sono i numeri in Parlamento, in nessuna delle due Camere, per governi diversi da quello uscito legittimato dalle urne, ma questo non significa che la crisi sia conclusa. Da oggi o questo governo avrà la capacità di rafforzarsi numericamente (convincendo l'Udc e/o spaccando ulteriormente Fli), oppure si tornerà al voto (probabilmente già a metà marzo). Questi sono i due scenari più probabili dopo il voto di oggi, da cui Fini esce sconfitto (probabilmente grazie allo sciagurato intervento "dipietrista" di Bocchino).

Con tre soli voti alla Camera non si va lontano, ma adesso dovrebbe essere più chiaro a tutti che l'unica alternativa a Berlusconi sono le urne, e ciò potrebbe convincere più di qualcuno a rompere gli indugi e a (ri)entrare nella maggioranza, anche se resta un esito piuttosto improbabile. E' legittimo cambiare idea e togliere la propria fiducia al governo, ma in questo caso il comportamento più lineare è rimettersi al giudizio degli elettori, per quanto essi non abbiano alcuna voglia di essere richiamati al voto e siano esausti di fronte allo spettacolo raccapricciante della politica italiana. Per questi motivi, Berlusconi, dopo il voto di oggi, non deve commettere l'errore di trascinare troppo a lungo questa fase di incertezza e ambiguità: o riesce davvero a rafforzare l'esecutivo, a renderlo pienamente operativo (e non bastano tre voti alla Camera), o si dimette. Ma il tutto in tempi stra-brevi. Potrebbe tentare di riportare nella maggioranza altri finiani, ma imbarcare Casini (è improbabile, ma Pier potrebbe essere tentato di tirare questo brutto scherzo a Fini), nonostante il via libera della Lega, significherebbe semplicemente cambiare il nome del logorante, e trascorrere un altro anno così prima di accorgersene. Gli italiani non lo perdonerebbero.

Non passi inosservato il grave comportamento, ancora una volta del presidente della Camera, che con il voto congiunto delle due mozioni di sfiducia (Pd-Idv e Fli-Udc-Api-Mpa) evitando ai firmatari l'imbarazzo di esplicite dichiarazioni di condivisione, ha sì massimizzato i voti contro il governo ma ha violato il regolamento, rischiando l'approvazione di due mozioni dall'identico esito - la sfiducia al governo - ma dalle motivazioni molto diverse tra di loro, il che avrebbe impedito una corretta valutazione delle reali intenzioni dell'assemblea.

Assalto alle istituzioni

In una giornata come quella di oggi c'è da ringraziare le forze dell'ordine che hanno consentito a Camera e Senato di esercitare le proprie funzioni democratiche. Il centro di Roma, intorno al Senato e a Montecitorio, è stato messo letteralmente a ferro e fuoco. In fiamme auto, mezzi della polizia, cassonetti; devastate vetrine e bancomat. Non studenti, ma gruppi di estremisti esigui e ben organizzati che hanno tentato - è bene non tacerlo e non sottovalutarlo - di dare l'assalto alle Camere dove si stava votando la fiducia al governo. Mi chiedo in quale altro Paese si possa impunemente tentare di assaltare le istituzioni democratiche; in quale altro Paese neanche in circostanze simili - in cui persino la sicurezza delle sedi istituzionali, quindi la democrazia stessa, è messa a repentaglio da una violenza squadrista - si ricorre all'uso legittimo della forza.

Monday, December 13, 2010

Veltroni e il Comma 22

Veltroni intervenendo alla Camera sulla sfiducia al governo spaccia un'invenzione letteraria per il comma 22 del Codice militare degli Stati Uniti. E a riascoltarlo sembra proprio che sia convinto che quel comma esista davvero:
«Penso che lei rischi, magari consigliato dai suoi più estremi consiglieri, di cadere nel comma 22 del Codice militare degli Stati Uniti, che - come lei sa - recita "chi non è sano di mente può chiedere l'esenzione dal servizio militare, ma chi chiede l'esenzione dal servizio militare non è insano di mente"».
Ebbene, Veltroni cita in modo appropriato il paradosso, volendo indicare come Berlusconi si trovi in un vicolo cieco, di fronte a una situazione che in realtà non presenta possibilità di scelta. E' esilarante però che creda davvero che quel comma («Chiunque non è sano di mente può chiedere il congedo dal fronte; ma chiunque chieda il congedo dal fronte non è pazzo») faccia davvero parte del Codice militare degli Stati Uniti, mentre è solo un'invenzione letteraria che prende spunto da un paradosso logico (qui su Wikipedia). E questo soggetto ha governato Roma per 8 anni e ora chiede al premier di dimettersi...

Le colombe volano?

Berlusconi nel suo discorso rilancia quel «patto di legislatura» su cui ottenne la fiducia il 29 settembre scorso, accogliendo quella che era stata la richiesta originaria di Fini, a Mirabello, prima del passo ulteriore a Bastia Umbria, la richiesta di dimissioni. Fa appello ai «moderati», dicendosi disponibile a «rinnovare cosa c'è da rinnovare nel programma e nella compagine del governo», richiamando esplicitamente la possibilità di «ricomporre l'alleanza di tutte le forze moderate che oggi ritroviamo, oltre che nella Lega, nel Fli e nell'Udc», citate esplicitamente. Solo su un punto è irremovibile: dimissioni e crisi al buio. Disponibilità anche alla modifica della legge elettorale (di questa legge che proprio Fini e Casini - è bene ricordarlo - avevano imposto nel 2005 come condizione per ripresentarsi alle elezioni alleati con Berlusconi), ma con un solo e condivisibile «limite invalicabile: la difesa del bipolarismo». Perché il cittadino sappia chi è il leader, quali le alleanze di governo e i programmi prima di votare e non dopo aver votato.

Ieri, intanto, la tracotanza ha giocato un brutto scherzo a Fini, le cui uscite "bocchiniane" (e ancora una volta sprezzanti del suo ruolo istituzionale) a "In mezz'ora", la trasmissione di Lucia Annunziata, hanno indotto i moderati del suo gruppo a prendere le distanze.

Tempo fa aveva promesso che si sarebbe dimesso, se il "cognato" fosse risultato il vero proprietario della casa di Montecarlo. Pare essere rimasto solo lui a non essersene accorto, mentre è ancora in attesa che venga accolta la richiesta di archiviazione dell'inchiesta che lo vede ancora indagato per truffa (archiviazione ad orologeria?). Ora promette di dimettersi se alla Camera Berlusconi riconquisterà la fiducia con dieci voti di scarto. Annotiamo.

Ma quel che più conta è che Fini ha rotto gli indugi e annunciato chiaro e tondo che comunque vada a finire il voto del 14, Fli dal giorno dopo sarà all'opposizione (in compagnia di Casini, Bersani, Di Pietro e Vendola); si lascia andare ad un attacco al premier sulle vicende giudiziarie degno di Di Pietro e Bersani (resta a Palazzo Chigi solo per usufruire del legittimo impedimento) e si esprime in anticipo sulla volontà dell'aula che presiede (prevedendo la sfiducia al governo).

Se al Senato Berlusconi otterrà senza problemi la fiducia, alla Camera i numeri continuano ad essere incerti, seppure pare sia di poco in vantaggio. Se una fiducia risicata non basta certo a governare, il suo significato politico non è tuttavia trascurabile: non ci sono i numeri per altre maggioranze diverse da quella uscita dalle elezioni del 2008, come vorrebbero Fini e Casini. Quindi, o l'attuale governo riesce a rafforzarsi numericamente dopo il 14 (improbabile); o si torna alle urne (molto probabile). E anche secondo gli osservatori non certo berlusconiani le alternative paiono francamente «incredibili». Condivisibile quasi al 100% il solito Luca Ricolfi, che su La Stampa punta il dito laddove «l'opposizione rivela tutta la sua inconsistenza».

In queste ore sembra Fini nelle condizioni di dover recuperare qualche voto e dal suo studio di Montecitorio continua imperterrito nella campagna acquisti. Considerando l'astensione certa dei due deputati dell'Svp Brugger e Zeller, e quella dello stesso Fini (a meno che non osi l'ennesimo strappo istituzionale), nonché le assenze giustificate delle tre deputate in gravidanza Bongiorno, Cosenza (Fli) e Mogherini (Pd), i votanti dovrebbero essere 624. E quindi l'asticella minima per la fiducia a 313. Attualmente Berlusconi dovrebbe poter contare, oltre che su Pdl e Lega (294), su Noi Sud (12) e su altri 7 voti (Nucara, Pionati, Grassano, Calearo, Cesario, Scilipoti e Catone), arrivando proprio a 313. Incerti però sono Guzzanti e 2-3 di Fli, sulle posizioni di Moffa (stasera il summit decisivo dei finiani). I radicali, pur con tutti i distinguo e le manfrine pannelliane, credo che alla fine voteranno compatti la sfiducia. Così come faranno disciplinatamente i deputati Pd, seppure con la tremarella e levando sottovoce il coro "Sil-vio! Sil-vio! Sil-vio!".

Friday, December 10, 2010

E meno male che sono "nominati"...

E meno male che parlamentari di fatto "nominati" avrebbero dovuto osservare totale fedeltà e cieca obbedienza ai vertici dei loro partiti... Le scissioni, le migrazioni, i cambi di casacca, il "calciomercato", di questi primi due anni di legislatura dimostrano quanto sia secondario uno dei difetti che più scandalizza dell'attuale legge elettorale. In realtà, la principale causa di instabilità del nostro sistema politico è la non completa separazione dei poteri tra esecutivo e legislativo. Finché i parlamentari avranno il potere di mandare a casa il governo occuperanno il loro tempo e le loro energie più in trame di palazzo che a realizzare il programma o a fare opposizione sui temi concreti; e finché chi è al governo potrà brandire la minaccia del ritorno alle urne non sarà portato a rispettare il Parlamento. Ciò che ci vuole per l'Italia è una riforma presidenzialista "all'americana", o semipresidenzialista, dove i mandati dell'esecutivo e del legislativo siano fissi (quattro o cinque anni), e la cui legittimazione provenga direttamente dal corpo elettorale, così da costringere l'uno e l'altro a svolgere il proprio lavoro, a cooperare, anche dialetticamente, ma togliendo di mezzo il retropensiero reciproco di poter risolvere i problemi politici mandandosi a casa.

Pannella ha perso il suo partito?

Con la loro gloriosa - sì, gloriosa - storia è normale che si interpreti il «dialogo» intrapreso in questi giorni da Pannella con i più alti e nobili obiettivi politici, come hanno fatto stamattina Biagio Marzo, su L'Opinione, e lo storico Ciuffoletti, sul Quotidiano nazionale. Certo, i radicali sono contro le ammucchiate e per il bipartitismo, ma in questa fase il «dialogo» bifronte pannelliano ha raggiunto innanzitutto lo scopo di recuperare un minimo di ascolto dalle parti del Pd, dopo mesi di indifferenza e angherie. Manfrina, insomma. Ma il quesito inedito che ancora nessuno si è posto (forse per una malintesa idea di rispetto nei confronti del leader radicale), e che invece sarebbe ora di porsi è il seguente: volendo giocare una partita diversa, più ambiziosa, rispetto a quella per la mera visibilità, Pannella, ad oggi, avrebbe davvero la forza politica di imporre ai suoi deputati e senatori, e al suo movimento, scelte non scontate?

Temo di no. Conserva il suo straordinario fiuto, quindi si è reso conto che in questa crisi i radicali non potevano restare immobili e silenti. Ma da mesi si sono aperte, tra maggioranza e opposizioni, vaste praterie politiche (sulla giustizia, sulla scuola e l'università, sulla politica di stabilità dei conti pubblici, e persino sulla politica estera) che i radicali - e solo loro - avrebbero potuto cavalcare e da cui invece si sono mantenuti a debita distanza. Ormai il 14 dicembre è alle porte. Non sarà il "giorno del giudizio" che molti si aspettano, nemmeno per il bipolarismo. Se anche il governo dovesse cadere, non è detto che si apra la fase auspicata dai terzopolisti, ma certo martedì prossimo il voto per il bipolarismo coincide con la fiducia o con l'astensione, mentre i radicali voteranno scontatamente la sfiducia, rimandando al dopo ulteriori valutazioni. Ma sinceramente ogni seria interlocuzione con Berlusconi, o con il blocco Pdl-Lega, è quasi del tutto da escludere (probabilmente da ambo le parti). E' venuto progressivamente a mancare in questi anni nel «mondo radicale» un contrappeso alle posizioni culturalmente di vecchia sinistra, e persino antagoniste e antiberlusconiane, che si sono invece sempre più radicate e rafforzate. Pannella ha tentato di tenere la barra dritta sulla sostanziale equivalenza tra il «capace di tutto» e i «buoni a nulla», sull'analisi del «monopartitismo imperfetto», dell'alternativa radicale a tutto, ma sono ormai degli orpelli rispetto a un posizionamento politico avvertito sempre più dai radicali - dirigenti e militanti - come appropriato. Hanno scelto il loro "meno peggio".

Il «dialogo» di questi giorni è quindi figlio della tattica, è fine a se stesso. Ma seppure volesse verificare se esistano le condizioni per aggiustare o cambiare rotta - e non ci giurerei - non credo che oggi Pannella avrebbe la forza di imprimere una svolta non scontata ai radicali, per la quale si troverebbe a scontrare con una irriducibile opposizione da parte di Emma Bonino innanzitutto, di quasi tutti i suoi parlamentari (forse solo Rita Bernardini lo seguirebbe) e di quel «mondo radicale» com'è diventato oggi, di cui lo stesso Pannella registra già in queste ore, con «dolore», la «rivolta rabbiosa» al suo «dialogo» con Berlusconi. E' triste, lo so. Ma Pannella ha perso il pieno controllo strategico del suo partito e gli incontri, l'iniziativa di questi giorni ha anche, come corollario, l'effetto (forse deliberato forse no) di perpetuare l'illusione che sia lui a condurre i giochi e a poter ancora disporre dei "suoi" parlamentari.

Thursday, December 09, 2010

La paura fa 14

A dimostrazione che più passano le ore più cresce tra i finiani l'incertezza sui propri numeri per sfiduciare il governo alla Camera, ecco il loro ultimo tentativo di evitare il voto del 14: chiedono a Berlusconi di dimettersi prima, assicurandogli un reincarico «entro 72 ore», ma allo stesso tempo - dandogli un motivo per non fidarsi - intimano dimissioni "al buio" (si discute solo dopo) o sfiducia. Ora: ciò che la gente proprio non capisce, è perché sia così indispensabile che Berlusconi si dimetta per dar vita a quel nuovo patto di legislatura che il premier, accogliendo la richiesta di Fini a Mirabello, aveva avanzato, ottenendo la fiducia (dei finiani compresi) a settembre, cioè neanche tre mesi fa. A rigor di logica si chiedono le dimissioni di qualcuno se questo qualcuno non lo si vuole più, mentre se si cerca davvero un accordo politico - sull'agenda economica dell'esecutivo, o sulla legge elettorale - lo si può ottenere (dal momento che l'interlocutore su questo piano sembra ben disposto) senza esporre il Paese ad una pericolosa fase di instabilità.

E' per questo che l'insistenza nel chiedere le dimissioni fa pensare alla trappola. Di certo per i finiani sono indispensabili per potersi giocare la partita per un nuovo governo - con o senza Berlusconi - da una posizione di forza. Posizione di forza che però non possono pretendere di ottenere per gentile concessione altrui, ma solo attraverso un voto parlamentare. Voto da cui Berlusconi, dal canto suo, cerca anch'egli una posizione di forza da cui ripartire all'indomani del 14, ragion per cui non li salverà mai dal vicolo cieco in cui si sono messi.

A questo punto, comunque vada il tanto atteso voto del 14, per Fli rischia di rivelarsi una Caporetto. Se il Cav. ottiene la fiducia, sia pure striminzita, anche alla Camera, potrà negoziare il rafforzamento dell'esecutivo da una posizione di forza, e sarebbe a rischio la tenuta stessa del nuovo partito di Fini; non dovesse riuscirvi, la doppia fiducia (alla Camera oltre che al Senato) avrebbe comunque spazzato via ogni ipotesi di governi "tecnici", aprendo la strada alle elezioni anticipate, ipotesi ugualmente drammatica per Fli. Ma anche se la mozione di sfiducia dovesse passare, nel giorno della "vittoria" i finiani si troverebbero insieme a Bersani e a Di Pietro, oltre che con Casini e Rutelli, in una inedita foto di famiglia che temono - giustamente - come la prova dinanzi agli elettori non solo del "tradimento" ai danni del Cav. (e passi), ma soprattutto dell'allontanamento dal centrodestra. Senza neanche avere grandi possibilità di evitare il ritorno alle urne, dal momento che al Senato Berlusconi avrà quasi sicuramente ottenuto la fiducia. In ogni caso, dunque, non ci fanno una bella figura: o un rimpastone (tutto questo casino per qualche poltrona in più?), o il ribaltone (alleati con Casini e la sinistra per sostenere un governo senza Pdl e Lega); o elezioni anticipate.

Ecco, quindi, che le crepe sono sempre più visibili tra i finiani, se il moderato Moffa considera «non indispensabile che Berlusconi si dimetta» per dar vita a «un patto che porti l'Italia fuori dalla crisi»; se spiega di aver firmato la mozione di sfiducia solo come «strumento di pressione negoziale per arrivare a un accordo prima del voto»; e se dice apertamente di interpretare «il sentimento di molti» nel gruppo.

Friday, December 03, 2010

Rissa al buio

Altro che «responsabilità», «piena operatività», governo «solido e sicuro», «evitare il declino», è la più classica delle crisi al buio quella cui ci precipita Fini. Ed è una rissa al buio quella cui stiamo assistendo, nel senso che tutti tirano fendenti per colpire Berlusconi ma molti in realtà non sanno cosa riescono a colpire. Ed è comprensibile che, in questa situazione di estrema incertezza, ci sia spazio per il grottesco e il ridicolo.

Nessuno sa cosa accadrà dopo il 14. Al contrario di quanto affermano, neanche Fini e Casini sono del tutto certi dei propri numeri, né hanno bell'e pronte le chiavi per un nuovo governo come dicono di volerlo. Con le 85 firme mostrano i muscoli, certo, sperando ancora di convincere Berlusconi a farsi da parte, così da non essere costretti a votare la sfiducia insieme alla sinistra. Ma poiché quella che presentano sembra quasi una mozione di sfiducia "costruttiva", in cui cioè si fa riferimento ad un governo di «responsabilità nazionale», il 14 non basterà avere i numeri per sfiduciare il premier, sarà bene che già da quel voto emergano i numeri di una maggioranza alternativa, e ciò resta improbabile. Rimango convinto che il governo cadrà - di poco - alla Camera, ma otterrà la fiducia al Senato. Quindi Berlusconi si recherà al Quirinale per rassegnare le sue dimissioni. Napolitano vorrebbe evitare lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate, ma non è neanche disposto a legittimare ribaltoni. Cercherà quindi una soluzione in grado per lo meno di salvare le apparenze.

Le uniche possibilità per evitare le urne sono le seguenti: Berlusconi si rassegna e indica, come nel '95 con Dini, qualcuno a lui vicino per sostituirlo, acconsentendo a che Pdl e Lega sostengano un nuovo governo di centrodestra allargato a Fli, Udc, Mpa e Api (o accetti di guidare un Berlusconi-bis "commissariato" da Fini e Casini); la Lega, o un pezzo importante del Pdl, o entrambi, all'ultimo momento si smarcano da Berlusconi e danno vita a un governo con Fli, Udc, Mpa e Api, operazione condotta in porto da qualche personalità vicina al premier, oppure come estrema ratio guidato da una figura esterna ma eminente e "tecnica". Ovvio che più si riducono i pezzi dell'attuale maggioranza disponibili, più si renderebbe necessaria numericamente la partecipazione del Pd e dell'Idv, più precario sarebbe l'equilibrio politico del nuovo governo.

Capite bene che tutto ciò è improbabile, seppure rimane vero che nella politica italiana la caduta di un governo rappresenta un "tana libera tutti" e chi fino ad un minuto prima si era mostrato leale e compatto, un minuto dopo può essere pronto a giocare nella nuova partita con totale spregiudicatezza. A ciò si aggrappano Fini e Casini, ma la dice lunga su quanto responsabile sia questa operazione: letteralmente un salto nel buio. In generale, i due sono convinti che prima o poi - prima o dopo il 14, o eventualmente dopo il voto (non ottenendo la maggioranza al Senato per via delle legge elettorale) - Berlusconi o il suo partito saranno costretti a prendere atto che senza di loro non può esserci un governo di centrodestra. Il vero collante di questa «nuova fase» sarebbe una legge elettorale senza premio di maggioranza (con l'ironia della sorte che l'attuale legge fu praticamente imposta a Berlusconi da Casini e Fini nel 2005), mentre è letteralmente una presa per il culo far credere che l'eventuale nuova maggioranza, così eterogenea, in una situazione così avvelenata, riesca a reggere il tempo necessario, e a trovare al suo interno la coesione, per avviare un «risanamento strutturale della finanza pubblica».

Nel frattempo, lo stillicidio di rivelazioni da Wikileaks sull'Italia, sulla politica energetica dell'Eni e su Berlusconi conferma una straordinaria capacità selettiva, se pensiamo che da oltre 2 milioni di file si sia passati a oltre 250 mila, poi a qualche centinaio, da cui emergono dispacci risalenti a un periodo molto ristretto e riguardanti sempre gli stessi personaggi, mentre, per esempio, mancano tutti i pareri e le analisi dell'ambasciata Usa a Roma risalenti agli anni 2006-2008. Altro che libertà d'informazione e trasparenza totale, è lecito supporre che sui file di cui è entrato in possesso Assange si sia aperto un vero e proprio mercato, in cui si sono buttati a capofitto gruppi editoriali ed economici per far propri pacchetti di documenti molto ben selezionati utili ai loro scopi.

Sorprende che anche il Corriere della Sera abbia deciso di giocare con il fuoco. Non è credibile, infatti, anzi è ridicolo, che il quotidiano di Via Solferino, e Massimo Mucchetti, con tutte le loro fonti e i loro preziosi agganci, abbiano avuto bisogno di Wikileaks per porsi certe domande sugli affari dell'Eni in Russia, a dimostrazione della strumentalità dello stupore con cui viene accolto quanto di già arcinoto esce ogni giorno dai cables. Così come è grottesco che circolino sempre di più nel Pdl, e nel giornalismo vicino al centrodestra, teorie del complotto amerikano. Mentre guardiamo attoniti una classe dirigente - in tutte le sue componenti: politica, economica, giornalistica - che sembra impazzita, e mentre di lui dicono peste e corna, lo accusano di governare calpestando le opposizioni, gli rinfacciano persino le battute, può anche capitare che Berlusconi in privato con l'ambasciatore Usa vada a parlar bene di Bersani e D'Alema e gli confidi di voler riformare insieme a loro la giustizia. L'unica certezza al momento sembra essere solo che il Cav. c'è, non ci fa.

Tony, ci manchi/10 - Come si fanno le vere riforme

Una delle lezioni più limpide che si ricava dalla lettura delle memorie di Tony Blair ("A Journey") risulta particolarmente preziosa per i governi che vogliano introdurre delle profonde riforme. Un aiuto molto concreto dall'esperienza maturata da chi delle riforme ha saputo fare il suo tratto politico distintivo. Innanzitutto, il metodo: bisogna essere consapevoli del fatto che senza toccare le strutture non si riusciranno mai ad elevare gli standard qualitativi di un servizio pubblico, quale che sia il settore:
«All'inizio abbiamo governato con un chiaro istinto radicale ma, essendo inesperti, non sapevamo bene dove avrebbe dovuto portarci quell'istinto in termini di specifiche decisioni politiche. In particolare, ritenevamo possibile separare le strutture dagli standard, ovvero, di poter mantenere i parametri del servizio pubblico e al contempo poter trasformare profondamente gli esiti generati da quel sistema. Col tempo, ci siamo resi conto di esserci sbagliati: senza cambiare le strutture, non si possono elevare gli standard, se non di pochissimo. All'inizio del secondo mandato, abbiamo ideato un nuovo modello per le riforme: volevamo trasformare la natura monolitica del servizio pubblico; introdurre la competizione; sfumare le distinzioni tra il settore pubblico e quello privato; contrastare le tradizionali demarcazioni professionali e sindacali riguardo al lavoro e agli interessi acquisiti; e, in generale, cercare di liberare il sistema, di lasciare che si rinnovasse, si differenziasse al suo interno, respirasse e divenisse più elastico... Ecco una lezione pratica sull'incedere delle riforme: la proposta è giudicata disastrosa; avanza fra tagli radicali e forti opposizioni; è impopolare; entra in vigore; e di lì a poco è come se fosse sempre esistita...»
Ecco, il guaio è che in Italia di solito non riusciamo ad arrivare alla quarta fase.
«Dunque, se pensi che una riforma sia giusta, non arrenderti. L'opposizione è inevitabile, ma raramente è imbattibile. A fronte di molti detrattori vociferanti vi saranno parecchi sostenitori silenziosi. La leadership s'impernia sulle decisioni che portano a un cambiamento: se non sai gestirle, è meglio che non diventi un leader. Ma questa lezione ha una portata ancora più ampia: insegna a emergere dalla mischia, a parlare soverchiando il brusio e il chiasso, e a restare sempre, sempre concentrati sul disegno generale».
E una lezione particolarmente importante riguarda il sistema universitario, considerando che proprio in questi giorni in Italia ci accapigliamo sulla riforma Gelmini. Ecco l'esperienza di Blair in proposito:
«Giunsi alla conclusione che il futuro delle nazioni sviluppate come la nostra, che fanno molto affidamento sul capitale umano, dipendeva da un sistema di istruzione superiore palpitante, dinamico e di livello mondiale... Diedi un'occhiata alle prime cinquanta università del mondo e vidi che solo alcune erano nel Regno Unito e che quasi nessuna si trovava nell'Europa continentale. L'America stava vincendo la gara, seguita a breve distanza dalla Cina e dall'India. La situazione degli Stati Uniti era particolarmente significativa. Il loro predominio nei primi cinquanta posti - e anche nei primi cento - non era frutto del caso o delle dimensioni geografiche; era evidentemente e innegabilmente dovuto alle tasse. Le università avevano uno spirito più imprenditoriale; corteggiavano gli ex studenti e ricevevano enormi lasciti; il sistema delle borse di studio permetteva di aiutare gli studenti più poveri; la flessibilità finanziaria consentiva di attrarre i docenti migliori. Gli istituti disposti a pagare di più avevano lo staff più prestigioso. Punto e basta. Il nostro insaziabile desiderio di egualitarismo aveva penalizzato anche gli atenei nelle posizioni inferiori...».
Cosa ha fatto, in concreto, Tony Blair? Importanti per l'istruzione in generale sono anche le specialist school, le academy e le trust schoool, oltre al sistema di valutazione degli insegnanti, ma uno degli interventi più controversi è quello sulle rette universitarie, un modo intelligente per aumentare i fondi a disposizione delle università legandoli però alle prospettive concrete di lavoro che sono capaci di offrire ai loro studenti:
«In sintesi, noi volevamo che invece di pagare anticipatamente 1.150 sterline l'anno durante la frequenza dei corsi, gli studenti versassero una tassa variabile fino a 3.000 sterline l'anno, da stabilirsi a discrezione dell'istituto e da rimborsare dopo la laurea in base alle condizioni economiche».
«Le riforme attuate avevano dimostrato inequivocabilmente che maggiore era l'autonomia di scuole e ospedali, maggiore era anche l'innovazione; e che più crescevano la concorrenza e la facoltà di scelta, più alta era la qualità dei risultati. Soprattutto nel caso del sistema sanitario nazionale, l'apertura agli investimenti del settore privato aveva ridotto i tempi di attesa e il denaro era usato sempre più spesso a favore del paziente».
Tony Blair ("A Journey")

Thursday, December 02, 2010

Dalla presidenza della Camera attacco al Governo e al Senato

Uno scontro istituzionale senza precedenti, con il presidente della Camera che convoca nel suo ufficio a Montecitorio, che ha a disposizione in ragione della sua carica, i leader di altri tre partiti (Udc, Api e Mpa) per concordare una mozione di sfiducia contro il governo, spiegando che «l'assetto governativo che c'è adesso è un lusso che l'Italia non può permettersi». Una mozione di sfiducia che letteralmente parte dall'ufficio del presidente della Camera. Con lo stesso presidente della Camera che riceve, sempre nel suo ufficio istituzionale, membri del Senato (il 17 novembre il senatore Massidda, oggi persino il presidente della Commissione Antimafia Pisanu) per spingerli, pur non riuscendovi (per ora), a cambiare casacca per ribaltare la maggioranza nell'altro ramo del Parlamento così da condizionarne le votazioni ed avere i numeri per un altro governo.

Non più solo l'ingerenza di una carica istituzionale, che dovrebbe mostrarsi, oltre che essere, neutrale e imparziale nel gioco dei partiti, ma persino un'ingerenza del presidente di una Camera nei confronti dell'altra. Senza nemmeno preoccuparsi di salvare le apparenze, manovrando direttamente dal suo ufficio a Montecitorio. Siamo allo sconfinamento totale, al vero e proprio turbamento della vita di organi costituzionali. E' ora che Napolitano batta un colpo o sarà complice di uno strappo, di uno scempio costituzionale che costituirà un precedente pericolosissimo, se si accetta che dall'ufficio della presidenza di una Camera si possa tramare per destabilizzare il governo e l'altra Camera.

Tony, ci manchi/9 - Elogio della riservatezza governativa

Nell'epoca di Wikileaks, ecco perché è ancora importante che i governi operino in un contesto di ragionevole riservatezza, dove gli scambi di vedute siano il più possibile schietti e i processi decisionali non condizionati da logiche esterne, tatticismi e inibizioni:
«Freedom of Information, libertà d'informazione. Tre parole innocue. Le guardo mentre le scrivo, e mi viene voglia di scrollare la testa finché mi si stacca dal collo. Idiota. Ingenuo, sciocco e irresponsabile. Non esiste una definizione di stupidità che, per quanto vivida, sia adeguata. Il solo pensiero mi fa fremere di rabbia... Avevamo approvato quella legge subito dopo aver preso il potere. Una volta compresa l'enormità dell'errore, cominciai a dire a ogni funzionario pubblico: come avete potuto, sapendo quel che sapevate, permetterci di fare una cosa così dannosa per un governo assennato? Forse alcuni lo troveranno scioccante. Penserete che io sia un altro dei "soliti" politici che vuole un governo segreto, vuole nascondere i riprovevoli misfatti dei politici e privare il "popolo" del diritto di sapere cosa viene fatto in suo nome. La verità è che il Freedom of Information Act non viene invocato quasi mai dal "popolo", bensì dai giornalisti. Per i leader politici è come dire a un tizio che ti prende a bastonate in testa: "Ehi, prova con questa", e porgergli una mazza. Le informazioni vengono cercate non perché il giornalista sia curioso di appurare i fatti e divulgarli per mettere al corrente il "popolo". Vengono usate come armi. Un'altra ragione, assai più importante, per cui si tratta di una legge pericolosa è il fatto che i governi, come qualsiasi altra organizzazione, devono essere in grado di ponderare, discutere e decidere con un livello ragionevole di riservatezza. Non è un aspetto secondario. E' fondamentale. Senza riservatezza, le persone si sentono inibite e l'esame delle opzioni è così limitato da impedire un efficace processo decisionale. In ogni sistema che ha imboccato questa strada, accade che le persone diventino molto caute quando scrivono e che parlino senza mettere nulla nero su bianco. E' un modo pessimo di analizzare le questioni complesse».
Tony Blair ("A Journey")

Berlusconi il "migliore amico"

Suonano un po' obbligate le parole del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, su Berlusconi («non abbiamo amico migliore»), giunte tempestivamente a tamponare le polemiche seguite ai leaks di Assange, ma corrispondono essenzialmente al vero. E appare un rafforzativo nient'affatto scontato o retorico, invece, l'enfasi sull'appoggio «sempre coerentemente» offerto da Berlusconi alle tre amministrazioni americane - Clinton, Bush, Obama - che si sono succedute da quando è in politica. D'altra parte, meriterebbero tutt'altra attenzione i lati oscuri che anche un'operazione come Wikileaks sta mostrando. Innanzitutto, la scelta piuttosto arbitraria (per usare un eufemismo) dei quotidiani cui passare i file in anteprima. Non si può poi ignorare che siamo di fronte nella migliore delle ipotesi a frammenti privi della minima contestualizzazione, nella peggiore di una deliberata selezione di una selezione, e quindi di un'opera in qualche modo manipolativa.

Detto questo, al di là degli elogi in qualche modo dovuti, nell'ufficialità, della Clinton e dell'ambasciatore Thorne, considerazioni come quelle di Edward Luttvak, lunedì scorso, e di un ex ambasciatore Usa a Roma (nominato da Clinton), Reginald Bartholomew, aiutano a ridimensionare il peso degli affari Eni-Gazprom e dell'"amicizia" Berlusconi-Putin sui rapporti tra Italia e Stati Uniti. Innanzitutto, Bartholomew conferma in che modo si formano certi giudizi dei funzionari d'ambasciata su Berlusconi: «Deve essere chiaro che i rapporti preparati dai funzionari dell'ambasciata vengono redatti raccogliendo quella che è l'opinione nei vari ambienti e milieu del Paese ospitante, in questo caso l'Italia. È il risultato di analisi che riflettono l'immagine del premier nel suo Paese».

Rispetto alle preoccupazioni Usa per i legami con la Russia, Bartholomew è restìo persino ad usare il termine «problema»: «Problema è una parola troppo forte, ma ripeto il rapporto rimane solido. Quello che conta è la politica essenziale». E l'ex ambasciatore sottoscrive un eloquente giudizio apparso lunedì su un editoriale del Corriere stesso: «Seppur sgradite in alcuni casi, le dichiarazioni di Berlusconi sono parse ai responsabili statunitensi pragmaticamente secondarie». La mia tesi è che le politiche e le prese di posizione filorusse (anche clamorose) di Berlusconi non compromettano l'essenza dei rapporti con gli Usa; che a Washington venga attribuito loro il giusto peso; e che anzi occorre ammettere - a malincuore dal mio punto di vista - che sono state anticipatrici del nuovo approccio inaugurato dall'amministrazione Obama con la Russia.

La politica estera «essenziale» dell'Italia, comunque la si voglia girare, non è mai stata così atlantica come con Berlusconi. Mai con Andreotti e Craxi, che flirtavano di nascosto con i terroristi arabi. Dopo il '94 persino un governo di centrosinistra come quello presieduto da D'Alema è stato più atlantico dei governi della Prima Repubblica, mentre altrettanto non si può dire dei governi Prodi. Berlusconi ha schierato saldamente l'Italia al fianco dell'America dopo l'11 settembre, nella guerra in Afghanistan, dove continuiamo ad essere tra gli alleati più disponibili ad accrescere il nostro sforzo; anche nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, che ha diviso il fronte occidentale e l'Europa, Berlusconi è rimasto al fianco dell'America di Bush, quando sarebbe stato senz'altro più comodo e politicamente corretto fare un piacere all'"amico" Putin e accodarsi al fronte anti-guerra che Mosca ha costituito con Francia e Germania, come chiedeva per altro la sinistra. Nessuno sembra ricordare come fu accolto Berlusconi al Congresso Usa nel marzo 2006, ma la sinistra sembra preoccuparsi delle buone relazioni con gli Usa solo ora che alla Casa Bianca c'è Obama, mentre quando c'era Bush erano motivo di biasimo.

Su questo blog ho sempre contrastato sia le ridicole dietrologie che a volte sembrano prendere piede nel Pdl, e che a volte capita di leggere sui giornali vicini al centrodestra, su un ipotetico complotto americano contro Berlusconi (in molti si sono convinti persino che Fini sia l'uomo nuovo di Washington, mentre al massimo ha alcuni estimatori, per altro di recente caduti in disgrazia), sia le strumentalizzazioni della sinistra, che tra il 2006 e il 2008 non sembrava così preoccupata dei rapporti con Washington mentre gli affari Eni-Gazprom procedevano con il vento in poppa e con la benedizione del governo dell'Ulivo.

Il GAS - La verità è che la politica "filorussa" dell'Italia è motivata dal fabbisogno energetico, in particolare di gas, e in misura minore ma rilevante, dall'importanza dell'export. E' quindi una politica trasversale e trasparente, che con Berlusconi è più appariscente e a volte sgradevole per la sua capacità di stringere rapporti personali forti. Ma gli Usa non renderebbero l'Italia meno legata a Mosca facendo fuori Berlusconi. E' ovvio che a Washington vogliano tenersi aggiornati sugli sviluppi di questo rapporto, e che siano preoccupati per la dipendenza non solo dell'Italia, ma dell'Europa intera, dal gas russo. Lo siamo anche noi, ma il guaio è che ad oggi non sembrano esserci alternative: in South Stream entreranno anche i francesi; in Nord Stream ci sono già tedeschi e francesi e olandesi, mentre il progetto concorrente (ma non proprio alternativo, piuttosto complementare), il Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue, è di più complessa realizzazione per ostacoli di natura geopolitica. Nel frattempo, però, è ragionevole supporre che gli italiani d'inverno vogliano continuare a scaldarsi.

LA CRISI RUSSO-GEORGIANA - Una crisi in cui la dipendenza dal gas russo ha certamente condizionato negativamente l'atteggiamento dell'Europa è quella russo-georgiana dell'agosto 2008. Una sconfitta - di più, un'umiliazione per l'Europa e per gli Stati Uniti - dovuta a una convergenza di fattori che Mosca ha saputo sfruttare al meglio. A quella crisi si riferiscono i tre cabli, pubblicati dal Corriere della Sera, nei quali l'ambasciatore a Roma Spogli invia a Washington delle indicazioni sulla posizione del governo italiano sostanzialmente corrette: gli italiani «non ci aiuteranno» a ottenere dalla Nato una dichiarazione di condanna delle azioni di Mosca; insistono che bisogna affrontare la crisi tra Georgia e Russia con «senso di equilibrio» e «nella migliore delle ipotesi, l'Italia eviterà di pronunciare dichiarazioni forti o di fare pressioni sulla Russia. Nella peggiore, potrebbe lavorare per distruggere la determinazione degli altri alleati nelle sedi internazionali, incluse la Nato e l'Unione europea»; particolare perplessità viene espressa sulle dichiarazioni del ministro degli Esteri Frattini. Tutte valutazioni molto puntuali quelle di Spogli, ma di simili ne saranno giunte a Washington anche da Parigi e da Berlino e il problema fu che non c'era alcuna «determinazione» da distruggere negli altri alleati.

Purtroppo, come già scrissi allora, la posizione italiana rimase prigioniera dell'amicizia personale tra Berlusconi e Putin. Nel senso che invece di un'immediata condanna della premeditata aggressione russa, il premier ritenne di sfruttare i suoi rapporti personali con Putin per valorizzare il ruolo dell'Italia in chiave di mediazione (il che, "tecnicamente", non fu privo di senso). All'inizio provocò non poca irritazione a Washington, ma quando fu chiaro che quello era anche il ruolo che intendeva giocare l'Ue (era il semestre a guida francese), anche l'amministrazione Usa fu costretta a fare buon viso a cattivo gioco. Meno coinvolti personalmente, o per il loro ruolo istituzionale (Sarkozy era presidente pro tempore dell'Ue), gli altri leader europei usarono toni più duri nei confronti di Mosca, ma nella sostanza la linea era condivisa: cessazione immediata delle ostilità; pieno rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale della Georgia; ma mai, in nessun caso, alzate di testa nei confronti di Mosca. Anzi, tutti apparivano sollevati perché l'imprudenza e i calcoli sbagliati di Saakashvili (che probabilmente cadde nella trappola di Mosca credendo di costringere la Nato ad accelerare l'ingresso di Tbilisi nell'Alleanza) avrebbero escluso l'ingresso in breve tempo, come chiedevano gli Usa, di Georgia e Ucraina nella Nato, che avrebbe provocato non pochi problemi con la Russia.

Mettiamoci che l'imprudenza di Saakashvili non aiutò certo a prendere le difese della Georgia; mettiamoci che gli occhi del mondo erano puntati sul "nido" di Pechino per la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi; mettiamoci, soprattutto, che Bush era obiettivamente indebolito agli occhi dei suoi alleati europei perché a fine mandato e inoltre, rispetto all'Iraq, non poteva neanche più contare sull'appoggio di Blair in Gran Bretagna, né di Aznar in Spagna. Perché - fu senz'altro il ragionamento - inimicarsi il duo Medvedev-Putin quando Bush stava per lasciare e probabilmente il suo successore avrebbe tenuto un atteggiamento più morbido con Mosca? E infatti fu proprio così che andarono le cose. Obama avrebbe premuto il bottone del reset con la Russia: avrebbe di lì a poco rimesso in marcia l'accordo Start, ritirato lo scudo antimissile, fino al Consiglio Nato-Russia di Lisbona, dove la crisi georgiana dev'essere apparsa lontana anni luce. Cinicamente parlando, Berlusconi intuì che nonostante la crisi contingente, la corrente del fiume spingeva nel senso dell'avvicinamento tra Washington e Mosca.

E infatti, resosi conto del contesto sfavorevole, anche la reazione di Bush all'atto di forza russo fu timida, rimase nell'ambito di una condanna a parole (e un'insignificante esercitazione militare). Non solo Ue e Usa non riuscirono a ottenere dai russi il pieno rispetto del piano Sarkozy, ma addirittura Mosca poté riconoscere impunemente l'indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia, senza alcun congelamento - nemmeno temporaneo - dei rapporti con la Nato e con l'Ue, e il congelamento, invece, dell'ingresso di Ucraina e Georgia nell'Alleanza. In generale, la Russia approfittò della debolezza americana dovuta alla scadenza del secondo mandato di Bush, che rese l'Europa più incline a non scontentare la Russia che a seguire gli Usa sulla strada di una reazione più dura. A prescindere dal giudizio di merito sulla posizione del governo italiano, dell'Europa, e persino degli Usa nella crisi (per quanto mi riguarda fortemente negativo), è anche vero che, per tutti questi motivi e per il contesto, l'operato di Berlusconi di allora non può certo rappresentare un motivo di crisi o di sfiducia nei rapporti con Washington.

Wednesday, December 01, 2010

A chi giovano i Wikileaks

Elliott Abrams spiega sul Wall Street Journal perché i cables pubblicati da Wikileaks rischiano di causare molti danni soprattutto «agli alleati più deboli e non-democratici degli Usa», quindi alle politiche mediorientali dell'amministrazione americana. I governi autoritari della regione - per esempio del Bahrain, dello Yemen, dell'Arabia saudita o dell'Egitto - parlano liberamente e collaborano con gli Usa sui nemici comuni (l'Iran e i gruppi terroristici islamici), ma hanno bisogno di mantenere segreto questo dialogo e questa collaborazione, sia per non esporsi alle loro ritorsioni, sia per mantenere il controllo di popolazioni in gran parte indottrinate all'islamismo e all'antiamericanismo.
Dictators and authoritarians don't tell their people the truths they tell us; their public speeches are meant to manipulate, not to inform. Instead of educating their citizens, as one might have to do in a democracy, they posture and preen on state-owned television stations and in state-controlled newspapers. Their approach is striking: Tell the truth to foreigners but not to your own population.
Ed ecco perché l'operazione Wikileaks è un regalo enorme e inaspettato ai peggiori e ai più pericolosi nemici non solo dell'Occidente, ma dell'intero genere umano. Possiamo anche deplorare la mancanza di democrazia e dibattito pubblico in quei Paesi, ma se consideriamo chi sono i nemici comuni...
We can easily denounce the gap between private and public discourse in such countries, and the lack of real public debate on key security issues. But when we consider the identities of some of the people they fear - the ayatollahs in Tehran, terrorists in Hamas and Hezbollah, al Qaeda itself - we see that the WikiLeaks disclosures are less likely to promote more open government than to give aid and comfort to the enemy.

La campagna per Aziz non aiuta i cristiani in Iraq

L'ambasciatore iracheno a Roma è contrario alla pena di morte e ha preso in consegna la richiesta di grazia dei legali del figlio di Tarek Aziz, che trasmetterà, assicura, alle «più alte cariche». Ai microfoni di Radio radicale, però, aggiunge anche che «gli iracheni si chiedono spesso perché tutta questa attenzione per Aziz. Il sistema giudiziario iracheno, ricostruito anche con l'aiuto degli italiani nel 2003, ha sentenziato che questa persona è un criminale. Se si intende non riconoscere l'autorità irachena è un conto; se questa mobilitazione è legata al fatto che Aziz è cristiano, si tratta di una questione personale che non sappiamo neppure se sia vera». Un'affermazione che desta stupore. L'ambasciatore ipotizza che Aziz possa non essere cristiano e comunque, ricordando le vittime cristiane del regime di Saddam (270 chiese distrutte, gente uccisa perché andava in chiesa), dice di non aver «mai sentito Aziz difendere le persone che hanno perduto la loro chiesa, né pentirsi ora di ciò che ha fatto».

Ma si sa, l'ambasciatore deve difendere d'ufficio le scelte del suo Paese. Piuttosto, degno di nota è l'allarme di un deputato iracheno cristiano, Yonadam Kanna, intervistato dall'AdnKronos: la campagna internazionale per salvare Tareq Aziz rischia di danneggiare proprio i cristiani che vivono in Iraq. Definisce le «pressioni» per sospendere la condanna una «intromissione negli affari iracheni» e avverte che «l'insistenza» nel voler salvare Aziz «in quanto cristiano rischia di alimentare ancora di più l'ostilità per la nostra comunità». E ciò è comprensibile, dal momento che l'appartenenza religiosa dell'ex numero due di Saddam ha alimentato la convinzione - vera o falsa che sia a questo punto è secondario - che i cristiani fossero una componente privilegiata dell'ex regime. Ecco perché oggi sono così malvisti e perché graziare Aziz potrebbe acuire anziché allentare le tensioni religiose.

Qualcuno sembra voler «seminare il panico tra i cristiani e spingerli a lasciare il Paese», mentre per evitare questo scenario, riferisce Kanna, vari gruppi parlamentari iracheni «hanno formulato una serie di raccomandazioni a garanzia della sicurezza dei cristiani e della loro permanenza nel Paese».

L'importanza di sanzioni implacabili

Dopo Giavazzi ieri, anche l'articolo di Roberto Perotti, oggi sul Sole 24 Ore, individua con precisione pregi e possibili falle della riforma Gelmini. Da un lato attribuisce più poteri ai consigli di amministrazione e li apre agli esterni, con lo scopo «ovvio, e condivisibile», di «rompere le cricche accademiche, e sottoporle al vaglio di esterni», e introduce il «principio sacrosanto» per cui un docente deve passare per un periodo di prova prima di venire assunto a tempo indeterminato.

Tuttavia, da un altro punto di vista la falla sta nel meccanismo sanzionatorio delle scelte sbagliate, che come spesso accade o è inefficace o per motivi politici non viene fatto scattare. Piuttosto che nell'iper-regolamentazione centralizzata, bisognerebbe affidarsi ad un efficace e implacabile meccanismo sanzionatorio, come scrive Perotti:
«Invece di regolare ciò che non può essere regolato, lasciate fare a ogni ateneo quello che vuole, ma ogni tre anni valutate (magari con una commissione internazionale) la ricerca prodotta: gli atenei che hanno operato bene, ricevono più finanziamenti, a chi ha operato male vengono tagliati i fondi. In Italia la riforma delega il governo ad assegnare "fino al 10%" dei fondi in questo modo. È qui, in questo oscuro comma 5 dell'art. 5, che si giocherà il destino di questa riforma. Solo se il governo avrà il coraggio di utilizzare il tetto massimo, e di imporre criteri impietosi che escludano da questa quota gran parte dei dipartimenti che non fanno ricerca di qualità, la riforma potrà avere un qualche effetto. Purtroppo un sano pessimismo è scusabile: la maggioranza degli atenei non accetterà mai tagli a favore dei pochi atenei eccellenti e magari già più floridi, e troverà il sostegno dei tanti che vogliono dare più soldi ai peggiori per "portarli al livello dei migliori". Non sarà facile combattere questa mentalità, ma finché non si avrà il coraggio di premiare in modo tangibile chi opera bene e punire in modo non simbolico chi opera male, tutto il resto è irrilevante».

Tuesday, November 30, 2010

La migliore (o la meno peggio) riforma possibile

I punti forti e quelli deboli della riforma Gelmini sono indicati con precisione, oggi sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi, che coglie anche il nodo politico della situazione: «La realtà è che la legge Gelmini è il meglio che oggi si possa ottenere data la cultura della nostra classe politica». Perché? Perché tutte le critiche e le opposizioni alla riforma, sia nel Palazzo che nella piazza, sono nel senso della conservazione dell'esistente e non di un'ulteriore e più radicale spinta riformatrice. Nessuno, limitandoci ai tre appunti mossi da Giavazzi, si lamenta perché la riforma non abolisce il valore legale dei titoli di studio, o non fa cadere il vincolo che impedisce alle università di determinare liberamente le proprie rette, o perché non separa medicina dalle altre facoltà. E sbaglia Giavazzi a ritenere che il Partito radicale di oggi sosterrebbe queste tre proposte, quando alla fine dei conti i 6 deputati radicali voteranno esattamente come hanno già votato i 3 senatori, cioè contro la migliore (o la meno peggio) riforma possibile. «Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa», riconosce infatti Giavazzi:
«La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università. Crea una nuova figura di giovani docenti "in prova per sei anni", e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell'insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la "precarizzazione" dell'università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo. Peggio: pone una pietra tombale sul futuro di molti giovani, il cui posto potrebbe essere occupato per quarant'anni da una persona che si è dimostrata inadatta alla ricerca... innova la governance delle università: limita l'autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione... per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati».
E infine, neanche le rimostranze sui tagli hanno più senso ormai: «I fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa». Un dibattito comunque fuorviante, quello sulle risorse, perché possono essere troppe o troppo poche, ma si tratta di una riforma per lo più ordinamentale e di governance, quindi utile a spendere meglio quello che c'è.

Oltre ai tre appunti condivisibili di Giavazzi, da un punto di vista liberale la riforma è criticabile perché troppo timida. Va tenuto presente, però, come fa Giavazzi, che né nella nostra classe politica, e tanto meno nelle piazze, c'è chi assuma questo punto di vista. Altro che privatizzazione e smantellamento dell'università pubblica... Pur cercando di introdurre elementi di merito e di valutazione dei risultati nell'assegnazione dei fondi, e di responsabilità nella gestione dei bilanci (prevedendo pesanti sanzioni in caso di disavanzo), essenzialmente la riforma non tocca le "strutture", non riconosce il mercato come unico vero giudice di meriti e demeriti individuali e collettivi: non vengono spostate risorse rilevanti dal fondo ordinario verso la disponibilità degli utenti; non vengono alzati i tetti delle rette universitarie; non viene modificato lo status delle università come enti 100% statali (seppure si apre alla sperimentazione di «modelli organizzativi diversi», come le fondazioni), né quello del personale docente e non docente come dipendente pubblico.

Sarebbe urgente, invece, attrarre cospicui investimenti privati - gli unici che nel mondo di oggi possono davvero fare la differenza - ma per far questo andrebbe introdotto un sistema di incentivi serio per le donazioni, andrebbero "aperti" i consigli di amministrazione, ma i privati che investono o donano dovrebbero essere messi nella condizione di intervenire sull'offerta sia didattica che scientifica, e di controllare davvero come vengono spese le risorse. Ecco perché, allo stato attuale, pur essendoci la possibilità teorica, nessun privato butta soldi nel calderone pubblico. In poche parole, la riforma Gelmini è un valido tentativo di far funzionare meglio il baraccone statale, mentre andrebbe smantellato almeno nelle strutture che conosciamo oggi.

Monday, November 29, 2010

La sbronza globale per Wikiflop

... e il solito assist alle dittature

I Paesi arabi che fremono per un attacco militare contro l'Iran per fermare il programma nucleare; il governo cinese dietro gli attacchi cibernetici; la corruzione in Afghanistan e l'ansia per il controllo delle testate nucleari pakistane; la Russia «virtualmente uno Stato della mafia» o «un'oligarchia nelle mani dei servizi di sicurezza»; le offerte in denaro per convincere alcuni Paesi ad ospitare i detenuti di Guantanamo; la rinuncia allo scudo antimissile servita a ottenere la collaborazione russa nel dossier iraniano; i missili passati dalla Corea del Nord all'Iran; le armi dalla Siria ad Hezbollah e i sauditi che finanziano al Qaeda. Questi i non-segreti, anzi le cose arcinote che emergono dai cables trafugati da Wikileaks e passati alle principali testate planetarie (snobbati Corriere e Repubblica!).

Anche sui leader una serie di non-notizie e di sentito dire. E allora ecco le bizzarrie di Gheddafi, ecco che Ahmadinejad, Chavez e Mugabe sono definiti «pazzi», la salute di Khamenei è compromessa, Assad e Netanyahu non mantengono le promesse, Erdogan è influenzato da collaboratori e media islamisti, Sarkozy è permaloso e Berlusconi festaiolo. Fonti di terz'ordine, diplomatici e funzionari la cui principale attività notoriamente è di leggere i giornali (e in Italia c'è di che leggere su Berlusconi, non c'è dubbio), giudizi poco qualificati, parziali, incompleti, non definitivi, che non rappresentano le valutazioni, e ancor meno le linee politiche di Washington, ma che vengono elevati di rango, presentati come chissà quali "segreti", con il rischio concreto di gettare nel caos i rapporti tra alleati e non.

Nulla che già non sapessimo, o non avessimo comunque intuito usando la logica, ma i media tutti a fare il gioco di quel furbetto di Assange. Ma se nei contenuti il danno è piuttosto limitato, e l'evento di Wikileaks da questo punto di vista somiglia a un flop, seria è invece la turbativa politico-diplomatica, che potrebbe vanificare gli sforzi per la stabilità in varie aree del mondo, e quindi minacciare la sicurezza; è di per sé dannosa e destabilizzante la sensazione di vulnerabilità degli Stati Uniti rispetto ai loro interlocutori e avversari autocratici; ma soprattutto è grave culturalmente il malinteso su cui si basa l'intera operazione Wikileaks, ovvero uno splendido esempio di come manipolare i principi della democrazia contro di essa, che culmina con l'accusa lanciata oggi da Assange all'amministrazione Obama di essere un «regime che non crede nella libertà di stampa».

Questa non è libertà di stampa, è puro e semplice spionaggio, da cui occorre difendersi, perché mette a repentaglio la nostra sicurezza. Un conto è denunciare una malefatta governativa come lo scandalo Watergate, altra cosa è violare la necessaria riservatezza in cui opera normalmente (e a cui ha diritto, come un individuo) qualsiasi istituzione - la diplomazia, ma anche un'azienda o una procura durante un'indagine - con il rischio (o l'intenzione?) di sabotarne l'azione. Nessuna istituzione - che sia uno Stato o una normalissima famiglia - può sopravvivere alla trasparenza totale (o, piuttosto, al suo mito) senza che il sospetto e le incomprensioni ne compromettano irremediabilmente il corretto funzionamento.

Se l'11 settembre ha dimostrato che nel mondo di oggi non solo gli Stati, ma anche organizzazioni non statuali hanno capacità distruttive di massa, così Wikileaks dimostra che lo spionaggio non è più prerogativa esclusiva degli Stati. Invece di celebrare la libertà di stampa, bisognerebbe chiedersi a chi giova questa immensa operazione di spionaggio, come mai coinvolge solo gli Stati Uniti, mentre non si pretende la medesima "apertura" da regimi come Cina, Russia e Iran, solo per citarne alcuni.

Senza girarci troppo intorno, non credo che Assange sia al soldo di qualche potente dittatura, ma certo il suo è un regalo enorme alle dittature, rivela un'idea distorta - complottistica e infantile al tempo stesso - del potere, che purtroppo sembra avere sempre più presa sui media e sull'opinione pubblica, e in nome della quale rischiamo di disarmare le nostre democrazie; nonché la solita preoccupante visione che vuole gli Stati Uniti, e le democrazie occidentali, sempre su una sorta di banco degli imputati planetario. Spinti dall'irresistibile fascino dell'ignoto che circonda il 'Potere', viene naturale andare a cercare nei meandri degli Stati - solo di quelli democratici ovviamente, approfittando delle libertà che solo le democrazie garantiscono, persino contro loro stesse - la prova delle magagne, salvo poi mostrare al mondo la banalità di un potere nient'affatto inaccessibile, e nient'affatto intento ad intessere chissà quali inconfessabili piani. Insomma, è tutto qui? Dov'è questa diabolica America?

Per quanto riguarda l'Italia, dai file di Wikileaks emergono la trasparenza dell'Eni sui suoi affari in Iran e i rapporti tra il nostro Paese e la Russia, e tra Berlusconi e Putin, che non sono certo un mistero. A prescindere dal giudizio di merito, da sempre, a dispetto di analisi e retroscena che si leggono sui giornali, ritengo che non rappresentino un serio motivo di tensione tra Roma e Washington. Ovvio che gli americani siano sensibili su questo punto e cerchino di "informarsi" su cosa combinano Berlusconi e Putin, o Berlusconi e Gheddafi, ma non è un tema che mette a rischio le buone relazioni tra i due Paesi (tutt'al più Berlusconi potrebbe essere chiamato a riferire alle commissioni affari esteri, non certo al Copasir).

Gli interessi italiani sono alla luce del sole e piuttosto, come ricorda oggi Edward Luttvak al Corriere della Sera, sono stati ben altri, e ben più gravi in passato i motivi di disaccordo e sospetto degli Usa nei nostri confronti: «In Medio Oriente e in Libia con Andreotti, con Craxi in Somalia e nella vicenda dell'Achille Lauro, con il rilascio clandestino del terrorista Abu Abbas. E poi, ancora, con Dini...», o in piena Guerra Fredda con gli investimenti della Fiat in Urss. «Berlusconi parla chiaro: l'alleanza con gli Stati Uniti è strategica per lui; Libia e Russia solo tattica, in difesa degli interessi nazionali, primo tra tutti l'approvvigionamento di gas con l'Eni». Gli alleati «non sono schiavi», osserva Luttvak, capita che per certi interessi nazionali si abbiano pareri diversi. «Gli Stati Uniti - ribadisce a Cnr Media - hanno i loro interessi, l'Italia i suoi, è normale. Possiamo non esserne contenti, e infatti non lo siamo, ma non ci sentiamo traditi. Perché sono cose che l'Italia fa apertamente. Una volta, invece, c'erano tanti sorrisi e poi di nascosto gli italiani facevano i furbi. Andreotti faceva il furbo con gli arabi, Craxi tradiva. Oggi questo non succede».

E comunque sono stati gli Usa e il Regno Unito a sdoganare Gheddafi; è stato proprio Obama a voler inaugurare con la Russia una nuova fase dopo le tensioni durante il secondo mandato di Bush; e comunque nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, Berlusconi è stato al fianco dell'America quando sarebbe stato più comodo e politicamente corretto accodarsi al fronte anti-guerra Francia-Germania-Russia; e comunque in Afghanistan siamo tra i pochi alleati ad accrescere il nostro sforzo; e comunque in South Stream entreranno anche i francesi, in North Stream ci sono già tedeschi e francesi, mentre il progetto concorrente, il Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue è di più complessa realizzazione.

Sindrome da accerchiamento

Sbaglia il governo a dare l'impressione di denunciare l'esistenza di un complotto internazionale contro l'Italia, e infatti nel comunicato uscito venerdì da Palazzo Chigi si parla al plurale di «strategie». Se non ci sono elementi tali da giustificare l'evocare di una cospirazione, è tuttavia comprensibile il senso di accerchiamento che si respira per l'azione convergente di attori, per lo più interni ma non solo, che ansiosi di abbattere Berlusconi inevitabilmente finiscono con il danneggiare l'immagine e non solo del nostro Paese.

L'azione della magistratura, le cui inchieste ad orologeria raramente, svolta la loro funzione mediatica, portano a delle condanne (ora l'attacco a Finmeccanica); l'azione di gruppi editoriali dediti alla mistificazione e al fango mediatico-giudiziario; trasmissioni tv faziose che procedono per allusioni e si avvalgono delle dichiarazioni di mafiosi inattendibili per screditare i partiti al governo. Né in tutto questo può sfuggire la linea del tg di Sky, sempre più antiberlusconiano e di proprietà di Murdoch. E certo non fa bene al Paese quando una legittima opposizione antepone la guerriglia parlamentare per fiaccare Berlusconi ai contenuti di una riforma ritenuta importante.

Non certo di un complotto contro l'Italia si tratta, ma di una straordinaria - nel senso di estremamente estesa - congiunzione di poteri e interessi il cui unico fine - l'abbattimento di Berlusconi - viene perseguito a qualsiasi costo ("tanto peggio tanto meglio"), che sia anche l'immagine, l'interesse o la stabilità finanziaria del nostro Paese. E quanto più sentono l'odore del sangue, tanto più si scatenano. Da ultimo Wikileaks, che si inserisce in un quadro più generale di delegittimazione - non saprei quanto premeditata o frutto di una malintesa idea della trasparenza e del diritto all'informazione - delle democrazie occidentali e tra esse della più compiuta e potente, gli Stati Uniti, ma questo merita un post a sé.

Friday, November 26, 2010

Una morte onorevole

Invece di dar vita ad una pretestuosa e stucchevole guerriglia quotidiana sulla pelle di provvedimenti importanti per il Paese, che nulla ha a che fare per altro con il loro merito (l'emendamento approvato ieri è di natura solo lessicale), sarebbe più onesto e dignitoso da parte dei finiani aspettare serenamente il 14 dicembre e votare compatti la sfiducia. Tuttavia, sembra che l'ultima tentazione di Fli, Udc e Pd - dal momento che hanno capito di non farcela a fare il ribaltone al Senato - sia fare in modo che il governo ottenga una striminzita fiducia anche alla Camera. In questo modo, sarebbe più complicato per il capo dello Stato accogliere la richiesta di scioglimento delle Camere che quasi sicuramente, non avendo comunque numeri sufficienti a garantire la piena governabilità, avanzerebbero Pdl e Lega; Berlusconi, dopo essersi dimesso, riceverebbe un nuovo mandato e i finiani (insieme all'Udc?) potrebbero continuare a logorarlo per qualche altro mese, cercando così di evitare le temute elezioni nel 2011. Tanto ormai si è capito che della governabilità e delle riforme non gl'importa nulla, ciò che conta, al solito, è far fuori Berlusconi.

Così stando le cose, mi chiedo se al governo non convenga giocarsi il tutto per tutto sulla riforma universitaria, ponendo la fiducia su un testo che rigetti in blocco tutti gli emendamenti di Fli. Se dovesse cadere, sarebbe una morte onorevole e costringerebbe ad uscire allo scoperto quanti sono disposti a sacrificare una buona riforma pur di abbattere Berlusconi. Insomma, la strategia dovrebbe essere, su qualsiasi provvedimento, considerare gli emendamenti di Fli emendamenti di opposizione, e quindi non trattare ma respingerli e porre la fiducia sul testo originario, costringendo ogni volta i finiani ad un aut aut. La legge di stabilità è un falso problema: si può approvare anche in ordinaria amministrazione, è già impostata e nessun gruppo si azzarderebbe a metterne in discussione i saldi.

Thursday, November 25, 2010

Tutti sul tetto

Non solo Bersani, che divulgando i suoi 30 e lode dimostra plasticamente quanto l'università italiana abbia bisogno di una profonda riforma. Anche i deputati di Fli Della Vedova, Granata, Moroni e Perina sono saliti sul tetto della Facoltà di Architettura a La Sapienza, accogliendo un invito del cantautore Antonello Venditti (quello di «Valle Giulia ancoraaaaa... quiiiii, architetturaaaaa, albe cinesi di seta indiana...»). E pensare che qualcuno si è sforzato di venderci Fli come la nuova terra promessa del liberalismo...

Dopo i quotidiani dispettucci finiani alla Camera, solo per il gusto di veder andare sotto la maggioranza (l'emendamento passato all'articolo 16, comma 3, lettera f, non fa che riportare il testo a quello uscito dal Senato sostituendo le parole «nuovi o maggiori oneri» con le parole «oneri aggiuntivi»), il voto finale sulla riforma Gelmini è slittato ancora (al 30 novembre). Tempo che Fli sfrutterà per blandire la piazza rivendicando chissà quali meriti sul testo finale, mentre magazine e fondazioni d'area strizzano l'occhio alla protesta di un'«intera generazione», perché non è un Paese civile quello che «mena» i suoi studenti. Evidentemente lo è quello in cui si bloccano strade e treni, si occupano università e si tenta persino di dare l'assalto al Senato, in una scena che in altri Paesi caratterizza i momenti culminanti di un golpe.

Emblematico che tra i libri-scudo dei reazionari che manifestano contro la riforma dell'università spunti il "Che fare" di Lenin. Giocano a fare i rivoluzionari di professione ma nemmeno si rendono conto che è come sfilare con il "Mein Kampf" sottobraccio. Tra i pochi a dire le cose come stanno, Antonio Martino: «La sinistra difende l'università degli asini... L'università insegna cose che non servono a nessuno e, in più, inculca nelle loro menti l'idea bizzarra che lo Stato debba dar loro un'occupazione degna del titolo di studio».

Fallimento dei politici

Quando il fallimento è della politica e non dell'intelligence. Michael Green e William Tobey denunciano sul Wall Street Journal come le analisi e le previsioni sul programma nucleare nordcoreano siano state deliberatamente derise e ignorate dalla politica e dai media progressisti nell'illusione che accantonare certe scomode verità avrebbe favorito un accordo con Pyongyang. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
«Durante gli ultimi dieci anni, gli analisti dell'intelligence hanno puntualmente previsto il percorso della Corea del Nord verso le armi nucleari ed evidenziato le prove crescenti della sua proliferazione missilistica e nucleare. Il fallimento è dei politici e dei pundits che hanno denigrato le analisi, le hanno ignorate, o che si sono aggrappati all'illusione che la Corea del Nord avrebbe accettato un accordo di denuclearizzazione».
Ormai dovrebbe essere chiaro che Pyongyang non si fermerà finché non avrà ottenuto il riconoscimento come potenza nucleare e a questo scopo intende continuare ad alzare il suo livello di minaccia. Accetterà di discutere davvero un accordo, forse solo quando potrà farlo alla pari con gli Stati Uniti, da potenza nucleare a potenza nucleare (sempre che nel frattempo non sorgano altri appetiti).

Murdoch e Caltagirone muovono i fili

«I due puntano a rastrellare le frequenze digitali non appena saranno messe all'asta». I due di cui parla Italia Oggi sono Rupert Murdoch e Francesco Gaetano Caltagirone (suocero di Casini). Se Berlusconi ha il conflitto di interessi che tutti conosciamo, i suoi nemici non sono da meno. Non solo Montezemolo, che si ritiene penalizzato con la sua Ntv (in realtà, come lui stesso ammette, siamo il primo Paese ad aprire ad un operatore privato nell'alta velocità), sono altri i giganti che vedono nell'attuale governo un intralcio per i loro grandi affari. Pronti a piombare nel ricco piatto delle frequenze digitali, Murdoch e Caltagirone già si sentono i nuovi padroni della tv.

Resta un piccolo ostacolo: Berlusconi. Per questo, osserva il quotidiano, «buttare giù il governo è il primo passo obbligato della strategia di attacco del duo Murdoch-Caltagirone». Ecco spiegato l'«insolito vigore» di SkyTg24, che quasi ogni giorno propone un sondaggio contro il governo e che strizza l'occhio a Fini.
«Nella fase successiva, che Casini ha battezzato con fantasia in tutti i modi possibili (governo tecnico, di responsabilità nazionale, d'armistizio, e così via), grazie all'inevitabile clima di concitazione politica, la vendita delle frequenze digitali ad imprenditori ostili a Berlusconi sarebbe facilitata e consumata come un classico colpo di mano, come lo fu la concessione della licenza per la telefonia mobile a De Benedetti con il governo Ciampi nel 1993».
Del progetto, scrive ancora Italia Oggi, «nel Palazzo romano si chiacchiera abbastanza apertamente». E aggiunge che «l'intera pagina di pubblicità sul Corriere della Sera che oggi Sky dedica a un evento che vede Montezemolo come protagonista è la migliore risposta a chi si interroga sui possibili alleati del duo Murdoch-Caltagirone. La battaglia è appena iniziata, e si annuncia durissima, senza esclusione di colpi».

Wednesday, November 24, 2010

Assalto al Senato, Montezemolo esce dal recinto

Mentre va in scena un assalto squadrista al Senato, con il contorno di un giochetto disgustoso dei finiani alla Camera sulla riforma Gelmini, una delle poche cose appena decenti fatte da questo governo, e mentre Berlusconi, Bossi e l'Udc riempiono con i loro tatticismi i giorni che ci separano dalla verifica del 14, per la prima volta Montezemolo non risponde con un "no" secco a chi gli chiede se ha intenzione di entrare in politica e le sue parole suonano come la tanto attesa discesa in campo. Che si sia deciso? Che sia finalmente l'alba di questo Terzo polo? «Ho il dovere di fare qualcosa per il mio Paese», dichiara Luchino chiudendo un convegno di ItaliaFutura sui giovani, è ora di «uscire dal proprio particolare recinto per contribuire al bene comune», ma «il periodo dell'one man show è finito», avverte. E precisa di non riferirsi a Berlusconi o a qualcuno in particolare, ma anche a se stesso: «Anche quando chiedono a me di entrare in politica... entrare in politica da soli non vuol dire assolutamente niente, ci vuole una squadra».

E lui è fortunato, perché una squadra che lo aspetta già ce l'ha: Fini, Casini, Rutelli... Sai che squadra... Spero solo che non sia chiedere troppo che si presentino agli elettori e non cerchino improbabili ribaltoni. Vedremo, poi, come si comporteranno i media con il conflitto di interessi di Montezemolo, presidente di Ntv, il nuovo operatore che dal prossimo anno farà concorrenza a Trenitalia nel trasporto viaggiatori ad alta velocità.

Mentre Fini minimizza l'assalto squadrista al Senato («solo provocatori isolati» che non c'entrano con la «legittima protesta»), i suoi ragazzi alla Camera questo pomeriggio sono stati tentati di affossare la riforma dell'università, che avevano ripetuto di apprezzare e assicurato di sostenere. L'impressione è che per qualche ora siano stati sfiorati dall'idea di blandire i manifestanti (studenti e ricercatori) ed impedire al governo di portare a casa un prezioso risultato. Avevano chiesto che la riforma tornasse in Commissione perché, parole di Granata (Fli), priva delle risorse per «gli scatti meritocratici di anzianità» (?) di ricercatori e associati. Un miliardo evidentamente non basta, quando semmai la riforma andava fatta a costo zero, e possibilmente risparmiando qualcosa. Sono dell'idea che non un cent in più andrebbe versato all'università se prima non si riesce a dare una raddrizzata strutturale al sistema. L'ostacolo sembra superato, almeno per ora.

Nel frattempo, il premier chiede l'appoggio esterno dell'Udc, persino con il via libera di Bossi («sarebbe positivo»), ma Casini rifiuta senza pensarci due volte (ogni ipotesi è rimandata a dopo la caduta del Cav., passaggio inevitabile, agli occhi dei centristi, per aprire una nuova fase). Prospettiva inquietante sia per l'oggi che per il domani (in vista di elezioni anticipate) quella di sostituire i finiani con l'Udc, perché da un Berlusconi con logoramento di Fini, si passerebbe a un Berlusconi con logoramento di Casini. Ma probabilmente si tratta solo di tatticismi da una parte e dall'altra per riempire la scena nei giorni che ci separano dalla verifica del 14.

Eventuali piccoli spostamenti di voti alla Camera a favore del governo (a questi, e a blindare il Senato, probabilmente mirava Berlusconi con il suo appello all'Udc) non impediranno il ritorno alle urne. Anche se l'aggravarsi della crisi dell'eurodebito rischia di trasformarsi in un nuovo argomento per quanti sarebbero disposti a fare carte false pur di far fuori Berlusconi senza sottoporsi subito dopo al giudizio degli elettori. Già si leggono e si sentono gli appelli alla responsabilità di quanti, dopo aver contribuito irresponsabilmente a destabilizzare l'unico governo democraticamente legittimato, sosterrebbero un bel governo "tecnico" per non lasciare l'Italia senza guida in mesi cruciali per le sorti dell'euro e del patto di stabilità. Di fatto un commissariamento del nostro Paese.

Tuesday, November 23, 2010

I frutti avvelenati dell'appeasement

Myanmar, Corea del Nord, Iran. Tre regimi sanguinari e disumani per i popoli che opprimono, pericolosi per gli altri; tre insuccessi dell'Occidente e in particolare della strategia obamiana della "mano tesa" (o, piuttosto, del "porgere l'altra guancia"), ma anche di una certa realpolitik convinta che si possa escludere dall'analisi il fattore natura del regime.
COREA DEL NORD - Partiamo dall'ultimo e più allarmante sviluppo in ordine di tempo. Questa mattina la Corea del Nord ha attaccato la Corea del Sud colpendo con l'artiglieria l'isola di Yeonpyeong, in quello che rappresenta forse il più grave incidente dalla guerra degli anni '50.

Ma non va dimenticato che un paio di settimane fa la Corea del Nord ha rivelato l'esistenza di un nuovo grande impianto per l'arricchimento dell'uranio costruito rapidamente e in totale segretezza. Una sfida esplicita alla politica anti-proliferazione della Casa Bianca e un nuovo rilancio nel gioco di estorsioni in cui ormai sono campioni i nordcoreani. Lo scienziato Usa cui è stata mostrata, è rimasto basito dalla modernità tecnologica della centrale e ha parlato di migliaia di centrifughe. La scoperta è particolarmente inquietante, perché se l'impianto è stato tirato su in un anno e mezzo (fino all'aprile del 2009 non esisteva), è probabile che ad aiutare i nordcoreani sia stata una mano straniera, in violazione delle sanzioni Onu e in barba ai controlli internazionali.

Sono i risultati della politica di dialogo e di appeasement. Per tornare a sedersi al tavolo dei negoziati a sei, il regime di Pyongyang alza la posta, chiede nuovi e ulteriori benefit, in una rincorsa di ricatti che non avrà mai fine, mentre gli Usa, la Corea del Sud e il Giappone, coinvolgendo Cina e Russia, avrebbero la forza per una grande operazione di libertà per milioni di vite tenute prigioniere in un medioevo di fame e miseria. E' evidente ormai che Pyongyang non mira solo a estorcere soldi e benefit, ma anche ad essere riconosciuta come potenza nucleare (possiede tra le 8 e le 12 testate), e a tenere in ansia l'Occidente con l'implicita minaccia di cedere una delle sue bombe ad al Qaeda o all'Iran.

L'aggressione militare di oggi fa temere un cambio di passo. Si mette alla prova la risolutezza degli Stati Uniti nel difendere i propri alleati in Asia. Una condanna non basta. A questo punto non basta ribadire di essere «completamente impegnati nella difesa del nostro alleato, la Repubblica di Corea, e nel mantenimento della pace e della stabilità regionali». Non basta a dissuadere Pyongyang né a rassicurare i preziosi alleati, da Seul a Taiwan.

MYANMAR - In Myanmar, dopo le recenti elezioni-farsa da cui il regime militare esce rafforzato e le opposizioni democratiche divise, si festeggia la "liberazione" del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Libera per modo di dire, visto che non potrà guidare il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, sciolto d'autorità lo scorso settembre, né riorganizzarlo, e visto che la sua sarà piuttosto una libertà vigilata, sottoposta cioè a pesanti restrizioni. Inoltre, va tenuto presente che già altre volte la "Dama" è stata "liberata", vivendo brevi periodi di "libertà". Dopo i primi 7 anni di prigionia fu liberata nel 1995, per tornare in cella nel 2000. Nel 2002 fu rilasciata, ma appena un anno dopo fu di nuovo arrestata e da questa data ebbe inizio il suo secondo lungo periodo di arresti domiciliari, che si sarebbe dovuto concludere nel 2009. Senonché, a pochi giorni dalla scadenza riceve la visita di un misterioso ospite americano e subisce una nuova condanna a tre anni di prigione e lavori forzati, pena poi commutata in altri 18 mesi di arresti domiciliari.

Visti i precedenti, dunque, i festeggiamenti di questi giorni appaiono del tutto fuori luogo. Nulla ci induce a ritenere che anche questa volta non si tratti che di una breve parentesi di libertà vigilata tra due carcerazioni (qui si scommette della durata all'incirca di un anno). Inoltre, dalle elezioni richieste dalla comunità internazionale e dagli Usa in primis, il regime ha di fatto incassato una legittimazione (anche se solo formale), che nessun soggetto esterno, né tanto meno interno, avrà la forza di contestare per un lungo periodo. Tanto che la stessa leader democratica birmana sembra essersi convertita a più miti consigli.

IRAN - Per quanto riguarda l'Iran, Obama non è riuscito non dico a ottenere la rinuncia da parte di Teheran al proprio programma nucleare, ma nemmeno a convincere gli iraniani a intavolare una trattativa seria. Siamo nella fase delle sanzioni. Ne sono state approvate di stringenti dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, e sanzioni ancora più dure sono state adottate unilateralmente da Stati Uniti e Unione europea. La sensazione, però, è che non sortiranno l'effetto sperato. E le divisioni che anche in queste ore vediamo emergere nell'establishment iraniano, il clima sempre più da resa dei conti interna (il tentato impeachment di Ahmadinejad da parte di alcuni deputati conservatori, fermati solo dall'intervento dell'ayatollah Khamenei, e il mandato d'arresto che pende sul figlio di Rafsanjani) non sono il frutto dell'isolamento internazionale, della stretta morsa di Obama, bensì della resistenza di una parte del regime, anch'essa clericale e conservatrice, alla presa totale del potere da parte di Ahmadinejad e della sua cricca, e alla militarizzazione della Repubblica islamica in corso con il beneplacito di Khamenei. Una faida interna il cui sbocco potrebbe essere tutt'altro che democratico, anche perché nel frattempo l'opposizione popolare, l'"onda verde", è stata stroncata mentre l'Occidente non muoveva un dito.

E' proprio vero, quando l'America è più debole, è distratta, o non è guidata in modo saldo, il mondo si fa rapidamente un posto più pericoloso.