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Friday, September 04, 2015

La retorica dell'accoglienza e i costi umani del non intervento

Ma perché, le migliaia di uomini, donne e bambini massacrati e decapitati dell'Isis non sono nostri fratelli, sorelle e figli? Solo perché non abbiamo visto le foto dei cadaveri? O, se le abbiamo viste, perché non abbiamo mosso un dito, nemmeno sulla tastiera? Quanta retorica a buon mercato! La foto del bimbo siriano senza vita sulla spiaggia di Bodrum viene pubblicata perché serve ad alimentare la retorica dell'accoglienza, e il senso di colpa dell'Occidente. Ma tutte le foto mai pubblicate di massacri e decapitazioni dell'Isis? No, quelle no, suggerirebbero di dover muovere guerra all'Isis.

La foto di quel bimbo siriano non c'entra nulla con l'emergenza immigrazione che il governo Renzi non sa gestire e che anzi ha irresponsabilmente alimentato. Solo una piccolissima parte dell'immigrazione che sbarca da noi infatti è di origine siriana. I siriani vanno in Germania via Balcani, da noi arrivano africani via milizie islamiche dalla Libia. E solo la metà della metà ha diritto all'asilo, ma noi facciamo entrare tutti senza identificarli (oltre 60 mila finiti nel nulla).

No, la foto di quel bimbo siriano dovrebbe convincerci una volta per tutte che anche il non intervento ha costi umani altissimi, inaccettabili. Quella foto ci parla delle tante nuove Srebrenica generate in Siria per l'ignavia dell'Europa e i disastri di Obama, che ha mandato due droni ma ha consapevolmente abbandonato la crisi siriana nelle mani delle potenze regionali (Iran, Turchia e Arabia saudita su tutte).

Friday, April 03, 2015

La Monaco di Obama: si piega alla volontà di potenza iraniana e getta benzina sul fuoco in Medio Oriente

Un giudizio obiettivo sull'accordo preliminare tra Stati Uniti e Iran è quello del Washington Post (certo non di simpatie repubblicane), che ci mette un paragrafo per smontare tutto l'entusiamo che si respira dalle nostre parti. Un paragrafo che bada al sodo, al significato politico e strategico dell'accordo, senza perdersi in tecnicismi poco comprensibili.
The "key parameters" for an agreement on Iran's nuclear program released Thursday fall well short of the goals originally set by the Obama administration. None of Iran's nuclear facilities - including the Fordow center buried under a mountain - will be closed. Not one of the country's 19,000 centrifuges will be dismantled. Tehran's existing stockpile of enriched uranium will be "reduced" but not necessarily shipped out of the country. In effect, Iran's nuclear infrastructure will remain intact, though some of it will be mothballed for 10 years. When the accord lapses, the Islamic republic will instantly become a threshold nuclear state.
La realtà è che il risultato dell'accordo, se sarà confermato entro il 30 giugno, è aver guadagnato tempo. Quanto? Quanto vorrà l'Iran, presumibilmente il tempo necessario per riassestare la sua economia vicina al collasso a causa delle sanzioni (e non solo). I 2-3 mesi che secondo le stime, ad oggi, separano l'Iran dalla sua prima bomba atomica (il break-out time), con questo accordo dovrebbero diventare 12, a partire dalla cessazione naturale (10 anni più 5) o unilaterale dell'accordo. Dunque, questo accordo consente all'Iran di mantenere capacità tali da riuscire a produrre armi nucleari in 12 mesi da quando deciderà di volerlo fare. Per essere ancora più chiari: se l'Iran dovesse decidere di non rispettare l'intesa, da quel momento ci metterebbe almeno un anno, anziché gli attuali 2-3 mesi (ma si tratta sempre di stime). Se consapevoli di questo, si può anche ritenere l'aver guadagnato questi 10 mesi di tempo un successo... ma a che prezzo?

Come sintetizza il WashPost, il programma nucleare iraniano non viene smantellato, ma semplicemente "congelato" e, in un certo senso, riconosciuto. Diversamente dall'obiettivo che si era prefissato lo stesso presidente Obama, l'Iran non sospenderà il processo di arricchimento dell'uranio. Continuerà ad arricchirlo, sia pure in misura ridotta e non fino al punto necessario per usi militari, e si terrà le quantità già arricchite oltre la soglia per usi civili. Per l'Iran si tratta di un grande successo perché si vede riconosciuto da parte della comunità internazionale, dell'Occidente con in testa gli Stati Uniti, il diritto ad arricchire l'uranio e, quindi, implicitamente a diventare una potenza nucleare.

E questa dovrebbe essere la parte dell'accordo più spiacevole per gli iraniani... Quella buona per loro è che si vedranno gradualmente revocare le sanzioni. Si vedono iraniani festeggiare nelle strade di Teheran, ma si tratta evidentemente di sostenitori del regime, che si rafforza, non certo degli oppositori.

L'accordo è stato subito definito "storico", e naturalmente è subito ripartita in grancassa sui giornali italiani ed europei la santificazione di Obama. Soprattutto sui nostri media (e social media) il conformismo pro-Obama non ha limiti. In Iran è «molto presente il pluralismo e un bilanciamento dei poteri», arriva a scrivere Alberto Negri sul Sole24Ore. Tutto ciò che tocca Obama diventa oro... Che sia un accordo storico è fuor di dubbio, per molte ragioni e almeno per il fatto che si tratta del primo dalla rottura delle relazioni diplomatiche tra Usa e Iran. Ma attenzione al significato di "storico", perché indubbiamente anche l'accordo di Monaco del 1938 che spianò la strada ai piani di Hitler passò alla storia... anche se tristemente.

Il paragone ci sta tutto: se l'accordo di Monaco riconobbe come legittima, in termini territoriali, la volontà di potenza della Germania nazista, così l'accordo di Losanna, permettendo all'Iran di mantenere quasi intatti i progressi del suo programma nucleare e, anzi, di continuare ad arricchire uranio, riconosce la sua volontà di potenza regionale in Medio Oriente. Con tutto ciò che può derivarne in termini di ulteriore instabilità nella regione: corsa all'atomica di Arabia Saudita ed Egitto (alleati nonostante tutto leali che dopo questa legnata sui denti si sentiranno più insicuri), nervosismo di Israele e ulteriori attività terroristiche iraniane... L'Iran potrà tenersi la sua pistola carica e "in cambio" le sanzioni verranno gradualmente revocate. Di storico c'è anche che è il primo accordo in cui una delle parti ottiene sia la botte piena che la moglie ubriaca...

Wednesday, March 25, 2015

1992: una serie sciatta, conformista e subdola

Ebbene sì, lo ammetto, ero prevenuto. Avevo già capito che mi sarei dovuto sorbire le solite e ritrite tesi sociologiche sulla corruzione morale e politica del Paese e i soliti e ritriti teoremi antiberlusconiani sull'oscura nascita di Forza Italia. Ciò che invece non avevo preventivato è che potesse non essere, dal punto di vista tecnico, un prodotto ben riuscito, di qualità, avvincente. In una parola: "figo". Al contrario, "1992" è un pianto, un disastro estetico e narrativo. Gli attori sono così scarsi che per sembrare intensi bisbigliano e si mangiano le parole. Personaggi piatti e stereotipati. Sceneggiatura sciatta e a tratti ridicola. Trama banale e prevedibile. L'intreccio tra realtà, la cronaca giudiziaria, e fiction è talmente mal riuscito che trasforma in barzelletta la prima e svilisce la seconda.

E' ridicolo che un ferramenta si convinca che le sue inserzioni pubblicitarie vengano trasmesse durante "Non è la Rai" perché il programma verrebbe visto da padri cripto-pedofili con la bava alla bocca (che tra l'altro all'ora in cui andava in onda dovevano essere a lavoro) più che dalle figlie. E poi anche basta con questo moralismo...

E in tutto questo non mancano, subdolamente inseriti qua e là, slogan e primi piani che, come sentenze inappellabili, emettono il giudizio storico su una stagione e i suoi protagonisti. Insomma, gli autori non pretendono di raccontare in modo fedele gli eventi e i personaggi, che sono romanzati, ma non rinunciano a emettere sentenze sommarie su quelli reali.

La scena più subdola (almeno dei primi due episodi) è quando Dell'Utri passando davanti a uno schermo nei corridoi di Publitalia si sofferma sulla notizia dell'assassinio di Salvo Lima con lo sguardo di chi la sa lunga. L'allusione, breve ma incisiva, dà per scontata l'origine mafiosa di Forza Italia. Ma poi, di cosa stiamo parlando? Siamo nel 1992 e si allude a Forza Italia? Una serie tv sugli anni di Mani pulite in cui metà del tempo si parla di Publitalia e di come un Dell'Utri che si atteggia a boss mafioso si preparasse a "salvare la Repubblica delle banane", cioè a preservare quel sistema corrotto dagli attacchi della magistratura, non è fiction. E' una farsa, un'operazione scadente, conformista e subdola, ad uso e consumo dei soliti noti.

Si salva la colonna sonora, quella sì, ti riporta al 1992. Per il resto, non c'è niente da fare: tutta la serie gira intorno a Silvio Berlusconi, grande ossessione di cui la sinistra - compresa la compagnia di giro di attorucoli, registucoli, sceneggiatorucoli italiani che campano di sussidi pubblici - non riesce a liberarsi. Non si vede mai Berlusconi (tranne un tacco rialzato degno del Bagaglino che spunta da una toilette), ma è il vero convitato di pietra della serie (insieme, ovviamente, a Craxi). Lo spaccato decadente dell'Italia di quegli anni sembra ridursi al suo mondo, tutto ricostruito per evocare il bunga-bunga di vent'anni dopo: le sue tv che hanno irrimediabilmente corrotto la società e la politica; la soubrette mignotta raccomandata, un'olgettina ante litteram; la sua prossima ascesa al potere inevitabilmente legata alla corruzione e alla mafia. Da Berlusconi e da Publitalia sembra scaturire, e promette di perpetuarsi, tutto il marcio.

Del vero 1992 cosa resta? I magistrati buoni e i corrotti cattivi? Non solo semplicistico, anche un po' truffaldino... E che fine hanno fatto i grandi gruppi industriali, anche e soprattutto pubblici, coinvolti in Tangentopoli? E gli altri partiti della Prima Repubblica? I suicidi in carcere e i metodi di Mani pulite? La gogna a mezzo stampa? Il 1992 è stato anche, se non soprattutto, tutto questo. Le tv di Berlusconi fanno parte di quell'epoca, come fenomeno di massa, economico e culturale, ma non spiegano la corruzione morale e politica dilagante come questa serie lascia banalmente intendere.

Tuesday, February 03, 2015

Mattarella, il paternalismo socialdemocristiano ci porta in Grecia

La vecchia logica del "nessun nemico a sinistra" a cui si è piegato Renzi (logica da 24%, non da 40) e l'insostenibile subalternità culturale del centrodestra

Cosa ci si poteva aspettare dal discorso alle Camere del nuovo presidente Sergio Mattarella? Esattamente ciò che ha pronunciato: il ricordo di Tachè, l'accenno ai marò (minimo sindacale, sarebbe stato gravissimo se li avesse dimenticati), l'enfasi sulla guerra al terrorismo (nessun applauso) sono stati gli unici passaggi non scontati. Per il resto, un discorso buono per tutte le stagioni, banalotto, tanto polveroso paternalismo dc e tanta retorica assistenzialista. Dal punto di vista economico-sociale, per le sue citazioni ha accuratamente selezionato gli articoli del cosiddetto "patto sociale" della Costituzione: più diritti e garanzie che libertà. Cattolicesimo sociale, direbbe qualcuno. Paternalismo dc, direi, anzi socialdemocristiano. Peccato che sia terribilmente out of time. Quella lunga lista di "diritti" e assistenzialismi è esattamente IL problema (LA follia) di questo Paese. Continuare a spacciare le pesanti droghe socialisteggianti e assistenzialiste - purtroppo sì, è vero, ancora scolpite nella nostra Costituzione - e per di più a un Parlamento che da sinistra a destra è un tossico di spesa pubblica, non è esattamente ciò che ci serve. Suona comodo e rassicurante, ma non è ciò che può farci uscire dalla crisi. Mattarella rappresenta la Grecia in noi che avanza...

E' stato un discorso di illusioni, non di speranze, di vecchie e pericolose illusioni scritte nella nostra Carta e nel Dna socialdemocristiano. Anche nella frase che probabilmente leggeremo domani sulle prime pagine dei giornali: «L'arbitro dev'essere e sarà imparziale... ma i giocatori lo aiutino con la loro correttezza». Non accadrà, all'occorrenza l'arbitro potrà anche segnare dei gol (è questo il senso del richiamo alla correttezza dei giocatori...): non per malafede, ma perché nel nostro sistema politico-istituzionale sono saltati regole e schemi. Completamente e irrimediabilmente. L'elezione diretta del presidente della Repubblica è urgente per dare alla carica la legittimazione popolare diretta richiesta dal ruolo che è ormai chiamato a svolgere in un sistema maggioritario.

Dal punto di vista strettamente politico si è trattato di un discorso "governativo": in nessun passaggio può essere suonato il campanello d'allarme di Renzi. Anzi, è arrivato un esplicito endorsement al percorso di riforme costituzionali (riforme che cambiano qualcosa - in peggio - per non cambiare, in realtà, nulla).

RENZI - Eppure, il premier non può dormire sonni tranquilli, come ho già scritto nel post precedente. Il problema è che Mattarella non è esattamente l'immagine di quel rinnovamento che Renzi aveva promesso in ogni ambito, suscitando grandi aspettative. Certo, magari non potrà fargli ombra come personalità, ma il suo grigiore finirà per ingrigire un bel po' anche lui, per intaccare nell'opinione pubblica la sua immagine di innovatore e "rottamatore".

Non credo affatto che Mattarella fosse la sua prima scelta. Quando si parla di capolavoro di Renzi bisogna intendersi. Ha scelto la via meno rischiosa per eleggere il nuovo capo dello Stato rapidamente, senza psicodrammi, intestandosi i meriti dell'operazione, così da poter al più presto archiviare la pratica e tornare a parlare di cose concrete. In questo una scelta molto saggia, e certamente vincente, perché ai cittadini (escludendo quel milione - per lo più di parassiti - che vive e parla di politica) del nuovo presidente frega assai poco. Ma la sua è stata una scelta né originale né coraggiosa: si può parlare di "capolavoro" solo perché Berlusconi e Alfano hanno di nuovo fatto la figura degli utili idioti? No, a mio modo di vedere è stata una vittoria tattica ma non strategica. Più uno scampato pericolo immediato. Di capolavoro si sarebbe potuto parlare se fosse riuscito a consolidare il suo potere portando al Quirinale un suo uomo (o donna): non nel senso di un suo servo, ma una figura in grado - per età, per esperienze politiche e per consapevolezza riformatrice - di rappresentare un'epoca di cambiamento, l'"era renziana", e anche un Pd diverso, meno ripiegato sulle sue due culture politiche fondatrici, ex comunista e sinistra dc.

Non è stata, insomma, una scelta da "partito della nazione", coerente con la strategia di un leader che ambisce a rivolgersi all'elettorato moderato, ex berlusconiano, per portare il Pd oltre la sua storica soglia di consenso. La scelta di ripartire dal Pd, di ricompattare innanzitutto il proprio partito è stata una scelta in parte dettata da realismo, suggerita dalla realtà dei numeri parlamentari, ma in parte anche dalla logica "nessun nemico a sinistra". Una logica vecchia e minoritaria, perdente, alla Bersani (e infatti Mattarella era anche tra i candidati di Bersani nel 2013). Una logica da Pd al 24%, non al 40. Attenzione, non sto dicendo che portando Mattarella al Colle Renzi si sia giocato tutto il consenso al di fuori del vecchio Pd che era riuscito ad aggregare: da qui alle prossime elezioni ci sono ancora molti mesi e molte scelte da compiere. Ma certo questa scelta in particolare, probabilmente per evitare guai peggiori, è stata dettata da una logica di vecchia appartenenza, da 24% e non da 40.

CENTRODESTRA - Per una volta non parliamo del complesso di superiorità, culturale e morale, della sinistra. L'elezione di Mattarella ha messo in chiara luce il patologico complesso di inferiorità del vecchio centrodestra: nessun esponente di FI o di Ncd ha osato criticare nel merito, oltre che nel metodo, la candidatura imposta da Renzi. Il problema è che Renzi non li avrebbe consultati, non avrebbe proposto una rosa di nomi, non che Mattarella rappresenta, come ha ben ricordato Piero Ostellino nell'editoriale di domenica, «quanto di più illiberale abbiano prodotto, da noi, la cultura politica egemone e il sistema politico». Né hanno saputo opporre una loro candidatura, tanto che il preferito di Berlusconi e dei suoi nelle ultime tre elezioni presidenziali è stato Giuliano Amato, un socialista della Prima Repubblica, presidente del Consiglio di centrosinistra nella Seconda, uno che ha messo le mani nelle tasche degli italiani appena ha potuto e accumulato ogni sorta delle prebende che ingrossano la nostra spesa pubblica.

E' il segno di qualcosa di più grave di una subalternità culturale, è una totale assenza di identità culturale. Gli esponenti di ciò che resta del principale partito del vecchio centrodestra letteralmente non sanno chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Uno smarrimento accentuato dal declino di Berlusconi, dal momento che non possono più aggrapparsi, come fino a qualche anno fa, alla sua lucidità (un pallido ricordo) e al suo orgoglio (ormai ferito). Il berlusconismo come surrogato di una cultura politica non basta più. E se per la mancata realizzazione della promessa "rivoluzione liberale" Berlusconi può invocare qualche alibi - dall'aggressione mediatico-giudiziaria all'opposizione di nemici interni ed esterni - il fatto che i vent'anni della sua leadership abbiano lasciato un tale deserto di cultura politica è un fallimento di cui porta per intero la responsabilità.

Friday, January 30, 2015

Da rottamatore a riciclatore

No, la notizia non è la disfatta di Berlusconi. Il patto del Nazareno si è rivelato ben presto una sòla. Non che non ci fossero ottime ragioni per tentare, ma non allo sbaraglio, non con il solo obiettivo dell'aiutino personale, grazia o grazietta. In questi mesi a Renzi è bastato agitare la carota in lontananza per far ingoiare a Berlusconi di tutto, dalla legge elettorale alle riforme. Con danni devastanti inferti alla prospettiva di una ricostruzione del centrodestra. E molto probabilmente Berlusconi ingoierà, in un modo o nell'altro, anche Mattarella al Colle. Certo, con qualche mal di pancia ma senza strappi. Il voltafaccia di Renzi quindi non è una notizia, può sorprendere solo servi, ingenui e opportunisti alla corte dell'ex Cavaliere.

Piuttosto, la novità è che Renzi scegliendo Mattarella regala ossigeno (e forse una insperata sponda sul Colle più alto) alla minoranza Pd e rischia così di consegnarsi alla vecchia sinistra che voleva rottamare. Oggi tutti celebrano il suo capolavoro politico. Ma in cosa consiste davvero questo capolavoro? Nell'aver evitato lo stallo del 2013? Sì, certo. Nell'aver ricompattato il suo partito umiliando Berlusconi (probabilmente senza perdere la sua preziosa sponda sulle riforme)? Anche, forse. Tutto probabile, ma resta una vittoria solo tattica, figlia della sua spregiudicatezza, e nemmeno particolarmente coraggiosa.

In effetti si trovava di fronte a un bivio pieno di incognite e potenziali trappole: rischiare, tentando di mettere al Quirinale un suo uomo, o comunque un elemento di novità, coerentemente con la sua fama di innovatore, con la certezza però di aver bisogno dei voti di Berlusconi e Alfano e di spaccare il suo partito; o invece prendere la strada più sicura per eleggere in tempi rapidi il nuovo presidente, senza nuovi psicodrammi, ricompattando il suo partito (e il vecchio centrosinistra) intorno però ad una figura grigia, appartenente alla generazione e alla classe politica che dichiara di voler rottamare.

Quello di Renzi rischia di essere un capolavoro solo all'interno del "palazzo", tra gli addetti ai lavori e quel milione circa di parassiti che vivono di politica, cariche istituzionali e retroscena sui giornali. La conferma di quanto politica e informazione mainstream siano autoreferenziali. Ma agli occhi dell'opinione pubblica? Gli italiani non sanno nemmeno chi sia Mattarella e quando lo sapranno, si chiederanno come un "rottamatore", un innovatore come Renzi abbia potuto riciclare un polveroso arnese della Prima e della Seconda Repubblica, un residuato della vecchia dc e antiberlusconiano della prima ora, anziché dare anche nella scelta per il Quirinale un segno di cambiamento.

Certo, se l'obiettivo era passare la nottata, forse l'ha superata brillantemente. Ma la sua vittoria di oggi non sembra priva di insidie nemmeno nel gioco interno ai palazzi. Anzi... Renzi gioca pesante e punta al bottino pieno, non al voto. Certo, ha messo nel conto anche elezioni anticipate, ma vorrebbe intestarsi la ripresina che potrebbe appalesarsi nei prossimi mesi grazie al Quantitative Easing deciso da Draghi. Ricompattato il suo partito, rischia però di venirne risucchiato. Si aspetta che Alfano e Berlusconi non rompano, sul governo il primo e sulle riforme il secondo (e probabilmente avrà ragione). Il problema però è che con la sua mossa ha portato i due molto vicini al punto in cui non si ha nulla da perdere e ha reso molto più complicato per Berlusconi gestire i suoi. Il venir meno, o l'indebolirsi della loro collaborazione lo consegnerebbe nelle braccia della vecchia sinistra. Altro che #lavoltabuona... E, d'altra parte, se l'iter delle riforme costituzionali ed economiche venisse bruscamente interrotto dalla prematura fine della legislatura, nemmeno Renzi potrebbe facilmente scrollarsi di dosso l'ennesimo flop davanti all'opinione pubblica. Ne sarebbe almeno corresponsabile.

E il nuovo presidente? Mattarella che diventa presidente grazie a una maggioranza parlamentare uscita da una legge elettorale che da giudice della Consulta lui stesso ha dichiarato illegittima è quel genere di cose che solo in Italia possono accadere. Quante volte Renzi ha parlato con Mattarella? Sicuro di conoscerlo bene? E che non sia in maggiore sintonia con gli esponenti della generazione e della classe politica che non ha ancora finito di rottamare? Come immagine sembra perfetto per non fargli ombra, ma Mattarella è silenzioso, non debole, né sciocco. Tanto meno controllabile. Sarebbe capacissimo di fare a Renzi (e a chiunque altro) ciò che Scalfaro e Napolitano hanno fatto a Berlusconi: ha tutti i rapporti personali, le conoscenze giuridiche e l'esperienza politica che servono per fottere chiunque.

Chi pensa che l'Italicum basti a riportare il capo dello Stato ad un ruolo notarile, rispetto ad un presidente del Consiglio con una forte investitura popolare, ha fatto male i suoi conti. Come dimostrano gli ultimi vent'anni, da Scalfaro a Napolitano, leggi elettorali maggioritarie e bipolarismo non hanno impedito ai presidenti di giocare le loro partite, svolgendo una funzione di contrappeso rispetto ai governi scelti dagli elettori. I poteri del Quirinale, con tutta la loro discrezionalità e carica presidenzialista, sono ancora tutti lì. E un'altra cosa che la storia della Prima e della Seconda Repubblica insegna è che per un leader riformista non c'è peggior nemico di un dc di sinistra...

Thursday, January 22, 2015

Ecco cosa non vi è andato giù di American Sniper

Il modo in cui divide American Sniper è il segno del suo successo. Ancora una volta mission accomplished, Clint. Non sarà un film perfetto, un capolavoro dal punto di vista cinematografico, estetico, ma è un film riuscito. Non lascia indifferenti. Le reazioni prevalenti al film si dividono infatti tra quelle di chi lo liquida come una rozza propaganda militarista, e quelle di chi invece ha vissuto quelle due ore al cinema con estremo coinvolgimento, riconoscendo il dramma umano ma anche i valori in gioco. E, soprattutto, rispettando Chris Kyle e ciò che la sua storia rappresenta.

Un esempio perfetto per capire cosa intendo è il commento di Francesco Costa pubblicato proprio ieri sul Post. Sarebbe troppo rozzo per un raffinato intellettuale come Costa cadere nella trappola di accusare il film di «propaganda militarista». Quindi fa passare i motivi della sua contrarietà per pseudo-critiche cinematografiche: «Prendere la storia di Chris Kyle e raccontarla così è un torto alle storie in generale». Perché? Perché a suo avviso il film manca di complessità e sfumature.

Quella di Kyle è senza dubbio «la storia di un uomo con qualità militari formidabili e un carisma fuori dal comune», ma i tre anni passati in guerra a fare «cose dell'altro mondo» non l'hanno affatto distrutto. L'hanno messo a dura prova, l'hanno segnato, l'hanno messo in crisi e cambiato. Ma no, non distrutto, nemmeno nel senso che l'hanno portato ad essere ucciso.

Su una cosa Costa ha ragione: Kyle «non è un eroe-senza-macchia ma un essere umano». Ed è proprio questo che si vede nel film, anche grazie alla sorprendente interpretazione di Bradley Cooper. Ha drammaticamente torto, invece, quando sostiene che la sua è una di «quelle storie in cui non si capisce fino in fondo chi sono i buoni e chi sono i cattivi». E' esattamente il contrario: il film è riuscito proprio perché rispetta una storia in cui in fondo, nonostante tutto, si capisce in modo cristallino chi sono i buoni e chi i cattivi. Ed è questo che forse vi dà fastidio. E' pateticamente falso che il film manchi di complessità e sfumature: ci sono i traumi, i dubbi, anche la pura fifa di non poter rivedere la propria famiglia (altro che supereroe...). E c'è la drammaticità delle scelte, i «dilemmi morali». Solo che poi una scelta c'è, è quella giusta e Kyle non la rinnega. Nemmeno una volta tornato a casa con tutti i problemi del reduce. Che alla fine una scelta ci sia, e non venga rimessa in discussione, che si distinguano i buoni dai cattivi, non significa fare un torto alla complessità del reale.

Ovvio che il rientro è stato tremendamente difficile per Kyle e che le situazioni estreme in cui si è trovato l'hanno segnato. Nel film si vede e si capisce. Allora è una questione di quantità di pellicola: troppo ridotta la parte del film dedicata al rientro, ai problemi psicologici? Ma probabilmente Clint Eastwood ha voluto evitare che il racconto del ritorno a casa facesse cadere il film nel solito topos cinematografico, che piace tanto alla sinistra, del reduce che esce di testa, ce l'ha col suo Paese e diventa pacifista... Guardo in faccia la guerra > mamma mia che brutta > mai più guerre, sembra per alcuni l'unico schema accettabile. Volevate vedere sullo schermo ogni particolare delle sofferenze del rientro per potervi auto convincere che qualsiasi guerra non ne vale la pena? Se la vostra riflessione è stata "povero ragazzo, si è rovinato la vita a forza di maneggiare armi", è ovvio che avreste voluto vedere un altro film, un'altra storia.

Ma avevamo bisogno dell'ennesimo film sui drammi del reduce? Era questa l'essenza, la specificità della storia di Chris Kyle? Ovvio che la vita di Kyle è stata "anche" questo, ma in questo identica ai problemi di rientro che si trova ad affrontare qualunque reduce. Forse la sua eccezionalità sta invece in quello che è riuscito a fare laggiù, nelle sue «qualità militari formidabili» e nel «carisma fuori dal comune», nel sacrificio e nella sua idea di "missione" (proteggere), poi proseguita a casa. Forse a dare fastidio è che alla fine manca una condanna morale, anche implicita, della guerra in Iraq al pari di quella del Vietnam, e quindi che il film non sia un nuovo "Nato il 4 luglio".

Rispetto per tutti i reduci, qualsiasi siano le loro storie, le loro convinzioni al rientro. Ma quella di Chris Kyle è, appunto, un'altra storia, «un'altra America». Almeno questa lasciatecela, e voi tenetevi Obama...

Wednesday, January 21, 2015

Il referendum è morto, e anche democrazia e diritto non si sentono tanto bene

Non ho firmato il referendum leghista, e se fosse stato ammesso non mi sarei recato alle urne per far mancare il quorum. Non solo sono favorevole tuttora alla riforma Fornero (quella delle pensioni, l'unica cosa buona fatta dal Governo Monti), ma l'avrei voluta più radicale e l'hanno già sufficientemente smontata grazie al varco aperto dai cosiddetti "esodati". Detto questo, per capire che fine abbia fatto il referendum in questo Paese, ma soprattutto come si muove la Corte costituzionale (con quali margini di discrezionalità interpretativa della Carta), trovo interessante questo breve scambio di vedute avuto su twitter con uno dei più autorevoli costituzionalisti: Stefano Ceccanti. Lo spunto è un tweet di Alessandro Barbera (La Stampa), in cui per liquidare la scomposta reazione di Salvini (il "vaffa" alla Corte) con grande sicumera si limita a riportate l'articolo 75 della Costituzione (quello che disciplina l'istituto referendario): «Non sono ammessi referendum in materia tributaria e di bilancio».

Sobbalzo: la riforma Fornero era una legge tributaria? Non mi risulta. Di Bilancio? Nemmeno, penso io. Si tratta dell'articolo 24 (Disposizioni in materia di trattamenti pensionistici) del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel testo risultante per effetto di modificazioni e integrazioni successive. Una normale legge di conversione di un decreto, dunque.

Ceccanti mi risponde di leggermi la sentenza 2/1994 della Consulta, al punto 7 (anche allora si trattava, guarda caso, di pensioni: Governo Amato). La sostanza è molto chiara: anche se non sono propriamente leggi di bilancio, quando le disposizioni legislative oggetto del quesito referendario hanno uno «stretto collegamento» con le leggi di bilancio il referendum non è ammissibile. Ma cosa si intende per «stretto collegamento»? Quando, per esempio (siamo ancora sulla sentenza del '94), le norme oggetto di referendum sono «preannunciate» nel documento di programmazione economico-finanziaria; oppure quando una legge finanziaria le «comprende espressamente tra i provvedimenti collegati... considerandone gli effetti ai fini dell'equilibrio finanziario e di bilancio». Dunque, «gli effetti dell'atto legislativo oggetto delle richieste referendarie risultano strettamente collegati nel tempo all'ambito di operatività delle leggi di bilancio».

Insomma, per farla breve, una legge che determina le riduzioni di spesa (e gli aumenti??) previste nelle leggi di bilancio non si tocca. Il che chiaramente vale anche per la riforma Fornero relativamente alla finanziaria di Monti per il 2012.

Tutto sembra molto ragionevole, ma la domanda è: cosa dice la Costituzione? La Costituzione parla di "leggi di bilancio". Punto. Il criterio di «stretta connessione» viene introdotto per sua stessa ammissione dalla Corte con una interpretazione estensiva. Ma quali sono le conseguenze dell'interpretazione della Corte? Dal momento che ormai il 90% delle leggi ha uno «stretto collegamento» con le leggi di bilancio - nel senso che determinano più spesa e prevedono coperture, oppure maggiori entrate o meno spesa, e allora abrogarle richiede che si trovino coperture - si deve dedurre che nessuna di esse possa essere sottoposta a referendum. Sarebbe un'interpretazione molto restrittiva della possibilità di ricorrere allo strumento referendario, ma almeno una certezza. E invece no.

Ceccanti: «Il concetto è aperto, non può arrivare a ricomprenderle tutte, ma neanche a fermarsi alle sole qualificate in quel modo». [cioè alle "leggi di bilancio" in senso stretto]

Ma allora, è evidente che siamo nel campo dell'arbitrio più totale. Una conferma in fatto di Consulta... Anche il criterio è flessibile: decidono loro quando lo «stretto collegamento» con le leggi di bilancio delle norme oggetto di referendum è tale da non rendere ammissibile il quesito e quando non lo è e si può procedere. Non c'è nemmeno, per dire, una soglia riguardo lo "scoperto" accettabile: 100 milioni di euro, 1 miliardo, 10 miliardi...

Ceccanti: «Non direi arbitrio, la Corte decide sull'ammissibilità e ha dei margini, qui mi sembra ragionevoli».

Ceccanti: «Il senso del divieto di referendum sulle leggi di bilancio è di evitare scelte demagogiche, qui [il referendum proposto dalla Lega] siamo in caso analogo». [analogo a quello giudicato nella sentenza 2/1994]

Ceccanti: «D'altronde, se il Parlamento per quelle leggi deve trovare coperture, sarebbe strano esonerare il corpo elettorale».

Non so a voi, ma a me sembra lampante che quali referendum siano demagogici e quali no sia valutazione squisitamente politica e non giuridica... Tra una legge che stabilizza i precari nella pubblica amministrazione, o nella scuola, anch'essa in «stretto collegamento» con le leggi di bilancio, e un referendum che chiedesse di abrogarla, dove starebbe la demagogia? Non è che la demagogia dipende dai proponenti? E i referendum sull'acqua pubblica? Non era "demagogico" anche quello? Sicuri che quelle norme non fossero collegate a una legge di bilancio? Vi dirò di più: le norme che il primo quesito chiedeva di abrogare erano contenute nella manovra triennale d'estate (decreto legge 25 giugno 2008 recante Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), manovra come tale richiamata nella legge finanziaria 2009.

E' encomiabile da parte della Corte costituzionale tutta questa attenzione alla tenuta dei conti pubblici, ben al di là delle preoccupazioni dei costituenti, ma il combinato disposto che si viene a creare è piuttosto bizzarro: il Parlamento è tenuto a trovare le coperture per le sue leggi. Giusto. Anche il corpo elettorale, se le sue richieste determinano un buco di bilancio: giusto, forse (peccato che non abbia gli strumenti, perché il referendum è solo abrogativo e non propositivo). Sta a vedere, però, che l'unica che non è tenuta a preoccuparsi degli effetti finanziari delle sue decisioni è proprio la Corte costituzionale. Che infatti negli stessi anni della scrupolosa sentenza 2/1994, con le sentenze 495/1993 e 240/1994, sempre in materia pensionistica, apriva un buco di 30 mila miliardi delle vecchie lire. E che dire della prontezza, direi quasi "destrezza", con la quale in tempi più recenti i giudici della Consulta hanno dichiarato l'illegittimità costituzionale del "contributo di solidarietà" sulle pensioni d'oro (cioè le loro)?

La realtà è che a prescindere dal merito la Corte costituzionale si muove sempre più nell'arbitrio più totale, si conferma degna interprete di un diritto in cui non v'è più certezza, rappresentativa struttura apicale di un ordinamento in cui davvero sono saltate tutte le regole e qualsiasi pudore istituzionale. Tutto è permesso ai signori giudici, tanto il conto arriva a noi.

Friday, January 09, 2015

Processo all’islam e al multiculturalismo

Dopo fiumi, inondazioni di inchiostro e di retorica a buon a mercato, resterà stavolta una vera consapevolezza della minaccia islamica? Ricordate la brutale uccisione del regista Theo Van Gogh? Era il 2004, 10 (dieci!) anni fa. E l'ondata di violenza scatenata, nel 2005, dalle vignette su Maometto pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten? E quanti attentati e sgozzamenti da allora? Il rischio è che riempirsi la bocca, e riempire piazze - reali e virtuali - di "je suis", "siamo tutti" e slogan simili, serva solo a sollevare la propria coscienza, e agli ipocriti per mascherarsi, ma vera consapevolezza zero. E la strage di Boko Haram in Nigeria? "Siamo tutti nigeriani", naturalmente... Arriveremo al punto in cui non ci basterà uno slogan al giorno.

Ma passate poche ore dal massacro di Charlie Hebdo, e mentre a Parigi l'incubo continua, già è partita la corsa ai distinguo, sono partiti gli appelli alla tolleranza e al dialogo con l'islam "moderato" (quasi un ossimoro, o una figura mitologica), i richiami alla "liberté" che vince sull'odio e alle risate che "seppelliranno" i terroristi (sigh). E' già ripartita la giostra del politicamente corretto e del buonismo, e si vedono persino forme di autocensura. Né mancano complottismi vari (ma qui entriamo nel campo della psichiatria). Libertà, democrazia, diritto rischiano di diventare parole vuote se ad esse non corrispondono fatti, politiche, misure concrete per difenderle, per contrastare un'ideologia ben precisa e le sue braccia armate...
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