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Monday, October 31, 2005

Emma Bonino: "Siamo forza e persone di governo"

L'intervento di Emma Bonino in mattinata, accolto da un'autentica ovazione. "Noi siamo una forza e persone di governo". "Vogliamo un paese all'altezza dei tempi". "Vivano le speranze, vivano i valori, Viva la rosa nel pugno". >> Leggi tutto

Un discorso da ministro degli Esteri, con la chiarezza morale di uno Sharansky. Ha affermato a chiare lettere che "l'aspirazione alla libertà è la più grande arma di attrazione di massa"; che comunque la si sia pensata sulla guerra, "oggi il ritiro dall'Iraq significa consegnare gli iracheni alla guerra civile e ai tagliatori di teste", così come ritirarsi a suo tempo dal Vietnam e dalla Cambogia, ha significato consegnare quei paesi a un regime comunista. La Bonino ha espresso il suo fastidio per le polemiche sull'esportazione della democrazia, considerando l'esperienza dell'Europa nell'esportare tirannia (si pensi a Saddam Hussein, ma anche a Slobodan Milosevic) e sottolineando che spesso la democrazia è stata sacrificata alla stabilità, in qualche caso soltanto "un rigor mortis". Oggi invece promuovere la democrazia e lo stato di diritto non è solo un imperativo morale, ma "ci conviene", è una questione di "interesse".

Sunday, October 30, 2005

Il nostro Enrico

Il segretario dello Sdi ha appena finito il suo intervento al congresso dei Radicali italiani "L'Unione apra senza remore né riserve alla partecipazione dei radicali. Sono un'importante risorsa per il centrosinistra. Qualsiasi pregiudizio rivolto contro i radicali è rivolto anche contro i socialisti. Ai radicali vengano spalancate tutte le porte delle commissioni per il programma dell'Unione".

"Non siamo contro il mondo cattolico, ma contro le tentazioni delle gerarchie ecclesiastiche di esercitare sul'Italia una sorveglianza speciale che non c'è in nessun altro paese al mondo".

Boselli tiene a precisare la sua idea sul ruolo della Chiesa nella società e il perché della necessità di superare il concordato. "Non contestiamo che essa voglia far politica, dire la sua, orientare l'opinione, e persino indicare il comportamento di voto, non chiediamo di limitare la libertà d'azione della Chiesa (pur potendo in base al Concordato), non corrisponderebbe a nostro spirito liberale. Ma questa libertà d'azione pone essa stessa il superamento del Concordato". Saranno gli interventi della Cei a riaprire la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa che altri vogliono chiudere.

La laicità è condizione essenziale per modernizzare la società italiana. Scuola pubblica, Pacs, politiche antiproibizioniste. Lotta contro i monopoli pubblici e privati, e le chiusure corporative degli ordini. "La battaglia socialista si sposa bene con quella liberale".

Sul fronte internazionale, Boselli invita a "non lasciare da sola la fragile democrazia irachena. Vorremmo che le forze multinazionali esercitassero il loro ruolo con l'avallo di un grande organismo internazionale", aggiunge, scordando però le numerose risoluzioni dell'Onu a legittimare e addirittura incoraggiare la presenza dele attuali forza militari.

"Non bisogna lasciare la bandiera della democrazia e della libertà nel mondo ai neoconservatori. Occorre far avanzare le opposizioni democratiche, che ci sono, nelle dittature". Boselli quindi rilancia "Emma Bonino candidato ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra".

Il segretario dello Sdi ha annunciato infine, tra gli calorosi applausi della platea e dei leader radicali, che proporrà al sul consiglio nazionale di adottare per il nuovo soggetto il simbolo della "rosa nel pugno".

Saturday, October 29, 2005

Blogging Congress

UPDATE 21,40 - Dunque, Craxi ha portato il suo saluto al congresso di Radicali italiani esprimendo la volontà che il Nuovo Psi faccia parte a pieno titolo, come le altre organizzazioni, del nuovo soggetto politico della "Rosa nel pugno".

Come previsto, ha voluto anche rispondere alle parole di Capezzone sul tema dell'unità socialista: "Non temiate l'unità socialista, non destruttura il progetto, ma risolve una piccola grande questione politica"

Infine, rispetto alla necessità di superare il concordato, espressa sia da Boselli sia da Capezzone, Craxi è stato ben più cauto. Si dice consapevole che "attraverso il concordato si è voluta tendere una mano verso la Chiesa e che però la Chiesa si è presa tutto il braccio", ma, ha aggiunto, la questione dei rapporti fra Stato e Chiesa "va risolta in chiave politica".

Disponibili le prime foto dal Congresso di Radicali Italiani.

E anche la prima "polemica".
Bobo Craxi ha chiesto di portare il suo saluto al congresso stasera, per rispondere, presumiamo, a un passaggio della relazione introduttiva di Capezzone in cui il segretario ha invitato i socialisti, con riferimento al tumultuoso congresso del Nuovo Psi, a uscire dal tunnel delle diatribe con De Michelis sulla segreteria, della diaspora e dell'unità socialista, per evitare di "necrotizzare" la novità politica rappresentata dal soggetto politico radical-socialista.

Dopo questo passaggio, Craxi si era allontanato dal suo posto in prima fila. Poco dopo, all'esterno della sala, Pannella chiariva con la delegazione del Nuovo Psi, tra cui lo stesso Craxi e Zavattieri.

La relazione di Capezzone è stata splendida, soprattutto la seconda parte. Nota bene: la parola "Zapatero" non ha trovato posto nel lungo intervento (quasi due ore)

Friday, October 28, 2005

I Radicali a Riccione? Ultima spiagga a sinistra...

Emma Bonino scrive a Repubblica (una prosa pannelliana, versione sobria) rimproverando a molti la volontà di «imporre» a Sdi e Radicali un «caricaturale ruolo nella soap-opera» italiana. Invece, ribadisce, non è un'operazione nostalgia, rivolta al passato, ma un fatto politico nuovo, un soggetto «riformatore e alternativo». Senza dubbio è così e viene poco compreso. Ma forse anche il nuovo soggetto ha bisogno di un cambio di passo. Non basta ripetere pur nobili categorie politiche e mettere in fila uno dopo l'altro nomi di illustri politici e statisti. Per non cadere nel politichese, bisogna parlare di politiche; di proposte per il governo del paese, rilanciando l'agenda delle riforme soprattutto sui temi economici e sociali. Altrimenti, il rischio è di fare la parte di chi ripetendo le stesse cose mostra innanzitutto di ripeterle a se stesso per convincersene. Il Congresso di Radicali Italiani che si apre domani offrirà senz'altro l'occasione giusta.

Su questo blog troverete notizie, documenti, immagini e curiosità dal IV Congresso di Radicali Italiani, che si svolge a Riccione dal 29 all'1 novembre 2005.

La redazione di RadioRadicale.it si trasferisce a Riccione per seguire l'evento e tenterà di tenervi aggiornati, ma non siate troppo severi.

La sinistra perde tempo con ciò che è stato «spazzato via dalla realtà»/2

Nel dibattito sul partito democratico seguirei il consiglio di Panebianco: non bisogna partire dalle tradizioni ma dai problemi e dalle loro soluzioni. Solo su una proposta di forte discontinutà che risponda alle nuove sfide si può fondare un nuovo partito. Ciascuno invece tende ad accreditare se stesso attraverso la propria tradizione gloriosa, le storie personali e le astrattezze del passato. Io direi: l'analisi della situazione economica e sociale italiana e delle sfide a livello europeo e internazionale è la stessa? Pensiamo alle stesse riforme e soluzioni? Su queste concrete domande dovrebbe svolgersi il dibattito sulla nascita del partito democratico.

«E' inutile continuare a discutere di qualcosa che nel frattempo è stato spazzato via dalla realtà», ha scritto Kupchan. Anche Giddens e Nye hanno suggerito di superare le tradizione socialista e socialdemocratica; conquistare il "centro" politico significa attrarre le classi medie, il mercato elettorale costituito dai settori meno ideologici, più pragmatici e dinamici della società, e non cosituire una palude statalista e clientelare. Il partito democratico non potrà essere un ritrovo di post-qualcosa (democristiani, socialisti o comunisti). Per tutti i paesi europei la caduta del muro di Berlino nell'89, la fine del comunismo e l'esaurirsi della funzione storica della socialdemocrazia, che per oltre un secolo ha occupato lo spazio politico della sinistra nei parlamenti democratici, rendono possibile il proficuo innesto del liberalismo nel suo alveo naturale: a sinistra rispetto a un polo conservatore. Un innesto che finora ha vissuto con successo solo la sinistra britannica, con cospicui vantaggi per tutto il suo sistema politico.

Thursday, October 27, 2005

I fascisti rossi cacciano Radicali e Sdi dalla Sapienza

Alcuni gruppi di studenti di sinistra, che occupano da giorni alcune facoltà della Sapienza contro la riforma Moratti della docenza universitaria, hanno impedito nel pomeriggio lo svolgersi nell'ateneo romano di un convegno intitolato "Libera chiesa in libero Stato" a cui avrebbero dovuto partecipare il segretario dei Radicali Italiani Daniele Capezzone e il deputato dello Sdi Roberto Villetti. A quanto riporta l'AdnKronos, i manifestanti - con striscioni che accusavano lo Sdi e Capezzone di appoggiare la guerra in Iraq - hanno prima impedito fisicamente l'ingresso nell'aula 1 di Geologia, dove il convegno era previsto alle 16.30, quindi bloccato l'accesso alla Facoltà di Scienze statistiche dove la manifestazione era stata spostata. Ci sono stati attimi di tensione con il lancio di un fumogeno, da parte dei manifestanti, che ha colpito un militante dello Sdi a una spalla. Il convegno, alla fine, è saltato. Leggi

Fonte: RadioRadicale.it

Oltre alla violenza del fatto in sé, c'è la violenza dell'occupazione, di un'istituzione pubblica da giorni letteralmente sequestrata da privati nell'indifferenza generale. Voglio un Cofferati che ripristini la legalità. E', questa sì, una battaglia culturale. La legalità in questo paese è vissuta come fascista, mentre i fascisti hanno mano libera. La legalità non è solo un fatto di plenum della Camera o della Corte costituzionale.

Intanto, Prodi ha ricevuto Bobo Craxi a meno di una settimana dalla scissione dal Nuovo Psi, e non ancora né Pannella né la Bonino.

Qualcuno mi spieghi dove stanno andando, con chi... e per quanti fiorini e fioretti.

Assad e Ahmadinejad, tocca a voi

Diciamoci le cose come stanno. Una qualsiasi risoluzione seria del Consiglio di Sicurezza dell'Onu sulla Siria verrebbe stoppata da Mosca e Pechino. Dopo ben due rapporti ufficiali dell'Onu che in modo dettagliato puntano seriamente l'indice sulla Siria descrivendo un regime tecnicamente criminale, l'iniziativa diplomatica dovrebbe essere presa in mano dai paesi democratici, almeno con quelli che ci stanno (visto che la Francia ha sempre qualche mal di pancia e bastone fra le ruote pronto), rivendicando la necessità di un'azione volta al rispetto dei diritti e della democrazia nel mondo arabo.

Non commettere l'errore fatto con Saddam. Cioè di perdersi nelle tecnicalità astruse delle violazioni giuridiche. Ma puntare all'isolamento del regime di Assad sul piano morale e politico innanzitutto di fronte alle opinioni pubbliche arabe, poi a quelle europee, rendendo così più costoso in termini di popolarità agli altri membri del Consiglio di Sicurezza e ai governi arabi rifiutare un approccio serio nei confronti della dittatura siriana.

Negli stessi termini andrebbe affrontato il ben più corposo dossier iraniano. Non c'è da illudersi sulle minacce di ieri contro Israele. Non parliamo per favore di inesperienza del nuovo presidente. Gli iraniani queste cose le hanno sempre dette, ma di questi tempi, ed è uno degli effetti positivi della nuova politica estera Usa, siamo noi a essere più sensibili. Nell'uno e nell'altro caso Stati Uniti ed Europa dovrebbero insieme abbracciare pubblicamente l'obiettivo del regime change e perseguirlo in concreto con la denuncia dei regimi, la loro destabilizzazione agendo sulle opinioni pubbliche, e offrendo supporto alle opposizioni democratiche.

Le reazioni degli Stati Uniti, e in questo caso dell'Unione europea, con le dichiarazioni della presidenza Blair («Se Teheran prosegue così, la gente finirà per chiedere quando ci decidiamo a fare qualcosa»), di Chirac, di Fini («sconvolto e indignato») e Berlusconi per l'Italia, per fortuna vanno in questa direzione. Legittimo che Sharon chieda che l'Iran sia sbattuto fuori dall'Onu.

Rapporto Oil for Food a valanga

Ufficiali le conclusioni del rapporto indipendente della commissione Volcker (qui il testo integrale) voluta da Kofi Annan sulla «madre di tutti gli scandali, la madre di tutte le tangenti». Sul programma Onu Oil for Food con cui Saddam Hussein, corrompendo funzionari e ministri, perseguiva i suoi fini di riarmo. Il coinvolgimento di Roberto Formigoni:

«Documenti ufficiali iracheni e del ministero del petrolio indicano che il governo iracheno ha accordato oltre 27 milioni di barili di petrolio in undici fasi nel nome di Roberto Formigoni, presidente della Lombardia... oltre 24,1 milioni sono stati utilizzati. Queste quote di petrolio tuttavia non furono trattate da Formigoni, ma da Marco Mazzarino De Petro, amico di Formigoni da trent'anni, che a quei tempi stava lavorando come consulente pagato nell'ufficio del presidente della Regione», si afferma nel rapporto. L'esame delle informazioni ottenute dal comitato «non rivela che Formigoni ricevette profitti dalla vendita di questo petrolio». «Attraverso un accordo con una compagnia locale Costieri genovesi petroliferi (Cogep), De Petro ricavò almeno 800 mila dollari di profitti dalla vendita di questo petrolio attraverso una serie di conti a nome Candonly Ldt., il nome dato a tre compagnie di facciata che lui controllava... De Petro ha detto di aver contattato l'ufficio di Tareq Aziz per fare altri acquisti di petrolio nell'ambito del programma. De Petro ricordò che Formigoni menzionò la Cogep a funzionari iracheni durante la loro visita ufficiale in Italia nel 1998, ma asserì di non aver dato una lira da questa attività a Formigoni». La commissione però lamenta che «nonostante molti tentativi, il comitato non è stato in grado di ottenere la cooperazione di Formigoni o della Cogep» e che «Formigoni ha negato di aver ricevuto quote di petrolio».

Maometto disse "no" al velo

E' negli islamologi che dobbiamo confidare per un'interpretazione dell'islam che si sposi con la modernità e con ordinamenti democratici. Magdi Allam, sul Corriere della Sera, ci segnala l'opera dell'egiziano Ahmad Chaouki Alfangari:
«Se lo stesso profeta Mohammad ordinò alla donna di non indossare il niqab e i guanti durante i riti del piccolo e grande pellegrinaggio, al fine di eliminare questa consuetudine dalla vita delle musulmane come è possibile che i gruppi oscurantisti e estremisti islamici si siano attribuiti la missione del ripristino del niqab?».
La conclusione che l'islamologo egiziano desume dai suoi studi è perentoria: «Il niqab non viola solo il volto della donna, ma viola la sua umanità, il suo cervello, il suo ruolo sociale come persona». Di fatto in diversi paesi musulmani il velo integrale islamico è fuorilegge. In Egitto la Corte Costituzionale ha deliberato che «il niqab non è richiesto dalla sharia (legge islamica) e l'islam non lo impone».
«Eppure - fa notare Magdi Allam - nell'Europa del buonismo e del relativismo culturale i politici e gli intellettuali hanno paura a deliberare che il velo integrale è fuorilegge... Perché non assumere come interlocutori i teologi e gli islamologi illuminati, nonché i paesi musulmani laici? Perché ci ostiniamo a restare in balia dei predicatori d'odio, misogini e ostili alla civiltà occidentale?»

La pace democratica. Per molti lo schiaffo della realtà

Anche per qualcuno che non c'aspettavamo ne avesse bisogno

«Call it the "Baghdad Spring"», scriveva all'indomani del primo voto libero in Iraq, nel gennaio scorso, l'editorialista del New York Times Thomas Friedman. Mai espressione potrebbe essere più felice ora che i risultati definitivi diffusi dalla commissione elettorale confermano che gli iracheni hanno approvato la Costituzione. E' il caso di annotarli i traguardi fin qui raggiunti da un processo democratico di cui commentatori e politici, scettici o in malafede, annunciavano la morte a ogni passaggio, per essere poi puntualmente zittiti dai fatti. Nel consesso delle Nazioni Unite quel processo ha trovato scadenze da rispettare – e sono state rispettate – e una coalizione militare che ha assicurato la necessaria protezione, nonostante i più ostinati continuassero pretestuosamente a invocare un intervento dell'Onu laddove c'era già stato.

Khaled Fouad Allam ha offerto per la prima volta ai lettori di Repubblica un orizzonte diverso da quello su cui sono stati impigriti. Al centrosinistra, scrive, occorre «un nuovo sguardo» sulla politica nei confronti del mondo arabo, vicino di casa dell'Europa, ma per ironia della sorte l'unico punto finora chiaro del programma di Prodi è il ritiro dall'Iraq.

La guerra ha "esportato" la democrazia, non ha aumentato il terrorismo. Ha reso evidente, in occidente e sempre più nel mondo arabo, che esso è perdente sul piano politico; che il desiderio di libertà e democrazia in ogni essere umano, senza distinzioni di razza, religione, nazionalità, è più forte del fondamentalismo, del trauma dell'invasione e della guerra; che laddove c'è strage di diritti c'è strage anche di corpi; laddove regna la tirannia, c'è sempre una responsabilità dei paesi democratici che non la denunciano, non la destabilizzano, non stanno al fianco dei popoli oppressi per rimuovere gli ostacoli che soffocano l'universale aspirazione alla libertà. Oggi il diritto/dovere di ingerenza si afferma: i diritti dei cittadini al di sopra della sovranità degli stati. Non solo uno scrupolo morale. La sicurezza globale sempre più dipende dall'espansione della democrazia nel mondo. La libertà a casa nostra sempre più dipende dal successo della libertà in casa altrui. Oggi sappiamo che sono i pacifisti a doversi giustificare delle loro posizioni, perché non c'è pace senza democrazia.

Alla luce dello squarcio di sereno (chissà quanto passeggero, ma già è qualcosa) di la Repubblica, delle timide aperture di Fassino all'ultimo Congresso dei Ds, delle riflessioni a bassa voce di D'Alema nel chiuso di una fondazione, e degli smarcamenti decisamente atlantisti di Rutelli dalla posizione pacifista prodinottiana, sembra paradossale che nelle valutazioni sulla politica estera americana si stia facendo scavalcare da costoro uno che potrebbe darne a tutti di lezioni. Scoprite chi è: video.

A preoccuparci non è - figurarsi - l'atteggiamento critico nei confronti dei molti errori dell'amministrazione Bush. Ma il fatto che la sua analisi parta da essi, che non schiodi dalla proposta "Iraq libero" (per quanto fosse auspicabile e concreta ormai superata dagli eventi), ignorando che i venti di cambiamento che stanno scuotendo il Medio Oriente trovano la loro origine nella guerra irachena e nella dottrina Bush. Se persino un Fouad Allam qualsiasi su la Repubblica ha saputo soffermarsi su questo, perché non ripartire da qui? E' come se - dico come se - si trattasse di dimostrare qualcosa e si volesse rincorrere un elettorato che non gli appartiene insistendo su una sorta di "terza via" che terza alla fine non poteva essere. O no?

La guerra in Iraq poteva essere condotta in modo migliore? Quasi certamente "sì". Poteva essere evitata del tutto? Quasi certamente "no". Il momento bellico di tre settimane che ha determinato la caduta del regime di Saddam Hussein poteva essere evitato negoziando l'esilio del dittatore e del suo entourage sotto la minaccia delle armate. Ma l'esilio e un'accorta amministrazione del post-Saddam tale da evitare tutti i possibili errori commessi nel dopoguerra non ci avrebbero comunque messi al riparo da quella guerra terroristica preparata dal dittatore con largo anticipo, studiata e attuata con spietata determinazione da Al Qaeda e da potenze regionali come Iran e Siria pronte a tutto per far fallire il processo democratico. Un fantomatico governo transitorio dell'Onu, del tipo che mantiene il Kosovo ancora oggi nel limbo, avrebbe saputo fare meglio? Non crediamo. Oggi appare evidente a molti analisti che proprio il rapido passaggio dei poteri agli iracheni sia stata una carta vincente e che sia stato un errore persino il ritardo causato dall'interregno di Paul Bremer con i suoi piani «preconfezionati dai centri studi del Dipartimento di Stato».

Più di uno studio autorevole – di recente lo Human Security Report, presentato alle Nazioni Unite - ci dice che grazie all'espansione della democrazia viviamo in mondo con meno guerre. Oggi sappiamo che esiste una "pace democratica", perché i fatti ci dicono che gli stati democratici non si fanno la guerra. Quando combattono lasciano dietro di sé popolazioni liberate. E' la convinzione di fondo della politica mediorientale di Bush: la diffusione della democrazia come unico antidoto di lungo periodo all'inclinazione alla violenza interna ed esterna delle società arabe e di religione musulmana. E' la stessa "pace democratica" in cui hanno creduto Ayn Rand (quarant'anni fa), Ronald Reagan (ventitre anni fa), Rudolph Rummel (dieci anni fa), George W. Bush (quattro anni fa), ottenendo in cambio derisione o disprezzo.

E il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Un falso mito. Meno dittature, meno guerre è un'equazione che regge. Dopo il collasso dell'Unione Sovietica – una vera e propria sconfitta di sistema determinata dalla politica pro-demcoracy di Ronald Reagan e non da una sincera apertura decisa dai vertici del regime – e il crollo a catena di tutte le dittature che l'impero comunista proteggeva, i conflitti sono calati del 40%. L'enorme aumento delle spese militari sotto la presidenza Reagan viene comunemente bollato come bieco militarismo, ma faceva parte di una strategia complessiva, dotata di strumenti politico-diplomatici aggressivi, che ha dato i suoi frutti senza che fosse necessario sparare un colpo.

Forse la facile equazione degli antimilitaristi dogmatici "più guerre => più soldi al complesso militare-industriale => più armi => ancora più guerre => meno diritti e democrazia in casa e all'estero" ha bisogno di essere riveduta e corretta. Forse alla loro analisi mancano alcuni elementi: l'uso della forza militare non risponde alle stesse logiche per tutti gli attori internazionali e in ogni sistema di potere il complesso militare-industriale gioca un ruolo diverso. Quasi mai per le democrazie un aumento delle spese militari si è tradotto in un uso offensivo dello strumento bellico. Quando ciò è avvenuto è stato per fermare un genocidio o liberare popoli dall'oppressione. Quasi sempre le spese militari vengono accompagnate dall'uso del soft power e da strategie politico-diplomatiche che ottengono lo scopo evitando i conflitti armati.

Sulla costituzione irachena vi consiglio anche il mio approfondimento per RadioRadicale.it.

Wednesday, October 26, 2005

Il lungo braccio "istituzionale" dei violenti anti-Moratti

Un momento degli scontri davanti Montecitorio«I servizi pubblici devono essere basati sulla centralità della persona ai cui bisogni si rivolgono, non sulle esigenze di chi vi lavora» (Tony Blair)

Ieri è accaduto qualcosa di assai inquietante. Mettete che vogliate organizzare una manifestazione, un corteo di decine di migliaia di ragazzi contro una legge, un ministro. Mettete che vogliate arrivare fin sotto il palazzo di Montecitorio. Ecco, secondo me dovreste metterci anche qualche buona, ottima conoscenza, perché arrivare lì dove sono arrivati ieri gli studenti e i no global che protestavano contro il controverso Ddl della riforma Moratti sul reclutamento e le carriere dei professori universitari risulta di solito molto difficile anche a un drappello di poche decine di pensionati per un pic nic.

Tra le vostre conoscenze, se pensate di dover arrivare fin lì sotto, ci dev'essere un parlamentare o giù di lì che tenga il telefonino ben in contatto con il questore e che garantisca per voi, per le vostre buone maniere e per la vostra buona causa. Un parlamentare dell'opposizione magari, a cui fa gioco creare il clima del palazzo "sotto assedio" proprio mentre si sta discutendo l'aborrita riforma o sta prendendo la parola la ministra tanto odiata. Che vuoi che sia, un favorino e un questorino di cui ci si ricorderà un giorno, forse non troppo lontano. Ecco, questa è la cosa grave, e non è la prima volta, accaduta ieri davanti alla Camera.

Ma deve fare attenzione la sinistra, glielo ricorda Emanuele Macaluso, che «con l'appoggio ai violenti rischia di perdere consensi». E ci va giù ancor più duro Oscar Giannino su il Riformista, per il quale la sinistra ha toppato su tutti i fronti, nel metodo ma anche nel merito della riforma.
«E' una buona sinistra di governo quella che spinge insegnanti e studenti davanti a Montecitorio a gridare tutti uniti "siete tutti Lapo Elkann", e che dipinge Letizia Moratti come una specie di imperatrice delle tenebre, nemica della cultura e al servizio di loschi interessi privati di classe? La mia risposta è netta ed è no, nel merito e nel metodo. Nel merito, il provvedimento sull'esaurimento a tempo di quell'anomalia tutta italiana che è il venticinquennale ruolo "assistenziale" dei ricercatori, sulla modifica dello stato giuridico di ordinari e associati, e sulla riforma delle procedure per il concorso nazionale per il ruolo docente e l'autonomia universitaria, merita certo osservazioni critiche, ma esse vanno nel senso esattamente opposto a quelle spostate dalla Conferenza nazionale dei rettori e dalle organizzazioni degli studenti». Leggi tutto che ne vale la pena
L'esempio, anche per l'università, non può che essere Tony Blair: «Nessuno potrà porre veti alla nascita di nuovi istituti privati che intendano rilanciare la sfida per la qualità, sulla base del criterio che già esistono istituti pubblici che magari offrono una qualità inferiore», dice. «I servizi pubblici devono essere basati sulla centralità della persona ai cui bisogni si rivolgono, non sulle esigenze di chi vi lavora». Quella di Blair è una massima che da sola racchiude la differenza tra la sinistra moderna, e la vecchia sinistra statalista.
Presto, per favore, direbbe qualcuno.

Fate un giro anche sul mio approfondimento per RadioRadicale.it

E' esportata. Ed è Doc

Potrei, come sempre in questi anni riguardo la politica estera e la guerra in Iraq, limitarmi a segnalarvi l'editoriale su Il Foglio, come sempre preciso, esaustivo e incalzante, ma oggi tutte le luci vanno dirette su la Repubblica, sulle cui pagine un lungo editoriale di Khaled Fouad Allam obbliga per la prima volta i lettori a una visione realistica e onesta di quanto succede in Iraq dopo la guerra: dischiude per loro nuovi orizzonti, «una nuova storia», quella della «lenta decomposizione dell'autoritarismo politico nel Medio Oriente» che ha preso avvio dalla guerra americana.
«Le consultazioni si sono ripetute durante l'anno, con una partecipazione sempre crescente: come se quel popolo avesse deciso di dare una lezione non soltanto al terrorismo, ma al mondo intero e soprattutto a coloro che negli ultimi tre anni non hanno fatto che dubitare sulle questioni del secolo: democrazia e mondo arabo, democrazia e islam, esportazione della democrazia.
...
E' necessario per il centrosinistra italiano un nuovo sguardo sul Medio Oriente e sul mondo arabo: oggi, che lo si voglia o no, quel mondo sta cambiando perché la guerra in Irak inaugura comunque quello che è stato chiamato il "momento americano", e mette in luce l'assenza di un progetto politico europeo sulle grandi questioni che attraversano quelle società».
Poi il riconoscimento: «I radicali, ora prossimi a ricongiungersi al centrosinistra unendosi ai socialisti di Boselli, sono stati i primi in Europa a sollevare il problema della democratizzazione del mondo arabo».

Alla luce dello squarcio di sereno (chissà quanto passeggero, ma già è qualcosa) di la Repubblica, delle timide aperture di Fassino all'ultimo Congresso dei Ds, delle riflessioni a bassa voce di D'Alema nel chiuso di una fondazione, e degli smarcamenti decisamente atlantisti di Rutelli dalla posizione pacifista prodinottiana, sembra paradossale che nelle valutazioni sulla politica estera americana si stia facendo scavalcare da costoro uno che potrebbe darne a tutti di lezioni. Scoprite chi è: video.

A preoccuparci non è - figurarsi - l'atteggiamento critico nei confronti dei molti errori dell'amministrazione Bush. Ma il fatto che la sua analisi parta da essi, che non schiodi dalla proposta "Iraq libero" (per quanto fosse auspicabile e concreta ormai superata dagli eventi), ignorando che i venti di cambiamento che stanno scuotendo il Medio Oriente trovano la loro origine nella guerra irachena e nella dottrina Bush. Se persino un Fouad Allam qualsiasi su la Repubblica ha saputo soffermarsi su questo, perché non ripartire da qui? E' come se - dico come se - si trattasse di dimostrare qualcosa e si volesse rincorrere un elettorato che non gli appartiene insistendo su una sorta di "terza via" che terza alla fine non poteva essere. O no?

Sulla costituzione irachena vi consiglio anche il mio approfondimento per RadioRadicale.it.

Le rivoluzioni cominciano in autobus

E' morta Rosa Parks, la donna di colore che salì sull'autobus di Cleveland Avenue, a Montgomery (Alabama), e rifiutandosi di cedere il suo posto a sedere a un bianco divenne un'eroina della battaglia dei diritti civili in America. Cosa c'entri (in realtà c'entra) con il «buon senso perduto di Bologna» ce lo spiega Gianni Riotta sul Corriere.

Le rivoluzioni per i diritti civili cominciano su un autobus e fanno molta strada. Quelle che gli autobus li bruciano si fermano lì.

Bush di passaggio (uragano forza 3)

Un Bush a tutto campo ad Al Arabiya ha approfittato per destabilizzare ancora un po' il mondo arabo con questa intervista a 360° su tutti capitoli aperti in Medio Oriente. Nulla di nuovo, se non che riguardo la Siria si mostra molto più interessato all'opinione pubblica che non a quella dei governi. Vuole un processo serio e corretto contro i siriani colpevoli dell'assassinio del premier libanese Hariri, lo vuole sotto controllo internazionale e trasmesso da tutte le tv. Vuole che sia innanzitutto l'opinione pubblica araba a isolare la Siria. E' una buona strategia comunicativa.
«There's always a temptation, in the middle of a long struggle, to seek the quiet life, to escape the duties and problems of the world, to hope the enemy grows weary of fanaticism and tired of murder. That would be a pleasant world - but it isn't the world in which we live. The enemy is never tired, never sated, never content with yesterday's brutality. This enemy considers every retreat of the civilized world as an invitation to greater violence. In Iraq, there is no peace without victory - and we will keep our nerve and we will win victory».
Tratto dal discorso di ieri alle mogli degli ufficiali.

La vera lezione del Vietnam

Melvin R. Laird fu segretario alla Difesa Usa dal 1969 al 1973, ai tempi dell'amministrazione Nixon. Fu l'ideatore della cosiddetta strategia della «vietnamizzazione» che, a suo giudizio, stava costringendo i nordvietnamiti alle corde proprio quando l'opinione pubblica americana voltò le spalle alla guerra. Oggi su Foreign Affairs, ripreso dal Corriere della Sera ripropone la sua strategia applicata all'Iraq.

L'interesse dell'articolo sta nel suo voler parlare anche ai «malinformati da oltre trent'anni di faziosità riguardo alla Guerra del Vietnam». Faziosità che hanno reso gli Stati Uniti «riluttanti ad intervenire persino per una giusta causa e insicuri rispetto alla propria capacità di venir fuori da una guerra». A me è sembrato il contributo onesto di un ex ministro, «rimasto in silenzio in questi trent'anni» per non «impicciarsi» degli affari delle nuove amministrazioni, che si è deciso a dire la sua vista la «rinnovata denigrazione del nostro ruolo in Vietnam alla luce della guerra in Iraq».
«Oggi meritiamo una visione della storia che si basi sui fatti piuttosto che sulle storture emozionali o sulla linea politica di uomini stanchi che giocano con le emozioni. La mia non è una visione rosea della Guerra del Vietnam. Non manco di riconoscere che sia stato un capitolo terribile, malgestito e tragico nella storia degli Stati Uniti...»
La sua verità è che gli Stati Uniti non stavano perdendo la guerra quando si ritirarono nel 1973. Anzi, la vittoria era «in pugno», e la sconfitta si materializzò solo quando il Congresso tagliò i fondi alla «vietnamizzazione», destinati cioè all'addestramento dei sudvietnamiti e al rafforzamento della capacità del Vietnam del Sud di difendere se stesso. «La fine dei finanziamenti lo condannò invece all'invasione da parte dei vietcong». Veniamo all'oggi:
«La guerra doveva essere restituita alle persone a cui interessava, e cioè ai vietnamiti. Essi avevano bisogno dei soldi e dell'addestramento, ma non di altro sangue americano. Io chiamai il nostro programma "vietnamizzazione" e, a dispetto di chi sostiene il contrario, continuo a credere che abbia funzionato. Noi abbiamo bisogno di investire le nostre risorse e il sostegno incrollabile dell'opinione pubblica per appoggiare un programma di "irachizzazione", in modo da potere andare via dall'Iraq lasciando gli iracheni in condizione di proteggere se stessi».

Tuesday, October 25, 2005

Al fianco dello sceriffo Cofferati

Sergio Cofferati. Lo sceriffoCaro direttore, s'è fatta attendere, ma alla fine una mezza parola di Prodi per Cofferati è arrivata. Lasciando alla destra la bandiera dell'ordine pubblico e della sicurezza, si smarrisce anche la cultura di governo. Apriamo gli occhi: non è rinviabile la resa dei conti con una sinistra estrema che è alternativa ai riformisti almeno quanto la destra. Irriducibilmente anti-sistema, per i suoi fini (oggi la presunta giustizia sociale, domani chissà) non si fa scrupolo dei mezzi, teorizzando e praticando la violenza e l'intimidazione. Vedrà che l'iniezione del nuovo soggetto liberale socialista laico radicale si mostrerà utile nel «necessario e salutare» scontro tra sinistra liberale e neocomunista. La minoranza a Bologna non approfitti della situazione. Dimostri che una sinistra di governo capace di non subire ricatti e non cedere alle convenienze sul valore bipartisan della legalità trova un'opposizione responsabile. Sceriffo non è una parolaccia. Spesso è la figura nobile del selvaggio west, l'ultimo (e l'unico) baluardo della legge e paladino degli indifesi.

Praticamente perfetto l'editoriale di Polito domani su il Riformista.
«... un baratro si è ormai aperto tra l'antagonismo nostalgicamente marxista e il riformismo di governo, e che tentare di nasconderlo sotto un tappeto è una grave colpa politica, oltre che un errore. Meglio, molto meglio, fare come Cofferati, e non fuggire, non fingere, non edulcorare. Riformisti e antagonisti hanno ormai non solo due obiettivi diversi ma due culture diverse. E l'immagine plastica di questa incomunicabilità è stata la campagna per le primarie, quando insieme ai candidati al governo del paese si è lasciato circolare anche un signore incappucciato col passamontagna.
...
Impegno per la sicurezza e lotta all'illegalità sono anche profondamente giuste, e profondamente iscritte nel dna di ogni lotta di emancipazione che la sinistra storica abbia mai combattuto. Legalità ha voluto dire diritti contro la sopraffazione, diritti contro i privilegi dei pochi, diritti su cui costruire la giustizia sociale. Se gli uomini non sono prima di tutto uguali davanti alla legge, non possono neanche diventare un po' più uguali nel reddito. E nelle nostre città chi soffre dell'illegalità e della sopraffazione non sono i ricchi, che vivono nei quartieri giusti e sanno proteggersi da sé, ma la gente normale... Ordine e legalità sono cose buone e giuste, e sono di sinistra se vengono perseguite nel rispetto dell'uguaglianza degli individui.
...
Stia in campana Prodi, gliel'abbiamo già detto...»

Proposta di moratoria su Celentano

Il sempre compassato Piero Ostellino oggi sul Corriere non ci ha visto più e ha tutta la nostra comprensione:

Sfogo 1: «Presidente Berlusconi, se mette naso e lingua anche nei silenzi di Celentano, non si deve poi lamentare se qualcuno le ricorda il suo conflitto di interessi e trasforma cantanti, comici e giornalisti di parte da lei improvvidamente censurati in martiri della libertà. Lasci perdere».

Sfogo 2: «Caro Prodi, se lei definisce uno «show di libertà» un varietà televisivo, corre il rischio - in un Paese in cui un mendicante non può chiedere l'elemosina se non è iscritto all'Ordine dei mendicanti (è un paradosso, ma lei e i lettori mi intendono) - di mostrare di non sapere che cosa significhi, su ciò che conta davvero nella vita di un Paese e dei suoi abitanti, la parola libertà».

Sfogo 3: «Ma, soprattutto, mettiamo Celentano in moratoria noi dei giornali... Il cazzeggio è, anche se inconsapevolmente, il complice di ogni forza politica che voglia ridurre, in maniera soft, quasi inavvertibile, gli spazi di partecipazione, di democrazia e, quindi, di libertà».

Il liberale-liberista-libertario Tusk non ce l'ha fatta

Ma di poco. Enzo Bettiza in un'interessante analisi della politica polacca. E' stato eletto presidente Lech Kaczynski, di "Legge e Giustizia", la destra cattolica, contadina, conservatrice, euroscettica. Sconfitto di poco Tusk, di "Piattaforma civica", partito liberale, liberista e libertario. L'impressione sgradevole è che la sinistra, non essendo presente un suo candidato, non abbia affatto aiutato Tusk. Anzi, potrebbe avergli preferito il solidarismo della destra. Ce ne dispiace.

Monday, October 24, 2005

Dall'Iran una storia di alta lotta umana

Akbar GanjiIeri sul SF Chronicle, un appassionato articolo di Azar Nafisi, l'autrice di "Reading Lolita in Tehran", sulla splendida figura di dissidente di Akbar Ganji, la cui storia presentammo in questo post a luglio.

Allora si fece sentire solo il presidente Bush, invitando tutti gli attivisti per i diritti umani e la libertà, e le Nazioni Unite, a occuparsi del caso di Ganji e dei diritti umani in Iran. Bush intimò al governo iraniano di rilasciare «immediatamente e senza condizioni» Ganji. E si rivolse direttamente a Mr. Ganji, «sappia che quando lei lotta per la sua libertà, l'America lotta con lei». I due mesi di sciopero della fame di questa estate ci indussero a definirlo il Gandhi iraniano e anche la Nafisi sottolinea il carattere nonviolento della sua resistenza al regime dei mullah.
«Whether in his readings of Hannah Arendt and Karl Popper or in his investigative journalism, Ganji has acted boldly and frankly, without the timidity and ambiguity typical of so many of his comrades in the reform movement. He would not accept pat answers or opportunistic compromises. For him, the struggle against the Islamic regime has become not only a political but also an existential imperative.
...
Ganji has grasped the important point that, in confronting a totalitarian regime, the first rule is to create a model of resistance that is effective precisely because it refuses to play according to the rules chosen by those in power. He creates a different domain, a space within which he will set the rules. His questioning of the Islamic regime is not only political but also cultural and ideological».
Ganji inoltre, richiamandosi a pensatori occidentali come la Arendt, mostra agli iraniani il vero volto del regime, che appartiene alle moderne ideologie totalitarie come il fascismo e il comunismo e non ha nulla a che vedere con l'Islam e la tradizione islamica. Così, oltre il dato religioso, etnico, o nazionale, riconoscendo l'universalità di concetti come la democrazia e i diritti umani, restituisce l'Iran al mondo, alleandosi con i democratici del suo paese senza distinzioni di credo e richiamandosi liberamente agli scritti dei pensatori democratici occidentali. Gli Stati Uniti, osservava lo scorso luglio Michael Ledeen, ancora «non hanno saputo trovare una linea d'azione per sostenere la coraggiosa resistenza del popolo iraniano».

Su Notizie Radicali, Gualtiero Vecellio scrive di "In difesa della democrazia", tracciando quella linea rossa che unisce la vita di Natan Sharansky alle politiche radicali e al cuore della politica estera di George W. Bush. Vi consiglio di leggerlo

Garofani secchi

Anche se renderebbe meglio l'idea limoni spremuti. Qui si "tifava" per De Michelis per un semplice motivo: i radicali e lo Sdi stanno meglio soli che male accompagnati, anche se sui contenuti il vecchio Gianni dà più garanzie di un Intini. Checché se ne dica, il congresso è stato uno squallore.

Non solo per la rissa da cavernicoli (pure comprensibile se limitata ai momenti di maggiore tensione, ma non se prolungata per tutto il congresso: gli sputi poi...). Ma soprattutto per la totale assenza di un pur modesto tentativo di riflessione sulla realtà del paese e le possibili soluzioni. Politichese allo stato puro, politica zero, scissione dell'atomo. E siccome non mi piace perdere tempo con il politichese, non ne aggiungo altro.

Nella speranza che il Congresso di Radicali Italiani ci riservi tutt'altro.

Pudori vetero-comunisti

Dobbiamo interpretare la partecipazione di Fassino a "C'è Posta per Te" di Maria De Filippi come l'avvio di un'"operazione simpatia" della sinistra? Se così fosse, era ora; anche rispetto alle fondate tesi di Ricolfi sull'antipatia della sinistra e il «complesso dei migliori». Nel rispetto delle regole elettorali e senza abusare dell’assenza di contraddittorio e di format giornalistico, non deve scandalizzare la presenza di leader politici in trasmissioni d'intrattenimento. Senza arrivare alla disinvoltura di Berlusconi, sarebbe (soprattutto per la sinistra) un’ottima cura contro una certa rigidità d’immagine. Con larghi sorrisi sconosciuti al grande pubblico e un pizzico d’emozione sulle gote, Fassino – su altri schermi sempre austero – si è ben comportato. Se si fosse liberato di quel pudore, riflesso di un moralismo ex pci, a raccontare della sua famiglia "borghese" e a pronunciare la ben poco "operaia" parola "tata", sarebbe stato perfetto.

Sunday, October 23, 2005

La sinistra perde tempo con ciò che è stato «spazzato via dalla realtà»

«E' inutile continuare a discutere di qualcosa che nel frattempo è stato spazzato via dalla realtà».
E' il consiglio del politologo americano Charles Kupchan alle sinistre europee, e soprattutto a quella italiana, ancora impegnata a districarsi da vecchi schemi e consunte tradizioni alla ricerca di un terreno comune su cui fondare un partito unico dei riformisti.

Per fondare un nuovo partito, una nuova identità comune, ha scritto oggi Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, non bisogna partire dalle «tradizioni ma dai problemi e, [solo] alla luce delle soluzioni individuate, decidere anche cosa farsene delle venerande tradizioni». E' dai problemi, dall'analisi della realtà del paese, che si dovrebbe iniziare a discutere. Ed è sulla «forza della proposta... portatrice di una forte discontinuità rispetto al passato» che si può fondare un nuovo partito. Non l'unità delle forze laiche, ma l'unità laica delle forze, cioè sugli obiettivi, si direbbe in lessico pannelliano. E invece sentiamo ciascuno accreditarsi proclamando etichette etichette etichette. Almeno fossero etichette moderne. No: tradizioni, storie personali e slogan del passato.
Siete o no d'accordo con una certa analisi della situazione economica e sociale italiana e delle sfide a livello internazionale? Siete o no d'accordo sulla necessità di certe riforme e soluzioni a quelle sfide? Su queste concrete domande dovrebbe fondarsi il dibattito sulla nascita del Partito Democratico.
«Aggredire il male italiano significa... fare i conti fino in fondo con la questione del mercato. Favorire il mercato, riformare il welfare, ridurre forza e peso delle corporazioni: questo richiederebbe combattere la sclerosi del sistema. Un nuovo partito del centrosinistra, comunque lo si chiami, dovrebbe dunque ingaggiare un bel po' di conflitti con tanti interessi costituiti (anche sindacali)».
«Spazzati via dalla realtà» sono il socialismo e la socialdemocrazia. Come Kupchan, anche Panebianco:
«La gloriosa tradizione socialista (in senso lato) ha ben poco ormai da offrire ai grandi Paesi europei Non ha nulla da offrire in Italia dove ha sempre fatto tutt'uno con l'ideologia antimercato, statalista e assistenziale... Il partito democratico nascerà se avrà una proposta (e una leadership all'altezza) così forte da favorire "conversioni" e l'abbandono da parte di tanti delle antiche strade. Il processo è tutt'altro che indolore ma non si conoscono altri modi per creare nuove identità».
Kupchan giustamente consiglia «pragmatismo»: la conquista del centro politico inteso come mercato elettorale incline a ragionare in termini pragmatici; né ideologici, né palude. E' comprensibile la sofferenza di molti. Costretti dalla storia a dirsi socialdemocratici quando erano comunisti e la socialdemocrazia già non rispondeva più alle sfide della modernità, ora sono costretti a non dirsi neanche più socialdemocratici poco dopo esserlo a stento diventati. Il tutto in "soli" 15 anni.
«Dal mio punto di vista un socialdemocratico è uno che continua ad abbracciare l'agenda tradizionale del centrosinistra in un mondo che è cambiato... in contrapposizione ad un socialdemocratico europeo "classico", non posso non notare che un democratico [americano] è uno che valuta la realtà in modo molto piu pragmatico e che crede davvero nel mercato...»
Kennediani o socialisti? Un falso bivio, continua Kupchan, visto che il socialdemocratico rimane «uno che detesta, anche se non lo dice esplicitamente, la globalizzazione e vuole conservare il welfare attuale, senza vere riforme; che si dice favorevole al mercato, ma fa fatica a distinguere tra interventismo di Stato e un sistema di regole efficaci e non invadenti per farlo funzionare. E' anche uno che, in politica estera, normalmente fa scelte filo-occidentali, ma poi non riesce ad abituarsi all'idea che, con la minaccia incombente del terrorismo, purtroppo l'uso della forza non può più essere considerato solo un'eventualità remota, da valutare solo in casi estremi e dopo lunga riflessione».

Un Partito Democratico non può nascere e prendere forma dai retaggi post-democristiani e post-comunisti. Per tutti i paesi europei la caduta del muro di Berlino nell'89 e l'esaurirsi della funzione storica della socialdemocrazia e del comunismo, che per oltre un secolo hanno occupato lo spazio politico della sinistra nei parlamenti democratici, rendono possibile il proficuo innesto del liberalismo nel suo alveo naturale: a sinistra rispetto al conservatorismo. Un innesto che finora ha vissuto con successo solo la sinistra britannica, con cospicui vantaggi però per tutto il sistema politico.

Per Blair scatta l'ora della mission impossible europea

Non è più l'era del Big State, ma è il tempo dello Stato strategico che dà il potere, che abilita, che pone la libertà e la responsabilità di decidere nelle mani della gente e non più del governo.

-Non chiedeteci più cosa possiamo fare per voi. Noi vi abbiamo dato le risorse ed il potere di utilizzarle, adesso tocca a voi dire cosa ne farete-. Tony Blair


Quella di Tony Blair, alla vigilia del vertice europeo di giovedì prossimo a Hampton Court, è la calma dei forti. I forti delle proprie convinzioni. Proporrà un terzo del budget europeo per la ricerca e lo sviluppo e il rilancio della competitività delle università europee, favorendo accordi tra business e atenei. Contro il modello franco-tedesco-italiano spera nel nuovo ruolo che potrebbe giocare la Germania della Merkel.

A presentare informalmente il piano Blair in tutte le capitali europee è il sociologo Antonhy Giddens, ideatore della "terza via". In un suo intervento su la Repubblica ha ricordato i presupposti della ricetta blairiana «per la ripresa economica: riforma radicale del welfare e recupero di competitività attraverso l'investimento sul capitale umano». A partire dalla domanda che Blair pose al Parlamento europeo nel giorno dell'inaugurazione della sua presidenza di turno: che tipo di modello sociale è quello che lascia disoccupati 20 milioni di persone... e 93 milioni di persone "economicamente inattive"? Soltanto il 40 per cento degli uomini e delle donne di età superiore ai 55 anni è "attivo" in Europa, contro il 60 per cento degli Stati Uniti e il 62 per cento del Giappone. A tutto questo contribuiscono al 70 per cento Francia, Germania e Italia.

In un'intervista rilasciata al Corriere, Blair chiarisce che «lo scopo non è quello di proteggere i posti di lavoro, bensì i lavoratori».
«Quando ci fosse dislocazione di persone, la risposta non sta nel dire che la dislocazione non deve avvenire, perché se le aziende hanno bisogno di ristrutturare devono poterlo fare, ma nel dare aiuto ai lavoratori a riqualificarsi, a trovare nuovi lavori».
Tutto dunque dipenderà dalla ricomposizione o meno del contrasto tra Gran Bretagna e Francia sul termine modernizzazione. Spiega Giddens:
«Per il presidente francese, lo stesso termine "modernizzazione" è sospetto, in quanto considerato semplicemente un'altra parola dietro la quale si cela la espansione del dominio del mercato e una insidia alle forme di protezione sociale che sono, prima di ogni altra cosa, il cuore stesso del modello sociale... Quando Blair ha ricordato questi punti al presidente Chirac, nel contesto della discussione sulla Politica Agricola Comune, Chirac ha esclamato adirato: "Lei è molto sgarbato! Nessuno mi aveva parlato in questi termini prima d'ora"».
Patetico Chirac

Andrea Romano, su La Stampa, sintetizza efficacemente la «ricetta politica» utilizzando espressioni dello stesso Blair.
«Non è la riscoperta keynesiana di grandi opere sostenute dal debito pubblico o un controllo dei prezzi da affidare alla banca centrale europea... Al contrario, la strada per la riforma del modello sociale passa attraverso "l'apertura dell'Europa alla competizione internazionale", "l'investimento in politiche educative migliori e più sostanziose", "la flessibilità del mercato del lavoro intesa come chiave del successo economico". E soprattutto per "il superamento della resistenza degli interessi corporativi in Germania, Francia e Italia", dove "né i governi del centrosinistra nè quelli di centro destra sono riusciti a produrre riforme, con il risultato di conservare sistemi di welfare non più sostenibili e associati a tassi alti di disoccupazione e sottoccupazione"».
Questo sarà anche il programma di Prodi? Ne dubitiamo fortemente e ci auguriamo invece che almeno siano le parole d'ordine, le bandiere e le frecce nell'arco del nuovo soggetto tra radicali e socialisti. Per una sinistra alternativa a quella prodinottiana.

Saturday, October 22, 2005

Quasi meglio De Michelis dello Sdi?

Il rischio "foto di famiglia" è molto alto per i radicali che si appropinquano a battezzare il nuovo soggetto con lo Sdi (e anche con Nuovo Psi?) a giudicare da come stanno andando le cose al congresso del Nuovo Psi. Giorni fa Capezzone aveva correttamente avvertito della necessità di «connotarsi molto su alcuni obiettivi di radicalità riformatrice blairiana e dare il senso del soggetto nuovo».

Tutto e il contrario di tutto si potrà dire di De Michelis e del Nuovo Psi. E la mia l'ho detta qui e ancora prima così: «Speriamo che restino con la CdL se no ci aspettano mesi di tira e molla sul patetico reducismo dell'unità socialista, ché poi il socialismo, lo sanno tutti, è muerto». Eppure. Eppure è proprio sui contenuti che un De Michelis dà più garanzie di un Intini:

«Sarebbe bello fare il terzo polo; ma con lo sbarramento all'8% al Senato, non si può. Boselli ci chiede di seguirlo nel centrosinistra. Merita fiducia. So già quel che diranno i miei: che è andato con tutti, con Segni, Dini, Pecoraro, Fassino. Ma Boselli ha dimostrato di voler fare sul serio, dicendo no alla lista dell'Ulivo. Ora tocca a noi. Andiamo verso sinistra, ma a testa alta. Saremo determinanti; di più; saremo i nuovi Bertinotti. Tutto il cancan sui transfughi non ha più senso. I calci in culo di Eco, i calci selettivi di Prodi: tutto finito. Non abbiamo bisogno di mendicare collegi. Dobbiamo prima cercare un massimo comune denominatore con Sdi e radicali: ad esempio, carriere separate per i magistrati; e poi un minimo comune denominatore con Prodi. Senza di noi non potranno governare; e quindi non potranno ritirarsi dall'Iraq, né abolire la legge Biagi e la riforma Moratti. Boselli non sarà d'accordo, ma la Bonino sì: siamo 2 a 1».
Gianni De Michelis ad Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera di ieri, prima sche scoppiasse la bagarre.

Per questo, lunga vita a Saddam

Ho provato a dirlo come ho potuto in questo post. Cose simili le ha scritte ieri su Il Foglio anche il grande Toni Capuozzo:
«Forse per questo piace, perché incarna la strategia del processo politico, dove non contano le accuse, ma la voglia di condannare, e dove non conta la difesa in punta di fatto, ma il rifiuto di sottoporsi al giudizio. Piace, Saddam, per un inversione degli umori, perfino ai giustizialisti d'occidente, a quelli che smaniano per i processi, agli amanti dei verbali e delle intercettazioni, a coloro che affidano ai tribunali il compito di migliorare il mondo, cominciando con lo sconfiggere i propri avversari. Piace — e spiacciono i suoi giudici — a coloro che vedono le vite degli uomini, e i misteri delle loro esistenze passare come cammelli nella cruna della giustizia, come un verdetto totale e definitivo, ultimo come un'ordaIia, e non come modesto tentativo di appurare infrazioni e crimini, di rabberciare appena un po' le ingiustizie e i contenziosi.
(...)
Piace, il Saddam captivus, a chi ama le frasi fatte, quali la "giustizia dei vincitori", come se esistesse da qualche parte una giustizia dei vinti che non sia la memoria, nel migliore dei casi, la vendetta nel peggiore. Piace a chi trova che la riduzione a pochi capi d'imputazione, necessaria a rendere il processo praticabile, non sia il tentativo di artigliare prove e circostanze di fatto, ma la volontà di evitare i grandi temi della complicità occidentale... avete mai visto un cartello pacifista o no global contro Saddam? Piace, il despota a tutti quelli che, coerentemente, se lo son fatti piacere quando era al potere».
«Per questo bisognerebbe condannarlo alla pena di vivere, alla pena di ricordare, e di vantarsi, se non di chiedere perdono, di scrivere libri, e aiutare gli altri a capire che non tutto il male del mondo è figlio del burattinaio Bush, e non tutti i processi degni di questo nome sono quelli delle piazze e delle bandiere bruciate. Lunga vita a Saddam Hussein».

L'onorabilità di Freedom House

Aggiungo qualche considerazione all'esaustivo post di Semplicemente liberale sul rapporto di Freedom House riguardante la libertà di stampa nel mondo. Quello che colloca l'italia al 77mo posto tra Bulgaria e Mongolia e che è stato citato da Celentano nella passerella concessa a Santoro. Ho letto da qualche parte, da esponenti di centrodestra, definire Freedom House dichiaratamente di sinistra. Non mi sento di avvalorare questo giudizio e ritengo Freedom House una delle poche ong autorevoli che si batte con convinzione e successi nella promozione della democrazia nel mondo.

Il problema piuttosto è che l'immagine del nostro paese all'estero si forma spesso sui racconti faziosi di giornalisti schierati che sanno ben sfruttare le loro conoscenze a livello internazionale e che magari qui da noi sono anche ritenuti autorevoli. Insomma, non mi stupirei più di tanto se leggessi nella sezione di rapporti del genere dedicati all'Italia testi che potrebbero essere scritti da una Lilli Gruber qualsiasi. E' certo un problema di Freedom House e delle ong, di come scelgono le loro fonti e del loro controllo, ma è un problema anche del nostro sistema dell'informazione e della nostra politica.

Ma questi socialisti sono bestioline

I socialisti danno un ignobile spettacolo di sé. Il problema non è che un momento particolarmente delicato di un congresso o di un dibattito dia luogo a polemiche ed ecciti gli animi. Ma che ogni intervento venga sottolineato con interruzioni e boati, che in ogni momento piovano insulti e grida, non è degno di un contesto civile e dovrebbe condurre a riflettere.

Ieri era salita la tensione quando è stato annunciato l'ordine del giorno Craxi-Zavattieri che proponeva la fine dell'esperienza con la CdL e il ritiro immediato della delegazione socialista dal governo. I sostenitori delle due mozioni, quella Craxi e quella De Michelis, si sono scontrati anche sulla composizione della "base congressuale", cioè sul numero dei delegati che dovrebbero essere accreditati per le votazioni di domenica dalla Commissione di garanzia tesseramento e congresso. I delegati inviati a Roma dai congressi provinciali e regionali dovrebbero essere in totale 1.156 ma sono circa 1.600 perché sono stati tenuti in alcune regioni o province congressi separati dei sostenitori delle due tesi. Stamani l'atmosfera è stata ulteriormente surriscaldata dalle polemiche seguite alle dichiarazioni rilasciate al Messaggero da Robilotta sul compagno di partito Zavattieri. I due si sono affrontati poco prima che riuscisse a parlare Pannella.

Ma cosa divide davvero De Michelis e Craxi? «Non sfugge a nessuno - ha spiegato De Michelis - che le elezioni politiche le faremo in uno schieramento politico diverso da quello con cui siamo ora. E' chiaro che non staremo più con la CdL. Ma prima voglio vedere come procede il processo unitario con Sdi e Radicali». Ciò che divide De Michelis da Craxi, è la necessità del ritiro immediato dalla CdL. «A un certo momento dovremo vederci e fare un punto insieme per evitare che si vada verso una scissione del partito che nessuno vuole. Questo congresso ha intrapreso una strada che è quella verso l'unità socialista e l'alleanza con i radicali. Questa scelta mi sembra chiara. Ma, secondo noi, questa scelta non può avere un orizzonte vago e indefinito, ma preciso e perché lo sia bisogna uscire subito dal centrodestra», ha sottolineato Bobo Craxi.

Pannella è intervenuto (ascolta) riuscendo, al secondo tentativo, a placare gli animi di un assise molto concitata e catturare l'attenzione dell'uditorio. A De Michelis, che nella sua relazione di ieri esprimeva la disponibilità a «esplorare un percorso liberale, riformista e laico» con i socialisti dello Sdi e i radicali, Pannella ha risposto scherzando: «Non sapevo che fossi diventato una specie di boy scout». Sdi e Radicali, è stato il senso delle parole di Pannella, hanno ritardato i propri lavori in attesa della decisione del Nuovo Psi, che a questo punto però dovrà arrivare nella giornata di domenica: «Il soggetto con lo Sdi è già costituto ora siete voi che dovete fare questo passo».

Il leader radicale chiede che il congresso decida, ma senza lasciare dubbi sulla legittimità della decisione finale. Per non sciupare l'occasione creata da Sdi e Radicali, «dobbiamo lavorare per mantenere questo luogo di confronto. Ora io aspetto persone come Margherita Boniver, magari anche dopo le elezioni». Rivelando di aver sentito telefonicamente Romano Prodi, Pannella ha riferito di avergli detto «che lui è l'alternanza, non l'alternativa. Ma senza alternanza non c'è nemmeno alternativa».

Un'«alternativa di società, se anglosassone o continentale, e la difesa dei credenti contro i mercanti nel tempio e l'immenso potere che hanno coloro che sono simoniaci e hanno trasmesso alla politica il virus simoniaco». Pannella nel suo lungo discorso ha ricordato che quelle sulla mobilità del lavoro, contro gli assetti corporativi del paese, sulla libertà di ricerca sono grandi questioni sociali, di diritto e libertà per tutti. Come lo furono le battaglie sul divorzio e sull'aborto. Lotte «storicamente del socialismo fabiano, cristiano». Il leader radicale ha ribadito i riferimenti a Blair, Zapatero e Loris Fortuna. E sul proporzionale, sul concordato firmato nell'84, sulle droghe leggere, ha individuato «gli errori di Bettino». Oggi «la denuncia del concordato, la riforma religiosa e la riforma politica, il credente e il laico sono sinonimi (...) Noi siamo l'alternativa dei credenti contro i simoniaci, contro un potere gerarchico che ha perso ogni rispetto della religiosità».

Friday, October 21, 2005

Santoro caso clinico

Il caso Santoro sta assumendo una nuova natura: psichiatrica. «Finché non avrò il mio microfono non sarò tornato a essere io», ha detto giovedì sera a Celentano che gli offriva un microfono per parlare. No, Santoro vuole proprio il "suo" microfono, quello del conduttore non quello dell'ospite. Come se il tema della libertà d'espressione e della (auto-)censura politica si riducesse a una trasmissione tutta sua, al suo caso personale. Sa, anch'io avrei una mezza ideuzza di trasmissione in mente, ma mi censurano... Ma mi faccia il piacere!

Su Celentano ha già scritto tutto Malvino.

Thursday, October 20, 2005

Cose sinistre

Buon comunicato congiunto oggi Radicali/Sdi/Coscioni/Giovani Socialisti sull'imminente congresso del Nuovo Psi:
C'è bisogno di una iniezione di spirito laico nella società italiana, di spirito libertario nel costume, di spirito liberale nell'economia».
Speriamo che restino con la CdL se no ci aspettano mesi di tira e molla sul patetico reducismo dell'unità socialista, ché poi il socialismo, lo sanno tutti, è muerto.

Giorgio Tonini accenna a qualcosa di simile:
«In realtà, in Europa, nessun partito socialista di successo è "socialista" come lo intendono molti ds e (specularmente) molti dl. Prendiamo il caso del New Labour: è un partito indiscutibilmente socialista, membro del Pse e dell'Internazionale, ma è anche da sempre un partito "cristiano" (il partito di riferimento dei cattolici inglesi, ebbe a dire il cardinale Ratzinger) ed è più che mai un partito "liberale". Di più: il Labour non è la "casa comune" di socialisti, cristiani e liberali, ma il partito di donne e uomini che sono al tempo stesso tutte e tre queste cose: proprio come Tony Blair o Gordon Brown sono al tempo stesso socialisti, cristiani e liberali. A dimostrazione del fatto che solo la contaminazione profonda delle culture del Novecento è feconda, mentre la loro mera giustapposizione è sterile».
Ci pensa D'Alema, al solito, a raggelare tutti. Per lui il Partito Democratico c'è già, ma si chiama Ulivo. E precisa, a scanso di equivoci:
«Restiamo dove siamo, nell'Internazionale socialista e il Partito democratico c'è già si chiama Ulivo; la priorità è la lista, se ne parlerà dopo le elezioni».
Infine, la perla della settimana. Fassino si rende ridicolo con questo suo intervento "minestrone" sul Corriere della Sera. 2twins aveva già individuato il problema stamattina. Si vede che quando si è poco sicuri della propria cultura politica di riferimento si tende a voler acchiappare qualcosa da tutte le parti ma si finisce a lanciare abbracci all'aria.

«Rappresentare la socialdemocrazia europea come qualcosa di datato, statico, novecentesco è assai riduttivo». Infatti bisogna aggiungere che ha esaurito il suo compito: occorre passare, come ha fatto il New Labour, dal welfare state all'enabling state. Tutta un'altra cosa.

Un punto a suo favore Fassino lo segna quando elogia l'America, con ben più di un pizzico d'ipocrisia. «... E per questo la democrazia americana sta nel cuore della sinistra molto più di quanto non si riconosca...» Molto meno di quanto invece appare. Lasciamo perdere le citazioni dei presidente americani per non sparare sulla croce rossa. E' chiaro a tutti che Lincoln e Jefferson non c'entrano nulla con la socialdemocrazia (brrr), che però è lontana, come Fassino non può immaginare, persino da Wilson, Roosevelt e Kennedy, essendo invece ancora ben più vicina a Togliatti e Berlinguer.

E non si dice l'unica cosa che conta: farete o no a meno di allearvi e governare con la sinistra estrema e comunista? Noo? E allora sarete sempre quelli del passato.

P.S. Caro direttore, dove si sottoscrive il suo promemoria? Per fare un partito servono innanzitutto le tesi, mentre oggi ciascuno è ancora geloso delle sue vecchie tradizioni. Socialiste, liberali e cristiane (e c'è un motivo per non dire cattoliche), ma ha ragione Tonini quando scrive che dovrebbe essere un partito di donne e uomini che siano al tempo stesso socialisti, liberali, laici e credenti. Tutti connotati che, come ricorda Pannella, fanno sempre più parte della stessa realtà antropologica. Particolarmente opportuno è ricordare che per "governare la modernità" occorre farsi interpreti del "centro", inteso però come mercato elettorale costituito dai settori meno ideologici, più pragmatici e dinamici della società, e non come palude statalista e clientelare. Due chiarimenti: 1) Parlando di "comunità internazionale" come fonte di legittimazione dei mezzi per combattere tirannia e terrorismo non rischiamo di tornare a una concezione irenistica dell'Onu che si è dimostrata inadeguata? 2) Come una linea che non vincola sui temi etici può sposarsi con la necessità di averla però una linea?

Quella formidabile arma per la democrazia che è il processo a Saddam

Saddam Hussein alla sbarraSul processo a Saddam i tipici casi di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato ché tanto non si sarà chiamati a risponderne.

In questi casi cedere alla tentazione di fare bella figura stando comodi nel salotto di casa propria può prendere chiunque. Il giorno dopo l'inizio del processo a Saddam si sono sprecati sui giornali i commenti, ma molti, forse troppi, si sono concentrati sulle garanzie di cui comunque l'ex dittatore dovrebbe (per carità) godere e che invece, dicono i presunti bene informati e tecnici della materia, questo processo "americano" non garantirà, e sull'eventualità molto concreta che l'esito sia addirittura la condanna a morte. Sia chiaro, io sulla pena di morte ho idee di precisione monosillabica: No. Per motivi di principio e di convenienza che non sto qui a ripetere, perché quello che voglio dire è altro.

E' che il coro che circonda la sorte di Saddam emana un affetto fuori luogo, di cui molti non degnano neanche chi cade sotto la scure della "giustizia" nostrana.

Marco Pannella rilascia le sue impressioni a il Riformista: Saddam non deve essere condannato a morte, per questo «sarebbe servito un altro processo rispetto a quello che si sta svolgendo». La responsabilità è dell'amministrazione americana rea, da alcuni anni a questa parte, «di contrastare con ogni mezzo, soprattutto quello degli accordi bilaterali con i governi, le ratifiche del Tribunale penale internazionale». Il processo all'ex raìs si sarebbe dovuto svolgere «in sede internazionale» perché, spiega, «quello in corso in Iraq assomiglia pericolosamente al processo di Norimberga e non tiene conto delle evoluzioni del diritto internazionale maturate nel corso degli ultimi sessant'anni».

Passi. Se non altro ai radicali non può essere imputato di non battersi da sempre per la giustizia giusta qui in Italia (caso Tortora e separazione delle carriere) e per l'abolizione della pena di morte (non solo in America). In qualche considerazione andrebbero presi però diversi problemi che il processo a Saddam presenta e che non vorremmo che fosse comodo ignorare: tanto checcefrega, se la vedono gl'iracheni co' gl'americani, mica c'abbiamo in mano noi la responsabilità che non succedano casini.

Antonio Cassese, ex presidente del Tribunale Penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, interpellato da La Stampa, si spinge oltre in modo imbarazzante, sostenendo che non sia un processo equo: «E' come se la sentenza fosse già stata scritta: la presunzione di non colpevolezza è già andata a farsi benedire». Siccome non basa questa sua affermazione su dati di fatto, non viene neanche sfiorato dall'idea che questa sua sensazione possa derivare dalla semplice considerazione che Saddam la sentenza se la sia scritta da solo con una evidenza che siamo più modestamente chiamati a ratificare?

Il processo ha il difetto, continua Cassese, di rispondere «soltanto alla volontà degli americani di fare giustizia nel modo che piace loro, e cioè controllando il processo stesso». Beh, facile parlare, ma un certo controllo è solo un fatto di responsabilità, visto che alcuni espedienti retorici e colpi a effetto Saddam di certo li tenterà, visto che in giro ci sono parecchi ex baathisti che gli sono rimasti fedeli e molta parte della popolazione teme ancora che il passato ritorni.

Cassese formula un'accusa grave: «Le norme predisposte per il processo sono dubbie, non sembrano assicurare pienamente i diritti della difesa». Tutti giudici sono iracheni, scelti da un organo politico, e il processo è un «ibrido, metà accusatorio e metà inquisitorio». Inoltre, per evitare che l'imputato si difendesse trasformando il dibattimento in un processo alle vittime, seguendo l'esempio di Milosevic, gli è stato negato di potersi difendere da solo. Evitare che Saddam seguisse l'esempio di Milosevic, che si è difeso da solo trasformando il dibattimento in un processo alle vittime, mi pare uno scopo più che ragionevole. Comunque aspettiamo Cassese chiedere per gli imputati italiani gli stessi diritti che reclama oggi per Saddam e che in Italia NON ci sono, primo il diritto a difendersi da soli.

La sua conclusione dimostra che siamo di fronte al tipico caso di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato ché tanto non si sarà chiamati a risponderne. E chiama in causa tutta la nostra cultura giuridica. Oggi una nuova Norimberga, dice, «non si giustifica più. Abbiamo strumenti internazionali indipendenti e imparziali in grado di accertare la verità. Non quella dei vinti sui vincitori ma la verità. Punto e basta». Verità? Nella cultura giuridica dell'Europa continentale è ancora radicata la presunzione che attraverso il processo si possa giungere a una sorta di verità ontologica e metafisica che comprende un giudizio morale complessivo sulla persona imputata. In questo caso sembra quasi che spostando il processo a una sede e a un livello internazionale si chiami in causa un ente infallibile. No. La giustizia è amministrata da uomini limitati e fallibili. Il processo si deve limitare ad accertare i fatti e il comportamento tenuto dall'imputato in una data circostanza. Questo pregiudizio è tra i maggiori responsabili della malagiustizia italiana e l'abbiamo visto all'opera anche nel processo Milosevic ad opera della Del Ponte.

Viceversa, i procuratori all'opera nel processo Saddam (preparati in Gran Bretagna) hanno optato per una strategia pragmatica (ricorda quella che inchiodò Al Capone per evasione fiscale), spiegando che il caso del massacro di Dujail, tutto sommato "minore" rispetto ad altri eccidi di massa, è stato scelto per la gran quantità di testimonianze e prove incontrovertibili in grado di portare a un giudizio rapido. Questo per evitare, come insegna l'esperienza Milosevic, che il processo si perda nell'enorme mole di documenti e nella titanica impresa di ricostruire i crimini di decenni di dittatura. Un lavoro da storici. E c'è un rischio in più di cui si tiene conto. Molti baathisti fedeli all'ex raìs sono ancora in giro e incutono timore nella popolazione che ancora fatica a credere quella di Saddam un'epoca che non tornerà. Dunque, viva il pragmatismo anglosassone. Mi fido del giudice Amin, che ha avuto il fegato di metterci la sua faccia. E non era scontato.

Di contro, la stampa e i commentatori americani, anche di orientamento liberal, preferiscono sottolineare altri aspetti: la questione pena di morte sì o no è decisamente in secondo piano, l'importante è il processo come operazione verità e il fatto che gli iracheni e gli arabi faranno esperienza di un processo degno di uno stato di diritto e di un dittatore alla sbarra. In fondo si tratta di quella formidabile arma di attrazione democratica che abbiamo in mano e che dovremmo valorizzare. Il fatto che la umma sunnita, che si sente la nazione araba eletta a comdandare sugli altri musulmani, vedrà la fine che fa il campione del panarabismo e il suo presunto intrinseco diritto a comandare.

Paul Berman, autore di "Terrore e Liberalismo", che ha definito «antifascista» la guerra contro l'Iraq di Saddam, ha detto al Corriere che il processo riguarda «un dramma iracheno su cui decideranno gli iracheni»:
«Si terranno parecchi processi contro il raìs, molti controversi, ma spero che alla fine daranno gli stessi risultati di Norimberga, che giovò soprattutto ai tedeschi: che aprano cioè gli occhi ai sunniti. Gli italiani uccisero Mussolini, un fatto che accetto, ma sarebbe stato meglio processarlo, avrebbe risanato alcune ferite».
Parole altrettanto sagge le ha scritte Anne Applebaum sul Washington Post:
«Alla fine, è dalla qualità delle prove, e dalla chiarezza con cui è condotto, che questo processo dovrà essere giudicato. Il risultato è irrilevante... Nessuna punizione potrebbe far niente per le migliaia di vittime che ha ucciso, o per il terrore che ha inflitto al suo paese. Se i sunnti sapranno cosa ha fatto agli sciiti e ai curdi, se gli sciiti e i curdi sapranno cosa ha fatto ai sunniti, se gli iracheni realizzeranno che questo sistema di terrore totalitario li ha danneggiati tutti e se gli altri in Medio Oriente capiranno che le dittature possono essere destituite, allora il processo avrà raggiunto il suo scopo».
Sul Times, Amir Taheri ha sottolineato la necessità che il mondo arabo veda questo processo:
«Ciò che è in gioco è ben più che la sorte di un despota e del suo entourage. L'Iraq e, dietro di esso il mondo arabo, dove gli avanzi del panarabismo guardano a Saddam Hussein come il loro campione, hanno bisogno di una prolungata e giudiziariamente impeccabile lezione di storia ed etica politica. Saddam si sta avvalendo di ciò che ha negato alle sue vittime: un processo pubblico con avvocati difensori di sua fiducia, e fondato su prove considerate con il principio del ragionevole dubbio. Qui c'è un nuovo Iraq, basato sullo stato di diritto, che processerà il vecchio Iraq della crudeltà e della corruzione. Gli arabi vedranno e decideranno in quale dei due vorrebbero vivere. Il resto del mondo dovrebbe anche osservare quale parte sostenere nella lotta per il futuro dell'Iraq».
A cosa serve questo processo, dunque? Riassume Liberopensiero:
«Far conoscere al mondo sunnita cosa ha voluto dire per gli altri iracheni stare sotto Saddam. Evitare che, come in Italia, il problema di ristabilire la verità del paese venga rimandato grazie all'uccisione di Mussolini che fu anche un comodo capro espiatorio per molti. Solo con un processo Mussolini avrebbe potuto far fare al paese un po' di autoanalisi. Purtroppo il processo non ci fu, e il paese vive ancor oggi nell'illusione di aver subito il fascismo. Speriamo che il processo a Saddam serva a evitare certe scorciatoie».
Il celebre blogger iracheno Iraq The Model ha visto il processo in tv con alcuni suoi amici e ci ha riferito le sue impressioni. Si sono chiesti per quale motivo avrebbero dovuto ascoltare Saddam e perché meritasse un processo corretto invece di un colpo in testa. Ma in breve tempo, racconta il blogger iracheno, hanno trovato le risposte che cercavano:
«Appena l'accusa ha cominciato ad approfondire dettagli e fatti, il modo in cui vedevamo il processo ha cominciato a cambiare e quelli tra di noi che chiedevano un colpo in testa per Saddam sembravano contenti: "Non penso che voglio vedere quel colpo adesso, voglio vedere la giustizia fare il suo corso come dovrebbe essere". Stavamo osservando un esempio di giustizia nel nuovo Iraq, un luogo dove a nessuno dovranno essere negati i propri diritti, neanche a Saddam».

Wednesday, October 19, 2005

Il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Un falso mito

Meno guerre grazie all'espansione della democrazia. Anche con le armi

Forse la facile equazione degli antimilitaristi dogmatici "più guerre => più soldi al complesso militare-industriale => più armi => ancora più guerre => meno diritti e democrazia in casa e all'estero" ha bisogno di essere riveduta e corretta. Forse dall'analisi manca qualche elemento: l'uso della forza militare non risponde alle stesse logiche per tutti gli attori internazionali. Quasi mai per le democrazie un aumento delle spese militari si è tradotto nell'uso dello strumento bellico. Quando ciò è avvenuto è stato per fermare un genocidio o liberare popoli dall'oppressione. Quasi sempre le spese militari vengono accompagnate da strategie politiche aggressive e investimenti che ottengono lo scopo evitando i conflitti armati.

Christian Rocca su Il Foglio ha illustrato con dovizia di particolari gli esiti dell'Human Security Report, un rapporto presentato alla sede delle Nazioni Unite da un centro studi canadese, finanziato dagli insospettabili governi svedese, norvegese, svizzero e britannico. Su un precedente rapporto si basava il breve saggio "La guerra? Un male in via d'estinzione", di Gregg Easterbrook redattore capo di The New Republic, di cui avevamo parlato già in questo post.

Ebbene, prendendo in considerazione il periodo dal 1946 a oggi, il nuovo rapporto svela che «la diffusione della democrazia, la globalizzazione, l'interdipendenza economica e il ricorso agli interventi di peacekeeping per prevenire e fermare i conflitti nel mondo, ha generato un gigantesco crollo del numero di guerre internazionali e delle guerre civili e, di conseguenza, anche dei genocidi e delle vittime in generale». I dati, di cui è ricchissimo il rapporto, sono eloquenti: il trend bellico è discendente da una quindicina di anni, dal crollo dell'impero sovietico. La fine della Guerra fredda ha quasi dimezzato il numero di conflitti armati nel mondo.

L'enorme aumento delle spese militari sotto la presidenza Reagan viene comunemente condannato. Ma faceva parte di una strategia complessiva, dotata di strumenti politici aggressivi, che ha dato i suoi frutti senza che fosse necessario sparare un colpo. Ma neanche questo viene riconosciuto.

La chiave di volta per spiegare il fenomeno sembra essere l'espansione della democrazia registrata dal 1946 a oggi. Allora le democrazie erano soltanto 20, oggi sono 88. E molti si sono ormai convinti dall'osservazione dei fatti che gli Stati democratici quasi mai si fanno la guerra. E che quando combattono lasciano dietro di sé popolazioni liberate. E' la convinzione di fondo della dottrina mediorientale di George W. Bush: la diffusione della democrazia come unico antidoto di lungo periodo all'inclinazione alla violenza interna ed esterna delle società arabe e di religione musulmana.

Sfatate anche le più accattivanti leggende metropolitane di pacifinti e comunisti:
«... non è vero nemmeno che le guerre provocano più vittime rispetto al passato, che la stragrande maggioranza delle vittime si registri tra la popolazione civile, e che bambini e donne siano i primi a esserne colpiti. "Nessuna di queste cose si basa su informazioni credibili. Sono tutte sospette, alcune chiaramente false", si legge nel rapporto».
Un motivo in più per rinnovare le proprie analisi.

Conflitti d'interesse non troppo occulti

Le proteste contro la direttiva Prodi-Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi e contro la riformuccia Moratti hanno un comune denominatore: il conflitto di interessi. No, non quello di Berlusconi. Parliamo di conflitti d'interesse meno noti ma forse più determinanti nel tenere il nostro paese al palo. Dei conflitti di interesse latenti, spiega oggi Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera, che tengono bloccato il paese. Riguardano «le grandi corporazioni che dominano il nostro panorama sociale, le quali riescono quasi sempre ad occultare quel conflitto grazie a tre elementi decisivi: il loro potere d'influenza, la loro compattezza interna e, infine, il diritto all'autogoverno riconosciutogli dalla legge».

In entrambi i casi, Bolkestein e Moratti, «ciò che viene al pettine è la struttura corporativa di tanta parte della società italiana, cioè l'ambigua commistione tra l'involucro pubblico-statale e le attività che esso riveste, le quali, però, sono o vogliono essere del tutto autonome. Si realizza così per questa via quasi un'istituzionalizzazione del conflitto d'interessi, una sorta di sua legalizzazione. Specie poi quando, come il caso dell'università e degli ordini (ma è un caso frequentissimo) all'esistenza delle corporazioni si somma il loro autogoverno...» Da leggere

Costituzione più processo a Saddam = stato di diritto

Saddam Hussein finalmente alla sbarra. «Chi siete? cosa volete?» ha intimato ai giudici. Ci mancava solo il famoso: "Sì, ma quanti siete?! Un fiorino!" e poi avremmo avuto un quadro completo.

E' di capitale importanza la diretta/differita televisiva in Iraq e nell'intero mondo arabo, nonostante alcuni espedienti retorici e colpi a effetto che Saddam di certo tenterà. Su questo Anne Applebaum, del Washington Post, ha usato le parole più sagge:
«... se i sunnti sapranno cosa ha fatto agli sciiti e ai curdi, se gli sciiti e i curdi sapranno cosa ha fatto ai sunniti, se gli iracheni realizzeranno che questo sistema di terrore totalitario li ha danneggiati tutti e se gli altri in Medio Oriente capiranno che le dittature possono essere destituite, allora il processo avrà raggiunto il suo scopo».
Gli stessi giornali di sinistra americani (e anche arabi) riconoscono i dati di fatto che stanno premiando la visione complessiva che anima la dottrina Bush, al di là di errori e difficoltà. Non da noi, dove i giornali hanno dato maggior peso alle inutili primarie del centrosinistra. Guardiamo al lato positivo: si vede che si abituano all'idea che in Iraq d'ora in poi, grazie agli americani e agli iracheni democratici, le elezioni saranno routine.

E' molto probabile che la Costituzione passi. Fa bene Christian Rocca a farci appuntare i traguardi fin qui raggiunti da un processo politico di cui scettici e in malafede annunciavano la morte a ogni passaggio per essere poi puntualmente zittiti dai fatti.
«Gli iracheni in pochi mesi sono riusciti a rispettare tutte le scadenze imposte dall'Onu e dalla coalizione con l'accordo del 15 novembre 2003, cioè la formazione di un governo provvisorio di solidarietà nazionale, l'adozione di una Costituzione transitoria (novembre 2003), il ritorno della sovranità (30 giugno 2004), la convocazione delle elezioni per l'Assemblea costituente (30 gennaio 2005), la nascita del primo governo democratico a interim (aprile 2005), l'approvazione di una Costituzione democratica e non fondamentalista (agosto 2005), il coinvolgimento dei sunniti (ottobre 2005), la conferma popolare di sabato e, nei prossimi giorni, il processo a Saddam».
Un fantomatico governo dell'Onu, sul tipo di quello che tiene il Kosovo ancora nel limbo, avrebbe saputo fare meglio? Non crediamo. Oggi appare evidente a molti analisti che proprio il rapido passaggio dei poteri agli iracheni sia stata la carta vincente e criticano persino che la sovranità non sia stata ceduta subito dopo la caduta del regime, evitando l'interregno di Paul Bremer e i suoi piani «preconfezionati dai centri studi del Dipartimento di Stato».

David Frum nel suo column oggi su Il Foglio spiega con un paragone calzante la questione sunnita. Il problema è che i sunniti si ritengono «in possesso di un intrinseco diritto a comandare».
«In Sud Africa dopo la fine dell'apartheid, nessuno osò proporre che la nuova Costituzione sudafricana prevedesse speciali protezioni per la minoranza bianca del paese. E nessuno disse che il nuovo regime post-apartheid sarebbe stato legittimo soltanto se i bianchi l'avessero accettato. E se i bianchi del Sud Africa avessero risposto all'affermazione dell'uguaglianza lanciando una campagna terroristica contro la maggioranza nera, non avrebbero raccolto alcun consenso. Ma proprio questo è ciò che sta accadendo in Irak.

I sunniti che stanno appoggiando l'insurrezione temono di perdere il loro potere e i privilegi di cui hanno goduto nel precedente regime. La nuova Costituzione garantisce alla minoranza sunnita una parte delle ricchezze petrolifere del paese. Garantisce alla minoranza un concreto diritto di veto sulla Costituzione e sui futuri mutamenti costituzionali. Dichiara che l'iscrizione al partito Baath di Saddam non impedirà ai sunniti di rivestire cariche nel nuovo governo. In altre parole, la Costituzione, nella forma che ha assunto grazie alle pressioni americane, è il risultato di due anni di sforzi riconciliatori con il precedente establishment del paese...»
Anche troppa grazia insomma, ma i primi segni di riconoscenza si cominciano a vedere.

Sempre più evidente la confusione di Pera

La statua di San Benedetto a NorciaPerso in una selva oscura, che la diritta via era smarrita.

Ma cos'è tutto questo entusiasmo per ovvietà che la Chiesa, attraverso il suo sommo Pontefice, è semmai l'ultima a riconoscere? Cerchiamo di vederci chiaro. Le frasi rivolte dal Papa ai convenuti di Norcia hanno eccitato i cuori dei nostri teocon, ma non sono che la scoperta dell'acqua calda: i diritti fondamentali sono «inscritti nella natura stessa della persona umana» e sono «previi a qualsiasi giurisdizione statale». I credenti riterranno che quei diritti siano quindi «rinviabili ultimamente al Creatore» (notiamo sommessamente che "Creatore" è anche il termine usato da deisti e massoni), mentre i non credenti si fermeranno alla prima proposizione, perché «trovano il loro fondamento nell'essenza stessa dell'uomo». E pertanto quali sono le verità che una laicità «sana» dovrebbe riconoscere che già non riconosca la democrazia moderna? Che i diritti sono «inscritti nella natura stessa» dell'uomo e «previi»? Oppure che sono rinviabili al Creatore? O tutt'e due le cose?

Cosa significa che sono «previi»? Significa che sono indisponibili a i governi e alle maggioranze parlamentari. E questo non perché è Ratzinger a scoprirlo facendo l'esegesi del suo Dio o della sua tradizione, ma perché ci è arrivato il liberalismo più di due secoli fa.

Com'è confuso Pera nel suo intervento di oggi sul Corriere della Sera che Wind Rose Hotel ritiene invece chiarificatore! Sì, chiarificatore della confusione di Pera. Il presidente del Senato ci confida la sua paura della dittatura della maggioranza (che porta al relativismo):
«Se la democrazia non avesse fondamenti etici, quell'uomo avrebbe paura che, ai voti, gli capitasse di tutto e di peggio, persino, poniamo, che una maggioranza sbarazzina togliesse la pensione ai professori di filosofia teoretica. E se il cristianesimo non fosse la verità rivelata per chi crede, storica e culturale per chi non è credente quell'uomo avrebbe paura che un giorno qualcuno gli dicesse, che so?, che uccidere, rubare, dire il falso, sono solo convenzioni accidentali che possono anche essere cambiate».
Pera è così spaventato che non sa più a quale santo votarsi, a quale "assoluto" aggrapparsi. Ne ha un bisogno fisico. Così tira in causa il cristianesimo, quello rivelato e quello della tradizione: il rimedio è Dio nella vita pubblica, e anzi, visto che ci siamo, anche nella legislazione. Eppure dovrebbe sapere che ciò che distingue la democrazia moderna da quella antica è proprio il liberalismo, base ideale del costituzionalismo moderno. Si dà il caso che liberalismo e costituzionalismo abbiano risolto secoli fa il problema della dittatura della maggioranza senza alcun bisogno che Dio entri nella legislazione. La presenza di Dio nella legislazione si è viceversa dimostrata nei fatti la via più sicura per togliere ogni freno alla volontà di una maggioranza che fosse animata dalla fede.

Ed è infatti la seconda parte della lettera di Benedetto XVI a inquietarci. Riteniamo davvero il fine teologo Ratzinger così mediocre da concedersi alla banalità? No, e infatti le ovvietà sui diritti «inscritti nella natura stessa» dell'uomo e «previi» contenute nella sua missiva assumono significati inquietanti alla luce della seconda parte in cui Ratzinger chiede esplicitamente uno spazio per Dio nella legislazione. E Pera, ormai sbandato, la pensa come il Papa. Più che un confronto, un'adesione.

E' proprio il contrario di quanto dice Pera: liberalismo e democrazia saranno anche due cose diverse ma tutt'altro che incompatibili o irriducibili. Sono piuttosto due facce della stessa medaglia, indispendabili l'uno all'altra. Potrà sembrar strano al filosofare di Pera che cerca di risolvere ogni contraddizione, ma è questo ciò che le realizzazioni storiche di quei principi hanno dimostrato. Non si tutelano le libertà fondamentali laddove i popoli siano esclusi dal governo della società. Né si può definire democrazia un sistema di governo dove sia possibile abolire a colpi di maggioranza le libertà fondamentali.

Tuttavia, nulla può impedire che ciò avvenga. Fa parte della vita, è la libertà, è la democrazia bellezza! Una teoria politica che volesse mettere a priori, o a posteriori, la democrazia al riparo dagli errori della maggioranza non sarebbe certo una teoria liberale e democratica. L'errore concettuale sta nel cercare un sistema di governo capace di eliminare del tutto l'irriducibile incertezza connaturata nell'esistenza umana; nel non aver il coraggio di dire che in democrazia siamo noi, i cittadini di oggi, qui ed ora, ad essere i pieni titolari del diritto di decidere, dello stesso diritto e della stessa responsabilità che ebbero i cittadini del tempo della Costituente. Possiamo soggettivamente ricondurci alla tradizione che vogliamo, ma non esiste nessuna tradizione che oggettivamente valga più del nostro sentire di adesso. I correttivi che vorrebbe introdurre Pera per sentirsi del tutto al sicuro - Dio e la tradizione cristiana nella legislazione - viceversa storicamente hanno spianato la strada a ciò da cui vuole proteggersi.

Ferrara colpito e affondato. Due parole sull'intervento tocquevilliano docg di Dario Antiseri, oggi su Il Foglio (su WHR il testo), che mi pare porre una pietra tombale sul Ferrara. Tocquevilliano perché si pone l'obiettivo della separazione tra politica e religione nell'ottica della difesa di quest'ultima dalle tentazioni mondane, dalle lusinghe del serpente. Così conclude:
«So bene che una schiera, che sempre più si ingrossa, di antirelativisti, assertori di assoluti terrestri, si straccia le vesti di fronte a una simile posizione. Comprendo le loro preoccupazioni e i loro timori; non condivido, però, le loro soluzioni. E a Giuliano Ferrara e a quegli amici cattolici i quali, invece di rendere chiare le ragioni e le conseguenze della scelta di fede, si affannano a dimostrare, con il solo aiuto della ragione, al di fuori dell'annuncio di fede, la validità di valori supremi, vorrei chiedere: un cristiano che pensa di poter conoscere e fondare razionalmente principi etici assoluti non è forse caduto nella tentazione del serpente "eritis sicut dei cognoscentes bonum et malum"?. (...) Per un cristiano solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano non può essere che storico, contestabile, non assoluto, relativo. Il cristiano, pena la sua metamorfosi in idolatra, può predicare l'assolutezza di qualche cosa umana, compresi lo Stato e magari proposte etiche presunte razionali? Certo, aveva ragione Thomas S. Eliot ad affermare che "se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura". Ma il messaggio cristiano, per chi crede, non è frutto di cultura, non può essere ridotto a umana cultura né trasformato in instrumentum regni».
Eppure, questa diminutio inaccettabile si avvicina alla soluzione del problema teologico-politico. Si avvicina, perché si tratta di un'ipotesi che può star bene al politico smaliziato (i neoconservatori americani che stringendo un'alleanza politica con la destra religiosa piegano la religione a mero instrumentum regni), ma è insoddisfacente dal punto di vista teologico. Più che trovare un terreno comune con il politico, il religioso preferisce separarsene, rimanere «incatenato nel santuario», secondo una felice espressione di Tocqueville.