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Thursday, December 05, 2013

La controriforma elettorale della Corte

Anche su Notapolitica

La nostra è sempre più una Repubblica fondata sulla giustizia politicizzata, complice un gruppo ormai sparuto ma ben introdotto di politici, anagraficamente sia vecchi che giovani, ma tutti disperati e miopi. Non lo scrivo da oggi e la sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il cosiddetto "Porcellum" non è che l'ultima prova in ordine di tempo. E' un paese in cui ormai da anni sono saltati tutti gli schemi, come si usa dire nel gergo calcistico quando ci si avvicina alla fine della partita e la squadra in svantaggio si affida alla sola forza della disperazione: sono saltati tutti i principi base di ogni stato di diritto e i contrappesi istituzionali.

Sotto il loro stesso peso sono alla fine esplose le contraddizioni sistemiche che si sono stratificate nel corso degli ultimi 20 anni a forza di ricorrere a forzature di ogni tipo pur di abbattere il nemico politico e impedire ogni forma di cambiamento. Una cultura giuridica che maneggia il diritto come un continuo, inafferrabile e imprevedibile gioco di specchi, e la dissimulata faziosità di istituzioni che dovrebbero essere terze, ma che invece piegano alle proprie convenienze (nemmeno di lunga durata, ma del momento) qualsiasi principio, non potevano che dar vita a tali esiti disastrosi di non democrazia.

Il presidente Napolitano, i giudici della Consulta, i ministri del Governo Letta che plaudono all'«ottima sentenza», dovrebbero arrossire per una decisione che li espone ad un paradosso tragico, nel quale solo con sprezzo del ridicolo riescono a scorgere, invece, il perseguimento dei loro obiettivi. A prescindere dagli ennesimi contorsionismi giuridici che leggeremo nelle motivazioni, infatti, è evidente che questa sentenza delegittima tutti e tutto. Le nomine e le leggi approvate nelle scorse legislature si salvano, secondo il principio delle situazioni giuridiche "esaurite", ma che ne è dell'attuale? L'attuale Parlamento, il Governo di cui è emanazione, nonché lo stesso presidente Napolitano e la stessa Corte costituzionale, i cui giudici sono per 2/3 il frutto di nomine indirettamente viziate dall'incostituzionale "Porcellum", e persino il voto sulla decadenza di Berlusconi, sono tutti delegittimati. Tutti abusivi.

La stessa decisione della Corte costituzionale, poi, potrebbe essere viziata all'origine, dal momento che il ricorso contro il "Porcellum" è incidentale solo di facciata, mentre di fatto scaturisce per la prima volta dal ricorso diretto di un singolo cittadino, modalità esclusa dal nostro ordinamento. La stessa Corte che ha bocciato il referendum per la reviviscenza del "Mattarellum" non si è fatta scrupolo di produrre, di fatto, la reviviscenza del proporzionale da Prima Repubblica. E, d'altra parte, siamo nel paese in cui il referendum che avrebbe introdotto un sistema maggioriario uninominale puro fallì d'un soffio perché nelle liste elettorali non aggiornate erano rimasti migliaia di defunti. Ma questo è solo un capitolo del massacro di diritto e diritti cui assistiamo, tra leggi penali e fiscali retroattive, assolutismo fiscale e burocratico.

Tutti abusivi, dicevamo. Eppure, non per uno strano scherzo del destino ma per un calcolo ben eseguito fino alla sua estrema conseguenza, la sentenza che da un lato li rende abusivi, dall'altro li blinda ancor di più sulle loro poltrone fino, almeno, al 2015. A Napolitano e Letta è riuscita, grazie alla sponda dei giudici della Consulta, una perfetta mossa del cavallo. Se prima della sentenza non si poteva votare perché c'era l'inviso "Porcellum", e in effetti sarebbe stato un azzardo considerato il rischio di ritrovarsi con un esito del tutto simile a quello del febbraio scorso, ora non si può votare perché dalla legge così come riscritta dalla Consulta - un proporzionale puro con le preferenze, praticamente come nella Prima Repubblica - a maggior ragione scaturirebbe un Parlamento senza maggioranze chiare e, dunque, la necessità di nuove intese più o meno larghe da trovare dopo il voto.

Ma prima della fine di gennaio è impensabile che sia approvata una nuova legge elettorale. Guarda caso, infatti, pochi minuti prima della sentenza della Corte, le cui motivazioni potrebbero arrivare verso la fine di gennaio, la Commissione Affari costituzionali del Senato decideva di dare tempo proprio fino al 31 gennaio al suo Comitato ristretto per predisporre un testo unificato di riforma della legge elettorale. Ecco, dunque, che l'ultima finestra elettorale ipotizzabile, quella di marzo-aprile (perché a maggio ci sono le elezioni europee e da giugno a dicembre 2014 il semestre italiano di presidenza dell'Ue), è probabilmente chiusa. A restare in trappola è soprattutto Renzi, che da neo segretario del Pd non potrà che appoggiare il Governo Letta, ormai a guida Pd, e rimandare le sue ambizioni, rischiando però il logoramento della sua leadership.

Dunque, a chi è convenuto "fare melina" sulla legge elettorale in questi mesi, temporeggiando in Senato? E' convenuto ai sostenitori del Governo Letta, ai proporzionalisti e neocentristi di ogni schieramento, e a quanti, nel Pd, sarebbero disposti anche a telefonare ai giudici della Consulta pur di sbarrare la strada a Renzi. A tutti costoro conveniva aspettare l'annunciata sponda della Consulta, che obiettivamente cambia l'inerzia politica della situazione a favore dei proporzionalisti e dei "diversamente bipolaristi". Non sono loro a dover "forzare" per tornare al proporzionale. Chiamatela come volete, "Napolitanellum" o "Porcellissimum", ma le indicazioni sono chiare e non hanno fretta di definire i dettagli della nuova legge, possono muoversi anche a fine 2014, a ridosso della scadenza temporale del Governo Letta.

Se invece si vuole accelerare, la via più semplice che proporranno sarà quella di recepire le indicazioni della Consulta, prevedendo cioè dei mini-premi, con soglie minime a scalare, e le preferenze: un sistema perfetto dal loro punto di vista. Che consentirebbe di presentarsi in due schieramenti nettamente distinti di fronte agli elettori, ma sufficientemente flessibile da permettere intese trasversali più o meno larghe dopo il voto, in caso di necessità di "stampelle". Una soluzione furba, quindi, che formalmente conferma il bipolarismo mentre di fatto lo liquida, rendendo molto più probabile la nascita di maggioranze post-elettorali, in Parlamento, piuttosto che direttamente dalle urne. E chiunque proporrà soluzioni diverse, verrà accusato di irresponsabilità e di non voler rispettare la sentenza. Dopo la controriforma sancita dalla Corte sta invece ai difensori del bipolarismo l'onere di raggiungere un'intesa forte per un nuovo sistema maggioritario. Intesa che appare difficile tra soggetti così disomogenei (Renzi, Berlusconi e Grillo) e considerando che a nessun segretario del Pd è mai riuscito di tenere il partito unito su un sistema elettorale.

Thursday, November 28, 2013

Imu, il pasticciaccio sulla seconda rata

Anche su Notapolitica e L'Opinione

E' davvero difficile mettere la faccia su un provvedimento come quello che per quest'anno ha cancellato la seconda rata dell'Imu sulla prima casa. Insomma, per lo meno non è da tutti: ci vuole un certo tipo di faccia. Innanzitutto, è stata abolita solo per il 2013 e non anche per il futuro, come si sforzano di far credere alcuni esponenti di governo, dal momento che dal 2014 sulle prime abitazioni si pagherà la Tasi: sulla stessa base imponibile dell'Imu, ad aliquote simili (vicine al 2,5 per mille rispetto alla media del 4,4 della vecchia Imu) e con molte meno detrazioni. E non è la tesi propagandistica di qualche pericoloso estremista pregiudizialmente contrario al governo Letta-Alfano. A confermarlo, mercoledì in conferenza stampa, è stato lo stesso ministro dell'economia Saccomanni, quando in un lampo di verità ha spiegato che gli aumenti fiscali deliberati a carico del sistema bancario sono «una tantum» perché «del resto è una tantum anche l'abolizione della seconda rata dell'Imu sulla prima casa». Né può essere accusato di ostilità nei confronti del governo e di vicinanza a Berlusconi il Sole 24 Ore, dalle cui tabelle si evince come potrebbero non essere poche le famiglie che nel 2014 si troveranno a pagare sulla prima abitazione più tasse che ai tempi della vecchia Imu.

Ma nemmeno relativamente al solo 2013 il governo è riuscito a rispettare l'impegno sull'Imu. Non sono esentati tutti i terreni agricoli né tutte le prime case. I continui rinvii del governo sull'Imu, infatti, hanno alimentato un'incertezza nella quale si sono inseriti furbescamente i Comuni, i quali hanno alzato le aliquote sulla prima casa scommettendo sul fatto che alla fine sarebbero arrivate le compensazioni statali e non avrebbero pagato i loro cittadini. Il risultato è che il costo dell'intera operazione è salito di ben 500 milioni, che il governo non è riuscito a coprire, e dunque molti cittadini dovranno metterci la differenza perché i Comuni hanno ormai messo a bilancio quelle somme. Secondo le stime della Uil, questo pastrocchio a gennaio provocherà una mini-stangata su 3,4 milioni di abitazioni principali: in media 42 euro (73 a Milano).

Con sprezzo del pudore, inoltre, si sostiene che l'Imu sia stata abolita senza aumentare la pressione fiscale. Le coperture trovate, però, sia pure "una tantum", dicono il contrario. Non sono altro che aumenti fiscali: 650 milioni dall'anticipo, da parte degli intermediari finanziari, delle ritenute relative al risparmio amministrato (le tasse sugli interessi dei conti deposito, per esempio); 1,5 miliardi dall'aumento al 130% dell'acconto Ires e Irap dovuto per il 2013 da banche e assicurazioni; per questi stessi soggetti, inoltre, l'aliquota Ires viene elevata per il solo 2013 (quindi retroattivamente) dal 27,5% al 36%. E su chi pensate che verranno scaricati questi ulteriori costi? Il presidente dell'Abi Patuelli ha già messo le mani avanti: «Ogni appesantimento della pressione fiscale sul comparto bancario pesa non solo sulle banche ma sul complesso dell'economia produttiva». Tradotto, vuol dire minori impieghi e prestiti a favore di imprese e famiglie, e maggiori costi per i clienti.

Tuesday, November 26, 2013

Prima casa, il trucco c'è. E si vede

Anche su Notapolitica e L'Opinione

L'imbroglio è servito. Gli esponenti di governo, i relatori di maggioranza, compresi quelli del Nuovo Centrodestra, provano a vendersi l'abolizione, anche per il futuro, dell'Imu sulla prima casa. Ma il gioco di prestigio è piuttosto scadente e il trucco è presto svelato. In effetti, con la nuova tassazione sugli immobili inserita nella legge di stabilità non si pagherà più l'Imu sulle abitazioni principali. Se è corretto dire che la prima casa è esclusa dall'Imu, è però falso che sia esclusa dalla IUC. Questa la sigla del nuovo tributo, che contiene tre tasse. Due già esistenti - l'Imu, appunto, e la tassa sui rifiuti - e una terza completamente nuova: la Tasi. La chiamano tassa per i servizi indivisibili, o Service Tax, ma di fatto come vedremo si applica con criteri patrimoniali.

Ed è nella Tasi che viene fatta "traslocare" la tassazione sulla prima casa precedentemente inclusa nell'Imu. La Tasi infatti è dovuta su tutti gli immobili, «ivi compresa l'abitazione principale», si legge nel testo. Dunque si tratta, come l'ha definita il deputato di Scelta Civica Enrico Zanetti su Formiche.net, di un vero e proprio "spin off" dell'Imu sulla prima casa. E gli somiglia anche. La base imponibile è la stessa dell'Imu, il che la rende un'imposta patrimoniale. Così come l'aliquota massima applicabile dai Comuni, che non potrà superare quella della vecchia Imu (il 6 per mille). Solo per il 2014, infatti, si prevede un'aliquota massima al 2,5 per mille. L'unica differenza di rilievo è peggiorativa. I fondi stanziati per le detrazioni, infatti, sono molto inferiori a quelli previsti con la vecchia Imu: solo 500 milioni, e solo per il 2014, invece dei circa 3 miliardi che costavano nel 2012 la detrazione base di 200 euro e quella di 50 euro per ogni figlio convivente.

Dunque, la certezza è che rispetto all'anno in corso nel 2014 si tornerà a pagare sulla prima casa, come nel 2012. Quanto? Dipenderà dai Comuni. Nell'ipotesi migliore, se tutti i Comuni dovessero limitarsi all'aliquota base dell'1 per mille - una mera indicazione non vincolante - si pagherà molto meno rispetto al 2012: 1,2 miliardi (1,7 meno 500 milioni di detrazioni) invece di 4. Nella peggiore, se tutti i Comuni dovessero adottare l'aliquota massima del 2,5 per mille - e viste le difficoltà finanziarie in cui versano è facile prevedere che l'aliquota media si avvicinerà alla massima - si pagherà più o meno la stessa somma: 3,8 miliardi invece di 4. Ma il fondo di soli 500 milioni stanziato per le detrazioni produrrà un effetto perverso: milioni di abitazioni esentate dalla vecchia Imu grazie alle ben più generose riduzioni del 2012 si troveranno a pagare la Tasi, mentre molti che non ne usufruivano si vedranno applicare uno sconto, grazie all'aliquota inferiore.

Dal 2015, poi, la legge di stabilità non prevede più nemmeno i 500 milioni per le detrazioni e l'aliquota massima non sarà più del 2,5 per mille, bensì del 6 per mille: quindi la Tasi sulla prima casa costerà ad inquilini e proprietari tra 1,7 e 10 miliardi, rispetto ai 4 della vecchia Imu. Dipenderà dal buon cuore del proprio Comune.

Wednesday, November 20, 2013

Una non difesa del ministro Cancellieri

Anche su Notapolitica

Mai e poi mai associarsi alle campagne giustizialiste di Repubblica e il Fatto quotidiano. Dunque non chiedo, né auspico le dimissioni del ministro Cancellieri per le sue "inopportune" telefonate con la famiglia Ligresti e per il suo intervento "umanitario" a favore di Giulia. Tra l'altro, il caso sembra confezionato appositamente per offrire a tutti i candidati alla segreteria del Pd, Renzi in primis, l'occasione di conseguire il diploma di moralità pubblica rilasciato dalle varie gazzette delle procure e indispensabile, pare, per essere legittimati a guidare la sinistra italiana. E non se la sono lasciata sfuggire: è una gara a chi si mostra più intransigente nel chiedere le dimissioni del ministro, a prescindere dal danno che si rischia di provocare ad un governo pur sempre a guida Pd, e dallo sgarbo al presidente Napolitano. Pare che se non offrano sacrifici umani al dio del giustizialismo ogni volta se ne presenti l'occasione, sotto lo sguardo accigliato dei sacerdoti e della sacerdotesse di Repubblica e Fatto quotidiano, i vecchi e nuovi leader del Pd si sentano come smarriti, senz'anima. Così si sono ridotti: non hanno un giornale di riferimento, è il Pd ad essere il partito di riferimento di Repubblica.

Detto questo, avendo ben presenti le ragioni che ci tengono a distanza di sicurezza da qualsiasi richiesta di dimissioni, dovremmo però avere ben presenti anche le ragioni per le quali reputare la Cancellieri un cattivo ministro. Né più né meno dei suoi colleghi politici di professione. L'ennesima prova, cioè, che il "caso Italia", quell'intricato insieme di tutte le anomalie italiane, chiama in causa non solo la classe politica ma anche quella dei cosiddetti "servitori dello Stato".

Il comportamento del ministro Cancellieri nel preoccuparsi della detenuta Giulia Ligresti, ma anche di un centinaio di casi di comuni cittadini che avrebbe personalmente segnalato al Dap, è emblematico di una realtà non da Stato di diritto. Avrà anche dimostrato grande umanità con i suoi interventi, non lo mettiamo in dubbio, ma ha soprattutto mostrato come in Italia l'unico rapporto possibile con il potere, con l'Autorità, sia da sudditi e non da cittadini, attraverso canali informali più che formali. E' un caso di scuola di come in Italia si possa sperare di veder riconosciuti i propri diritti costituzionali solo come privilegi, per "grazia ricevuta" dal potente di turno. In ogni ambito, dalla giustizia al fisco, passando per tutti gli uffici della pubblica amministrazione, niente ci è dovuto, ma tutto può esserci concesso in ragione della grazia o dell'amicizia del sovrano.

Per quanto a fin di bene non dovremmo accontentarci di una segnalazione privata, o di una nota a margine quasi casuale, confidando nella sua generosità e nella buona sorte. Da un ministro dovremmo pretendere interventi pubblici, alla luce del sole, e soprattutto erga omnes, cioè che valgano per tutti. Se i diritti dei detenuti sono calpestati, se molti di loro non dovrebbero nemmeno starci in carcere in ragione delle loro precarie condizioni di salute, o per l'insussistenza dei presupposti di legge per la carcerazione preventiva, allora, oltre a telefonare e "segnalare", il ministro Cancellieri avrebbe dovuto mandare i suoi ispettori a verificare il corretto operato di procure e magistrati di sorveglianza, interpellare il Csm e le altre istituzioni di garanzia della Repubbblica, coinvolgere il Parlamento. Ha mai posto politicamente e pubblicamente tali questioni, o ha piuttosto cercato di limitare i danni muovendosi "all'italiana"?

Non una parola ci risulta pervenuta dal ministro e dai suoi autorevoli difensori d'ufficio, non un atto politico degno di nota, nemmeno di denuncia dell'abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni, e contro certe campagne giustizialiste, quando ad esserne colpiti sono stati ministri e leader di diversa estrazione politica e culturale. Ecco perché ci appare davvero poco difendibile il comportamento del ministro, e insopportabile il doppio standard in cui si esercitano molti di coloro che la difendono.

UPDATE ore 12:20
Su un punto la difesa del ministro Cancellieri, oggi in aula alla Camera, non regge. Se nel caso di Giulia Ligresti, e negli altri 100 casi che dichiara di aver "segnalato" per motivi umanitari, non c'è stato alcun "favoritismo", se quindi Giulia e altre 100 persone erano detenute "ingiustamente" rispetto alle loro condizioni, allora avrebbe dovuto chiamare in causa i magistrati responsabili e porre la questione pubblicamente. Invece oggi si difende rivendicando come un merito proprio il non avere "mai delegittimato l'operato dei magistrati". Già, il punto è che avrebbe dovuto farlo. Se Giulia era detenuta ingiustamente, allora qualche magistrato ha sbagliato. Un "favoritismo" dunque c'è stato: o nei confronti di Giulia o nei confronti di quel magistrato.

Friday, November 08, 2013

L'unico centrodestra possibile

Anche su Notapolitica e L'Opinione

L'intervento di Giovanni Orsina su La Stampa del 3 novembre ha il merito in indicare con precisione i tre dilemmi su cui si giocano l'identità e il futuro del centrodestra in Italia: bipolarismo, rivoluzione liberale, rapporti con l'Europa. Purtroppo, nel principale partito di centrodestra, il Pdl, sembra essere in corso una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi e ad esibirla nella propria teca, così da poter rivendicare il titolo di successore e garantirsi un futuro politico. Ma la leadership di Berlusconi è qualcosa che si può ereditare, o piuttosto si conquista sul campo incarnando ciò che di buono il berlusconismo ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra? Di fronte a questo spettacolo tra "falchi" e "colombe", "lealisti" e "governativi", è comprensibile guardare al dito anziché alla luna, e porsi dunque domande che Orsina definisce «miopi e contingenti».

Ma per quanto lo scontro in atto possa essere dominato da ambizioni (o miserie) personali, da una certa dose di reducismo e dai più futili motivi, è pur vero che ai diversi fronti contrapposti corrispondono in realtà altrettante visioni politiche su come dovrebbe essere il centrodestra italiano. Possiamo dunque ironizzare e dirci disgustati quanto vogliamo, ma qualcosa per cui valga la pena discutere e dividersi c'è eccome. Siamo infatti ad un crocevia. Con la rara e brevissima parentesi della destra storica l'Italia non aveva mai conosciuto una destra di governo, nonostante gli italiani "non di sinistra" siano probabilmente da sempre un'ampia maggioranza nel paese. La stessa idea di destra, o di centrodestra, è stata messa immediatamente al bando dopo il fascismo. Durante la Prima Repubblica abbiamo avuto prima un centro, poi un centrosinistra.

Silvio Berlusconi ha sdoganato l'idea di una destra di governo non solo e non tanto perché ha sdoganato gli ex-Msi, ma perché per la prima volta nella storia della Repubblica è riuscito a vincere le elezioni e a governare per molti anni a capo di una coalizione di centrodestra, in grado di non lasciare rilevanti vuoti politici né alla sua destra né al centro. Ora questa eredità è a rischio a causa dell'inevitabile tramonto della sua leadership: sia per errori suoi, sia per un'incessante opera di criminalizzazione giudiziaria e demonizzazione politico-culturale nei suoi confronti, non solo in quanto leader vincente ma forse soprattutto in quanto incarnazione di un centrodestra di governo, idea di per sé scandalosa e insopportabile agli occhi di molta parte dell'establishment, sia pubblico che privato, e della sinistra reduce del comunismo, ancora prigioniera del mito della resistenza tradita.

Ecco, dunque, il bivio: ipotesi a) torniamo verso un sistema (più simile a quello della Prima Repubblica) con un partito di centro e di governo, com'era la Dc, cioè incline ad una gestione consociativa e concertativa dello status quo, e una destra anche rilevante elettoralmente ma politicamente marginale. Si tratterebbe di un sistema potenzialmente a misura di Pd: avvantaggiandosi della frantumazione del centrodestra potrebbe ritrovarsi sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili"). Ipotesi b) andiamo verso un sistema più compiutamente bipolare (una sorta di evoluzione e maturazione della Seconda Repubblica), in cui al di fuori di una coalizione o di un partito unitario di centrodestra non resta pressoché alcuno spazio politico.

Entrambi i blocchi che si stanno confrontando in questo momento nel Pdl sembrano puntare dritti verso il primo scenario, anche se ciascuno, in cuor suo, forse s'illude di lavorare al secondo. Il Pdl nella versione degli "alfaniani", "defalchizzandosi" e inseguendo il mito della stabilità a scapito del merito delle politiche, aprirebbe un fossato alla sua destra rischiando di ritrovarsi elettoralmente rilevante ma subalterno alla sinistra, in sostanza un avversario da battere agilmente o, al massimo, da cooptare in un governo di "larghe intese" qualora il Pd non trovasse alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, europea e di governo, c'è tutto.

Ciò che gli uni e gli altri dovrebbero capire è che se l'obiettivo è davvero un centrodestra maggioritario in un sistema bipolare, il Pdl (o Forza Italia, o comunque si chiamerà) ha bisogno sia dei falchi che delle colombe, dei moderati come degli intransigenti. Come ogni altro grande partito in una democrazia bipolare. Certo, poi non si possono non segnalare le contraddizioni delle attuali categorie, per cui gli esponenti di spicco degli "alfaniani" sono tra i più estremisti (vedi Giovanardi, Sacconi, Quagliariello, Formigoni, Roccella) su temi rispetto ai quali ormai qualsiasi destra con vocazione maggioritaria nel mondo occidentale non può più permettersi di arroccarsi. Se con il termine "moderati" si intende moderazione nelle politiche e una tendenza al compromesso, e con il termine "radicali" una maggiore nettezza identitaria e intransigenza, un partito di centrodestra che abbia vocazione maggioritaria e di governo in un sistema bipolare non può fare a meno né degli uni né degli altri.

A patto però - e torniamo ai «dilemmi» di cui parlava Orsina - che ci sia chiarezza sulle condizioni, riguardanti sia l'assetto del sistema politico sia l'identità del partito, alle quali può esistere un centrodestra in Italia: bipolarismo/presidenzialismo, approccio fusionista, centralità di temi come tasse e giustizia, europeismo critico. Insomma, tutti gli ingredienti del miglior berlusconismo, quello del '94. Non è che non possa esistere un centrodestra senza Berlusconi in persona. Ma o fa rima con il berlusconismo, nel senso degli ingredienti appena citati, o semplicemente non è. Diversamente, avremmo solo un centro e una destra, l'uno subalterno l'altra marginale.

La scelta bipolarista e presidenzialista dev'essere quindi netta e perseguita con determinazione, e su questo purtroppo l'ala governativa del Pdl è spesso ambigua. Non si tratta solo di sistemi elettorali o istituzionali: ad un esito neocentrista si può arrivare anche se ci si proclama (come da sempre Casini) alternativi alla sinistra, qualora una linea troppo compromissoria e rinunciataria su questioni fortemente identitarie finisca con il provocare una scissione, o del partito o dell'elettorato di centrodestra. E' vero che Berlusconi non ha mantenuto la grande promessa della "rivoluzione liberale", ma nell'elettorato la richiesta di vera e propria liberazione dall'oppressione fiscale e burocratica si è semmai accresciuta, assumendo toni esasperati. Tasse e giustizia sono forse i volti più emblematici e intollerabili dell'insano rapporto fra Stato e cittadini, che in Italia somiglia più al rapporto tra Sovrano assoluto e sudditi. Di qui la centralità delle tasse (da tagliare, tagliando la spesa pubblica) e della giustizia (da riformare).

Il problema dei "governativi" del Pdl è che accettando che l'esperienza delle "larghe intese" prosegua nonostante la decadenza di Berlusconi (per mano del partito alleato, prim'ancora che per effetto della mera applicazione di una sentenza di condanna), e mostrandosi disponibili a sacrificare sull'altare della "stabilità" anche temi centrali come tasse e giustizia, fino alla rottura con il proprio partito, hanno ridotto il loro potere contrattuale al tavolo del governo e alimentato nel Pd la tentazione di giocare sugli "strappi" per provocare la spaccatura del Pdl.

Quasi tutti i provvedimenti del Governo Letta prevedono nuove tasse come coperture finanziarie, anche la cancellazione delle rate Imu per il 2013, e la legge di stabilità per il 2014 prevede il ritorno dell'Imu sulla prima casa e un aggravio generale della tassazione sugli immobili e sul risparmio (una patrimoniale ormai vicina a 40 miliardi), a fronte di sgravi più che altro redistributivi, che a giudizio della Banca d'Italia non compensano nemmeno l'effetto del fiscal drag. La legge di stabilità, così com'è, è davvero invotabile per chiunque abbia in mente un futuro di centrodestra. D'altronde, sulle tasse la disponibilità al compromesso richiesta da Letta e Saccomanni, e che Alfano sembra pronto ad accordare, appare davvero incompatibile con lo spirito "rivoluzionario" del '94 (e del 2001) a cui tutti a parole dichiarano di voler tornare. Ai livelli a cui siamo giunti, un approccio radicale al tema delle tasse in Italia è l'unico plausibile per mantenere un rapporto con l'elettorato di centrodestra, a costo di venire accusati di populismo e irresponsabilità dalla sinistra.

La sensazione è che l'ala governativa del Pdl abbia anteposto la "stabilità" non solo alla difesa del suo leader da una prematura decadenza, ma anche al merito delle politiche e, ciò che è peggio, agli assi fondanti del berlusconismo, per il semplice calcolo che sopravvenendo a breve l'incandidabilità di Berlusconi proprio la durata del governo avrebbe di per sé garantito un morbido passaggio della leadership del partito ad Alfano, ancora segretario.

Riguardo l'Europa il discorso è più complesso. Sia "lealisti" che "governativi" sono ambigui. Come ha osservato Panebianco sul Corriere, occorre «evitare di esorcizzare l'ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini passepartout (che non spiegano nulla) come il termine populista». Ma un centrodestra con vocazione maggioritaria e di governo non può nemmeno "flirtare" con pulsioni "no euro" e anti-tedesche, né con irrealistici isolazionismi dal sapore autarchico. Dunque, contestare la retorica europeista "mainstream", rappresentare con forza il più che fondato malcontento verso l'Europa che stiamo costruendo, un moloch burocratico e iper-statalista, ma la critica all'austerità da parte del centrodestra  non può tradursi in nostalgia per le politiche fiscali lassiste e inflazionistiche, dovrebbe puntare a smontare la cultura economica dominante sia a Bruxelles che a Roma, per la quale tassare è l'unico modo per rispettare i vincoli di bilancio e gli investimenti pubblici l'unico per crescere.

Concludendo, la questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra o un centrodestra vincente e di governo, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte non solo degli avversari politici ma anche di poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro neo-democristiano culturalmente subalterno.

Wednesday, October 23, 2013

Manovra di affondamento

Poco ma sicuro: nel 2014 aumentano tasse (almeno +4,3 miliardi) e spesa (+2,6 miliardi)

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Quella che pochi giorni fa, all'indomani della conferenza stampa del governo, avevamo definito manovra di galleggiamento, a carte scoperte in Senato rischia di rivelarsi, testo ufficiale alla mano, una manovra di affondamento. Si alza il sipario sui numeri, quelli veri, e si chiude il sipario sul balletto di cifre e sui trucchetti contabili di questi giorni. Dunque vediamoli, i numeri riportati nelle tabelle che delineano gli effetti finanziari della legge di stabilità sul bilancio dello Stato. Per quanto riguarda il saldo netto da finanziare, nel 2014 la manovra vale complessivamente circa 12,1 miliardi: ben 9,45 miliardi di maggiori spese e solo 2,64 miliardi di minori entrate. Da finanziare con 11,4 miliardi, di cui solo 4,2 miliardi di minori spese e ben 7,2 miliardi di maggiori entrate.

Se si guarda all'indebitamento netto, come riporta il Sole24Ore oggi, il saldo delle entrate indica, sempre nel 2014, un aumento di tasse per 972 milioni di euro (ma al netto della Tasi, come vedremo tra breve) e il saldo delle spese un aumento della spesa pubblica di 2,6 miliardi. Anche qui le maggiori entrate quasi doppiano le minori spese (6,1 miliardi contro 3,6). Quindi, ancora una volta, esattamente come le tanto criticate manovre di Monti e Tremonti, anziché basarsi su coraggiosi tagli alla spesa, il rapporto appare fortemente sbilanciato sul lato delle entrate (anche se come vedremo non si tratta solo di tasse) nella misura di 2/3 delle coperture.

Ma qualche precisazione va fatta: bisogna considerare infatti che non tutte le maggiori entrate sono classificabili come aumenti di tasse, così come non tutte le minori entrate come veri e propri sgravi fiscali. Analizzando voce per voce, però, la sostanza non cambia. Le minori entrate definibili come sgravi fiscali sono pari a circa 4,3 miliardi, mentre quasi il doppio, 7,9 miliardi, sono definibili come vera e propria spesa pubblica. Si tratta dunque di una manovra che aumenta la spesa pubblica per un ammontare quasi doppio rispetto alle risorse liberate a favore di famiglie e imprese. Così come le coperture sono costituite da maggiori entrate per 7,2 miliardi (di cui tasse vere e proprie 2,8, esclusa però la Tasi), un importo quasi doppio rispetto ai reali risparmi di spesa di circa 3,8 miliardi.

Ma cerchiamo di capire quale sarà il saldo reale per i cittadini in termini di tasse. E' confermato l'incremento della detrazione Irpef sui redditi da lavoro dipendente (1,58 miliardi), a cui si aggiunge 1 miliardo trasferito dallo Stato ai Comuni per alleggerire la nuova Service Tax (in pratica l'ammontare della maggiorazione Tares, che verrà abolita), per un totale di 2,6 miliardi di sgravi fiscali. Non va molto meglio alle imprese: tra riduzione dei contributi Inail (1 miliardo), deduzioni Irap per i nuovi lavoratori a tempo indeterminato (36 milioni), restituzione del contributo Aspi (70 milioni), deducibilità dell'Imu sugli immobili strumentali fino al 20% (475 milioni) e blocco dell'aumento Iva per le cooperative sociali (130 milioni), gli sgravi fiscali nel 2014 ammontano a circa 1,7 miliardi.

A fronte di queste riduzioni, tuttavia, si contano aumenti di tasse per almeno 2,8 miliardi: l'incremento dell'imposta di bollo sul risparmio (940 milioni), la riduzione delle agevolazioni fiscali (500 milioni), il ritorno della tassazione Irpef sugli immobili sfitti o in comodato gratuito ai figli nello stesso Comune (500 milioni), il visto di conformità per le compensazioni sulle imposte dirette e Irap (460 milioni), la rivalutazione dei beni di impresa (300 milioni), il contributo di solidarietà dalle pensioni d'oro (21 milioni) e balzelli minori per 75 milioni circa. In questo calcolo non consideriamo i 2,6 miliardi da "svalutazione e perdite sui crediti ai fini Ires-Irap di banche, assicurazioni, altri intermediari finanziari", perché compensati dagli sgravi fiscali negli anni successivi.

A questi 2,8 miliardi di tasse in più, però, bisogna sommare il gettito della nuova Tasi (considerando che nel 2013 non pagheremo le due rate di Imu sulla prima casa), che nelle tabelle ufficiali contenute nel testo depositato al Senato si conferma a tutti gli effetti una Imu mascherata: per l'abolizione dell'Imu, infatti, viene messa a bilancio una perdita di gettito per i Comuni di 3,764 miliardi. Esattamente lo stesso gettito (3,764 miliardi) arriverà dalla Tasi (ad aliquota standard dell'1 per mille, quindi ancora suscettibile di maggiorazioni da parte dei Comuni). Ma con la Tasi aumenterà anche la tassazione sulle abitazioni diverse da quelle principali, per un gettito che stimiamo intorno ai 2 miliardi. Confedilizia, per esempio, ha stimato che tra abitazioni principali e secondarie l'aggravio della Tasi rispetto alla vecchia Imu si collocherà tra i 2,1 miliardi (ad aliquota standard dell'1 per mille) e i 7,5 miliardi (ad aliquota massima del 2,5 per mille).

Dipenderà dai Comuni, ma sommando tutti gli effetti finanziari di queste misure, possiamo già dire oggi che nel 2014, rispetto al 2013, gli italiani pagheranno più tasse (almeno 4,3 miliardi in più), e non meno tasse, e probabilmente qualcosina in più anche rispetto al 2012. Anche perché non va dimenticato l'aumento dell'aliquota Iva dal 21 al 22% scattato il primo ottobre: 3 miliardi in più rispetto al 2013 e 4 rispetto al 2012. Insomma, il premier Letta ha fatto bene a ricordare che «14 euro in più in busta paga non c'è scritto da nessuna parte nella manovra». In effetti, è improbabile che ci accorgeremo di un solo euro in più.

Come se non bastasse, sugli anni 2015-2016 incombe il rischio concreto di una doppia stangata: sulla prima casa, perché l'aliquota massima Tasi del 2,5 per mille vale solo per il 2014, mentre dal 2015 l'1 per mille standard potrà sommarsi all'aliquota massima della vecchia Imu (6 per mille), fino ad arrivare al 7 per mille. E sull'Irpef, dal momento che la legge di stabilità contiene una nuova pericolossissima "clausola di salvaguardia" (lo stesso diabolico meccanismo per cui dal primo ottobre è scattato l'ulteriore aumento Iva). Ebbene, se entro il 15 gennaio 2015 la spending review non darà i risultati sperati (e visti i precedenti, non c'è da essere troppo ottimisti), scatteranno tagli alle agevolazioni fiscali di 3 e 7 miliardi.

La massima irresponsabilità al governo: con queste tagliole automatiche si spostano in avanti nel tempo misure politicamente costose come l'aumento di una tassa, in modo che chiunque governi nel momento in cui scattano possa scaricare sui predecessori ogni responsabilità (esattamente come accaduto con l'aumento dell'Iva), al tempo stesso demotivando i governi dal realizzare quelle azioni virtuose, come i tagli alla spesa pubblica, che dovrebbero scongiurare la misura di salvaguardia. In pratica, con l'inganno delle "clausole di salvaguardia" i tagli alla spesa diventano un mero auspicio, mentre gli aumenti di tasse sono la decisione vera, ma rinviata nel tempo per non assumersene la responsabilità politica. Perché non invertire la logica? Se la spending review non produce i risultati sperati, siano tagli alla spesa a scattare in modo lineare, e non aumenti di aliquote e tagli alle agevolazioni fiscali.

Dunque, altro che modifiche purché "a saldi invariati", il problema di questa legge di stabilità sono proprio i saldi. E le "clausole di salvaguardia". Con questa manovra i ministri del Pdl che si proclamano "sentinelle anti-tasse" non hanno alternative: o si dimettono dal governo o si dimettono da sentinelle. Legittimo sostenere il governo Letta-Alfano a qualsiasi prezzo, qualsiasi cosa faccia (o non faccia), in nome della "stabilità". Ma è incontrovertibile che questa legge di stabilità non riduce le tasse, le aumenta. Basta esserne consapevoli e metterci la faccia.

Thursday, October 17, 2013

Manovra di galleggiamento

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Non è certo la "svolta" che molti si aspettavano, tanto meno quello "shock fiscale" che molti invocano pur senza grandi speranze. E' una manovra di galleggiamento (del governo, soprattutto), dove la stabilità rischia di confondersi con l'immobilismo. La resistenza, purtroppo bipartisan, a procedere con decisione sul fronte dei tagli alla spesa pubblica ha impedito al governo di essere più coraggioso nella riduzione del carico fiscale su famiglie e imprese. Riduzione che di fatto, come vedremo numeri alla mano, è nella migliore delle ipotesi inconsistente, se non inesistente. Un calo della pressione fiscale di un punto percentuale nell'arco di tre anni, dal 44,2 al 43,3%, e una diminuzione davvero misera del cuneo fiscale (2,5 miliardi) sono davvero troppo poco per pensare di invertire il ciclo economico.

Da notare il doppio tentativo del governo di influenzare lo "spin" sulla manovra. Non si può escludere infatti che aver fatto filtrare le ipotesi dei tagli alla sanità e dell'aumento dell'aliquota sulle "rendite" finanziarie, per poi evitarli all'ultimo momento, avesse la funzione di far tirare un sospiro di sollievo sia a sinistra che a destra, predisponendo gli osservatori ad un accoglimento meno severo della legge di stabilità. Poi, l'accorgimento di presentare su base triennale l'ammontare dell'intervento sul cuneo fiscale, così da gonfiarne le cifre. Ma proviamo a triplicare anche altre grandezze di finanza pubblica: i 5 miliardi in tre anni di sgravi a favore dei lavoratori sono l'1% del gettito Irpef triennale (quasi 500 miliardi) e i 5,6 miliardi di sgravi alle imprese corrispondono ad 1/20 di quanto versano di sola Irap in tre anni. Nel 2014, in realtà, l'intervento sul cuneo fiscale vale appena 2,5 miliardi su una manovra di 11,5: il resto è per lo più una pioggia di nuove spese, come sempre.

Certo, politicamente il governo Letta sembra non aver offerto ai suoi nemici, a destra come a sinistra, il pretesto, la "pistola fumante", per cui farlo cadere. Ma nonostante questi tentativi di influenzare la copertura mediatica della manovra, la delusione è palpabile un po' in tutti gli attori politici e sociali, così come negli editoriali dei principali giornali, e vissuta con un certo imbarazzo persino tra gli "sponsor" del governo Letta e dai cantori della cosiddetta "stabilità". Davvero difficile per chiunque non riconoscere la pochezza e lo scarso coraggio di questa legge di stabilità.

Ma vediamo gli altri numeri. Il valore complessivo della manovra è di 11,6 miliardi nel 2014 (e 7,5 sia nel 2015 che nel 2016). Rispetto alla manovra del governo Monti c'è un leggero riequilibrio nelle coperture. Le maggiori entrate fiscali pesano sempre in modo eccessivo, ma in misura minore che in passato: 1,9 miliardi, anche se altri 300 milioni arrivano dalla rivalutazione delle attività delle imprese e 2,2 miliardi dalla revisione della tassazione delle svalutazioni e delle perdite su crediti degli intermediari finanziari. Dai tagli alla spesa corrente arrivano 3,5 miliardi (2,5 dal bilancio dello Stato e un miliardo dalle spese di funzionamento delle Regioni): si tratta comunque di meno dello 0,5% del totale della spesa pubblica e nel trienno solo del 2% in meno (16 miliardi). Da dismissioni e rivalutazioni di cespiti e partecipazioni arriveranno 500 milioni l'anno. I 3 miliardi restanti vengono definiti da Letta un «premio» per la chiusura della procedura di deficit eccessivo. Ci giochiamo, insomma, un minimo di flessibilità in più che ci viene concessa dall'Europa.

Ma le due manovre sono difficilmente comparabili: quella di Monti servì a correggere i conti pubblici, quella del governo Letta-Alfano serve a finanziare per 2/3 nuova spesa pubblica e solo per 1/3 riduzioni di imposte. Sono una miriade le voci finanziate: le missioni all'estero, il 5 per mille, la cassa integrazione in deroga, gli investimenti degli enti territoriali, la manutenzione straordinaria della rete autostradale, l'Anas e le Ferrovie, il Mose, il fondo per le politiche sociali, il fondo per lo sviluppo e la coesione, il fondo per le università, i fondi per le non autosufficienze, per i lavoratori socialmente utili e per la Social Card. E ancora aiuti all'editoria, agli autotrasportatori e agli agricoltori. Tra i tagli alla spesa solo limature, nessun intervento strutturale. Il nuovo "contributo di solidarietà" dalle pensioni d'oro dovrebbe valere una sessantina di milioni su un costo totale della platea individuata che si aggira sui 3,5 miliardi. La sola parte eccedente i 100 mila euro di questi redditi da pensione ci costa circa 857 milioni, quindi il contributo medio sarebbe del 7% della parte eccedente i 100 mila euro (gli 857 milioni) e nemmeno del 2% rispetto al costo complessivo degli assegni (i 3,5 miliardi).

Ma cerchiamo di capire quale sarà nel 2014 il saldo reale per i cittadini, in termini di tasse, rispetto all'annus horribilis che sta per finire, il 2013. L'aumento della detrazione Irpef sul lavoro dipendente vale 1,5 miliardi, una decina di euro in più al mese in busta paga per i redditi medio-bassi (picco di 172 euro l'anno per chi dichiara 15 mila euro). A cui però vanno subito sottratti 500 milioni di minori agevolazioni fiscali (detrazioni per spese sanitarie e istruzione di cui usufruiscono quasi tutte le famiglie), ben 900 milioni per l'incremento dell'imposta di bollo sulle attività finanziarie (la nuova "stangatina" sul risparmio), nonché il ritorno dell'Irpef sulle seconde case sfitte (questi ultimi due aumenti colpiscono una platea più ristretta di contribuenti ma sottraggono comunque potere d'acquisto).

Poi ci sono due certezze e due incognite. Prima certezza: resta l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, che per il governo sembra ormai un capitolo chiuso (4 miliardi l'anno, 3 in più rispetto al 2013). Seconda certezza: l'aumento delle accise su carburanti (75 milioni), alcolici (130 milioni), sigarette elettroniche (117 milioni), lubrificanti e tabacchi (50 milioni). E veniamo alle incognite. Quale sarà il gettito della nuova Tasi, l'imposta che dovrebbe sostituire l'Imu sulla prima casa? Per ora sappiamo che l'aliquota base prevista è dell'1 per mille, ma non è chiaro se, e fino a quanto, ai Comuni sarà permesso di aumentarla (il tetto massimo dovrebbe coincidere con quello della vecchia Imu). Nella legge di stabilità il governo ha trasferito ai Comuni un solo miliardo (invece di due, come ipotizzato) per coprire esenzioni e detrazioni volte ad alleggerire il peso della nuova imposta, ma se le aliquote finali della componente Tasi (tra quella base e i rialzi dei Comuni) si avvicinassero a quelle dell'Imu, ecco che potrebbero restare 2/3 miliardi in più da pagare rispetto al 2013 (Confcommercio stima 2,4 miliardi di euro in più dalla "Trise"). Un vero e proprio gioco delle tre carte. Si pagherà meno (forse) del 2012, quando era in vigore l'Imu sulla prima casa, ma certamente più di quest'anno in cui l'Imu è stata cancellata.

Seconda incognita: l'Iva. Resta infatti la minaccia di un ulteriore peggioramento di alcune aliquote come risultato della rimodulazione a cui sta lavorando il governo. Per non parlare della cancellazione della seconda rata dell'Imu per quest'anno, per cui ancora non sono note le coperture. Dunque, tutto sommato e tutto sottratto, si può affermare senza timore di smentite che nel 2014 pagheremo più tasse che nel 2013 e, forse, persino più che nel 2012 (lo scopriremo solo pagando la "Trise"). Non va molto meglio alle imprese, che si vedono concedere una riduzione di 40 milioni della componente Irap relativa al costo del lavoro e un taglio dei contributi sociali di un miliardo circa.

A questo punto vi starete chiedendo come si spiega il calo della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni sbandierato dal governo ieri sera, se le tasse dal 2014 potrebbero addirittura aumentare. Non va dimenticato che si tratta di una grandezza percentuale in rapporto al Pil e il punto in meno è una conseguenza delle previsioni di crescita (ottimistiche) inserite nel Def, e non di chissà quali tagli di tasse.

L'impianto di questa legge di stabilità risponde ad una logica di redistribuzione del reddito (di un reddito che non c'è), piuttosto che di riduzione del peso dello Stato, e quindi delle tasse. Una logica tipica dei governi di centrosinistra per come li abbiamo conosciuti sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.

Wednesday, October 09, 2013

Una sinistra di inguaribili tassatori

Anche su Notapolitica e L'Opinione

L'emendamento al Decreto Imu presentato dai gruppi del Pd nelle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera è rivelatore del rapporto malsano che la sinistra continua ad avere con le tasse. L'emendamento (poi ritirato, ma la sua ratio verrà ripescata nella Service Tax) riprendeva la proposta in tema di Imu avanzata dal Pd nell'ultima campagna elettorale, e cavalcata fino ad oggi dal viceministro Fassina: per rinviare l'aumento dell'Iva, basta far pagare l'Imu sulle prime case di "lusso", laddove però la soglia del lusso veniva piuttosto arbitrariamente fissata sui 750 euro di rendita catastale. Nonostante le abitazioni principali nelle categorie davvero di lusso (A/1, A/8 e A/9) non siano state mai esentate dal pagare l'Imu, e nessuno ha mai proposto di esentarle, per mesi il Pd è andato avanti con questa cantilena che bisognava tornare a far pagare l'Imu sulle prime case di lusso.

Considerando i forti squilibri degli attuali valori catastali, adottando la soglia dei 750 euro di rendita si rischia di esentare vecchi immobili di pregio nel pieno centro delle grandi città e stangare nuove abitazioni, ma di modeste qualità costruttive, nelle zone periferiche e semi-periferiche urbane, come dimostrato nell'ultima puntata di Report. Finalmente anche il Corriere si è preso il disturbo di andare a verificare di cosa stiamo parlando. E chissà perché solo ora e non prima del voto, quando invece preferiva accusare di demagogia la proposta di abolizione totale, ma questo è un altro tema. Oggi quindi scopriamo che per la stravagante concezione di "lusso" che hanno nel Pd 1/4 delle prime case in Italia andrebbero considerate tali, anche un monolocale A/2 di 36 metri quadri ubicato a Roma o a Milano, e un A/3 rispettivamente di 41 e 55 metri quadri. Siamo ricchi e non lo sapevamo!

Ciò che sappiamo per certo è che la sinistra continua a coltivare l'ossessione di punire i "ricchi". Peccato che sempre più spesso le capita di scambiare per "ricche" le famiglie del ceto medio. «Vede ricchi ovunque e spinge nelle braccia della destra una consistente fascia di italiani di ceto medio», ha correttamente osservato Dario Di Vico. Ma non è tanto l'ossessione di voler colpire la ricchezza a rendere antipatico il Pd, quanto i continui tentativi di spacciare per ricche le famiglie del ceto medio e tartassare anche quelle. Come si spiega? Forse i politici di sinistra sono talmente poveri da fissare la soglia della ricchezza molto in basso? Piuttosto, bisogna supporre che sia avvenuta una vera e propria mutazione sociologica e politologica della sinistra: essendo tra i politici di sinistra i veri ricchi e gli arricchiti di Stato, ed essendo ormai l'elettorato di riferimento pieno di vip milionari e benpensanti, alti burocrati e iper-garantiti (spesso inquilini di case degli enti a canone irrisorio) non si accorgono nemmeno di far piangere il ceto medio produttivo.

La sinistra - Pd e renziani compresi, a quanto pare - sembra condannata a sostenere una posizione economicamente e politicamente insostenibile sul tema delle tasse. Per fare cassa, ovvero per garantire servizi sociali e/o attuare politiche redistributive, occorrono grandi numeri, quindi bisogna tartassare anche il ceto medio, come dimostra la storia di questi decenni. Il che è tutt'altro che equo, ha effetti fortemente depressivi sull'economia e non serve nemmeno alle casse dello Stato. La dimostrazione l'abbiamo avuta proprio in questi giorni: invece di crescere, per effetto dei recenti aumenti delle aliquote, nei primi otto mesi del 2013 il gettito Iva è diminuito di ben 3,7 miliardi (il 5,2%, un calo tre volte superiore a quello del Pil). Non si vede quindi come l'ulteriore aumento dal 21 al 22% scattato dal primo ottobre possa produrre 4 miliardi in più di gettito. Abbiamo lasciato che scattasse perché, così ci è stato detto, non c'erano 4 miliardi di coperture per cancellarlo, né un solo miliardo per rinviarlo. Ma è ormai chiaro che quell'aumento non produrrà mai i 4 miliardi in più previsti, che semplicemente non sono mai esistiti, perché trattasi di mera finzione contabile che prescinde dalle più elementari leggi economiche. Anzi, contribuirà a far calare ancora di più il gettito Iva.

Se invece si vogliono colpire davvero i "ricchi", per dare un "segnale di equità", nella consapevolezza di raccogliere briciole rispetto ai problemi di bilancio, allora il risultato è che si incassa ancora meno, come hanno dimostrato il superbollo sulle auto di lusso (invece dei 168 milioni in più previsti, 140 milioni in meno di mancata Iva e imposte di bollo) e la tassa sulle barche (dei 120 milioni previsti, incassati solo 25 ma al prezzo di una contrazione di ricavi nel settore di 2,5 miliardi, con un mancato gettito calcolato in 900 milioni). Può apparire impopolare, ma per la ripresa dell'economia conta più un ricco che ordina uno yacht piuttosto che mille poveri che tornano ad acquistare un pacco di pasta De Cecco (e con questo, ovviamente, non intendo sostenere che le tasse bisogna ridurle solo ai ricchi). Può non piacere, ma è così che funziona l'economia: la sinistra e purtroppo certi ministri "tecnici" ancora non l'hanno capito. Né gli stolti sembrano in grado di comprendere che la sola minaccia di nuove tasse porta le famiglie a prevedere di spendere meno e risparmiare di più per poterle pagare, provocando l'effetto recessivo anche se poi l'aumento non si verifica.

Tuesday, October 08, 2013

Pacificazione non fa rima con deberlusconizzazione

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Ciò che abbiamo previsto più volte nei mesi scorsi come effetto del perverso rapporto tra politica e magistratura sta cominciando a delinearsi. Non è tanto il fatto in sé dell'esclusione di Berlusconi dalle istituzioni, ma è il modo in cui sta avvenendo, il come è stato abbattuto, cioè per via giudiziaria, a generare un frutto amarissimo e gravido di conseguenze nefaste per la nostra democrazia.

Nessuno, né a sinistra né a destra, sembra preoccuparsene più di tanto. Non si tratta solo del cittadino e leader politico Berlusconi, il cui ciclo politico comunque si stava esaurendo. Il modo in cui viene fatto fuori è la questione politica all'ordine del giorno. Non la sua successione, né la nascita di un centrodestra "moderno" ed "europeo" (a proposito, perché, la sinistra lo è?). Alcuni si illudono, purtroppo, che una volta superata l'anomalia Berlusconi, una volta fatto fuori, tutto tornerà normale e le carriere politiche di tutti potranno proseguire indisturbate. Anzi, spezzato questo incantesimo, questo perverso equilibrio per cui berlusconiani e antiberlusconiani si sorreggono a vicenda, si potrà persino riformare la giustizia.

Sembra questa purtroppo anche l'illusione dei "diversamente berlusconiani". E cioè che la pacificazione, sotto i cui auspici era nato questo governo di "larghe intese", possa passare anche da questo, e cioè dalla "deberlusconizzazione" del centrodestra. Con un Pdl deberlusconizzato il Pd è disponibile a governare senza problemi, a deporre l'ascia di guerra e a fare le riforme. "The show must go on".

Ma il modo in cui è stato fatto fuori Berlusconi - la persecuzione per via giudiziaria dalla sua discesa in campo fino alla completa estromissione dalle istituzioni - rappresenta un monito, e allo stesso tempo un'ipoteca, su qualsiasi leadership futura. I futuri leader di centrodestra - in modo direttamente proporzionale al loro consenso e alla loro determinazione nel voler rompere lo status quo del paese - subiranno lo stesso trattamento. Detto in altre parole: non verranno demonizzati e perseguitati fintanto che appariranno "responsabili" (leggi subalterni e "conformati").

Questa non è una pacificazione, ma una resa culturale prim'ancora che politica. Significa arrendersi al fatto che saranno i magistrati, i giornali delle élite e la sinistra (proprio in questo ordine) a sceglierseli, a legittimarli, in modo che siano avversari da battere agilmente o al massimo da poter cooptare in un governo di coalizione. I molti applausi ricevuti dagli alfaniani in questi giorni, come due anni fa dai finiani, dovrebbero suonare come altrettanti campanelli d'allarme. Il guaio di operazioni come quella di Fini ieri, e probabilmente di Alfano oggi, è che pur essendo apprezzabile il proposito di andare politicamente oltre Berlusconi, mancano la forza, il coraggio, il "quid" di mostrarsi non subalterni alla sinistra e al pensiero mainstream. E non c'è da sorprendersi se poi gli elettori di centrodestra diffidano.

Come ha spiegato anche Galli Della Loggia domenica sul Corriere, Alfano non avrà futuro come leader del centrodestra, e non riuscirà a dar vita ad una destra "moderna" ed "europea", se, come Fini, non riuscirà a divincolarsi dalle lusinghe e dall'abbraccio ideologico della sinistra, ma ovviamente nemmeno una deriva "trogloditica" e "sovversiveggiante" può garantire un futuro al centrodestra.

Senza una leadership capace di rappresentare in modo vincente ciò che per loro Berlusconi ha rappresentato in questi vent'anni, gli elettori di centrodestra non dimenticheranno il Cav e non ci sarà una vera pacificazione nel paese, bensì una rancorizzazione permanente. Quella in corso, purtroppo, è una pacificazione per "deberlusconizzazione", per "damnatio memoriae" del nemico, dunque in realtà è una "neutralizzazione" del centrodestra, mentre in questa legislatura si sarebbe potuta/dovuta avviare una pacificazione con tutto ciò che Berlusconi ha rappresentato in questi anni per il suo elettorato. Questo è un paese a cui di fatto si vuole impedire di avere un centrodestra vincente. Al massimo, si tollera un centro subalterno, che la sinistra può a seconda delle circostanze usare come stampella o come oppositore di comodo, di "regime". Ciò significa che continuerà a non esserci alcun riconoscimento, alcuna legittimazione reciproca tra milioni di italiani di sinistra e milioni di italiani che di sinistra non si sentono. E' qualcosa che viene da prima di Berlusconi e che sopravviverà a Berlusconi, un odio profondo tra due Italie che continueranno a combattersi come nemiche anziché come avversarie.

Friday, October 04, 2013

Basta giornate della vergogna

Anche su L'Opinione

Mi scusi presidente Napolitano. Mi scusi signor Papa Francesco. Scusatemi signori ministri e signori direttori dei giornali più responsabili e pensosi d'Italia. Ma "vergogna" a chi? Quando si esclama "Vergogna!" è sottinteso che qualcuno debba vergognarsi, quindi sarebbe corretto precisare chi si dovrebbe vergognare. Invece non è chiaro a chi fosse rivolta la vostra indignazione, anche se una vaga idea purtroppo me la sono fatta. Ma io non mi vergogno, né come italiano né come europeo. Provo pietà, certo, per gli innocenti morti in mare a Lampedusa, ma nessun senso di colpa o responsabilità, né personale né collettivo.

E credo che noi in Italia abbiamo i media, i giornalisti, i politici, i presidenti, i papi più ipocriti di tutto il mondo, che in queste drammatiche situazioni non sanno fare altro che sfoggiare una retorica pelosa e vigliacche strumentalizzazioni, incapaci di guardare in faccia e chiamare i problemi con il loro nome.

Andrebbero bandite tutte le strumentalizzazioni, quelle di chi polemizza con gli avversari politici, ma anche di chi ne approfitta per partire all'attacco della legge Bossi-Fini, che davvero non c'entra nulla con quanto è capitato. E comunque, quanti oggi puntano l'indice contro quella legge sono gli stessi che non qualche anno fa, ma nei giorni scorsi non si sono recati a firmare il referendum per abolirla, impedendo che raggiungesse il numero di firme necessarie, dunque dovrebbero solo tacere.

Non è l'Italia, e nemmeno l'Europa a doversi vergognare, ma sono i nuovi mercanti di schiavi e i governi dell'Africa e del Medio Oriente che quando va bene condannano i loro popoli alla miseria, tra corruzione e malgoverno, quando va male calpestano i loro diritti, li violentano, li derubano e li massacrano in guerre fratricide. Su di loro ricade la vera responsabilità di questa e di altre tragedie, e del dramma dell'immigrazione in generale. E ormai da decenni non c'è più nemmeno l'alibi del colonialismo ad alleggerire le loro colpe. Quando il Papa si reca in visita nelle zone più povere della terra, oltre che abbracciare i bisognosi si ricordi di gridare "vergogna" all'indirizzo dei loro governanti.

Pur con tutte le contraddizioni e le difficoltà finanziarie al nostro interno accogliamo tutti a braccia aperte, tolleriamo culture e religioni diverse. Anche violente, e anche se non riceviamo lo stesso trattamento. Il diritto d'asilo è riconosciuto e praticato sia in Italia che in Europa. Soccorriamo ogni anno decine di migliaia di profughi, e altrettanti li aiutiamo da lontano con aiuti umanitari. Integriamo milioni di immigrati, permettendo loro di lavorare, e offrendo servizi molto costosi: sanità, istruzione, sussidi. Abbiamo le nostre regole. Migliorabili? Certo, ma umane e in linea con quelle degli altri paesi europei, reato di clandestinità compreso, e per durezza lontane anni luce da paesi civilissimi e da sempre apertissimi all'immigrazione come gli Stati Uniti. In Europa si potrebbe collaborare di più per gestire il fenomeno dell'immigrazione? E' vero, i paesi del centro e del nord Europa ci lasciano un po' troppo soli, ma nemmeno loro è la colpa della tragedia che piangiamo oggi al largo delle nostre coste.

Ne abbiamo abbastanza di queste giornate dell'ipocrisia e della vergogna. E' un'Italia, un'Europa, e un Occidente in generale in cui si cerca la pagliuzza nei nostri occhi e non si nota la trave negli occhi altrui. Ci vergogniamo di quello che siamo, di quello che facciamo, siamo sopraffatti dal senso di colpa per le fortune che ci siamo procurati con l'ingegno, la fatica e la civiltà. Questa è la causa più grande dei nostri mali di questi tempi, del nostro immobilismo. Questo è il malessere dell'anima che rischia di trascinare la civiltà occidentale sulla via del declino.

Thursday, October 03, 2013

Quei polli del Pdl finiranno tutti arrosto

Anche su Notapolitica e su L'Opinione

Ha vinto o perso ieri Berlusconi? E ha vinto Alfano? Intendiamoci, ormai Berlusconi non può più vincere. Sta per decadere da senatore, andrà ai servizi sociali o ai domiciliari e non tornerà più al governo. Forse sarà anche arrestato. Che aprendo la crisi avesse intenzione di salvarsi e scongiurare questi esiti è da escludere. E probabilmente aveva messo anche nel conto di non riuscire a far cadere Letta. Però, avendo contribuito alla nascita di un governo di pacificazione - e tutti ricordiamo la retorica di quei giorni nelle parole di Letta e nella commozione del presidente Napolitano - e ritrovandosi, invece, in un governo di "deberlusconizzazione" a tappe forzate, che sembra aver intenzionalmente vivacchiato per mesi (sia nelle scelte economiche che sulle riforme), in attesa della sua decadenza, persino anticipata, e della conseguente spaccatura del Pdl, Berlusconi non poteva non reagire in qualche modo. Avrebbe potuto anche rassegnarsi alla "deberlusconizzazione" del Parlamento, ma non a quella del suo partito.

Di errori ne ha commessi molti. Sentendosi forte, all'indomani del voto e dopo la figuraccia del Pd, ha accettato una lista di ministri che prefigurava già il piano di Letta e Alfano, una divisione tra "buoni" e "cattivi" del Pdl. Una squadra di ministri che coincideva guarda caso con i big presenti alla manifestazione "Italia popolare" al Teatro Olimpico, che già prima delle elezioni erano pronti ad abbandonarlo per Monti. E i quali, poi, devono aver pensato che fosse meglio entrare in Parlamento a bordo del "tram Berlusconi", che garantisce sempre buoni numeri, e rinviare l'operazione. Berlusconi avrebbe potuto giocare altre carte anche all'indomani della sentenza di condanna della Cassazione: sebbene comprensibile il suo stato d'animo, avrebbe potuto avviare con Napolitano una trattativa per ottenere non vie d'uscita che era del tutto irrealistico che potesse concedere (figuriamoci pretenderle dal Pd), ma un vero patto politico sulle riforme per il quale il presidente avrebbe potuto spendersi, e dal quale il Cav avrebbe potuto trarre una nuova legittimazione politica, nonostante la condanna e l'esclusione dal Parlamento. Non è detto che gli sarebbe stato concesso, ma certo un tentativo onorevole e più realistico.

Vedendosi nelle ultime settimane sempre più accerchiato e ferito, e avendo fiutato il doppio gioco dei suoi ministri, ha deciso di rompere l'assedio, di non accettare passivamente il ruolo di vittima sacrificale e almeno di fare chiarezza tra i suoi. E' vero che la "deberlusconizzazione" e la spaccatura del partito si sarebbero probabilmente verificate per inerzia, dopo la decadenza e l'esecuzione della sentenza Mediaset, e quindi era questa l'ultima finestra utile per tentare di salvare il salvabile, ma i fatti dimostrano che i tempi erano sbagliati. Nessuno era davvero pronto per una crisi del governo Letta, nemmeno Berlusconi. Figuriamoci il Paese, la stessa opinione pubblica di centrodestra, o i gruppi di "potere" e i partner internazionali. Probabilmente aspettando ancora qualche mese, osservando l'andamento dell'economia e facendo maturare la delusione per l'immobilismo e il minimalismo del governo, avrebbe fatto apparire meno "irresponsabile" la crisi, non legata alla sua decadenza (già avvenuta), e meno attraente la scissione governista di Alfano. Ma, appunto, forse questo tempo non c'era.

Ultimo errore: il sì al voto di fiducia una volta intrapresa così inequivocabilmente la via della crisi di governo. E' vero che Letta, Napolitano e il Pd speravano in un no, quindi nel sostegno incondizionato di un pezzo di Pdl finalmente deberlusconizzato e alfanizzato, e il Cav li ha spiazzati, almeno finché non si formeranno i gruppi scissionisti. E certo, a latte versato potrà sempre rivendicare l'ulteriore atto di "responsabilità" e l'estremo tentativo di tenere unito il Pdl. Ma il sì ha posto Berlusconi in un limbo di irrilevanza: non può far sentire il proprio peso dall'opposizione ed è chiaro a tutti che Letta ha ormai i numeri di Alfano per andare avanti, non ha più bisogno di quelli del "giaguaro". Ma soprattutto ha trasformato un possibile "25 luglio" in un "8 settembre", un "tutti a casa" nel suo partito, come osservato da Ferrara su Il Foglio. Ha perso l'ala governista, pronta comunque alla scissione (o a prendersi il partito), e il suo esercito anziché ridotto ma compatto è in rotta: quanti erano disposti a seguirlo si sono sentiti traditi, ora temono purghe interne (per ricucire Alfano ne chiederà l'esclusione da ruoli di rilievo) e comunque faranno fatica ad esporsi nuovamente. Ha quindi concesso ad Alfano una leva insperata, e forse decisiva, per prendersi il Pdl anziché andarsene da "traditore".

A proposito di Alfano. Svolta la funzione di "deberlusconizzare" la maggioranza diventa numericamente determinante per Letta, rischiando però di contare meno politicamente. Da una scelta come quella di dividersi da Berlusconi, o di marginalizzarlo nel suo partito, per sostenere un governo di coalizione (non più di "larghe intese") con il Pd non si può tornare indietro. Se lo si fa, si ammette di aver avuto torto e si sparisce. Dunque, da oggi per Alfano il governo Letta diventa l'unico orizzonte possibile e sarà molto difficile che riesca a porre con la necessaria forza delle priorità e condizioni programmatiche. Per esempio, nell'indifferenza generale ieri Saccomanni ha fatto sapere che la questione dell'aumento dell'Iva è chiusa. Cosa ha da dire Alfano? D'altronde, già in questi primi mesi i ministri del Pdl si sono comportati come se così fosse, facendo passare qualsiasi nefandezza fiscale, fino al pasticcio indecoroso che stava per essere varato per rinviare l'aumento dell'Iva. A conclusione dell'esperienza di governo, cosa sarebbe in grado di rivendicare come proprio specifico apporto agli occhi dell'elettorato di centrodestra? Ah, già, gli elettori, cerchiamo di non dimenticarceli, perché prima o poi si vota. E alla fine toccherà ad Alfano, sia che conquisti il Pdl sia che formalizzi la rottura, dimostrare le buone ragioni della propria scelta.

E' del tutto evidente che un futuro politico dopo Berlusconi esiste. E' legittimo, anzi auspicabile, che "falchi" e "colombe" si sforzino di darsi un futuro politico. Ma può esistere senza ciò che Berlusconi nel bene e nel male ha incarnato e rappresentato in questi vent'anni? Può esistere, senza un'idea fusionista di centrodestra, senza il bipolarismo, e sacrificando alcuni contenuti che nonostante le promesse non mantenute sono stati centrali (per esempio, tasse e giustizia)?

"Noi difenderemo sempre Berlusconi, ma il governo Letta è un'altra cosa", è un'ipocrisia o un'ingenuità (o entrambe). Significa restare al suo fianco sul piano personale, ma su quello politico accettare l'idea che la sua condanna ed esclusione della vita politica riguarda solo lui, che anche se è un'ingiustizia la vita continua, "the show must go on", quindi significa abbandonare la battaglia per una giustizia non politicizzata. Non può essere così se si vuole avere un futuro politico nel centrodestra dopo Berlusconi. Non si tratta di pretendere dal governo, dal Pd, o da Napolitano, di salvare Berlusconi. Ma bisogna avere la capacità, la volontà e la forza di porre la questione politicamente e non accontentarsi, come fa Cicchitto, di dire "saremo sempre garantisti e contro la magistratura politicizzata, ma scusate, ora serve stabilità e purtroppo sappiamo che il Pd la pensa diversamente", riducendola a mera testimonianza. Perché oggi ad essere sacrificato sull'altare della "stabilità" sarà il tema della giustizia, domani la questione fiscale, e dopodomani chissà, magari ci si sveglia ma sarà troppo tardi.

Dunque, a chi scrive sembra che da mesi nel Pdl, per garantirsi un futuro politico nel centrodestra, ci sia una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi, a portarla dalla propria parte e ad esibirla nella propria teca, per poter rivendicare il titolo di successore. Quello che nessuno pare aver capito è che davvero la leadership di Berlusconi non è qualcosa che passa di mano per eredità. Si conquista sul campo incarnando ciò che lui ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra. Al di fuori, sono tutti destinati all'irrilevanza. La nuova Dc a cui pensano gli alfaniani rappresenterebbe comunque solo una parte del popolo di centrodestra, non marginale ma minoritaria, sarebbe per la sinistra un avversario da battere agevolmente o, al massimo, da cooptare in un governo di coalizione qualora il Pd non veda alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, di governo ed europea, c'è tutto. In un partito può (forse deve) vigere la regola che l'ultima parola sul da farsi spetta al leader. Ma non può vigere la regola dell'ultimo che riesce a convincere l'anziano ed esausto leader, in un gioco interminabile di piroette.

Entrambe queste fazioni stanno più o meno inconsapevolmente lavorando ad una Terza (Prima?) Repubblica di cui il Pd è destinato ad essere perno centrale. Grazie alla probabile correzione in senso proporzionalista della legge elettorale (premio di maggioranza meno generoso), e alla nuova "conventio ad excludendum" delle estreme (post-berlusconiani, ex An, Lega e Grillo), il Pd potrà avvantaggiarsi delle divisioni nel centrodestra e restare sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili").

Monday, September 30, 2013

La crisi e il futuro del centrodestra

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Ancora una volta Silvio Berlusconi spiazza tutti, anche molti nel suo partito, e ha contro quasi tutti nei palazzi e nei salotti romani (nelle urne, si vedrà). No, non bluffava. Solo chi è molto ingenuo o propina scadente propaganda può davvero sostenere che il Cavaliere abbia aperto la crisi nel tentativo di evitare che si perfezioni la sua decadenza da senatore e di salvarsi dall'applicazione della sentenza di condanna che ne determina comunque l'incandidabilità per tre o sei anni. Certo, ha cercato di trattare sulla sua "agibilità politica", ma sa bene che non sarà certo la crisi a ritardare la sua esclusione dalle istituzioni e il suo destino giudiziario. Perché la crisi, dunque? E' certamente vero che la mossa è strettamente legata alle sue vicende personali (che qualcuno crede fondatamente abbiano a che fare con la democrazia), ma non nel modo banale che ci viene raccontato. Udite udite: nell'aprire questa crisi Berlusconi non ha alcuna convenienza personale. Ma il problema è proprio questo: è stato messo nelle condizioni di non avere nulla da perdere. E allora, perché assecondare i disegni dei suoi carnefici?

Ancora una volta "L'arte della Guerra" di Sun Tzu si conferma compendio di saggezza senza tempo: accerchia il tuo nemico, ma lascia sempre una via di fuga, si batterà con meno ardore. Invece, un animale ferito e disperato, lotterà con tutte le sue forze e contro qualsiasi pronostico. Chi ha deciso di non concedere nemmeno l'onore delle armi a Berlusconi, di accelerare una decadenza che sarebbe comunque sopraggiunta entro poche settimane, applicando una legge di dubbia costituzionalità e comunque funesta per la nostra democrazia, pur di purificarsi agli occhi del proprio elettorato, e di ignorare la questione giustizia per avere dalla sua parte i magistrati, unici in grado di togliere di mezzo l'avversario politico, ha messo nel conto, accettato, il rischio di questa crisi. E d'altronde, la situazione in cui è venuto a trovarsi Renzi - il Congresso che rischia di essere rinviato, l'ipotesi elezioni con Letta candidato, o un brutto governicchio da sostenere - rivela che le impronte digitali su questa crisi non sono solo quelle di Berlusconi. In tanti hanno tirato la corda.

Due erano gli elementi costitutivi di questo governo: una prospettiva di "pacificazione" e una svolta nella politica economica - senza abbandonare il rigore ma coniugandolo con riforme e tagli alla spesa pubblica e alla pressione fiscale per ridare fiato alla nostra economia. Ma proprio il presidente della Repubblica che nel discorso della sua rielezione sembrava perfettamente consapevole della necessità e urgenza di una pacificazione nazionale, nel momento più critico, quello seguito alla controversa condanna definitiva di Berlusconi (eventualità a cui certamente Napolitano era preparato), non ha saputo, o voluto, rilanciarla. Poteva farlo non necessariamente a scapito dell'applicazione della sentenza della Cassazione, aggirandola con provvedimenti di clemenza o leggi ad personam.

La via della pacificazione sarebbe potuta restare nell'alveo della politica, per esempio attraverso un percorso di riforme costituzionali più celere che portasse alla legittimazione reciproca tra avversari e che includesse anche il tema della giustizia. Non, quindi, un quarto grado di giudizio che assolvesse Berlusconi delegittimando clamorosamente la Cassazione, ma un atto politico che riconoscesse come anomalia da correggere l'accanimento giudiziario nei suoi confronti. Eppure, nemmeno una volta fatto fuori il suo avversario per via giudiziaria il Pd ha mostrato una disponibilità - nemmeno tattica - a mettere finalmente mano alla questione della giustizia ideologizzata e politicizzata, che pure enormi danni sta infliggendo al Paese, anche in sfere diverse da quella strettamente politica (vedi il caso Riva/Ilva). E nemmeno un gesto politico, magari nella forma di un messaggio alle Camere, è arrivato da Napolitano per incoraggiare i suoi "compagni". Qualcosa che potesse, nonostante la sentenza di condanna di Berlusconi, rimettere in moto il processo di pacificazione che sembrava alla portata subito dopo la sua rielezione e la nascita del governo Letta.

Da lì in poi, infatti, le larghe intese nate sotto il segno della pacificazione e della svolta economica si sono rivelate per quello che molti sospettavano: un'operazione di galleggiamento del "relitto Italia", da una parte nell'attesa di mettere fuori gioco Berlusconi, che si compiesse la sua espulsione dalle istituzioni, dall'altra per ritardare il più possibile la candidatura alla premiership di Matteo Renzi. In verità, già scorrendo la lista dei ministri del Pdl si poteva scorgere l'intenzione di dividere i "buoni", disposti al momento opportuno a mollare il vecchio leader e a dar vita all'ennesima operazione centrista (nonostante quella appena fallita di Monti e Casini), da Berlusconi e i "cattivi", che sarebbero stati abbandonati al loro destino.

Ecco, quindi, che l'unico obiettivo del governo sembrava il tirare a campare, per dividere il centrodestra da un lato e sbarrare la strada a Renzi dall'altro. Dai tempi lunghissimi, e le procedure pletoriche, del processo di riforme concepito dal ministro Quagliariello, alle scelte chiave in politica economica continuamente rinviate, rateizzate, anche quando le coperture sembravano alla portata: l'Imu cancellata solo a metà e l'aumento dell'Iva rinviato di tre mesi in tre mesi (per poter scaricare la responsabilità della loro permanenza sul Pdl nel caso in cui avesse staccato la spina), per non parlare della spending review, delle dismissioni e dei costi standard. Anzi, diversi sono stati i decreti di spesa, coperti con nuovi balzelli e accise, di cui anche i ministri Pdl sono stati complici, se non addirittura artefici. Altro che "fortino" e "sentinelle" anti-tasse! I ministri del Pdl in questi mesi hanno avallato, e fino all'ultimo dimostrato che avrebbero continuato ad avallare, qualsiasi nefandezza fiscale pur di tenere in vita il governo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è il pasticcio sull'Iva cucinato tra Saccomanni, Letta e i ministri Pdl, per cui l'aumento veniva rinviato di soli tre mesi aumentando però altre tasse (accise e acconti Ires/Irap). Per qualsiasi motivo e strategia Berlusconi abbia staccato la spina, nessun rimpianto per questo governo dei "Guardiani della Spesa".

Insomma, un film già visto: invece di battere Berlusconi nelle urne, da anni si tenta un "rassemblement" centrista e moderato dopo l'altro per isolarlo nei palazzi della politica. Poi, però, presto o tardi si torna al voto e dalle urne esce un centrino ambiguo e democristiano. E' già capitato a Fini, Casini e Monti. Ora è il turno di Alfano? Il ruolo della sinistra e dei giornali dell'establishment è sempre lo stesso (è scritto a chiare lettere negli editoriali di oggi): allettare i dissidenti di turno (per poi abbandonarli a "funzione" svolta) con la prospettiva di un ambizioso progetto politico - niente meno che un Partito popolare finalmente europeo e liberale - mentre ciò a cui sono veramente interessati è un centro che isoli la destra, docile e remissivo, subalterno, da battere agevolmente o buono al massimo per un governo di coalizione. "Se volete esistere politicamente dopo Berlusconi - ripetono - questo è il momento di farsi avanti". Può darsi, ma esistere come? Come Martinazzoli, Dini e Mastella? Operazione legittima, intendiamoci, com'è legittimo opporsi da parte di chi nel centrodestra ritiene di non voler morire democristiano.

Sta di fatto che le scelte responsabili di Berlusconi a inizio legislatura - la rielezione di Napolitano e le larghe intese - sono state rivoltate contro di lui. Anziché coglierla questa occasione, forse l'ultima, per una pacificazione, una legittimazione reciproca, come premessa per una politica finalmente capace di cambiare il paese, è stata buttata nel cesso, trasformandola nell'ennesimo tentativo di farlo fuori e dividere il centrodestra. Il che c'entra poco o nulla con i richiami alla "stabilità" e alla "responsabilità" di queste ore. In cosa consisterebbero moderazione e responsablità? Nel tenere in vita un governo che si preparava ad aumentare accise e acconti Ires/Irap pur di non trovare nella spesa pubblica il miliardo che serviva. Non in grado, dopo cinque mesi di vita, di muovere un solo passo per tagliare spesa e debito?

La mossa di Berlusconi quindi fa chiarezza anche tra i suoi. Non è solo una questione di fedeltà/tradimento, sono in gioco diverse visioni di centrodestra. Quella centrista delle cosiddette "colombe" a mio modo di vedere porta alla divisione del centrodestra e alla subalternità politica e culturale alla sinistra e al partito della spesa. E' vero però che nemmeno l'alternativa che sembra profilarsi con la nuova Forza Italia appare molto entusiasmante: sarebbe poco lungimirante e perdente se fosse una ridotta di "falchi" interessati a lucrare personalmente da un partito di mera resistenza, senza vocazione maggioritaria e di governo, incapace di recuperare credibilità.

Possibile che il centrodestra italiano sia condannato alla subalternità neo-democristiana o alla marginalità di un nostalgico "Msi" post-berlusconiano? La questione centrale è se questo paese abbia diritto ad avere una destra, o un centrodestra, nei cui confronti non vigano una demonizzazione e una persecuzione permanenti, da parte oltre che dagli avversari politici anche da poteri che dovrebbero essere neutrali se non neutri, o se invece sia condannato ad una non scelta tra una sinistra post-comunista e un centro democristiano trasformista, culturalmente subalterno.

Tuesday, September 24, 2013

Gli inganni dei guardiani della spesa

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Il premier Letta avverte che non ci sta a farsi logorare. Purtroppo però il problema è che tra acconti di imposte, nuovi balzelli, rinvii, ripensamenti e gioco delle tre carte, è il suo governo che sta logorando gli italiani. Il ministro dell'economia Saccomanni si sveglia rigoroso quando si tratta di tagliare tasse o evitare nuovi aumenti, mentre si mostra molto più morbido e accondiscendente sulla spesa pubblica. L'aumento dell'Iva sembra diventato inevitabile, perché non si può certo mettere a rischio il bilancio per un miliardo, o quattro o cinque, ma la spending review può aspettare, bisogna prima nominare un nuovo commissario che se ne occupi. E i costi standard? Tutto pronto ma con calma, non c'è fretta. E le dismissioni? Prima il "road show" (per la promozione del Paese o di Letta junior?). Intanto, nonostante non ci sarebbero soldi per bloccare l'aumento dell'Iva, ne sono stati trovati a sufficienza per ulteriore spesa pubblica, dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione al decreto sulla scuola, passando per i fondi alla cultura e altre micro-spese che sommate non sono così trascurabili. Insomma, la spesa pubblica sembra ormai incomprimibile (come se venissimo da anni di pesanti tagli), ma le tasse sono sempre espandibili, e i cittadini sono ormai molto più che al servizio dello Stato: sono veri e propri bancomat.

Il giochetto è chiarissimo: dietro l'alibi dei conti pubblici, della "responsabilità", dei richiami pedanti al rispetto del vincolo europeo del 3% di deficit, c'è in realtà la difesa ostinata, ad oltranza, della spesa pubblica. Nessuno chiede di sforare quel tetto: tagliare le tasse, o per lo meno evitare di aumentarle, si può trovando le necessarie coperture, tagliando la spesa. Ma se un ministro dell'economia sostiene che è impossibile trovarne in un bilancio di oltre 800 miliardi l'anno, sta implicitamente dichiarando o la sua impotenza o la sua incapacità. Delle due l'una, non si scappa. Anche perché in questi anni, le famiglie e le imprese, per far fronte non solo alla crisi ma anche alle pretese debordanti del fisco, hanno tagliato ben più dello 0,5% (tanto vale scongiurare l'aumento dell'Iva) dai loro bilanci.

Le fantastiche 7 proposte di Brunetta - tra anticipi, rinvii e una tantum - danno effettivamente il senso di qualcosa di molto precario e raccogliticcio, ma tra misure "spot" e vere riforme ci sono molteplici interventi possibili. Un intervento sulle pensioni d'oro può valere da un miliardo, nell'ipotesi più minimale, fino a una dozzina, nell'ipotesi più ambiziosa e radicale (e si può fare in modo da non incorrere nella bocciatura della Consulta). Poi ci sono gli stipendi d'oro dei manager pubblici, i sussidi troppo generosi alle rinnovabili, le province e il finanziamento pubblico ai partiti che sono duri a morire. Quindi le riforme di sistema, come la spending review "zero-based", l'adozione dei costi standard, la revisione del Titolo V, il disboscamento della selva di contributi alle imprese e di agevolazioni fiscali. Su tutto questo il governo finora non ha ancora mosso un passo.

I soldi, dunque, ci sono eccome, bisogna concludere che non tagliare, non evitare l'aumento dell'Iva, è una scelta politica, non un dato ineluttabile con cui fare i conti. Meglio aumentare l'Iva che ridurre la spesa pubblica? Lo si dica apertamente, mettendoci la faccia davanti all'opinione pubblica, ma basta con il giochetto dei soldi che non ci sono e con la retorica della "responsabilità", della "stabilità" e dei vincoli europei. La "stabilità" dell'attuale livello di pressione fiscale pur di non toccare la spesa pubblica, questo sì è massimamente irresponsabile. Invece chi vuole tagliare le tasse, anche se chiede di trovare adeguate coperture nei tagli alla spesa, viene accusato di populismo e demagogia, di propaganda, perché - si dice - non conosce davvero il bilancio e la macchina pubblica. Questa retorica, e l'indicare nell'evasione fiscale la causa prima del dissesto dei nostri conti pubblici, sono i peggiori inganni e le più efficaci strategie dei difensori della spesa pubblica.

Come ampiamente previsto, anche la polemica contro i tagli lineari si è rivelata niente più che un alibi per non tagliare. Bisogna agire selettivamente sulla spesa, ci viene spiegato, ma per farlo serve tempo, ci vuole un commissario, poi un altro; un rapporto, poi un altro, e così via. No, bisogna riabilitare i tagli lineari! Sia il governo a fissare obiettivi di risparmio ad ogni centro di spesa, in percentuali naturalmente diversificate, e siano gli enti stessi nella loro autonomia a decidere cosa tagliare. Per favorire una spending review "dal basso", per esempio, si potrebbero fissare premi economici e di carriera ai dirigenti pubblici che riescono a risparmiare, a ridurre le loro voci di spesa a parità di produttività.

Due strane coincidenze, poi, fanno dubitare dei veri motivi all'origine dell'improvviso irrigidimento sia del ministro Saccomanni, arrivato persino a minacciare le proprie dimissioni, che del premier Letta. E' avvenuto subito dopo l'incontro con il commissario europeo Olli Rehn e subito dopo il videomessaggio in cui Berlusconi, lasciando intendere di non voler staccare la spina alle "larghe intese" sulla propria decadenza, ha chiesto con forza però di fermare il «bombardamento fiscale»: la spiacevole sensazione, insomma, è che non si voglia fare qualcosa di ragionevole come scongiurare l'aumento dell'Iva solo per non accontentare il Pdl, per non concedergli altri "punti" dopo l'Imu. Ma così, per meri calcoli politici, a rimetterci sarebbero tutti gli italiani.

Thursday, September 19, 2013

Relitto Italia: operazione galleggiamento

Anche su L'Opinione

Si sono sprecate in questi giorni molte similitudini tra l'operazione di "parbuckling" della Costa Concordia e la situazione del nostro paese, i tentativi di "salvarlo" dagli abissi della decrescita. Ma non mi pare sia stata evocata l'unica davvero appropriata. Se quella sulla Concordia è stata un'operazione perfettamente riuscita dal punto di vista ingegneristico, anche il governo Letta, come il governo Monti prima di lui, potrebbe (forse) riuscire nell'impresa dal punto di vista contabile, quindi a rispettare i parametri europei e a gestire il nostro enorme debito pubblico, ma il paese che riuscirà eventualmente a risollevare e a far galleggiare sarà, temo, soltanto un relitto. Un esito scontato se la via del rigore e del risanamento non prevederà massicce dosi di riduzione di spesa pubblica e, quindi, di pressione fiscale.

Purtroppo l'obiettivo della nostra classe politica, ma anche dell'alta burocrazia e delle corporazioni dominanti (sindacati e Confindustria) non sembra essere quello di evitare agli italiani un penoso futuro, ma quello di salvare la spesa pubblica, apportando aggiustamenti marginali sì, ma senza mettere in discussione la sua mole, quindi senza scalfire la rete di clientele e le rendite di posizione che garantisce a chi la gestisce.

Ecco perché piuttosto che il governo del fare, questo è il governo del rinviare, nella speranza che un po' la ripresa dell'export, un po' qualche fondo europeo, garantiscano quella crescita dello zero virgola che ci consenta di galleggiare, mentre in realtà ci condanna al declino e all'impoverimento relativo rispetto sia agli altri paesi europei che ai paesi emergenti. Insomma, la missione di questo governo sembra quella di far galleggiare il relitto Italia (come si sta facendo con il Concordia, riaddrizzato ma pur sempre un relitto).

Stiamo ancora aspettando l'avvio della mitologica spending review, o del programma di dismissioni, o ancora l'attuazione dei costi standard, così come siamo in attesa delle coperture per la cancellazione della seconda rata dell'Imu e del promesso (entro il 31 agosto scorso) riordino sulla tassazione immobiliare. Per non parlare dell'immobilismo su pensioni e stipendi d'oro, sui contributi alle imprese del rapporto Giavazzi, insabbiato dal Ministero dello Sviluppo, con il silenzio complice di Confindustria, per impedire lo scambio "meno politica industriale" (sussidi per pochi) - "meno tasse" (per tutte le imprese). Pare sia "inevitabile", invece, l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, già l'aliquota più alta d'Europa. Il commissario europeo Rehn sembra essere stato "calato" da Bruxelles proprio per benedire la decisione del governo Letta di non evitarlo - a meno che non sia un patetico escamotage per far gridare al miracolo quando ne verrà annunciato l'ennesimo rinvio al primo gennaio o aprile o luglio 2014. Soldi non ce ne sono, eppure il governo Letta-Alfano è riuscito a trovare le risorse per ulteriore spesa pubblica, dalla stabilizzazione dei precari della pubblica amministrazione al decreto sulla scuola, passando per i fondi alla cultura e altre micro-spese che sommate non sono così trascurabili.

Nel frattempo i ministri del Pdl, che proprio il vicepremier Alfano (il più distratto tra i suoi colleghi ministri pidiellini nel farsi passare sotto il naso ogni sorta di balzello) ha avuto l'impudenza di definire il "fortino antitasse" nel governo, si stanno rivelando un partito della spesa. Lupi sta preparando un piano quinquennale per il rinnovo del parco mezzi pubblici e privati su gomma con incentivi per 500 milioni (metà di quanto servirebbe per bloccare l'aumento dell'Iva fino a dicembre). La De Girolamo un pacchetto di incentivi e formazione per l'assunzione di "giovani" (under 40) nell'agricoltura «figa» (qualunque cosa significhi...).

E' vero, il Pdl è comprensibilmente preso dalle vicende del suo leader, ma sembra proprio non riuscire a darsi una linea salda su tasse/spesa e riforme istituzionali, nonostante i generosi sforzi di qualcuno non vadano dimenticati. Non ci iscriviamo però alla folta schiera di quanti non si rendono conto, o fingono di non accorgersi, che il caso Berlusconi non riguarda solo il cittadino e il politico Berlusconi. Sono in gioco valori fondamentali per qualsiasi democrazia, che rischiano di essere travolti insieme al controverso leader, e di restare sepolti chissà per quanto tempo. Stiamo assistendo all'inizio della fase più cruenta del giacobinismo italiano e non possiamo dire oggi se, e quando avrà fine. Abbiamo la sensazione però che, una volta montata, la ghigliottina giustizialista resterà in attività a lungo, anche molto dopo l'uscita di scena del Cav.

Dunque, non rimproveriamo a Berlusconi e ai suoi di voler tenere il punto, di aggrapparsi con le dita di mani e piedi allo scoglio per non farsi trascinare via dalla corrente, ma di avere sostanzialmente smesso di porsi, e di proporre ai cittadini, obiettivi politici di maggiore appeal. Di non rendersi realisticamente conto che per quanto sulla giustizia rischiamo davvero di giocarci definitivamente la democrazia nel nostro paese, l'unico orizzonte su cui sono fissati gli occhi dei cittadini è comprensibilmente quello della crisi economica, delle politiche per uscirne, del lavoro, delle tasse e della spesa pubblica.

Il sequestro ordinato dal gip di Taranto, che ha costretto il gruppo Riva a sospendere le attività di stabilimenti che nulla c'entrano con l'Ilva, essendo di fatto bloccata la sua operatività finanziaria in tutta Italia, conferma che la magistratura ideologizzata e politicizzata non resta circoscritta al caso Berlusconi e non cesserà di esserlo con la decadenza di Berlusconi. Tende semmai ad estendere il proprio raggio d'azione al di fuori della sfera politica in senso stretto, fino al punto di danneggiare gravemente settori vitali della nostra economia. Non si accontenta di far fuori un avversario politico, sta distruggendo, e non da oggi, ciò che rimane del nostro sistema industriale, e con esso migliaia di posti di lavoro, arrivando a minacciare il principio, e l'esercizio concreto, della libertà d'impresa. E per farlo non esita a disapplicare o aggirare le leggi dello Stato. Non illudiamoci di non pagare il caso Ilva anche in termini di fuga di realtà produttive - italiane e straniere - dall'Italia: una via sicura per il nostro definitivo declino. Per non parlare dei veri e propri attacchi terroristici di cui sono vittime le imprese che lavorano nel cantiere Tav in Val di Susa, che non ricevono dallo Stato adeguata protezione.

Su tutto questo, nonostante l'evidente aggressione della magistratura politicizzata anche alla nostra economia già agonizzante confermi le sue tesi sulla giustizia, il Pdl è rimasto pressoché in silenzio. Mentre il governo studia interventi legislativi - un custode giudiziario cui spetterebbe di guidare in tutto e per tutto l'attività produttiva, l'impresa - che  rischiano di ratificare di fatto una forma di esproprio per via giudiziaria, per di più nella fase delle indagini preliminari, non solo senza una sentenza ma senza nemmeno un processo. L'azione della magistratura di Taranto ormai si è trasformata in lotta di classe contro i Riva e lotta di potere contro Governo e Parlamento. Se il metodo adottato dai magistrati e gli espedienti normativi del governo Letta diventano "sistema", è tracciata la via italiana alle nazionalizzazioni. Davvero per eliminare Berlusconi dalla scena politica non si vuole riconoscere la deriva ideologica e faziosa di parte della magistratura? Ne vale davvero la pena?