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Friday, April 29, 2011

L'errore commesso all'inizio

Si poteva evitare l'ennesima crisetta della maggioranza sulla Libia. Ma l'errore è stato commesso a monte più che a valle. A valle, d'accordo, soprattutto mancando di consultare l'alleato sulla «svolta»: «Con Umberto ho sbagliato, ho commesso un errore, avrei dovuto avvertirlo prima...», avrebbe ammesso Berlusconi. Le spiegazioni postume al fatto compiuto risultano sempre molto meno convincenti. Ma la «svolta», appunto, non avrebbe dovuto essere tale. Perché come qui si è scritto fin dall'inizio della crisi libica, era (ed è) interesse dell'Italia esserci, partecipare alla missione senza ambiguità, nel pieno dell'operatività. E come volevasi dimostrare... Questo interesse era tanto pressante da essersi alla fine imposto su tutto, superando la ritrosia di Berlusconi e della Lega, nonché il nostro orgoglio ferito da Sarkozy.

Raramente è stato (ed è) in gioco il nostro interesse nazionale in modo così lampante, direi eclatante. Il che rendeva inevitabile, obbligatoria, la nostra piena partecipazione, in prima linea, alla missione militare, per quanto appaia la più sconclusionata e mal preparata che si ricordi, almeno in tempi recenti. L'errore è stato metterci così tanto tempo per capirlo. Decidere subito di essere in prima linea in Libia avrebbe probabilmente risparmiato al governo le tribolazioni interne di questi giorni e certamente le piccole angherie dei francesi. Probabilmente Berlusconi e Frattini non hanno avuto un grande aiuto dai nostri servizi segreti e dal mondo imprenditoriale presente in Libia, che nonostante quanto stesse accandendo a Tunisi e al Cairo hanno continuato a illudersi della solidità di Gheddafi, ma il ritardo "impolitico" con il quale ci siamo adeguati alla realtà delle cose è stato l'errore causa di tutti i successivi mali.

Al vertice con la Francia Berlusconi non si è "calato le braghe", ma certo la difficoltà della nostra posizione era più che evidente. Se ci siamo dovuti sorbire le lezioncine di Sarkozy in queste settimane è sempre per quel dannato errore di valutazione iniziale. E né la Lega, né i giornali vicini al centrodestra (tranne Il Tempo) possono lamentarsi e dare lezioni, visto che se fosse stato per loro ce ne staremmo ancora ai margini, mentre le altre potenze europee fanno e disfano nel nostro cortile di casa. Colpa anche loro, infatti, se per giorni si è discusso della crisi libica solo in chiave immigrazione e non alla luce dei nostri ingenti interessi in Libia - quelli stringenti di ordine economico ed energetico, e quello più di lungo termine per una vera "stabilità" nel vicinissimo Oriente, se possibile appena un pizzico "democratica". Eppure, dovrebbe essere persino ovvio che non è la missione Nato a provocare o ad alimentare i flussi migratori, bensì il profondo rivolgimento in atto nei regimi nordafricani. Esserci, partecipare, semmai, ci metterà nelle condizioni migliori un domani per governarli.

Va poi considerato che per la stragrande maggioranza i 25 mila immigrati giunti fino ad oggi sulle nostre coste sono tunisini e - temo - molti galeotti fuoriusciti dalle carceri nei giorni della caduta di Ben Alì. Non si tratta di profughi della guerra civile libica, né di africani dall'"Africa nera", quindi non c'entrano nulla i raid sulla Libia, è una vera e propria ca...ta che «se butti bombe e missili gli immigrati aumentano». L'aver trasformato la crisi libica in una gigantesca emergenza immigrazione, ben oltre la realtà dei fatti, è stato un altro errore. Si sapeva dell'ondata, certo eccezionale ma non un esodo biblico, ma ci si è fatti lo stesso trovare impreparati. Le immagini di Lampedusa invasa non sono state un bel manifesto di efficienza, né sono servite a "commuovere" l'Unione europea, mentre l'accordo con le Regioni per la distribuzione degli immigrati poteva essere raggiunto in anticipo per evitare l'impatto mediatico degli accampamenti.

Anche sulla vicenda clandestini, è tutto vero: l'Europa è assente e ipocrita, i francesi arroganti, ma Parigi sta applicando ciò che fino a ieri noi stessi rivendicavamo di poter fare: espellere, secondo le norme di Schengen, quanti nonostante muniti di documenti in regola (se un permesso di soggiorno "emergianziale" è da considerarsi tale) non abbiano risorse per l'autosostentamento, un lavoro o denaro a sufficienza. La non belligeranza della Germania, poi, dimostra solo la miopia di chi la chiama in causa per sostenere che potevamo comportarci diversamente e restarne fuori, essendo fin troppo evidente che al contrario di noi italiani i tedeschi non hanno interessi neanche per un granello di sabbia in Libia.

Quanto al vertice con la Francia, il sostegno di Parigi (e ora anche tedesco, pare) a Draghi per la Bce era nell'aria. Ma l'annuncio di Sarkozy è stato senz'altro un punto a favore. Il maggiore impegno in Libia è un sì all'America e alla Nato, piuttosto che a Parigi. E il via libera all'Opa di Lactalis su Parmalat un utile esercizio di pragmatismo. I nostri industriali e le nostre banche non sembrano avere la volontà, né probabilmente i soldi, ma nulla vieta loro di rilanciare se tengono tanto a che resti italiana. Se c'è una cordata si faccia avanti, ma senza usare i soldi dei contribuenti per favore, neanche si trattasse di un settore delicato come la sicurezza e la difesa. Sullo shopping francese in Italia e altrove, e sul perché i nostri non abbiano il "grano" sufficiente, si potrebbe aprire una lunga parentesi. Come mai, per esempio, nonostante la nostra tradizione e cultura alimentare, riconosciuta in tutti gli angoli del pianeta, fino all'Antartide e alla Polinesia, è una grande catena di distribuzione francese, la Carrefour, a dominare i mercati - persino il nostro - imponendo ovviamente i prodotti francesi? Qualcuno - primi fra tutti i nostri imprenditori - dovrebbe farsi un esame di coscienza. Ma è un altro discorso ed ha a che fare, a mio modestissimo parere, anche con la difficoltà enorme che c'è in Italia di formare il capitale, e quindi di far crescere le dimensioni delle nostre imprese, per cui quelli che possono permettersi certe operazioni sono sempre gli stessi - per lo più banche - e non sempre sono interessati.

Insomma, paradossalmente la padanissima Lega sa essere anche la più "nazionalista", ma di un nazionalismo miope e rancoroso, mentre proprio per uno spirito di "sano nazionalismo" dovremmo recitare un ruolo da protagonisti nel palcoscenico del Mediterraneo.

Thursday, April 21, 2011

Inchieste alla bufala

Quante puntate di Annozero ci ha dedicato Santoro sulla tv pubblica? Quante paginate quelli di Repubblica e Il Fatto Quotidiano? Quante Procure ci hanno basato le loro inchieste? Addirittura tre (Palermo, Caltanissetta e Firenze)! Ebbene, quel Massimo Ciancimino (figlio del mafioso Vito), che veniva portato in palmo di mano come autentico oracolo e icona dell'antimafia, vera e propria star televisiva, la cui attendibilità non poteva essere messa in discussione pena l'essere additati tra coloro che ostacolano la ricerca della verità sulle stragi di mafia del '92-'93 e sulla presunta trattativa Stato-mafia, è stato fermato oggi con l'accusa di «calunnia aggravata», perché dalle perizie condotte dalla polizia scientifica è emerso che uno dei "pizzini" da lui consegnati è stato volgarmente falsificato.

Non un pizzino qualsiasi, ma quello che avrebbe dovuto inchiodare l'ex capo della Polizia De Gennaro come il "signor Franco", l'agente dei servizi che tramite il padre Vito avrebbe trattato con i boss di Cosa Nostra per conto dello Stato. Ebbene, il nome di De Gennaro risulta essere stato sovrapposto a posteriori su un vecchio documento poi banalmente fotocopiato (e ci voleva la Scientifica per accorgersene!). E questo "pizzino" è l'architrave fondamentale su cui poggia l'intera ricostruzione del Ciancimino jr.

«Noi sempre rigorosi», si giustifica adesso Ingroia (il magistrato che parla ai comizi); con lui «nessun rapporto privilegiato», giura Messineo. Balle, balle, balle. Per anni Ciancimino è stato ritenuto attendibile dai pm, addirittura chiamato a testimoniare in aula, al processo dove sono imputati il generale dei Carabinieri Mori e il colonnello Obinu.

Ma le speranze delle tre procure che pendevano dalle labbra di Ciancimino jr., nonché dai "pizzini" e dai "papelli" da lui fabbricati, andavano ben oltre: collegare in qualche modo Berlusconi e Forza Italia alla mafia e alle stragi. Peccato che fino ad ora l'unico elemento certo emerso sulla presunta trattativa Stato-mafia è che in quegli anni, subito dopo le stragi, fu sospeso il 41 bis a centinaia di boss da un governo di centrosinistra guidato da Ciampi, ministro degli Interni Mancino e presidente della Repubblica Scalfaro.

Adesso è chiaro che per anni questi pm hanno rovistato nella spazzatura, sperperando soldi dei contribuenti, allontanandoci dalla "verità" sulle stragi e probabilmente facendo un grosso favore alla mafia.

Wednesday, April 20, 2011

Al loro cospetto Gheddafi è un gigante

Una falsa neutralità che viene ogni giorno di più contraddetta nei fatti, un intervento definito «umanitario» che sta sconfinando in una guerra vera e propria e se non lo fa, rischia di essere vano. Capi di governo, ministri degli Esteri, e una stampa addomesticata, quasi distratta (ben diversa da quella che inseguiva con il forcone Bush e Blair, riportando avidamente la conta dei morti) continuano a parlare e a scrivere dell'intervento occidentale in Libia con un'ipocrisia giunta ormai a livelli insopportabili di disgusto. E tutto questo per che cosa? Per negare la scelta eminentemente politica di favorire un regime change in Libia, quando è divenuto palese che sono i libici a chiederlo; per poter rivendicare di aver agito in modo «multilaterale», in ossequio al mandato ricevuto dalle Nazioni Unite.

E allora ecco che le bombe diventano «umanitarie», non colpiscono i civili (ma di fatto neanche le forze di Gheddafi sufficientemente); che si agisce nel rispetto della risoluzione dell'Onu, mentre in realtà né più né meno di quanto si fece nei confronti dell'Iraq di Saddam; si ripete ossessivamente che ci si limita a proteggere i civili, mentre in realtà si fornisce un'incoerente e improvvisata copertura aerea ai ribelli, si mandano armi e consiglieri militari ad una delle due parti in conflitto. Non curandosi del fatto che per far sembrare tutto nei limiti si sta rendendo inefficace l'intervento, persino la mera protezione dei civili: i bombardamenti occidentali - tardivi e troppo "umanitari" - non faranno cadere Gheddafi ma non stanno neanche evitando che Misurata possa trasformarsi in una nuova Sarajevo. E alla fine la beffa è che non si riescono nemmeno a salvare le apparenze. In sostanza, un'ipocrisia, che porta con sé un'inefficacia militare sul campo, dettata dall'interesse meramente politico dei leader coinvolti a non apparire in patria come Bush e Blair, a non riabilitarne con le loro azioni le controverse scelte.

Be', se questa è la preoccupazione, possono dormire sonni tranquilli. Ben altra tempra e ben altra visione, ben altro coraggio politico avevano Bush e Blair. Pur con tutti i loro errori, dopo neanche un mese dall'inizio della guerra Saddam era caduto. Certo, hanno sottovalutato ciò che sarebbe avvenuto dopo, ma non si sono fatti prendere per il naso dal dittatore ed è stata una guerra di liberazione voluta e rivendicata, senza attribuire pelosamente all'Onu una moralità superiore, che è lungi dall'appartenergli, a scapito dell'efficacia dell'azione.

Sono stato un interventista della prima, anzi primissima ora, quando forse la no-fly zone e alcuni bombardamenti ben mirati sarebbero bastati a far cadere Gheddafi. Ma si sarebbe dovuto agire subito, senza l'Onu, in modo «unilaterale». Quasi una bestemmia per alcuni. E' come se il "diplomaticamente corretto", e non la giustezza e l'efficacia, sia il principale parametro di giudizio di una decisione e di un'azione politica. Per quanto tutti si sforzino, non è e non sarà mai così e le contraddizioni stanno venendo a galla. L'unica differenza con l'Iraq è l'acquiescenza dei media, ma anche in Libia una risoluzione dell'Onu volutamente e inevitabilmente ambigua viene utilizzata per giustificare un intervento militare il cui scopo - taciuto ma manifesto - è il regime change. Con l'aggravante però che quest'ultimo sta fallendo, rischia di fallire, sotto il peso delle ipocrisie, o di costare molto di più.

L'America di Obama spicca per l'assenza di leadership, si è sfilata ed è venuto meno circa il 75% della potenza di fuoco alleata, quindi dell'unica pressione che Gheddafi mostra di comprendere, quella della forza. L'Europa si conferma un nano politico e militare. La notizia dell'invio - adesso ufficiale - di consiglieri militari ad aiutare i ribelli induce a pensare ad una escalation. E ciò che era evitabile se si fosse agito subito - un intervento di terra - sembra sempre più inevitabile se non si vuole andare incontro ad una bruciante sconfitta e ad una vera e propria umiliazione. Adesso anche chi appoggiò la guerra irachena, pur di criticare questa insinua il paragone con il Vietnam. E' una tentazione cui bisogna sfuggire, per non cadere nella stessa strumentalità dei "pacifinti" di allora.

Per quanto mi spaventi e mi addolori, il pensiero che al cospetto dei leader che abbiamo in sorte Gheddafi sia un gigante - politico e militare - si rafforza, fin quasi all'ammirazione. Questo però non mi impedisce di pregare per una sua rapida sconfitta e di dire basta ai paragoni col Vietnam, che suonano come una iettatura.

Monday, April 18, 2011

Difesa da casta

Era prevedibile. Chi tocca i fili della corrente rimane fulminato. Stessa sorte tocca a chi osa mettere in discussione i magistrati e il loro operato. Gli stessi magistrati che "assolvono" chi lancia oggetti contro il premier mettono sotto inchiesta Lassini e altre due persone per «vilipendio dell'ordine giudiziario». Sotto accusa non solo per il manifesto "Via le Br dalle Procure", ma anche per un altro, molto ma molto più innocuo: "Toghe rosse. Ingiustizia per tutti". Premessa d'obbligo: qui è totale la condanna della violenza verbale, da qualsiasi parte provenga, perché anche al di là delle intenzioni dell'autore rischia di armare la mano di qualche folle (com'è già capitato, per altro). E' senz'altro il caso del manifesto "Via le Br dalle Procure", indegno nell'accostare i magistrati a dei brutali assassini. Ben diverso sarebbe stato argomentare che certe iniziative di certi pm sembrano avere come scopo il sovvertimento della volontà popolare.

Tuttavia, non si può non constatare come i magistrati - soprattutto quelli di Milano ma non solo - siano in malafede, perché dimostrano di intervenire solo quando vogliono, per tutelare chi vogliono (cioè solo loro stessi), e sempre contro esponenti della stessa parte politica. Quanti se ne vedono nelle nostre città di manifesti infamanti, violenti, su Berlusconi? Quante volte il suo nome viene accostato a quello di mafiosi e feroci dittatori, nonché alle peggiori nefandezze? Non è stato forse definito «assassino» di recente il ministro Maroni? E quanti gruppi su Facebook, con nomi e cognomi dei membri, inneggiano e istigano esplicitamente alla violenza, addirittura all'omicidio? La settimana scorsa su un giornale - il manifesto - è persino comparso un esplicito appello al golpe firmato dal professor Asor Rosa, che nel suo delirio dava per scontato che carabinieri e polizia di Stato fossero disponibili ad usare la loro forza per sospendere la democrazia. Non è forse "vilipendio" anche questo?

Ebbene nessuno di questi odiatori e istigatori alla violenza di professione, spesso con nome e cognome, risulta sotto inchiesta. In questo Paese si possono impunemente insultare, aggredire (non solo verbalmente), il presidente del Consiglio, il suo partito, i suoi sostenitori e i giornalisti di centrodestra. Persino istigare pubblicamente alla violenza contro di essi è permesso. E qualcuno ha pensato bene di passare dalle parole ai fatti. Ma appena si apre il becco su qualcun altro, ecco scattare implacabile la mannaia della censura politica e della repressione giudiziaria.

Tra l'altro, per tutelare la propria onorabilità dalla menzogna i magistrati di Milano avrebbero potuto esercitare - come qualsiasi cittadino - il loro diritto alla querela, invece di rispolverare un discutibile reato d'opinione per difendersi come una "casta" di potere. Come Berlusconi si vede spesso costretto a querelare chi gli dà del mafioso, così per una volta avrebbero potuto querelare chi li ha accostati alle Br.

Friday, April 15, 2011

Napolitano doppiamente fuori dal suo ruolo

"Valuterò gli effetti della legge sul processo breve quando si avvicinerà il momento della sua approvazione definitiva". Questo il senso della frase pronunciata ieri da Napolitano, scivolato questa volta doppiamente al di fuori delle sue prerogative costituzionali. Innanzitutto, perché lascia intendere un suo esame preventivo del testo, durante l'iter legislativo, interferendo dunque con il lavoro del Parlamento, mentre a lui spetta eventualmente di rinviare la legge alle Camere ma solo una volta approvata. E poi perché al capo dello Stato spetta verificare se una legge approvata presenti profili di evidente (ripeto: evidente) incostituzionalità, mentre la responsabilità degli «effetti» particolari di una legge è prettamente politica, riguarda quindi il Parlamento e la sua maggioranza, non certo il presidente della Repubblica, per la Costituzione politicamente "irresponsabile".

Quella sul processo breve è una legge che certamente si inserisce nel contesto della lotta tra Berlusconi e le procure politicizzate che tentano di sovvertire il sistema politico, e quindi in questo senso si può definire una legge ad personam, il cui scopo cioè è di difendere il premier dagli assalti dei pm. Ma nel merito non è affatto scandalosa per i cittadini. Si spera che fissare la durata massima dei processi costringa finalmente chi deve esercitare l'azione giudiziaria a fare i conti con le risorse - materiali ed umane - che ha a disposizione (sempre scarse per definizione), dando la precedenza ai processi che possono effettivamente essere portati a termine positivamente (già oggi si registrano circa 170 mila prescrizioni l'anno, delle quali almeno il 70% matura nei cassetti dei pm, prim'ancora di arrivare dinanzi a un gip). E a non perseverare, per esempio, con un processo, come quello Mills, che non ha alcuna speranza di portare ad una condanna definitiva (la prescrizione interviene all'inizio del 2012, per effetto delle norme attuali non delle nuove, e nonostante i pm l'abbiano allungata artificiosamente), solo per ottenere una condanna in primo grado da usare politicamente contro l'imputato.

Stiamo parlando comunque, nelle condizioni minime (in caso di reati minori e di incensurati), di 6 anni, che non è esattamente un tempo così «breve» come si vuol far credere, molte volte un tempo più lungo della pena prevista per il reato perseguito, considerando anche che la durata del processo va ritenuta di per sé una forma di pena.

Nel dibattito politico e mediatico sulla questione c'è poi un grosso e pericoloso equivoco. Al di là della sua legittimità ad esprimersi o meno in termini politici su leggi ancora all'esame del Parlamento, è gravissimo soprattutto nel merito quanto afferma il Csm: in nessun caso infatti è accettabile paragonare le prescrizioni, per quanto "di massa" possano essere, ad «un'amnistia». Tali paragoni dimostrano la concezione della giustizia e dello stato di diritto che hanno quanti li sostengono. Parlando di amnistia infatti si dà per scontato che gli imputati che usufruiranno delle nuove norme siano colpevoli, mentre in presenza di prescrizione non si ha alcun verdetto. Semplicemente, trascorso un determinato periodo di tempo, lo Stato decide che non ha più interesse a perseguire un certo reato. Gli imputati che si vedono prescritto il reato non sono affatto "amnistiati", è quindi incivile trattarli come dei colpevoli "graziati". Ed è doppiamente incivile - ed inquietante - che a farlo sia il supremo organo di governo della magistratura.

C'è un altro aspetto dei tempi di prescrizione che non si prende in considerazione. Si confonde la possibilità per lo Stato di perseguire un reato anche se viene scoperto molti anni dopo (possibilità limitata dalla prescrizione, appunto) con l'estensione temporale indefinita del processo. In altre parole, una cosa è che sia possibile perseguire un reato e il presunto colpevole pur avendoli scoperti solo dopo 10 anni dall'epoca dei fatti; tutt'altra cosa è che scoperto subito un reato ci si mettano 10 anni o anche più per condannare o assolvere i presunti colpevoli. Nel primo caso, si possono stabilire tempi anche molto lunghi a seconda della gravità del reato; nel secondo, i tempi lungi sono semplicemente inaccettabili per qualsiasi reato. La ratio dei tempi di prescrizione non è quella allungare la durata del processo (tanto abbiamo tempo, possiamo prendercela con calma!). Per un motivo semplicissimo. Prendiamo, per esempio, il processo sulla strage di Viareggio, di cui si è molto parlato proprio per gli effetti che avrebbe su di esso il processo breve. Ebbene, le nuove norme ridurrebbero i tempi di prescrizione di poco più di un anno: da 25 a 23 e quattro mesi. Prescrizione prevista, quindi, nel 2032 (!). Ma stiamo parlando di un reato eventualmente commesso nel 2009 e scoperto immediatamente. Ora, se in 23 anni non si riesce ad arrivare ad una sentenza definitiva, o si deve accettare il fatto che gli imputati non sono poi così colpevoli come si crede, oppure che la pubblica accusa è stata incapace e dunque è con essa, non con i tempi di prescrizione, che i parenti delle vittime dovrebbero prendersela.

Dopo Fini, Pisanu?

Appena rabberciata la maggioranza alla Camera, potrebbe aprirsi un nuovo Vietnam al Senato. Oggi sul Corriere della Sera, ergendosi devo dire con considerevole faccia tosta a difensori delle virtù repubblicane, Pisanu e Veltroni invocano «un governo di decantazione per riscrivere le regole». Insomma, il solito governo di larghe intese, di responsabilità (?) nazionale (adesso lo chiamano di «decantazione»), il cui scopo sarebbe innanzitutto quello di togliere di mezzo Berlusconi, perché su come riscrivere le regole - e in particolare si parla della legge elettorale - sembra difficile che si costituisca una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne nel 2008. Neanche i due promotori dell'iniziativa infatti chiariscono quali regole vorrebbero, né quale legge elettorale, ma è facile immaginare che per loro l'importante sarebbe fare in modo che impedisca a Berlusconi, come a chiunque altro, di conquistare in solitudine o quasi la maggioranza assoluta dei seggi alle prossime elezioni quando ci saranno. Una legge che costringa le forze politiche ad allearsi per governare solo dopo il voto. Quindi una legge per l'ingovernabilità, per la palude, per il "grande centro".

Ma diversamente da quanto affermano nel loro "manifesto", il problema della legge elettorale mi sembra tutto sommato secondario in questa operazione. C'è il forte rischio, infatti, che il proposito di Pisanu sia molto più semplicemente aprire al Senato una crisi della maggioranza come Fini l'ha aperta alla Camera (senza successo ma provocando un anno di paralisi), nella speranza questa volta di costringere Berlusconi a mollare. Dopo il fallito ribaltone alla Camera, un ribaltone al Senato, insomma. Poi si vedrà. Vedremo se sono davvero queste le intenzioni di Pisanu e quanti senatori saranno disposti a seguirlo.

A scuola di statalismo. In che senso il nostro sistema scolastico è “comunista”

Anche su rightnation.it e taccuinopolitico.it

Al di là dell’ultima polemica sui libri di testo – girano per le classi libri di storia indegni, lo sappiamo tutti, inutile prendersi in giro, l’hanno sottolineato anche intellettuali come Paolo Mieli ed Ernesto Galli Della Loggia – il problema va ben oltre qualche manuale un po’ troppo partigiano. Subito si sono levati gli scudi in nome della «libertà d’insegnamento», principio che viene spesso citato a sproposito e che così formulato non trova in realtà alcuna ragione per meritare una tutela particolare. Innanzitutto, già il riferimento all’«insegnamento», e non all’«educazione», indica che l’accento viene posto su chi insegna, che dovrebbe essere “libero”, e non sugli alunni e i loro genitori, cui evidentemente non si riconosce una eguale libertà educativa. Ma in concreto, con quell’espressione si intende davvero la libertà del singolo insegnante di insegnare ciò che vuole e come vuole? Se è così, già oggi quella libertà è negata principalmente dallo Stato, che impone programmi e metodi e che monopolizza il 95 per cento del sistema dell’istruzione. Ma a ben vedere proprio per questo è una libertà che non ha alcun senso rivendicare. La libertà di cui si dovrebbe parlare non è quella del singolo insegnante, ma da un lato quella di ciascuno di poter istituire una scuola riconosciuta come tale dalla comunità, rispettando alcuni semplici e ragionevoli criteri, quindi la libertà dei diversi progetti educativi di poter competere tra di loro nella formazione dei giovani; dall’altro, la libertà di ciascuno di scegliere per i propri figli il progetto educativo, quindi la scuola, che ritiene migliore.

Oggi in Italia questa libertà non c’è. Non solo per il monopolio pressoché totale della scuola pubblica, quindi di un solo progetto educativo – o meglio, di diversi progetti educativi che però promanano da un unico attore sociale. Un attore che – è bene ricordarlo per sottrarsi ai retaggi e ai riflessi dell’hegelismo imperante nella nostra cultura politica – non è un ente astratto, obiettivo ed imparziale, dotato di moralità propria, ma si incarna in un preciso gruppo di persone, con braccia, gambe, occhi e a volte persino testa. Ma addirittura oggi non è possibile scegliere tra le diverse scuole pubbliche, se non ricorrendo a sotterfugi e conoscenze. Le iscrizioni seguono di norma un criterio territoriale (il domicilio), all’oscuro dei risultati e quindi della qualità della scuola cui si sta iscrivendo il proprio figlio, della sezione e degli insegnanti che gli capiteranno in sorte. Per prima cosa, dunque, la “libertà di insegnamento” dovrebbe sottomettersi al giudizio dei risultati; poi, la libertà di offrire il proprio progetto educativo dovrebbe conciliarsi con il diritto dei genitori a scegliere quello che credono migliore per i propri figli. Di questa libertà negata nessuno sembra preoccuparsi.

Se di frequente la questione dei libri di testo viene sollevata, è proprio perché il mito della “libertà di insegnamento” non si realizza nella scuola pubblica. Gli insegnanti sono culturalmente, prima che politicamente, omologati e i libri adottati sono quasi sempre gli stessi. E ciò permette ad una vera e propria lobby dell’editoria scolastica di imporre la propria visione in pressoché tutte le classi. A causa dell’altissimo tasso di uniformità culturale, il docente che volesse distinguersi, esercitando dunque la propria mitica “libertà di insegnamento”, andrebbe incontro alle stigmate della “devianza”, sarebbe individuato come “eccentrico”, susciterebbe perplessità, sia da parte dei colleghi che dei genitori dei ragazzi, sulla propria competenza e persino sul proprio equilibrio personale, rischierebbe fino alla marginalizzazione sul posto di lavoro.

Si dirà che l’accesso alla carriera scolastica è aperto a tutti, a prescindere dal proprio orientamento politico-culturale, ma se il risultato che si determina nella scuola pubblica – e quindi nella scuola tout court – è comunque di un orientamento culturale nettamente predominante rispetto agli altri, ciò non può non condizionare i progetti educativi verso l’omologazione e quindi non può non essere riconosciuto come un problema. Un problema che dovrebbe essere percepito come grave proprio da chi straparla di libertà. Perché limita, direi nega, la libertà di educazione. Non si tratta di una banale questione politica destra-sinistra, ma di indirizzo culturale. Di destra o di sinistra, la cultura predominante nella scuola è quella statalista. E non potrebbe essere altrimenti – in questo bisogna riconoscere una coerenza e persino una efficienza nel nostro sistema scolastico – considerando l’attore sociale da cui promanano tutti i progetti educativi e a cui spetta la selezione del corpo insegnanti: lo Stato.

La scuola in Italia è “comunista” non nel senso che gli insegnanti sono “comunisti”, politicamente di sinistra. Sarebbe il meno. Lo è innanzitutto in quanto sistema collettivista, statalizzato quindi statalista, quasi “sovietico” nell’inseguire il mito dell’eguaglianza, al ribasso rispetto alla qualità e al pluralismo culturale. Uniforme nella cultura ma non nella qualità, questa scuola produce da decenni un progressivo appiattimento degli standard educativi verso il basso e, pur in una certa dicotomia destra-sinistra, un conformismo statalista. Nonostante la sfiducia nelle istituzioni e lo scarso senso civico degli italiani, continua a crescere cittadini nel mito dello Stato, disillusi proprio perché allo Stato attribuiscono una presunta moralità superiore che non gli appartiene e compiti che è strutturalmente incapace di assolvere.

E se volessi che mio figlio non si abbeveri alle culture stataliste dominanti nella scuola? Mi si riconosce questa libertà? Anche qui l’ipocrita risponde: “Va bene le scuole private, ma fatevele da soli”. Ok, ma ridammi indietro le tasse che pago, almeno la quota corrispondente ai costi che lo Stato non dovrebbe più sostenere per i miei figli se li iscrivessi ad una scuola non statale. Ad oggi invece lo Stato garantisce sì l’istruzione, ma solo a chi sceglie il suo progetto formativo – bella libertà! – e le poche scuole private che ci sono, sono accessibili solo alle famiglie più ricche. E a ben vedere sia le pubbliche che le private non abitano un contesto di reale competizione necessario a migliorare la qualità delle une e delle altre. La soluzione più ragionevole ed efficiente sarebbe la via “blairiana” di mettere scuole pubbliche e private sullo stesso piano, anzi, eliminare proprio la distinzione, con scuole pubbliche in competizione tra loro ma che si reggono su fondi (e gestione) sia pubblici che privati.

Thursday, April 14, 2011

The Day After B.

E' verosimile che Berlusconi non voglia ricandidarsi al termine di questa legislatura, come trapela dal colloquio che il premier ha avuto ieri con i corrispondenti esteri, o è solo un escamotage per farsi pregare di non lasciare, magari per ricompattare il partito brandendo il caos e l'anarchia della successione? Credo che Berlusconi sia sincero e che sia effettivamente stanco, ma che come lui stesso ha ripetuto più volte non lascerà la politica finché non avrà riformato la giustizia e il fisco. Liberare la politica dalla tutela della magistratura politicizzata è effettivamente una missione che solo Berlusconi può compiere - nessun altro leader ad oggi ha la forza, economica e di consenso, per sottrarsi al ricatto dei pm - ma che al momento è lontana dall'essere accomplished e nulla fa ritenere che lo possa essere entro questa legislatura. Di certo gli balena nella testa anche l'idea di scambiare la sua uscita di scena con due anni di governo meno agitati ("lasciatemi governare e nel 2013 toglierò il disturbo"), ma su questo piano non c'è troppo da illudersi. Insomma, in ogni caso non c'è nulla di deciso.

Di certo senza una profonda riforma della giustizia i prossimi leader di centrodestra - dopo una breve pausa e in modo direttamente proporzionale alla loro determinazione nel voler "toccare" il settore - continueranno ad essere molestati giudiziariamente, probabilmente con maggiore successo, il che proverà che l'anomalia non era Berlusconi, ma una magistratura ormai al di fuori di qualsiasi controllo. E quelli di centrosinistra (che s'illudono che le loro sconfitte siano dovute a Berlusconi, mentre potrebbero addirittura essere attenuate dalle sue "debolezze") saranno tenuti per le palle dalla casta dei giudici e dall'estremismo forcaiolo.

Di questa "giustizia" c'è da aver paura tanto più quanto si seguono le tesi e il discorso degli antiberlusconiani: quella nei confronti di Berlusconi non è una persecuzione, ma un'azione giudiziaria cui deve sottoporsi come ogni normale cittadino (anzi, godendo rispetto ai normali cittadini di un trattamento comunque in qualche modo privilegiato). Se fosse così, bisognerebbe considerare normale che l'anonimo Federico Punzi venga sottoposto anch'egli a vent'anni di processi, una trentina di procedimenti contro di lui e ancor di più sulle sue attività, a migliaia di perquisizioni nei suoi uffici, a intercettazioni e schedature di tutti i suoi contatti, a tempi processuali decennali e prescrizioni allungate, eccetera eccetera. A maggior ragione seguendo questo ragionamento - la giustizia che vediamo all'opera contro Berlusconi è normale e vale per tutti - ci sarebbe da rabbrividire e da ribellarsi.

Possibile che non ci sia in Italia un imputato paragonabile a Berlusconi? Siccome non mi risulta che un altro italiano sia sottoposto a tutto questo, nemmeno il più incallito dei criminali, sorge il sospetto che qualcosa di politico dev'esserci. Ed è esattamente questo che gli italiani, istintivamente, hanno capito. Se nel 2013 decideranno di liberarsi di Berlusconi non sarà perché hanno finalmente compreso che è un farabutto, ma perché avranno un giudizio negativo sull'operato del suo governo e avranno intravisto un'alternativa credibile. Berlusconi - si potrebbe obiettare - viene sottoposto ad un trattamento eccezionale da parte della giustizia perché è un criminale eccezionale, cioè di gran lunga il peggior criminale italiano di tutti i tempi. Ebbene, se così fosse, e se gli italiani dopo tutto questo tempo non se ne fossero accorti, rincitrulliti dalle tv del perfido tycoon (avrebbero fallito per anni i vari Santoro, Travaglio, Floris, Fabio Fazio, Lerner, Gabanelli, Gruber, Dandini), allora bisognerebbe avere le palle di prendere la via indicata sul Manifesto dal professor Asor Rosa: sospendere la democrazia. Ma non vediamo alcun nuovo "Piano Solo" né alcun ardente "partigiano" lasciare tutto, prendere il moschetto e salire in montagna...

Monday, April 11, 2011

Europa cialtrona

Al confronto con i leader europei (e con Obama), spiace dirlo ma Gheddafi sembra un gigante di astuzia e coraggio

Il fallimento politico dell'Europa è sotto gli occhi di tutti, e la mancanza di una politica comune sull'immigrazione - persino di fronte ad una emergenza conclamata come quella di queste settimane a causa di rivolgimenti epocali in Nord Africa - ne è solo una delle tante prove lampanti. Detto questo, però, sorprende che il governo italiano abbia potuto pensare di cavarsela con il trucchetto dei permessi temporanei come forma di pressione su Parigi e Berlino. L'effetto è stato quello di irrigidire le posizioni. Il paradosso è un totale ribaltamento degli approcci. Roma, quella dei respingimenti in mare, pretenderebbe che un permesso di soggiorno, addirittura temporaneo, concesso da un solo stato membro, valesse come lasciapassare per gli immigrati in tutta Europa. E' ovvio invece - e l'Italia dovrebbe essere la prima a ricordarlo e ad applicarlo - che senza documento d'identità e mezzi di sostentamento, com'è scritto sul trattato di Schengen, non si ha diritto ad andare da nessuna parte. Proprio noi ne avevamo fatto - a mio avviso giustamente - un pilastro su cui poggiare la legittimità delle espulsioni dei rom, anche quelli con cittadinanza di Paesi Ue. Mentre, improvvisamente, a Bruxelles chi aveva criticato la nostra politica dei respingimenti e le espulsioni dei rom adesso fa il muso duro.

Paradossi di una politica europea che si è "italianizzata" nel senso deteriore del termine, dove cioè demagogia, ipocrisie e calcoli elettoralistici sembrano sempre più essere gli istinti guida. E' altrettanto palese che la stragrande maggioranza degli immigrati (pochi sono profughi) che approdano sulle nostre coste, per lo più tunisini, sono diretti proprio in Francia e in Germania, dove hanno già pezzi delle loro famiglie. Ma se questi Paesi sono pronti a procedere con i respingimenti, a maggior ragione dobbiamo farlo noi, anche se sarà più difficile a causa della conformazione dei nostri confini. I campi di concentramento sono un'indecenza. O abbiamo la forza di riportare subito indietro chi sbarca, nell'arco di poche ore; oppure, si mette loro in mano un bell'assegno purché attraversino la frontiera diretti in Francia e Germania; oppure, accettiamo di tenerceli, ma a questo punto i campi non hanno senso, meglio distribuirli subito tra le regioni e lasciare che vengano assorbiti dal tessuto socio-economico come in questi due decenni ne sono stati assorbiti a milioni.

La proposta di Calderoli di ritirarci dal Libano per impiegare i nostri militari e maggiori risorse al controllo delle frontiere non è del tutto infondata, soprattutto perché quella missione - bisogna ammetterlo - non ha alcun senso. La missione Unifil offre un'illusione di stabilizzazione dell'area di confine tra Libano e Israele mentre in realtà tutti sanno che prosegue sotto traccia il riarmo di Hezbollah foraggiato dall'Iran. Che almeno cessi la copertura internazionale a questa ipocrisia. L'Afghanistan, il Kosovo, persino l'Iraq, sono per noi un'altra cosa, così come di tutta evidenza la Libia.

Già, la Libia, altro capolavoro di casinismo dell'Occidente. Grazie ai raid Nato i ribelli ieri hanno vinto la battaglia per Ajdabiya, ma è inutile negare che sul terreno è stallo. Gli insorti, è ormai evidente, non possono farcela ad arrivare a Tripoli e a far cadere Gheddafi e l'intervento occidentale (dal quale gli Usa si sono tirati indietro) è inadeguato a tale scopo, l'unico per cui sarebbe valso la pena. Gheddafi quindi può tenersi saldamente stretto la Tripolitania e pensare di trattare da una posizione di forza. Adesso pare che l'Unione africana abbia ottenuto il sì del raìs ad un cessate-il-fuoco, ma è davvero difficile credere che accetterà un processo di transizione che escluda lui e i suoi figli dal potere in Libia. Il rischio è che si consolidi di fatto una situazione che di settimana in settimana renderà chiaro che Gheddafi ha resistito e vinto la sua battaglia sia contro i ribelli sia contro l'"aggressione neocolonialista" dell'Occidente. La Libia ne uscirà spaccata in due, Gheddafi addirittura rafforzato e gli interessi dell'Italia martoriati. Chi bisogna ringraziare se nella totale assenza di leadership da parte americana si è inserito l'inconcludente bullismo francese? Al confronto con i leader europei (e con Obama), spiace dirlo ma il Colonnello sembra un gigante di astuzia e coraggio. Il paradosso, che tuttavia non sorprende, è che un intervento militare, pur tardivo, sconclusionato e inefficace, piace purché appaia "politicamente corretto".

Tra l'altro, nello scenario che si va delineando nel mondo arabo e islamico l'Occidente si mostra incapace di sostenere le rivoluzioni popolari laddove avrebbe maggiore interesse a che abbiano successo (vedi Siria e Iran), mentre con sconcertante superficialità ha assestato l'ultima spallata a regimi almeno non ostili in Paesi (vedi l'Egitto), dove già s'intravedono sulle macerie del passato lo strapotere dell'esercito e derive islamiste nonché filo-iraniane.

Berlusconi è bollito? Be', si può certamente osservare che la parabola è per forza di inerzia discendente, ma anche che il danno più grave inferto dall'attacco mediatico-giudiziario partito dalla Procura di Milano è stato probabilmente quello di aver distratto il capo del governo dalle crisi che nel frattempo stavano emergendo e che bisognava prendere di petto tempestivamente, abilità nella quale bisogna riconoscere che di solito il Cav. eccelle. E invece questa volta si è fatto cogliere impreparato dalla crisi libica e dal protagonismo di Sarkozy, ci ha abbiamo messo un mese per trovare una linea; nella gestione dell'emergenza immigrazione, che non è iniziata con la crisi libica, ma molto prima, dai rivolgimenti che hanno riguardato tutto il Nord Africa e soprattutto la Tunisia, stiamo contraddicendo noi stessi. E via proseguendo con la riforma della giustizia e la «frustata» all'economia che ancora non si vedono.

Friday, April 08, 2011

Il Csm grida al lupo ma abbassa le stime

Come al solito, il Csm si comporta da organo politico emettendo un giudizio, o meglio una sentenza preventiva su una legge ancora in discussione in Parlamento. Non è la prima volta, né sarà l'ultima se la riforma della giustizia non diventerà legge in questa legislatura. Già nel dicembre del 2009 il Csm interveniva bollando come «incostituzionale», «un'amnistia» il ddl sul cosiddetto "processo breve" (ormai ribattezzato con malizia da tutti i mainstream media "prescrizione breve", come se 6 anni di processo fossero "brevi"). Stessi toni, persino gli stessi termini apocalittici, ma non le stesse cifre. Il Csm ha infatti abbassato di molto le stime dei processi che verrebbero meno per effetto delle nuove norme. Di «oltre 100 mila» parlava l'Anm; tra il 10 e il 40 per cento dei processi penali, erano le stime dello stesso Csm un anno e mezzo fa. Ora a finire al macero sarebbero "solo" 15 mila processi, ammette il Csm (circa 3.900 - tra tutti quelli pendenti, anche quelli che comunque cadranno in prescrizione - era la stima del ministro Alfano).

Basta prendere le statistiche ufficiali del Ministero della Giustizia e si scopre che ogni anno le prescrizioni si aggirano tra le 150 e le 170 mila e di queste quasi 120 mila (circa il 75 per cento) maturano nella fase delle indagini preliminari, e alla fine vengono adottate con decreto di archiviazione o con una sentenza di non luogo a procedere da parte del gip, dunque senza alcun esercizio dell'azione penale da parte dei pubblici ministeri. Ciò significa che si tratta di prescrizioni per i tre quarti nate e cresciute negli uffici dei pm, senza che cominciasse alcun processo, quindi non causate da un presunto eccesso di garantismo delle norme processuali, né dalla furbizia di imputati e avvocati. Insomma, l'"amnistia" di massa è già praticata, non dal Parlamento ma negli uffici dei pm.

Nel frattempo, un colpettino il capo dello Stato deve averlo battuto, se finalmente abbiamo notizia non dico della prima inchiesta, ma almeno dei primi «accertamenti» da parte del Csm sull'uso delle intercettazioni da parte di una procura. Il procuratore generale della Corte di Cassazione, infatti, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ha disposto «accertamenti conoscitivi» sulla vicenda delle quattro intercettazioni di Berlusconi trascritte e depositate (e finite immancabilmente sui giornali), invece di essere distrutte perché senza autorizzazione della Camera. Non potevano essere in alcun modo utilizzate, nemmeno trascritte, e nel caso subito distrutte, secondo la legge vigente e non quella che la maggioranza avrebbe voluto approvare l'estate scorsa se Fini non fosse riuscito a impedirlo.

E' vero, la Procura non le ha inserite tra gli elementi di prova a carico del premier, ma le ha solo depositate agli atti della difesa (guarda caso di Berlusconi e non della titolare dell'utenza intercettata, anche lei imputata, Nicole Minetti). Per stessa ammissione di Edmondo Bruti Liberati, tuttavia, sono state utilizzate eccome: per chiedere al gip una proroga delle intercettazioni del telefono della Minetti, alcune delle quali, queste sì, saranno utilizzate contro Berlusconi. Siccome la forma è sostanza, non dovrebbero essere utilizzate nemmeno queste ultime - rese possibili dalla proroga ottenuta anche grazie alle intercettazioni che invece di essere distrutte sono state trascritte e inserite negli atti trasmessi al gip. Vedremo come andrà a finire, ma è altamente improbabile che il procuratore generale della Cassazione deciderà di sanzionare la procura di Milano, è più probabile che si sia mosso solo per gentilezza nei confronti di Napolitano.

Wednesday, April 06, 2011

Buttarla in caciara

Oggi Fini si è superato, permettendo alla Camera un ostruzionismo senza precedenti. E da vigliacco non si è neanche fatto vedere in aula a dirigere i lavori, nonostante il clima incandescente di questi giorni richiedesse la sua presenza. Ma evidentemente sapeva che questa mattina le opposizioni avrebbero dato vita ad un ostruzionismo che l'avrebbe messo in imbarazzo. Già alcuni giorni fa aveva falsato i risultati delle votazioni non permettendo ad alcuni ministri, già in aula, tessere in mano, di votare. Oggi sulle pagine del Giornale anche Antonio Martino, un liberale non certo pasdaran berlusconiano, denuncia una situazione di scorrettezza istituzionale che ha ormai superato i limiti della decenza: «Consentirgli di restare alla presidenza della Camera - scrive - è un oltraggio al Parlamento, alla democrazia, all'Italia».

A mio avviso, questa almeno è la mia impressione, Fini sta intenzionalmente e lucidamente perseguendo, di intesa con le opposizioni, la paralisi della Camera che presiede. Ma anche a voler essere più cauti non si può non intravedere un disegno, cui il presidente della Camera sta come minimo prestando sponda, per bloccare i lavori parlamentari - buttarla in caciara, insomma - e precostituire così le condizioni per indurre il presidente Napolitano (con la leva dei suoi "cattivi consiglieri") a sciogliere le Camere nonostante il governo abbia la maggioranza. D'altra parte, per averne conferma basta notare l'insistenza sul punto di trasmissioni come Ballarò e le acrobazie pseudo-giuridiche dei soliti giuristi e notisti, in servizio permanente su certi giornali, nel sostenere che un simile scioglimento rientrerebbe nei poteri del Colle.

The Untouchables

A parte il giornalista del Corriere che ieri l'ha rilevato, ma molto gentilmente, e il giornale della famiglia Berlusconi attraverso un indignato editoriale di oggi, nessuno s'è scomposto più di tanto. Nessuna presa di posizione autorevole da parte delle figure preposte alla tutela delle istituzioni (Fini e Napolitano sono rimasti in silenzio); nessun contrito editoriale; persino poche rimostranze nel centrodestra. Ma che siano state effettuate, trascritte e pubblicate quattro intercettazioni dell'utenza telefonica di Berlusconi non è un abuso che riguarda solo il deputato Berlusconi. Si tratta di un reato contro tutta la Camera dei deputati. E si tratta di un reato grave, un attentato alla sovranità del Parlamento. Un episodio che conferma in modo lampante le peggiori preoccupazioni di quanti vedono nel modus operandi di certi magistrati nei confronti della politica - e di Berlusconi in particolare - un rischio per la democrazia stessa e che quindi ritengono necessaria e urgente una profonda - e sì, "punitiva" - riforma della giustizia. Chi dovrebbe tutelare le prerogative della Camera e dei suoi membri, il presidente Fini, è rimasto pressoché in silenzio. E tace anche quel supremo garante delle istituzioni che però si ricorda di esserlo a giorni alterni, quel chiacchierone del presidente della Repubblica Napolitano, dal quale sarebbe quasi d'obbligo attendersi una reprimenda pubblica sull'accaduto.

La legge sulle intercettazioni - quella attuale e non quella presentata dalla maggioranza, che ha suscitato l'alzata di scudi delle opposizioni e trovato a sbarrarle la strada persino il presidente della Camera in uno dei tanti sconfinamenti dal proprio ruolo - prescrive che i telefoni di deputati e senatori non possano essere intercettati. Se intercettando una terza persona, gli inquirenti si accorgono che stanno ascoltando un parlamentare, devono subito interrompere l'ascolto; se non se ne accorgono, i nastri e le trascrizioni devono essere distrutti. Per utilizzarli, invece, devono chiedere l'autorizzazione alla Camera di riferimento. Nessuna inchiesta mi risulta sia stata aperta nei confronti dei pm milanesi, né da parte di altre procure né da parte del Csm. Dell'abuso commesso all'interno della Procura di Milano (ed è difficile sostenere che si sia trattato di un errore, perché non stiamo parlando della voce anonima di un parlamentare qualsiasi) non risponderà ovviamente nessuno.

Ci si illude - molti in buona fede anche nel centrodestra - che il protagonismo politico delle Procure sia dettato dall'"anomalia" Berlusconi. Ce l'hanno con lui. Una volta fatto fuori, tutto tornerà normale. La vera anomalia, invece, è la politicizzazione dei magistrati e sopravviverà a Berlusconi, anche se in pochi sembrano rendersene conto. E' un'anomalia che non inizia con Berlusconi e non finirà con lui. Altri leader del campo moderato prima di lui, come Craxi e Andreotti, sono stati sottoposti ad una persecuzione mediatico-giudiziaria e girotondina. Attacchi che subirà anche chi verrà dopo di lui, senza però avere le risorse finanziarie e il consenso politico che può mettere in campo Berlusconi per resistere. Se uscirà sconfitto, pur con tutti i suoi mezzi, quale altro leader politico sarà in grado di resistere? Se non andranno in porto in questa legislatura (ed è molto probabile) certe riforme, dopo Berlusconi rischiamo di ritrovarci con una classe politica completamente sotto ricatto, soggiogata ad un vero e proprio contropotere, tecnicamente antidemocratico e golpista, esercitato non dalla "Giustizia" ma da un pugno di magistrati politicizzati. Che impediranno qualsiasi riforma li riguardi, renderanno impossibile governare a qualsiasi leader moderato e terranno in ostaggio la sinistra.

E' di circa una settimana fa, inoltre, la notizia di un altro clamoroso abuso. Il tribunale di Bari infatti ha dichiarato inutilizzabili 11 mila intercettazioni (11.000!) perché non motivate dalle autorità giudiziarie come prescrive la legge. Il procuratore che le dispose, Michele Emiliano, nel frattempo ha fatto carriera. In magistratura? No, in politica. Oggi è sindaco di Bari. All'epoca aveva affidato le intercettazioni a un soggetto estraneo alla polizia giudiziaria senza chiedere la necessaria autorizzazione. Ebbene, dopo dieci anni (10 anni!), dopo che i testi di quelle intercettazioni sono finiti su tutti i giornali, rovinando la reputazione degli intercettati, adesso viene fuori che sono intercettazioni illecite e che non possono essere utilizzate come elementi di prova nei processi.

Soldi dei contribuenti letteralmente buttati dalla finestra. Di nuovo, chi paga? E il danno ingiustamente inflitto agli imputati, che in assenza di prove valide saranno probabilmente assolti? E se per caso fossero colpevoli, al danno si aggiungerebbe la beffa di una giustizia negata, per colpa di quei magistrati. Ma dell'abuso commesso dalla Procura nei confronti degli imputati, del denaro pubblico sperperato e dell'eventuale giustizia negata, non risponderà nessuno. Ecco perché è necessaria, direi urgente, una legge severissima sulla responsabilità civile e penale dei magistrati. Il fatto poi che le intercettazioni illegali siano state ammesse nelle udienze preliminari dimostra quanto la magistratura giudicante (soprattutto i gip) sia praticamente indistinguibile da quella inquirente, persino in presenza di evidenti violazioni della legge da parte di quest'ultima. Ed ecco perché è necessaria e urgente la più netta separazione delle carriere.

A questo punto, di fronte a tali e tante evidenze, a tanti e tali abusi, che minacciano l'ordine democratico, chi continua a opporsi a queste riforme o è in malafede o non ha la benché minima nozione dei principi su cui si fonda una democrazia liberale.

Tuesday, April 05, 2011

Speriamo non sia troppo tardi

Alla fine, come ampiamente previsto, anche l'Italia ha dovuto riconoscere il Consiglio nazionale di transizione «come l'unico interlocutore politico legittimo per rappresentare la Libia», sebbene ancora non sia stato compiuto quel passo fino a ieri ritenuto necessario, cioè un accordo tra i 27 Paesi dell'Ue (ma allora, perché non farlo prima?). Arriviamo quasi un mese dopo i francesi, che l'hanno riconosciuto il 10 marzo. Forse sarebbe stato saggio farlo già una settimana dopo, contestualmente all'annuncio della nostra partecipazione ai raid contro le forze di Gheddafi. Non solo il riconoscimento, dall'incontro con Frattini il rappresentante del Cnt libico si porta a casa un altro importante risultato. C'è voluta quasi una settimana per cambiare atteggiamento anche riguardo l'ipotesi di armare i ribelli. Resta, certo, l'«estrema ratio» per la Farnesina, ma i toni sono mutati: dal «non è detto che sia la cosa giusta» al «non può essere esclusa».

Cambiamenti significativi anche riguardo la necessità di un «cessate-il-fuoco», che non è più la richiesta ambigua ad «entrambe le parti» come condizione per avviare una «riconciliazione nazionale» tra vittime e carnefice, ma un qualcosa - adesso lo si dice apertamente, com'è logico che sia - che va «imposto» a Gheddafi. Insomma, dopo un mese di tentennamenti la posizione italiana diventa più limpida e, inevitabilmente, si avvicina a quella di Francia e Gran Bretagna, rendendo a posteriori evidente che la soluzione politica concertata in asse con Berlino e l'ipotesi esilio di Gheddafi di cui si vaneggiava non erano che bluff diplomatici per reagire al protagonismo di Parigi e coprire i nostri colpevoli ritardi nel comprendere la nuova situazione. Speriamo solo che non sia troppo tardi.

Intanto, dopo aver avviato tardi e male l'intervento, Obama si defila. Il clamoroso disimpegno americano, che sembra compiersi guarda caso proprio mentre Obama annuncia la sua ricandidatura per il 2012, pone in serio pericolo la riuscita della missione e rischia di determinare uno stallo che vedrebbe la Libia di fatto spaccata in due. Una mossa che conferma quanto sia un presidente estremamente cinico e calcolatore quando si tratta della sua ambizione politica. Mi rendo conto che non abbiamo alcuna chance di poter convincere Obama a cambiare idea, ma una cosa che Frattini dovrebbe andare a dire a Hillary domani è "finite il lavoro".

Delle operazioni militari quindi si occuperebbero principalmente Francia e Gran Bretagna, mentre gli Usa resteranno più che altro con «funzioni di appoggio». Ma va tenuto presente che i mezzi impiegati da francesi e inglesi messi insieme non arrivano a quelli degli Usa: «Il 76 per cento delle operazioni belliche - calcola Il Foglio - sono state fatte dagli americani». Senza la potenza di fuoco Usa, dunque, le capacità della Nato in Libia rischiano di crollare vertiginosamente, mettendo a rischio anche il semplice rispetto della no-fly zone.