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Tuesday, November 30, 2010

La migliore (o la meno peggio) riforma possibile

I punti forti e quelli deboli della riforma Gelmini sono indicati con precisione, oggi sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi, che coglie anche il nodo politico della situazione: «La realtà è che la legge Gelmini è il meglio che oggi si possa ottenere data la cultura della nostra classe politica». Perché? Perché tutte le critiche e le opposizioni alla riforma, sia nel Palazzo che nella piazza, sono nel senso della conservazione dell'esistente e non di un'ulteriore e più radicale spinta riformatrice. Nessuno, limitandoci ai tre appunti mossi da Giavazzi, si lamenta perché la riforma non abolisce il valore legale dei titoli di studio, o non fa cadere il vincolo che impedisce alle università di determinare liberamente le proprie rette, o perché non separa medicina dalle altre facoltà. E sbaglia Giavazzi a ritenere che il Partito radicale di oggi sosterrebbe queste tre proposte, quando alla fine dei conti i 6 deputati radicali voteranno esattamente come hanno già votato i 3 senatori, cioè contro la migliore (o la meno peggio) riforma possibile. «Il risultato, nonostante tutto, non è poca cosa», riconosce infatti Giavazzi:
«La legge abolisce i concorsi, prima fonte di corruzione delle nostre università. Crea una nuova figura di giovani docenti "in prova per sei anni", e confermati professori solo se in quegli anni raggiungano risultati positivi nell'insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo sostenendo che questo significa accentuare la "precarizzazione" dell'università dimostra di non conoscere come funzionano le università nel resto del mondo. Peggio: pone una pietra tombale sul futuro di molti giovani, il cui posto potrebbe essere occupato per quarant'anni da una persona che si è dimostrata inadatta alla ricerca... innova la governance delle università: limita l'autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione... per la prima volta prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati».
E infine, neanche le rimostranze sui tagli hanno più senso ormai: «I fondi sono 7,2 miliardi nel 2010, 6,9 nel 2011, gli stessi di tre anni fa». Un dibattito comunque fuorviante, quello sulle risorse, perché possono essere troppe o troppo poche, ma si tratta di una riforma per lo più ordinamentale e di governance, quindi utile a spendere meglio quello che c'è.

Oltre ai tre appunti condivisibili di Giavazzi, da un punto di vista liberale la riforma è criticabile perché troppo timida. Va tenuto presente, però, come fa Giavazzi, che né nella nostra classe politica, e tanto meno nelle piazze, c'è chi assuma questo punto di vista. Altro che privatizzazione e smantellamento dell'università pubblica... Pur cercando di introdurre elementi di merito e di valutazione dei risultati nell'assegnazione dei fondi, e di responsabilità nella gestione dei bilanci (prevedendo pesanti sanzioni in caso di disavanzo), essenzialmente la riforma non tocca le "strutture", non riconosce il mercato come unico vero giudice di meriti e demeriti individuali e collettivi: non vengono spostate risorse rilevanti dal fondo ordinario verso la disponibilità degli utenti; non vengono alzati i tetti delle rette universitarie; non viene modificato lo status delle università come enti 100% statali (seppure si apre alla sperimentazione di «modelli organizzativi diversi», come le fondazioni), né quello del personale docente e non docente come dipendente pubblico.

Sarebbe urgente, invece, attrarre cospicui investimenti privati - gli unici che nel mondo di oggi possono davvero fare la differenza - ma per far questo andrebbe introdotto un sistema di incentivi serio per le donazioni, andrebbero "aperti" i consigli di amministrazione, ma i privati che investono o donano dovrebbero essere messi nella condizione di intervenire sull'offerta sia didattica che scientifica, e di controllare davvero come vengono spese le risorse. Ecco perché, allo stato attuale, pur essendoci la possibilità teorica, nessun privato butta soldi nel calderone pubblico. In poche parole, la riforma Gelmini è un valido tentativo di far funzionare meglio il baraccone statale, mentre andrebbe smantellato almeno nelle strutture che conosciamo oggi.

Monday, November 29, 2010

La sbronza globale per Wikiflop

... e il solito assist alle dittature

I Paesi arabi che fremono per un attacco militare contro l'Iran per fermare il programma nucleare; il governo cinese dietro gli attacchi cibernetici; la corruzione in Afghanistan e l'ansia per il controllo delle testate nucleari pakistane; la Russia «virtualmente uno Stato della mafia» o «un'oligarchia nelle mani dei servizi di sicurezza»; le offerte in denaro per convincere alcuni Paesi ad ospitare i detenuti di Guantanamo; la rinuncia allo scudo antimissile servita a ottenere la collaborazione russa nel dossier iraniano; i missili passati dalla Corea del Nord all'Iran; le armi dalla Siria ad Hezbollah e i sauditi che finanziano al Qaeda. Questi i non-segreti, anzi le cose arcinote che emergono dai cables trafugati da Wikileaks e passati alle principali testate planetarie (snobbati Corriere e Repubblica!).

Anche sui leader una serie di non-notizie e di sentito dire. E allora ecco le bizzarrie di Gheddafi, ecco che Ahmadinejad, Chavez e Mugabe sono definiti «pazzi», la salute di Khamenei è compromessa, Assad e Netanyahu non mantengono le promesse, Erdogan è influenzato da collaboratori e media islamisti, Sarkozy è permaloso e Berlusconi festaiolo. Fonti di terz'ordine, diplomatici e funzionari la cui principale attività notoriamente è di leggere i giornali (e in Italia c'è di che leggere su Berlusconi, non c'è dubbio), giudizi poco qualificati, parziali, incompleti, non definitivi, che non rappresentano le valutazioni, e ancor meno le linee politiche di Washington, ma che vengono elevati di rango, presentati come chissà quali "segreti", con il rischio concreto di gettare nel caos i rapporti tra alleati e non.

Nulla che già non sapessimo, o non avessimo comunque intuito usando la logica, ma i media tutti a fare il gioco di quel furbetto di Assange. Ma se nei contenuti il danno è piuttosto limitato, e l'evento di Wikileaks da questo punto di vista somiglia a un flop, seria è invece la turbativa politico-diplomatica, che potrebbe vanificare gli sforzi per la stabilità in varie aree del mondo, e quindi minacciare la sicurezza; è di per sé dannosa e destabilizzante la sensazione di vulnerabilità degli Stati Uniti rispetto ai loro interlocutori e avversari autocratici; ma soprattutto è grave culturalmente il malinteso su cui si basa l'intera operazione Wikileaks, ovvero uno splendido esempio di come manipolare i principi della democrazia contro di essa, che culmina con l'accusa lanciata oggi da Assange all'amministrazione Obama di essere un «regime che non crede nella libertà di stampa».

Questa non è libertà di stampa, è puro e semplice spionaggio, da cui occorre difendersi, perché mette a repentaglio la nostra sicurezza. Un conto è denunciare una malefatta governativa come lo scandalo Watergate, altra cosa è violare la necessaria riservatezza in cui opera normalmente (e a cui ha diritto, come un individuo) qualsiasi istituzione - la diplomazia, ma anche un'azienda o una procura durante un'indagine - con il rischio (o l'intenzione?) di sabotarne l'azione. Nessuna istituzione - che sia uno Stato o una normalissima famiglia - può sopravvivere alla trasparenza totale (o, piuttosto, al suo mito) senza che il sospetto e le incomprensioni ne compromettano irremediabilmente il corretto funzionamento.

Se l'11 settembre ha dimostrato che nel mondo di oggi non solo gli Stati, ma anche organizzazioni non statuali hanno capacità distruttive di massa, così Wikileaks dimostra che lo spionaggio non è più prerogativa esclusiva degli Stati. Invece di celebrare la libertà di stampa, bisognerebbe chiedersi a chi giova questa immensa operazione di spionaggio, come mai coinvolge solo gli Stati Uniti, mentre non si pretende la medesima "apertura" da regimi come Cina, Russia e Iran, solo per citarne alcuni.

Senza girarci troppo intorno, non credo che Assange sia al soldo di qualche potente dittatura, ma certo il suo è un regalo enorme alle dittature, rivela un'idea distorta - complottistica e infantile al tempo stesso - del potere, che purtroppo sembra avere sempre più presa sui media e sull'opinione pubblica, e in nome della quale rischiamo di disarmare le nostre democrazie; nonché la solita preoccupante visione che vuole gli Stati Uniti, e le democrazie occidentali, sempre su una sorta di banco degli imputati planetario. Spinti dall'irresistibile fascino dell'ignoto che circonda il 'Potere', viene naturale andare a cercare nei meandri degli Stati - solo di quelli democratici ovviamente, approfittando delle libertà che solo le democrazie garantiscono, persino contro loro stesse - la prova delle magagne, salvo poi mostrare al mondo la banalità di un potere nient'affatto inaccessibile, e nient'affatto intento ad intessere chissà quali inconfessabili piani. Insomma, è tutto qui? Dov'è questa diabolica America?

Per quanto riguarda l'Italia, dai file di Wikileaks emergono la trasparenza dell'Eni sui suoi affari in Iran e i rapporti tra il nostro Paese e la Russia, e tra Berlusconi e Putin, che non sono certo un mistero. A prescindere dal giudizio di merito, da sempre, a dispetto di analisi e retroscena che si leggono sui giornali, ritengo che non rappresentino un serio motivo di tensione tra Roma e Washington. Ovvio che gli americani siano sensibili su questo punto e cerchino di "informarsi" su cosa combinano Berlusconi e Putin, o Berlusconi e Gheddafi, ma non è un tema che mette a rischio le buone relazioni tra i due Paesi (tutt'al più Berlusconi potrebbe essere chiamato a riferire alle commissioni affari esteri, non certo al Copasir).

Gli interessi italiani sono alla luce del sole e piuttosto, come ricorda oggi Edward Luttvak al Corriere della Sera, sono stati ben altri, e ben più gravi in passato i motivi di disaccordo e sospetto degli Usa nei nostri confronti: «In Medio Oriente e in Libia con Andreotti, con Craxi in Somalia e nella vicenda dell'Achille Lauro, con il rilascio clandestino del terrorista Abu Abbas. E poi, ancora, con Dini...», o in piena Guerra Fredda con gli investimenti della Fiat in Urss. «Berlusconi parla chiaro: l'alleanza con gli Stati Uniti è strategica per lui; Libia e Russia solo tattica, in difesa degli interessi nazionali, primo tra tutti l'approvvigionamento di gas con l'Eni». Gli alleati «non sono schiavi», osserva Luttvak, capita che per certi interessi nazionali si abbiano pareri diversi. «Gli Stati Uniti - ribadisce a Cnr Media - hanno i loro interessi, l'Italia i suoi, è normale. Possiamo non esserne contenti, e infatti non lo siamo, ma non ci sentiamo traditi. Perché sono cose che l'Italia fa apertamente. Una volta, invece, c'erano tanti sorrisi e poi di nascosto gli italiani facevano i furbi. Andreotti faceva il furbo con gli arabi, Craxi tradiva. Oggi questo non succede».

E comunque sono stati gli Usa e il Regno Unito a sdoganare Gheddafi; è stato proprio Obama a voler inaugurare con la Russia una nuova fase dopo le tensioni durante il secondo mandato di Bush; e comunque nella crisi più acuta dell'ultimo decennio, quella irachena, Berlusconi è stato al fianco dell'America quando sarebbe stato più comodo e politicamente corretto accodarsi al fronte anti-guerra Francia-Germania-Russia; e comunque in Afghanistan siamo tra i pochi alleati ad accrescere il nostro sforzo; e comunque in South Stream entreranno anche i francesi, in North Stream ci sono già tedeschi e francesi, mentre il progetto concorrente, il Nabucco, sponsorizzato da Usa e Ue è di più complessa realizzazione.

Sindrome da accerchiamento

Sbaglia il governo a dare l'impressione di denunciare l'esistenza di un complotto internazionale contro l'Italia, e infatti nel comunicato uscito venerdì da Palazzo Chigi si parla al plurale di «strategie». Se non ci sono elementi tali da giustificare l'evocare di una cospirazione, è tuttavia comprensibile il senso di accerchiamento che si respira per l'azione convergente di attori, per lo più interni ma non solo, che ansiosi di abbattere Berlusconi inevitabilmente finiscono con il danneggiare l'immagine e non solo del nostro Paese.

L'azione della magistratura, le cui inchieste ad orologeria raramente, svolta la loro funzione mediatica, portano a delle condanne (ora l'attacco a Finmeccanica); l'azione di gruppi editoriali dediti alla mistificazione e al fango mediatico-giudiziario; trasmissioni tv faziose che procedono per allusioni e si avvalgono delle dichiarazioni di mafiosi inattendibili per screditare i partiti al governo. Né in tutto questo può sfuggire la linea del tg di Sky, sempre più antiberlusconiano e di proprietà di Murdoch. E certo non fa bene al Paese quando una legittima opposizione antepone la guerriglia parlamentare per fiaccare Berlusconi ai contenuti di una riforma ritenuta importante.

Non certo di un complotto contro l'Italia si tratta, ma di una straordinaria - nel senso di estremamente estesa - congiunzione di poteri e interessi il cui unico fine - l'abbattimento di Berlusconi - viene perseguito a qualsiasi costo ("tanto peggio tanto meglio"), che sia anche l'immagine, l'interesse o la stabilità finanziaria del nostro Paese. E quanto più sentono l'odore del sangue, tanto più si scatenano. Da ultimo Wikileaks, che si inserisce in un quadro più generale di delegittimazione - non saprei quanto premeditata o frutto di una malintesa idea della trasparenza e del diritto all'informazione - delle democrazie occidentali e tra esse della più compiuta e potente, gli Stati Uniti, ma questo merita un post a sé.

Friday, November 26, 2010

Una morte onorevole

Invece di dar vita ad una pretestuosa e stucchevole guerriglia quotidiana sulla pelle di provvedimenti importanti per il Paese, che nulla ha a che fare per altro con il loro merito (l'emendamento approvato ieri è di natura solo lessicale), sarebbe più onesto e dignitoso da parte dei finiani aspettare serenamente il 14 dicembre e votare compatti la sfiducia. Tuttavia, sembra che l'ultima tentazione di Fli, Udc e Pd - dal momento che hanno capito di non farcela a fare il ribaltone al Senato - sia fare in modo che il governo ottenga una striminzita fiducia anche alla Camera. In questo modo, sarebbe più complicato per il capo dello Stato accogliere la richiesta di scioglimento delle Camere che quasi sicuramente, non avendo comunque numeri sufficienti a garantire la piena governabilità, avanzerebbero Pdl e Lega; Berlusconi, dopo essersi dimesso, riceverebbe un nuovo mandato e i finiani (insieme all'Udc?) potrebbero continuare a logorarlo per qualche altro mese, cercando così di evitare le temute elezioni nel 2011. Tanto ormai si è capito che della governabilità e delle riforme non gl'importa nulla, ciò che conta, al solito, è far fuori Berlusconi.

Così stando le cose, mi chiedo se al governo non convenga giocarsi il tutto per tutto sulla riforma universitaria, ponendo la fiducia su un testo che rigetti in blocco tutti gli emendamenti di Fli. Se dovesse cadere, sarebbe una morte onorevole e costringerebbe ad uscire allo scoperto quanti sono disposti a sacrificare una buona riforma pur di abbattere Berlusconi. Insomma, la strategia dovrebbe essere, su qualsiasi provvedimento, considerare gli emendamenti di Fli emendamenti di opposizione, e quindi non trattare ma respingerli e porre la fiducia sul testo originario, costringendo ogni volta i finiani ad un aut aut. La legge di stabilità è un falso problema: si può approvare anche in ordinaria amministrazione, è già impostata e nessun gruppo si azzarderebbe a metterne in discussione i saldi.

Thursday, November 25, 2010

Tutti sul tetto

Non solo Bersani, che divulgando i suoi 30 e lode dimostra plasticamente quanto l'università italiana abbia bisogno di una profonda riforma. Anche i deputati di Fli Della Vedova, Granata, Moroni e Perina sono saliti sul tetto della Facoltà di Architettura a La Sapienza, accogliendo un invito del cantautore Antonello Venditti (quello di «Valle Giulia ancoraaaaa... quiiiii, architetturaaaaa, albe cinesi di seta indiana...»). E pensare che qualcuno si è sforzato di venderci Fli come la nuova terra promessa del liberalismo...

Dopo i quotidiani dispettucci finiani alla Camera, solo per il gusto di veder andare sotto la maggioranza (l'emendamento passato all'articolo 16, comma 3, lettera f, non fa che riportare il testo a quello uscito dal Senato sostituendo le parole «nuovi o maggiori oneri» con le parole «oneri aggiuntivi»), il voto finale sulla riforma Gelmini è slittato ancora (al 30 novembre). Tempo che Fli sfrutterà per blandire la piazza rivendicando chissà quali meriti sul testo finale, mentre magazine e fondazioni d'area strizzano l'occhio alla protesta di un'«intera generazione», perché non è un Paese civile quello che «mena» i suoi studenti. Evidentemente lo è quello in cui si bloccano strade e treni, si occupano università e si tenta persino di dare l'assalto al Senato, in una scena che in altri Paesi caratterizza i momenti culminanti di un golpe.

Emblematico che tra i libri-scudo dei reazionari che manifestano contro la riforma dell'università spunti il "Che fare" di Lenin. Giocano a fare i rivoluzionari di professione ma nemmeno si rendono conto che è come sfilare con il "Mein Kampf" sottobraccio. Tra i pochi a dire le cose come stanno, Antonio Martino: «La sinistra difende l'università degli asini... L'università insegna cose che non servono a nessuno e, in più, inculca nelle loro menti l'idea bizzarra che lo Stato debba dar loro un'occupazione degna del titolo di studio».

Fallimento dei politici

Quando il fallimento è della politica e non dell'intelligence. Michael Green e William Tobey denunciano sul Wall Street Journal come le analisi e le previsioni sul programma nucleare nordcoreano siano state deliberatamente derise e ignorate dalla politica e dai media progressisti nell'illusione che accantonare certe scomode verità avrebbe favorito un accordo con Pyongyang. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
«Durante gli ultimi dieci anni, gli analisti dell'intelligence hanno puntualmente previsto il percorso della Corea del Nord verso le armi nucleari ed evidenziato le prove crescenti della sua proliferazione missilistica e nucleare. Il fallimento è dei politici e dei pundits che hanno denigrato le analisi, le hanno ignorate, o che si sono aggrappati all'illusione che la Corea del Nord avrebbe accettato un accordo di denuclearizzazione».
Ormai dovrebbe essere chiaro che Pyongyang non si fermerà finché non avrà ottenuto il riconoscimento come potenza nucleare e a questo scopo intende continuare ad alzare il suo livello di minaccia. Accetterà di discutere davvero un accordo, forse solo quando potrà farlo alla pari con gli Stati Uniti, da potenza nucleare a potenza nucleare (sempre che nel frattempo non sorgano altri appetiti).

Murdoch e Caltagirone muovono i fili

«I due puntano a rastrellare le frequenze digitali non appena saranno messe all'asta». I due di cui parla Italia Oggi sono Rupert Murdoch e Francesco Gaetano Caltagirone (suocero di Casini). Se Berlusconi ha il conflitto di interessi che tutti conosciamo, i suoi nemici non sono da meno. Non solo Montezemolo, che si ritiene penalizzato con la sua Ntv (in realtà, come lui stesso ammette, siamo il primo Paese ad aprire ad un operatore privato nell'alta velocità), sono altri i giganti che vedono nell'attuale governo un intralcio per i loro grandi affari. Pronti a piombare nel ricco piatto delle frequenze digitali, Murdoch e Caltagirone già si sentono i nuovi padroni della tv.

Resta un piccolo ostacolo: Berlusconi. Per questo, osserva il quotidiano, «buttare giù il governo è il primo passo obbligato della strategia di attacco del duo Murdoch-Caltagirone». Ecco spiegato l'«insolito vigore» di SkyTg24, che quasi ogni giorno propone un sondaggio contro il governo e che strizza l'occhio a Fini.
«Nella fase successiva, che Casini ha battezzato con fantasia in tutti i modi possibili (governo tecnico, di responsabilità nazionale, d'armistizio, e così via), grazie all'inevitabile clima di concitazione politica, la vendita delle frequenze digitali ad imprenditori ostili a Berlusconi sarebbe facilitata e consumata come un classico colpo di mano, come lo fu la concessione della licenza per la telefonia mobile a De Benedetti con il governo Ciampi nel 1993».
Del progetto, scrive ancora Italia Oggi, «nel Palazzo romano si chiacchiera abbastanza apertamente». E aggiunge che «l'intera pagina di pubblicità sul Corriere della Sera che oggi Sky dedica a un evento che vede Montezemolo come protagonista è la migliore risposta a chi si interroga sui possibili alleati del duo Murdoch-Caltagirone. La battaglia è appena iniziata, e si annuncia durissima, senza esclusione di colpi».

Wednesday, November 24, 2010

Assalto al Senato, Montezemolo esce dal recinto

Mentre va in scena un assalto squadrista al Senato, con il contorno di un giochetto disgustoso dei finiani alla Camera sulla riforma Gelmini, una delle poche cose appena decenti fatte da questo governo, e mentre Berlusconi, Bossi e l'Udc riempiono con i loro tatticismi i giorni che ci separano dalla verifica del 14, per la prima volta Montezemolo non risponde con un "no" secco a chi gli chiede se ha intenzione di entrare in politica e le sue parole suonano come la tanto attesa discesa in campo. Che si sia deciso? Che sia finalmente l'alba di questo Terzo polo? «Ho il dovere di fare qualcosa per il mio Paese», dichiara Luchino chiudendo un convegno di ItaliaFutura sui giovani, è ora di «uscire dal proprio particolare recinto per contribuire al bene comune», ma «il periodo dell'one man show è finito», avverte. E precisa di non riferirsi a Berlusconi o a qualcuno in particolare, ma anche a se stesso: «Anche quando chiedono a me di entrare in politica... entrare in politica da soli non vuol dire assolutamente niente, ci vuole una squadra».

E lui è fortunato, perché una squadra che lo aspetta già ce l'ha: Fini, Casini, Rutelli... Sai che squadra... Spero solo che non sia chiedere troppo che si presentino agli elettori e non cerchino improbabili ribaltoni. Vedremo, poi, come si comporteranno i media con il conflitto di interessi di Montezemolo, presidente di Ntv, il nuovo operatore che dal prossimo anno farà concorrenza a Trenitalia nel trasporto viaggiatori ad alta velocità.

Mentre Fini minimizza l'assalto squadrista al Senato («solo provocatori isolati» che non c'entrano con la «legittima protesta»), i suoi ragazzi alla Camera questo pomeriggio sono stati tentati di affossare la riforma dell'università, che avevano ripetuto di apprezzare e assicurato di sostenere. L'impressione è che per qualche ora siano stati sfiorati dall'idea di blandire i manifestanti (studenti e ricercatori) ed impedire al governo di portare a casa un prezioso risultato. Avevano chiesto che la riforma tornasse in Commissione perché, parole di Granata (Fli), priva delle risorse per «gli scatti meritocratici di anzianità» (?) di ricercatori e associati. Un miliardo evidentamente non basta, quando semmai la riforma andava fatta a costo zero, e possibilmente risparmiando qualcosa. Sono dell'idea che non un cent in più andrebbe versato all'università se prima non si riesce a dare una raddrizzata strutturale al sistema. L'ostacolo sembra superato, almeno per ora.

Nel frattempo, il premier chiede l'appoggio esterno dell'Udc, persino con il via libera di Bossi («sarebbe positivo»), ma Casini rifiuta senza pensarci due volte (ogni ipotesi è rimandata a dopo la caduta del Cav., passaggio inevitabile, agli occhi dei centristi, per aprire una nuova fase). Prospettiva inquietante sia per l'oggi che per il domani (in vista di elezioni anticipate) quella di sostituire i finiani con l'Udc, perché da un Berlusconi con logoramento di Fini, si passerebbe a un Berlusconi con logoramento di Casini. Ma probabilmente si tratta solo di tatticismi da una parte e dall'altra per riempire la scena nei giorni che ci separano dalla verifica del 14.

Eventuali piccoli spostamenti di voti alla Camera a favore del governo (a questi, e a blindare il Senato, probabilmente mirava Berlusconi con il suo appello all'Udc) non impediranno il ritorno alle urne. Anche se l'aggravarsi della crisi dell'eurodebito rischia di trasformarsi in un nuovo argomento per quanti sarebbero disposti a fare carte false pur di far fuori Berlusconi senza sottoporsi subito dopo al giudizio degli elettori. Già si leggono e si sentono gli appelli alla responsabilità di quanti, dopo aver contribuito irresponsabilmente a destabilizzare l'unico governo democraticamente legittimato, sosterrebbero un bel governo "tecnico" per non lasciare l'Italia senza guida in mesi cruciali per le sorti dell'euro e del patto di stabilità. Di fatto un commissariamento del nostro Paese.

Tuesday, November 23, 2010

I frutti avvelenati dell'appeasement

Myanmar, Corea del Nord, Iran. Tre regimi sanguinari e disumani per i popoli che opprimono, pericolosi per gli altri; tre insuccessi dell'Occidente e in particolare della strategia obamiana della "mano tesa" (o, piuttosto, del "porgere l'altra guancia"), ma anche di una certa realpolitik convinta che si possa escludere dall'analisi il fattore natura del regime.
COREA DEL NORD - Partiamo dall'ultimo e più allarmante sviluppo in ordine di tempo. Questa mattina la Corea del Nord ha attaccato la Corea del Sud colpendo con l'artiglieria l'isola di Yeonpyeong, in quello che rappresenta forse il più grave incidente dalla guerra degli anni '50.

Ma non va dimenticato che un paio di settimane fa la Corea del Nord ha rivelato l'esistenza di un nuovo grande impianto per l'arricchimento dell'uranio costruito rapidamente e in totale segretezza. Una sfida esplicita alla politica anti-proliferazione della Casa Bianca e un nuovo rilancio nel gioco di estorsioni in cui ormai sono campioni i nordcoreani. Lo scienziato Usa cui è stata mostrata, è rimasto basito dalla modernità tecnologica della centrale e ha parlato di migliaia di centrifughe. La scoperta è particolarmente inquietante, perché se l'impianto è stato tirato su in un anno e mezzo (fino all'aprile del 2009 non esisteva), è probabile che ad aiutare i nordcoreani sia stata una mano straniera, in violazione delle sanzioni Onu e in barba ai controlli internazionali.

Sono i risultati della politica di dialogo e di appeasement. Per tornare a sedersi al tavolo dei negoziati a sei, il regime di Pyongyang alza la posta, chiede nuovi e ulteriori benefit, in una rincorsa di ricatti che non avrà mai fine, mentre gli Usa, la Corea del Sud e il Giappone, coinvolgendo Cina e Russia, avrebbero la forza per una grande operazione di libertà per milioni di vite tenute prigioniere in un medioevo di fame e miseria. E' evidente ormai che Pyongyang non mira solo a estorcere soldi e benefit, ma anche ad essere riconosciuta come potenza nucleare (possiede tra le 8 e le 12 testate), e a tenere in ansia l'Occidente con l'implicita minaccia di cedere una delle sue bombe ad al Qaeda o all'Iran.

L'aggressione militare di oggi fa temere un cambio di passo. Si mette alla prova la risolutezza degli Stati Uniti nel difendere i propri alleati in Asia. Una condanna non basta. A questo punto non basta ribadire di essere «completamente impegnati nella difesa del nostro alleato, la Repubblica di Corea, e nel mantenimento della pace e della stabilità regionali». Non basta a dissuadere Pyongyang né a rassicurare i preziosi alleati, da Seul a Taiwan.

MYANMAR - In Myanmar, dopo le recenti elezioni-farsa da cui il regime militare esce rafforzato e le opposizioni democratiche divise, si festeggia la "liberazione" del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Libera per modo di dire, visto che non potrà guidare il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, sciolto d'autorità lo scorso settembre, né riorganizzarlo, e visto che la sua sarà piuttosto una libertà vigilata, sottoposta cioè a pesanti restrizioni. Inoltre, va tenuto presente che già altre volte la "Dama" è stata "liberata", vivendo brevi periodi di "libertà". Dopo i primi 7 anni di prigionia fu liberata nel 1995, per tornare in cella nel 2000. Nel 2002 fu rilasciata, ma appena un anno dopo fu di nuovo arrestata e da questa data ebbe inizio il suo secondo lungo periodo di arresti domiciliari, che si sarebbe dovuto concludere nel 2009. Senonché, a pochi giorni dalla scadenza riceve la visita di un misterioso ospite americano e subisce una nuova condanna a tre anni di prigione e lavori forzati, pena poi commutata in altri 18 mesi di arresti domiciliari.

Visti i precedenti, dunque, i festeggiamenti di questi giorni appaiono del tutto fuori luogo. Nulla ci induce a ritenere che anche questa volta non si tratti che di una breve parentesi di libertà vigilata tra due carcerazioni (qui si scommette della durata all'incirca di un anno). Inoltre, dalle elezioni richieste dalla comunità internazionale e dagli Usa in primis, il regime ha di fatto incassato una legittimazione (anche se solo formale), che nessun soggetto esterno, né tanto meno interno, avrà la forza di contestare per un lungo periodo. Tanto che la stessa leader democratica birmana sembra essersi convertita a più miti consigli.

IRAN - Per quanto riguarda l'Iran, Obama non è riuscito non dico a ottenere la rinuncia da parte di Teheran al proprio programma nucleare, ma nemmeno a convincere gli iraniani a intavolare una trattativa seria. Siamo nella fase delle sanzioni. Ne sono state approvate di stringenti dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, e sanzioni ancora più dure sono state adottate unilateralmente da Stati Uniti e Unione europea. La sensazione, però, è che non sortiranno l'effetto sperato. E le divisioni che anche in queste ore vediamo emergere nell'establishment iraniano, il clima sempre più da resa dei conti interna (il tentato impeachment di Ahmadinejad da parte di alcuni deputati conservatori, fermati solo dall'intervento dell'ayatollah Khamenei, e il mandato d'arresto che pende sul figlio di Rafsanjani) non sono il frutto dell'isolamento internazionale, della stretta morsa di Obama, bensì della resistenza di una parte del regime, anch'essa clericale e conservatrice, alla presa totale del potere da parte di Ahmadinejad e della sua cricca, e alla militarizzazione della Repubblica islamica in corso con il beneplacito di Khamenei. Una faida interna il cui sbocco potrebbe essere tutt'altro che democratico, anche perché nel frattempo l'opposizione popolare, l'"onda verde", è stata stroncata mentre l'Occidente non muoveva un dito.

E' proprio vero, quando l'America è più debole, è distratta, o non è guidata in modo saldo, il mondo si fa rapidamente un posto più pericoloso.

Il presidente degli irresponsabili

Ha provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, come al solito, ma quello che ne è venuto fuori dopo il filtro mediatico è un messaggio vile e irresponsabile. Da una parte, il presidente Napolitano ricorda che «non si può sfuggire da una riduzione del nostro debito pubblico», «nell'interesse soprattutto delle nuove generazioni, sulle cui spalle non abbiamo il diritto di scaricare il simile peso», che sono inevitabili «revisioni rigorose della spesa pubblica», e che «non ci sono sconti né vie d'uscita indolori» dalla crisi; ma dall'altra, incontrando il mondo del cinema e delle arti per la consegna del premio De Sica, sentenzia che no, non è «mortificando» la cultura e lo spettacolo che si risanano i bilanci e si favorisce lo sviluppo. Ecco, dunque, un nuovo miracolo di moltiplicazione dei pani e dei pesci: inevitabili i tagli, ma non sulla cultura e sullo spettacolo. Dove, allora, giacché si deve tagliare, è giusto e opportuno tagliare? Serietà imporrebbe che Napolitano, come chiunque altro, si assumesse la responsabilità non solo di escludere tagli al settore X, ma allo stesso tempo di indicare i settori Y e Z dove tagliare il doppio (per poter risparmiare il settore X).

Avviene esattamente il contrario. Da vero irresponsabile - anzi, da presidente degli irresponsabili - ogni categoria che incontra Napolitano la blandisce mostrandosi dalla sua parte contro la scure dei tagli. Si potrebbe provare un piccolo gioco: se raccogliessimo i suoi discorsi in uno solo, avremmo il paradosso di un discorso in cui tutti i capitoli di spesa pubblica vengono menzionati come meritevoli non solo di non subire tagli, ma di maggiori risorse. «Non si può tagliare tutto», ammoniva qualche giorno fa il capo dello Stato, un'espressione che senza indicare precisamente dove si può e si deve tagliare suona come un non si può tagliare niente.

La tutela dei beni culturali è una cosa, e dovrebbe ricevere adeguati finanziamenti, anche se esistono molti modi per valorizzarli coinvolgendo capitali privati. I sussidi al mondo dello spettacolo, invece, dovrebbero semplicemente essere pari a zero. Che lo Stato debba finanziare (ogni anno vengono spesi centinaia di milioni) decine di film e spettacoli vari scadenti e che nessuno vede, che non hanno neanche un ritorno di pubblico, è semplicemente aberrante. Il sussidio statale non serve affatto ad elevare le nostre arti. Al contrario, mortifica i talenti, perché il flusso dei finanziamenti - sappiamo tutti come vanno le cose - viene indirizzato non secondo criteri meritocratici, ma politico-ideologici e per reti relazionali. E il risultato è che ci ritroviamo con una pletora di attori e registi falliti che vivono sulle nostre spalle. Anche per il mondo delle arti e dello spettacolo, il miglior modo per allocare le risorse è affidarsi al mercato.

Facciamo quest'altro giochino. Passiamo in rassegna tutti i settori dell'amministrazione, quasi ministero per ministero, e constatiamo come per ognuno ci sia stato almeno una volta rinfacciato un buon motivo per non tagliare:
Si taglia nella sanità e nell'istruzione? Non se ne parla neanche.
Sull'università? Macché, la formazione è strategica!
La giustizia e le forze dell'ordine? Ma scherziamo? E la sicurezza?
Tagli alla cultura? Pompei docet.
Almeno tagliamo i sussidi agli spettacoli... Aiuto! Vogliono il popolo bue!
Tagliamo un po' dall'ambiente? E il dissesto idreogeologico?
Allora, tagliamo almeno i sussidi alla "green economy". No, è il futuro, volano di sviluppo.
Regioni ed enti locali? No, così si tolgono i servizi essenziali ai cittadini.
Neanche la difesa si può toccare, altrimenti come si garantiscono i mezzi migliori che tutti reclamano per i nostri soldati in missione?
Considerando che le infrastrutture vengono da tutti considerate vitali, che le pensioni guai a toccarle di nuovo, e che certo non si può chiedere ai disoccupati di rinunciare alla cassa integrazione, tirate voi le somme... o le sottrazioni...

Monday, November 22, 2010

Confusi e storditi

Non ne sentivamo il bisogno, ma alle già numerose formule astruse della politica italiana, da buon democristiano Casini ne ha aggiunta un'altra, proponendo a Berlusconi un «governo di armistizio», con «le forze migliori di destra e di sinistra» (il solito pastrocchio, insomma). «Non ci fidiamo del premier e non ci piace l'egemonia della Lega» non sembrano parole da «armistizio» e le condizioni poste suonano come lievemente irricevibili (per avere l'Udc, Fli e le non meglio precisate «migliori forze di sinistra» nel governo, Berlusconi dovrebbe rinunciare alla Lega!), ma probabilmente la nuova boutade serve al leader Udc solo per recuperare un po' di scena su Fini.

L'escalation finiana, infatti - con richiesta di dimissioni di Berlusconi per aprire una crisi extraparlamentare al buio e conseguente uscita dal governo - non ha prodotto i risultati sperati e, anzi, sembra aver restituito l'iniziativa al premier e cacciato Fli e centristi in un vicolo cieco, mentre Montezemolo si gode il «cinepanettone» dalla finestra e tutto fa pensare che alla finestra ha intenzione di restare ancora per un bel po'. Consapevoli che con questi numeri, in Senato ma anche alla Camera, non c'è spazio alcuno per governi "ribaltone", dunque non c'è possibilità di far fuori Berlusconi senza venire trascinati dritti alle urne, Fli e Udc si agitano nella speranza che chissà quali manovre o sviste altrui li aiutino ad uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. Assistiamo quindi in questi giorni ad una congerie di uscite scomposte e tra di loro contraddittorie, una cortina fumogena di chiacchiere da cui emerge una sola certezza: la modesta statura di Fini e Casini, due teatranti della vecchia politica capaci solo di piccolo cabotaggio e del tutto privi, al contrario di quanto vorrebbero far credere, del minimo barlume di serietà e senso di responsabilità.

Dai finiani i soliti segnali contrastanti. Da una parte, i più miti consigli di un Della Vedova, che dopo il mal celato tentativo di dare il benservito a Berlusconi, riapre ad un Berlusconi-bis con una maggioranza più ampia, allargata all'Udc, e un nullaosta al Cav. ancora premier. Ma per quale strano miracolo questo preteso «nuovo» centrodestra, in realtà identico al vecchio del 2001-2006, dovrebbe «rafforzare» il governo stentiamo ad afferrarlo. Dall'altra resta Bocchino, che oggi torna a gettare benzina sul fuoco aprendo una sterile querelle su nome e simbolo del Pdl. Fumo, nient'altro che fumo.

Friday, November 19, 2010

Il governo Ciampi si calò le braghe

Con le rivelazioni di Conso in commissione Antimafia, il teorema della trattativa Stato-mafia, i vari pizzini e papelli, con i quali si volevano incastrare Berlusconi e FI, stanno invece coinvolgendo il governo Ciampi del '93, sostenuto dalla sinistra. Roba da prime pagine, ma i professionisti dell'antimafia tacciono. Non credo ci fu una trattativa nel vero senso del termine, e cioè che i nostri ministri erano mafiosi o hanno voluto aiutare la mafia. Come ha spiegato l'allora ministro della giustizia Conso, ci fu una decisione politica - revocare il 41bis per cercare di fermare le stragi (come da richiesta riferita da Ciancimino tramite il famoso "papello"). Sbagliata, sciagurata, perché fermò le stragi sì, ma lo Stato si calò le braghe. Una grave responsabilità politica, di cui si deve chiedere conto al governo di allora. Politicamente, non giudiziariamente.

Thursday, November 18, 2010

Doccia gelata sui bollenti spiriti

La giornata è all'insegna del raffreddamento degli ardenti spiriti dei finiani, che oggi, meno sicuri dei loro numeri, cominciano a temere di aver compiuto il classico passo più lungo della gamba. Giorni fa lasciavano intendere di non essere disponibili ad un reincarico del premier, oggi parlano di un Berlusconi-bis; oggi, nel suo videomessaggio, un confuso Fini non rinnova la richiesta di dimissioni, ma dice che Berlusconi ha il dovere - «l'onore e l'onere» - di governare (ma non doveva dimettersi?). Allo stato attuale la "maggioranza" che sostiene il governo Berlusconi potrebbe contare alla Camera su 309-310 seggi, al netto dei 36 finiani: ancora -6 dalla maggioranza assoluta, dunque. Francamente, ritengo ancora improbabile che il governo riesca a ottenere la fiducia anche alla Camera (mentre al Senato è molto probabile). E non è scontato che sia auspicabile, visto che comunque sarebbe troppo fragile per sostenere riforme di rilievo e durare fino alla fine della legislatura.

I numeri, però, contano rispetto agli scenari futuri. E con questi numeri alla Camera, e quanto più Berlusconi si avvicina a quota 316 (considerando che il Senato dovrebbe riconfermargli la fiducia), ogni ipotesi di governi ribaltonisti, "tecnici" o di transizione, sarebbe da escludere. Ed è ciò che più allarma i finiani, insieme all'atteggiamento del presidente Napolitano, che certo non ha offerto sponde nell'incontro dell'altro giorno al Quirinale sulla calendarizzazione dei lavori delle camere e dei dibattiti sulla fiducia. L'uscita dal governo non sembra aver provocato quel cedimento strutturale che forse qualcuno si aspettava.

E' passato quasi inosservato questo comunicato di ieri di Pannella, ripreso oggi solo dal Sole 24 Ore, che si è spinto a titolare "Premier a caccia di nove deputati. Pannella tratta: da noi sei voti". Sei sono i seggi che mancano a Berlusconi e proprio sei sono i deputati radicali. Il Sole corre troppo, ma cosa ha dichiarato il leader radicale? Questa volta il suo rimprovero a Berlusconi (per essersi azzardato a ribadire "o fiducia, o voto"), è in forma di «dialogo», non di «sterile polemica», ha premesso, in conclusione ribadendo che «quando ci si riconosce carattere e dignità di interlocutore politico, che sia Bersani, Berlusconi, Bossi o Di Pietro, noi lo riteniamo non solamente utile ma anche necessario. Che si tratti di capi o vice-capi della maggioranza o dell'opposizione».

Un segnale di disponibilità al dialogo, insomma. E che tra i leader citati manchino Fini e Casini (il cosiddetto Terzo polo) non sembra affatto una dimenticanza. Troppo presto per capire se ci troviamo di fronte ad una nuova "pannellata". Al momento, sembra più un segnale di avvertimento rivolto al Pd. Due giorni fa i gruppi parlamentari del Pd si sono riuniti con Bersani a Montecitorio e i radicali avevano chiesto che fosse invitato Pannella. Il niet dei democratici è stato vissuto come un nuovo schiaffo in un lungo record di indifferenza. E' dalle elezioni regionali che i vertici Democrat stanno scientemente ignorando i radicali, a cui in caso di elezioni anticpate non potrebbero certo assicurare 9 posti in lista sicuri (6 alla Camera e 3 al Senato).

Politicamente per i radicali (o meglio, i radicali di una volta) ci sarebbe una prateria. Basti pensare ai temi economici, alla grande questione della crisi dell'eurodebito e, in particolare, del debito italiano, o alla giustizia. Il problema è che ormai il loro encefalogramma politico è piatto. Da anni hanno puntato tutto sulla bioetica, sull'immigrazione (a porte spalancate, barconi compresi), sulle carceri, su Tarek Aziz e sulla montatura dell'esilio di Saddam, sulle battaglie pseudo-legali contro le liste di centrodestra, assumendo sempre più i toni e gli slogan dell'antiberlusconismo e i contenuti di una sinistra antagonista piuttosto che blairiana. Se prima la critica a Berlusconi e alla deriva clericale era riequilibrata da una sintonia di fondo con gli elettori del centrodestra, ormai la distanza è a livello antropologico, e c'è l'orgoglio di rimarcarlo, di vantarsene, come d'altronde il resto della sinistra.

E anche se Pannella volesse tornare a stupire, anche se avesse intuito uno spazio di manovra, i suoi non glielo consentirebbero - Bonino in primis («non c'è alcuna apertura di credito» in particolare a Berlusconi, e l'appello è in primo luogo a Bersani, ha subito corretto il tiro). Quindi, credo sia ancora una volta solo manfrina. Ottenere un po' di visibilità, un po' di titoli di giornali, per farsi ricevere da Bersani. Certo, resta il fatto che nessuno come loro teme le elezioni, e non essendo per nulla interessati a operazioni terzopoliste o ribaltoniste, arrivato il fatidico 14 dicembre potrebbe astenersi. Ma che il loro malessere nei confronti del Pd, e il loro interesse a che la legislatura prosegua, prenda le forme di un dialogo politico con Berlusconi e il centrodestra (sui temi e non sui posti, s'intende), ci credo poco.

Modelli tedeschi

Tempo fa qualche finiano un po' confuso e ignorantello, per giustificare il ruolo politico "attivo" (è un eufemismo) del presidente della Camera, paragonava Fini a Nancy Pelosi, come se la Speaker della House Usa potesse rimanere tale se ad un tratto si mettesse alla testa di un gruppetto di deputati per fare la fronda al presidente Obama. Pare che Fini abbia un buon rapporto con la Pelosi, che lascerà presto il ruolo di Speaker. Ma a quanto pare non è riuscito ad affascinare il presidente del Bundestag, Norbert Lammert, incontrato giorni fa a Roma. Nel suo recente giro per l'accreditamento nelle capitali europee (sfruttando le migliori chance di essere ricevuto per la carica istituzionale che ricopre in Italia), Fini aveva cercato di incontrare il suo omologo tedesco, il quale però, impegnato in un'importante seduta, non l'aveva potuto ricevere. Ma Lammert ha rimediato durante la sua recente trasferta romana.

I due si sono incontrati, ma il presidente della Camera tedesca, dello stesso partito della cancelliera Merkel, non deve essere rimasto ben impressionato, stando a quanto ha raccontato a Enzo Piergianni, di Libero: «Gianfranco Fini mi ha ricevuto con grande cortesia e mi ha raccontato di avere letto da qualche parte che io gli somiglio perché cercherei di mettere i bastoni tra le ruote all'azione di governo della cancelliera Merkel». In realtà, com'è fisiologico che sia, tra la cancelliera e il suo compagno di partito alla presidenza del Bundestag non sempre fila tutto liscio, per l'inevitabile dialettica tra il governo che ha fretta di far passare i suoi provvedimenti e lo scrupoloso rispetto delle procedure parlamentari. Ma niente di paragonabile a come sta interpretando il suo ruolo Fini. «Io gli ho risposto che la somiglianza proprio non esiste - spiega Lammert - Perché tra noi c'è una differenza fondamentale: io non ho l'ambizione di diventare il capo del governo. La guida di un partito la ritengo inconciliabile con la presidenza di un'assemblea legislativa. Io non potrei mantenere le due cariche contemporaneamente», perché «occorre essere al di sopra delle parti, con massima equidistanza e trasparenza».

Purtroppo, non sono concetti che ha condiviso con il nostro presidente della Camera nei 45 minuti di conversazione a Montecitorio: «No, perché nell'incontro Fini non ha chiesto la mia opinione sull'argomento. Se me l'avesse domandata, gliela avrei detta». Possibile che serva un "modello tedesco" anche per imparare un minimo di correttezza istituzionale? La cosa, naturalmente, è passata sotto silenzio, ma naturalmente a Berlino c'è molto imbarazzo per il "caso Ruby", quello sì, è passato.

Wednesday, November 17, 2010

La metamorfosi di Saviano nuovo "professionista" dell'antimafia

Roberto Saviano si sta "santorizzando" (o meglio, "travaglizzando"). Da talentuoso e apprezzato scrittore di denuncia e rappresentazione della realtà delle mafie si sta rapidamente trasformando in un tribuno e in uno dei tanti professionisti dell'antimafia. Comincia a buttarla in politica e, soprattutto, a prendere per oro colato ciò che non lo è: inchieste giudiziare neanche arrivate alla fase del dibattimento. L'aspetto più grave della sua replica alle critiche di Maroni è che rivela una profonda ignoranza: dice di essersi limitato a raccontare dei «fatti», ma evidentemente ignora che una verità è giudiziariamente accertata alla fine di un procedimento, non all'inizio.

Quando poi, in un'intervista a la Repubblica, paragona il ministro dell'Interno addirittura al boss camorrista detto Sandokan, solo perché Maroni l'ha invitato a ripetere le sue accuse alla Lega in un faccia-a-faccia, «guardandolo negli occhi», chiedendo nient'altro che un contraddittorio, come gli avrebbe chiesto anche l'avvocato del boss, dimostra la sua faziosità e capziosità. Saviano d'altronde ha già dimostrato di non essere intellettualmente onesto nella prima puntata, quando, parlando di Falcone, si era guardato bene dall'indicare per nome e per cognome i suoi nemici (tutti nella magistratura e nell'intellettualità e nella politica di sinistra). Ha imparato presto chi può permettersi di attaccare e chi no, se vuole conservare lo status di eroe civile e cantore dell'antimafia politicamente corretta.

Molto semplicemente, Saviano si è montato la testa. Ha cominciato a credere di essere investito di una missione salvifica, denunciare e ripulire il marcio della società, a cominciare, ovviamente, dal mondo dell'imprenditoria e della politica (di centrodestra e del Nord). Un conto è raccontare l'inchiesta condotta dalla Boccassini e da Pignatone sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia, altra cosa è alludere ad un legame, ad una «interlocuzione», tra uno dei partiti al governo, la Lega, e la mafia. Non si può escludere, è già accaduto in passato, che le mafie riescano a contattare singoli esponenti politici locali, di tutti i partiti, ma da qui a insinuare una «interlocuzione» consapevole, deliberata, ce ne passa e che abbia tirato in ballo proprio la Lega (nonostante il consigliere leghista citato non fosse nemmeno indagato) forse ha a che fare con un senso di rivalsa nei confronti del nord, quasi un goffo tentativo di coinvolgerlo in un fenomeno che certo, può infiltrarsi, ma che è nel Dna del sud. Quando parla di «silenzio» si sbaglia, evidentemente è poco informato. Sulle infiltrazioni della 'ndrangheta al nord non c'è affatto «silenzio», né sottovalutazione da parte del governo. Basta informarsi sui provvedimenti adottati, gli arresti, la storia di denuncia che può vantare in particolare la Lega. Ma a questa difesa ci penserà Maroni, se gliene sarà data l'opportunità.

Saviano dice che si limita a raccontare «storie», ma raccontare storie non è mai neutro. Quindi, dovrebbe innanzitutto essere onesto con i telespettatori circa il punto di vista ideologico della sua trasmissione. Quando, poi, si avanzano in tv ipotesi diffamatorie, bisogna dare alla controparte la possibilità di difendersi. Maroni ha diritto ad un contraddittorio con Saviano dinanzi allo stesso identico pubblico. E quando si invitano leader politici per brevi comizietti, siamo alla tribuna politica, che ha delle regole precise.

Tuesday, November 16, 2010

Destra o sinistra, non c'è la Libertà

Premesso che il giochino "questo è di destra, questo è di sinistra" è stato già ridicolizzato da Gaber quasi vent'anni fa ed è ormai del tutto anacronistico, puzza di vecchie ideologie, Fini e Bersani ieri sera hanno fatto a mio avviso una pessima e triste figura, con i loro grigi e banali elenchi esposti come temini delle elementari. Innanzitutto perché - incredibile ma vero - nei loro elenchi spiccava un'assenza illustre: la libertà. Nessuno dei due l'ha citata una sola volta tra i "valori" (e le tante banalità) che ritengono di destra e di sinistra (e neanche alla democrazia hanno dedicato una enunciazione forte). La libertà può essere declinata politicamente in modi molto diversi, ma credo che in nessun Paese si trovino leader di destra o di sinistra che omettano di menzionarla enfaticamente tra i propri valori. In Italia a quanto pare sì ed è emblematico della condizione in cui ci troviamo e di questa classe politica. Una destra e una sinistra entrambe senza libertà è ciò che ci attende dietro l'angolo del berlusconismo?

Bisogna dire, però, che se proprio si fosse costretti a scegliere tra i due, meglio Fini. Bersani è stato davvero impresentabile, a cominciare dal tono della voce triste e dimesso, quasi da condannato a morte, rispetto al tono più stentoreo e solenne, più convinto, di Fini. Mentre i "valori" esposti da Fini spaziano da una "destra" un po' annacquata (con tanto Stato, Stato, Stato, ripetuto quasi ossessivamente, e senza libertà) ad una sinistra appena appena democratica (solidarietà e volontariato; uguaglianza nel punto di partenza; merito), quelli di Bersani sono i residui di una sinistra vecchia, novecentesca e fuori dalla storia. Ormai concetti come patria, libera impresa, merito, sicurezza, sono a pieno titolo sdoganati anche a sinistra, ma Bersani non li ha nemmeno citati, accontentandosi di rimanere abbarbicato a cose come Costituzione, resistenza, giustizia sociale, salute e scuola pubbliche, lavoro stabile, tasse, no al nucleare, cittadinanza per gli immigrati, laicità, morale pubblica, pace. Se è così che pensa di affrontare Vendola, allora lui e il Pd sono spacciati.

Monday, November 15, 2010

La strettoia in cui sta cacciando Fini

Solo poco più di un mese fa avevano rinnovato la fiducia al governo sui cinque punti programmatici esposti dal premier in aula e nei prossimi giorni faranno passare uno degli atti più squisitamente politici di qualsiasi governo: la legge finanziaria. Eppure, ritirano ministro e sottosegretari e sono pronti a votare la sfiducia un minuto dopo la sessione di bilancio. Perché ormai non c'è più niente di "politico" che possa bastargli e le eventuali buone ragioni hanno lasciato il posto ad un unico reale obiettivo: far fuori Berlusconi. Domani sul Colle vedremo salire Fini non si sa bene in che veste, se da presidente della Camera o da leader di Fli. E comunque la si voglia pensare, difficilmente si può ignorare l'anomalia di un presidente della Camera che si presenta dal capo dello Stato a ragionare della crisi che lui stesso ha provocato. Le sue non saranno valutazioni da presidente della Camera. Punto.

L'impressione è che l'ipotesi avanzata da Berlusconi, di sciogliere solo la Camera, sia una mossa volta a serrare le fila dei suoi al Senato e quindi ad allontanare lo spettro di un governo "tecnico" (leggasi ribaltone) e ottenere il voto anticipato. E' vero, infatti, che l'artico 88 della Costituzione prevede che «il presidente della Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Ma ciò appare superato da quando, dagli anni '50, i mandati di Camera e Senato non sono più sfalzati (cinque e sei anni) come inizialmente previsto dai costituenti. Allora perché, si potrebbe obiettare, anche dopo l'allineamento dei mandati delle due camere il legislatore ha ritenuto di mantenere la facoltà in capo al presidente della Repubblica di scioglierne una sola?

Insomma, se dal punto di vista giuridico la questione è quanto meno controversa, è irrealistico aspettarsi che Napolitano decida di sciogliere solo la Camera. Credo che neanche Berlusconi ci creda davvero, piuttosto prova a mettere la pulce nell'orecchio dei senatori. Da quali saranno i numeri con cui verrà sfiduciato, infatti, dipenderanno le chance di un ipotetico nuovo governo. Se, come pare probabile, Berlusconi otterrà la fiducia, anche striminzita, del Senato, Napolitano si vedrà costretto a sciogliere le camere, ed è anche possibile che prima lo incarichi di tentare un Berlusconi-bis. Per ora appare quasi impossibile che riesca a strappare la fiducia anche alla Camera dividendo i finiani, ma in ogni caso quanto più ci arriva vicino tanto più si allontanano ipotesi diverse dal voto.

Credevo che in caso di elezioni Fini sarebbe andato da solo, massimizzando la sua figura di leader, la coerenza programmatica del suo nuovo partito e la sua rivendicata identità di destra (moderna ed europea, s'intende). Pare invece intenzionato ad imbarcarsi in un'impresa terzopolista (con Udc, Api, e con l'Mpa dell'inquisito Lombardo!), che nonostante la pretesa di rappresentare un nuovo centrodestra, apparirà un'operazione centrista, centralista e meridionalista. Dovrà dividersi con Casini la leadership; dovrà spiegare ai propri simpatizzanti che l'agenda laica è rinviata a data da destinarsi; spiegare molto bene agli italiani cosa lo unisce oggi all'ex arci-nemico Rutelli; e infine spiegare come mai, dopo tutto questo casino, non sarà neanche questa volta lui (probabilmente) il candidato premier di questo Terzo polo.

Come se non bastasse, stando alle parole di Bocchino - che fino ad oggi si è rivelato il migliore interprete, persino anticipatore, della linea e degli umori del suo capo - non è da escludere una sorta di "unità nazionale" con il Pd, talmente disperato da rivolgersi anche a Fini per non rimanere isolato dai giochi terzopolisti (il duetto Fini-Bersani di stasera a Vieni via con me potrebbe rivelarsi un boomerang se apparisse quasi impossibile distinguere tra valori di destra e di sinistra). Un Cln antiberlusconiano avrebbe chance di vittoria in misura direttamente proporzionale alla sensazione di pericolo per la democrazia che avvertono gli italiani con Berlusconi, quindi piuttosto basse. A occhio e croce, è più probabile che gli elettori respingano una simile santa alleanza per quello che è: un inaccettabile e indecente guazzabuglio.

Ad un'attenta analisi, inoltre, le possibilità di Berlusconi di conquistare la maggioranza anche nel prossimo Senato con l'attuale legge elettorale sono molto maggiori di quanto si creda. E' vero, se la rischia più che alla Camera, ma perché si ritrovi con meno dei 161 seggi di cui dispone oggi senza i finiani, Fini e i centristi dovrebbe compiere un'autentica impresa. E' possibile, ma molto molto difficile. Che ne siano o meno consapevoli, è ovvio che Fli, Udc e Pd non chiederebbero di meglio che un governo 'ribaltonista' per cambiare la legge elettorale, contando nel frattempo sui soliti aiutini della Corte costituzionale e della magistratura. Un sistema senza premio di maggioranza, con soglie di sbarramento più generose, metà proporzionale metà uninominale, pure che mantenga l'indicazione del premier, permetterebbe a tutti di arrivare in Parlamento e mettersi insieme solo dopo il voto, escludendo Berlusconi. Su Di Pietro (che teme la concorrenza di tanto antiberlusconismo a destra), oltre che su Napolitano, può contare il Cav. affinché la via scelta sia quella delle urne.

Friday, November 12, 2010

Il partito della spesa (e del proporzionale) dietro la crisi

Non c'è analisi più lucida della situazione, e delle motivazioni della crisi, di quella di Oscar Giannino ieri sera a Porta a Porta. Qui il video, guardatelo tutto, ma vale la pena di riportare i passaggi cruciali:
«Per me quella tra Fini e Berlusconi oramai è una storia di incompatibilità personale... l'incompatibilità personale e il sottile calcolo che sia la giustizia a eliminare Berlusconi entro pochi mesi mi spiega quello che succede».
(...)
«Ma se l'effetto di tutto questo... è una situazione di caos che fa ripartire sui titoli del debito pubblico italiano, com'è assolutamente probabile, pressocché certo con quello che succede sui mercati... se si riaccende il sospetto sui titoli del debito pubblico italiano, qualunque soluzione politica, qualunque confusione, per cui nessuno è in grado di sapere che cosa succede, di sicuro porta a più oneri di interessi sul debito pubblico, più deficit pubblico, e questo significa, per quanto pesa la spesa pubblica in Italia, più disoccupati, meno crescita, meno roba per le imprese...»
(...)
«Quello che vedo io è che la voglia di far ripartire la spesa pubblica è la vera benzina di qualunque ipotesi che c'è oggi sul campo. Lo vediamo sulla legge di stabilità, sulle esercitazioni di voto in Parlamento per far capire al governo che deve andare a casa, lo vediamo nelle critiche a Giulio Tremonti... lo vedo persino nella nota del capo dello Stato, le cui parole "è ingiusto tagliare di tutto, bisogna fare delle scelte", da una parte è vero, potrebbero essere lette come "tagliamo di più da una parte e allochiamo meglio le risorse", ma dall'altra, con l'aria che c'è in politica, nel Parlamento, nella protesta da parte di tutte le opposizioni, significano più spesa pubblica».
(...)
«Noi eravamo impegnati in uno sforzo - che [rivolto ai finiani, ndr] vi ha visti condividere questo sforzo nel centrodestra - di fermare il deficit. Abbiamo avuto il deficit più basso insieme ai tedeschi. E' stato il merito, ciò che ha impedito all'Italia di essere sospettata sui mercati nella grande crisi. Adesso si dice "più spesa", "Tremonti sbaglia tutto", "a casa Tremonti", "a casa Berlusconi", ma l'effetto di tutto questo è buttare a mare quello che invece ha fatto, per la prima volta in decenni, fare una figura decorosa al nostro Paese, ma soprattutto [ha fatto] pagare di meno ai contribuenti e ai disoccupati».
(...)
«Se la politica dimentica che i mercati sono spietati e che in molti hanno interesse a che l'Italia riprenda a fare deficit e a pagare più debito pubblico, commette un errore grave, perché ciascun italiano se lo ricorderà quando presto o tardi si va a votare... E questo riguarda sia chi nel centrodestra dice "nessuna formula che ci ha visto accomunati di fronte agli elettori vale più" e sia chi, rispetto alla posizione che aveva di alleanze nel centrosinistra eccetera torna a dire "mani libere", perché poi quello che si vede è... "facciamo saltare il premio di maggioranza", perché tutti dicono "mani libere". Vogliamo tornare a un'Italia iperproporzionale? Più spesa pubblica, più deficit, più debito? Poveri contribuenti italiani».
Già, la certezza è che lo pagheremo tutto noi, e caro, il conto di questa crisi. Grazie Gianfranco: futuro in libertà per te; futuro indebitato per noi.

Il cerino in mano a Fini. E lo userà

Se Fini e Casini si sono spinti così in avanti verso il punto di non ritorno, allora, si ragiona in queste ore, devono avere i numeri e un premier pronti per un governo "tecnico", se non addirittua per un governo senza Berlusconi ma di centrodestra (quindi un po' meno "ribaltone"), se, come Verderami, oggi sul Corriere della Sera, attribuisce a Bocchino, un «pezzo significativo» del Pdl si staccasse dal Cav. e legittimasse la nuova fase. Un «pezzo di Pdl» o la Lega, o magari entrambi. Chiusa ogni possibilità di un Berlusconi-bis e di un rimpastone come nel 2005, i finiani guardano al '94, sperano nel "tradimento" della Lega e fanno i nomi di Tremonti e Maroni.

Mentre i retroscenisti si divertono ad alimentare il sospetto di imminenti tradimenti per far salire la febbre nella maggioranza, non si accorgono di rivelare in questo modo l'operazione di Fini per quella che è agli occhi di quanti lo hanno fin qui seguito dando credito alle sue ragioni politiche piuttosto che personali. Sarebbe a dir poco incomprensibile che una polemica aperta con Berlusconi e il Pdl sull'accusa di un'eccessiva subalternità alla Lega e sull'inadeguatezza della politica tremontiana per lo sviluppo, si concludesse aprendo la porta di Palazzo Chigi proprio al criticato Tremonti (di cui Fini e Casini pretesero le dimissioni nel 2004), o addirittura al primo premier leghista della storia italiana! Apparirebbe chiaro a quanti ancora non se ne fossero accorti che di politico c'era ben poco, e che il reale obiettivo era fin dall'inizio solo uno: la testa di Berlusconi.

Siamo comunque entrati in una fase diversa, il cerino non passa più di mano in mano, i finiani sembrano aver deciso di usarlo loro. Bocchino annuncia che Fli non parteciperà al voto di fiducia sulla finanziaria e, una volta approvata, se Berlusconi non si dimetterà «a quel punto è chiaro che lo sfiduceremo». Cercheranno di dar vita ad un altro governo, ma è ovvio che a questo punto sono pronti a rischiare che la crisi porti ad un voto anticipato, convinti come sono che pur andando al voto, Berlusconi non avrebbe la maggioranza al Senato e sarebbe comunque costretto al passo indietro.

Una volta sfiduciato il premier, la Lega e un pezzo consistente del Pdl legittimerebbero un nuovo governo di centrodestra? E' l'unico esito che il Cav. deve temere. Ma gli interessati di cui si sussurra hanno davvero interesse a un disegno del genere? Vediamo, cercando di usare un po' di logica, anche se - come dimostra il caso Fini - spesso logica e politici fanno a pugni. Bossi si sentirebbe più garantito sul varo del federalismo da un governo senza Berlusconi, con Fini, Casini e pezzi di Pdl, al di là delle rassicurazioni che senz'altro riceverebbe (e in parte sta già ricevendo)? O forse non gli converrebbe in ogni caso, anche se Berlusconi ormai fosse fuori dai giochi, incassare prima una sonante vittoria elettorale e poi trattare con Fini e Casini da una posizione di maggiore forza? E Tremonti? Potrebbe mettersi alla guida di un simile governo, magari durare un anno, varare il federalismo, ma poi? Farebbe la fine di Dini, ci sono pochi dubbi, mentre tra non molto potrebbe ereditare l'intero blocco di consenso leghista e berlusconiano. Quanto all'ipotesi di elezioni anticipate, in effetti Berlusconi rischierebbe di non vincerle al Senato (anche se non lo darei per scontato, i finiani sono troppo ottimisti su questo), ma di certo non le vincerebbero i suoi avversari.

P.S.: Oggi Giuliano Ferrara insiste con la sua lettura: con la «cacciata brutale» di luglio e la campagna di «denigrazione» di Feltri, Berlusconi ha trasformato Fini da «successore» a «competitor», ad «avversario mortale», invece di «integrarlo con compromessi politici». A me sembra sia andato in scena un altro film. Fini si trova esattamente dove aveva immaginato e pianificato di trovarsi fin da quando, caduto il governo Prodi, ha a malincuore accettato di entrare nel Pdl e presentarsi con Berlusconi. Può essere stato un errore la presunta "cacciata" di fine luglio, ma chi pensa davvero che Fini non avrebbe trovato comunque un pretesto o un incidente per costituire gruppi autonomi e poi un partito tutto suo? D'altronde, la minaccia di gruppi autonomi piovve a ciel sereno già ad aprile, dopo la vittoria elettorale e prima della fatidica direzione del "che fai, mi cacci?", nonché ben quattro mesi prima della "cacciata". E ricordiamoci che Generazione Italia nacque il primo aprile. Davvero qualcuno ancora pensa che Fini si sarebbe accontentato di fare teoria politica ai convegni e fremere nelle riunioni di partito? Suvvia!

Se il più confuso di tutti è lui

Nella confusione che denuncia il più confuso di tutti, come spesso gli capita, sembra lui: Napolitano. Prima richiama tutte le forze politiche al senso di responsabilità nell'approvazione della legge di stabilità, come se fosse qualcosa di meramente tecnico e non, invece, un atto tra i più squisitamente politici di un governo. Poi, dopo ore più che giorni, in un nuovo sconfinamento di campo, impallina proprio l'aspetto più importante della finanziaria, il rigore, ravvisando «confusione» nelle scelte di politica economica e associandosi ai critici dei cosiddetti "tagli lineari". «Non si può tagliare tutto», avverte il capo dello Stato, come gli altri senza indicare precisamente dove si può e si deve tagliare, così suona come un non si può tagliare niente.

Le dichiarazioni politiche e le analisi sui giornali sono piene di indicazioni su dove non si dovrebbe tagliare e dove si dovrebbe addirittura investire. Su questo sono tutti bravissimi e pieni di idee. Quando si tratta, però, di individuare precisamente dove indirizzare i tagli, silenzio, vuoto totale. Se si mettono insieme i discorsi che Napolitano recita nei suoi innumerevoli e più svariati convegni e incontri, tutti i settori sarebbero meritevoli non solo di non subire tagli, ma di maggiori risorse. Persino la cooperazione. Avvalorando così l'adagio secondo cui l'importanza di un capitolo, di un ministero, di una politica, la fa la spesa e non la capacità di "governo" e di "ri-forma". Così come nei due più importanti recenti discorsi di Fini, a Mirabello e a Perugia, come nell'intervento di ieri sul Sole 24 Ore, la lista dei settori dove non si dovrebbe tagliare, bensì investire altro denaro pubblico, è lunghissima; vuota quella dei tagli.

Si taglia nella sanità e nell'istruzione? Non se ne parla neanche.
Sull'università? Macché!
La giustizia e le forze dell'ordine? Ma scherziamo?
Tagli alla cultura? Pompei docet.
Almeno tagliamo i sussidi agli spettacoli... Allarmi, vogliono il popolo bue!
Tagliamo un po' dall'ambiente? E il dissesto idreogeologico?
Allora, tagliamo almeno i sussidi alla "green economy". No, è il futuro, volano di sviluppo.
Regioni ed enti locali? No, così si tolgono i servizi ai cittadini.
Considerando che le infrastrutture vengono da tutti considerate vitali, che le pensioni guai a toccarle ancora, tirate voi le somme...

Ecco qui completato il quadro, quasi ministero per ministero. Per ognuno c'è almeno un buon motivo per non tagliare. Val la pena di ricordare che Cameron, in Gran Bretagna, preso ad esempio per non aver proceduto con i cosiddetti "tagli lineari", però ha tagliato su tutto, senza risparmiare alcun settore. Qualcuno più, qualche altro meno, ma i tagli si sono abbattuti su tutti i capitoli della spesa pubblica, nessuno escluso. Invece da noi, con il debito pubblico che ci ritroviamo, si pretende non solo di risparmiare al dunque quasi tutti i settori dai tagli, ma addirittura di spendere di più in alcuni, che per altro hanno già dimostrato la loro inefficienza e incapacità di spesa. Per questo diffido del multiforme partito della spesa, che ormai sa nascondersi anche dietro le più ragionevoli prese di posizione.

Thursday, November 11, 2010

Attenzione alle sabbie mobili

E' un'escalation in piena regola. Da un nuovo patto di legislatura, invocato a settembre, in soli due mesi siamo arrivati alla richiesta di dimissioni, dei primi di novembre. Fino a ieri, a detta di Fini e Casini, il problema non era Berlusconi in sé, si sarebbe potuto dar vita a un governo di responsabilità nazionale, allargato ai moderati, anche guidato dallo stesso Berlusconi. Adesso che il premier starebbe considerando anche l'ipotesi di una crisi "pilotata", i finiani restano nell'ambiguità sul reincarico («prima le dimissioni, poi si vedrà»), alimentando deliberatamente il sospetto di una trappola, mentre Cesa dice chiaro e tondo che serve «un nuovo presidente del Consiglio». Andando avanti in questo modo, Berlusconi si troverà di fronte ad una proposta Fini-Casini-Pannella per l'esilio ad Antigua.

Mi auguro che nessuno pensi davvero che un Berlusconi-bis, passando per lo snodo dimissioni-reincarico, con qualche poltrona in più a Fli e l'ingresso dell'Udc, possa davvero far riprendere slancio all'azione di governo (2001-2006 docet) e far cessare il logoramento a cui è sottoposto. Semplicemente, raddoppierebbe la capacità di fuoco dei logoratori. Pur ipotizzando che con questa manovra Fini e Casini non vogliano far fuori Berlusconi ora (anche se la sensazione è proprio questa), è chiarissimo che tornare allo schema Cdl significherebbe per loro - così sperano - poterlo logorare di più e meglio, escluderlo in modo meno traumatico (senza esporsi a imbarazzanti voti di sfiducia e ribaltoni insieme alla sinistra), distruggere completamente il Pdl (dal momento che in una coalizione di quattro partiti quello che doveva essere, era nato per essere, il partito unico del centrodestra, perderebbe la sua ragion d'essere), e magari riuscire anche a scucire i soldi a Tremonti proprio nel momento in cui i pochi che ci sono bisognerebbe investirli in qualche riforma strutturale.

Stritolato tra Fli-Udc (e Lega), Berlusconi verrebbe cotto a puntino, e probabilmente neanche finirebbe la legislatura a Palazzo Chigi, perché la prossima volta pretenderebbero un passo indietro definitivo. Il rischio, infatti, è che dopo un altro anno di paralisi pressoché totale (denunciano il «galleggiamento», ma a questo l'hanno ridotto loro da dopo le regionali - vinte), maturino davvero le condizioni per far fuori il Cav. senza "ribaltone", magari spaccando il Pdl, o con l'aiuto di Tremonti o della Lega. E magari, nel frattempo, avranno ottenuto anche le opportune modifiche alla legge elettorale. Sanno che fuori dal centrodestra le loro chance di leadership sono praticamente nulle. Quindi, il loro problema è restare dentro (o rientrare), e tentare di ergersi sulle macerie del berlusconismo.

Un Berlusconi-bis avrebbe senso solo se rimanesse comunque precluso all'Udc, e se Fini accettasse di dimettersi dalla presidenza della Camera per entrare al governo. Senza questo passo - Fini che accetta di condividere la responsabilità delle scelte di governo - non si potrebbe nemmeno sperare nella sua buona fede. Che la crisi porti a elezioni anticipate o ad un governo cosiddetto "tecnico" senza Pdl e Lega, a questo punto Berlusconi non ha nulla da temere (quasi meglio la seconda ipotesi). Deve solo costringere Fini a scoprire le sue carte, senza sconti (se vuole sfiduciarlo vada in Parlamento) e provando a governare davvero (portare a casa federalismo e riforma dell'università). L'unica cosa che deve temere sono i pastrocchi.

Crollo per eccesso di spesa pubblica

Bondi può risultare antipatico, ma se la capacità di giudizio fosse un poco serena e non offuscata dal pregiudizio, si vedrebbe in tutto il suo "splendore" la vera causa del crollo a Pompei. Si potrebbero citare i crolli - forse addirittura più gravi - delle Mure aureliane o della Domus aurea a Roma, quando c'erano sindaci e ministri dei Beni culturali di centrosinistra, di cui nessuno si è sognato di chiedere le dimissioni, ma non è questo il punto. Perché la vera causa del crollo a Pompei è - udite udite - la troppa spesa pubblica. No, non è una provocazione. Pompei in particolare, a differenza di altre aree archeologiche, è una soprintendenza speciale e gli incassi non vanno all'erario, ma entrano tutti nelle sue casse. Nel 2002 le giacenze di cassa a fine anno erano di 52 milioni, nel 2003 di 58 milioni, nel 2004 di 66 milioni, nel 2009 di 25 milioni di euro.

Il fatto evidente è che nonostante la quantità di spesa pubblica indiscutibilmente enorme che lo Stato manovra ogni anno, non riesce a svolgere le sue funzioni e i suoi compiti come dovrebbe. I soldi ci sono, sono tanti, ma vengono utilizzati male. Anzi, peggio. Vengono spesi male proprio perché sono tanti. Più lo Stato, a tutti i livelli dell'amministrazione, ha soldi da spendere, più finisce per perdere di vista il suo core business, i servizi essenziali che deve assicurare con il massimo dell'efficienza e dell'efficacia. I soldi vengono spesi per far "lavorare" le clientele dei politici, o sprecati in mille rivoli per funzioni del tutto accessorie e (qualche volta) di immagine, ma intanto viene trascurata la manutenzione ordinaria del patrimonio culturale, o quella delle strade, per citare solo due esempi. Per questo resto convinto che tagliare la spesa innesca meccanismi virtuosi di per sé.

Se le soprintendenze ritengono di aver proprio bisogno di più soldi, raddoppiassero i biglietti di ingresso ai siti e ai musei. Sarà capitato anche a voi di riscontrare come all'estero le poche e spesso insignificanti cose che hanno da far vedere se le facciano pagare a caro prezzo (dai 15 ai 25 euro). Una visita a Pompei, magari di tre giorni e con una guida, può valere tranquillamente 50 euro. Incoraggiamo visite di qualità e scoraggiamo il "mordi e fuggi", che per 11 pulciosi euro espone il sito alla massificazione.

Wednesday, November 10, 2010

Tutto questo un giorno sarà mio

Tutto come previsto, è guerriglia, e ieri ha centrato una delle roccaforti di successo del programma di governo: la politica dei respingimenti. Nonostante il premier abbia accettato anche esplicitamente l'idea di un nuovo patto di legislatura e riconosciuto Fli come terza forza autonoma del centrodestra, non chiudendo ad una presente e futura alleanza, e nonostante sia cessata la campagna sulla casa di Montecarlo (anche se Fini risulta ancora indagato, dal momento che il gip tarda ad accogliere la richiesta di archiviazione), non basta più. Il logoramento - ne eravamo certi - non è cessato e i finiani alzano sempre più il tiro nella speranza di costringere Berlusconi alla resa senza l'imbarazzo di dover votare insieme alla sinistra una sfiducia palese in Parlamento.

Da tempi non sospetti lo ripeto su questo blog: il sogno di Fini è tornare allo schema della Cdl, ripristinare la rendita di posizione e il potere di interdizione di cui, da leader di partito, godeva allora, insieme all'Udc di Casini, ma inevitabilmente sfumati con la nascita del partito unico, a cui ha aderito non per convinzione ma per necessità politiche contingenti. Chi ritiene ragionevole la prospettiva di un ritorno a quel centrodestra, passando per le dimissioni di Berlusconi, nell'illusione di salvare il governo e arrivare al 2013, dovrebbe ricordarsi quanto il «colpo d'ala» di questi giorni somigli alla «discontinuità» di allora. Il rimpastone di allora, con la cacciata e la goffa richiamata di Tremonti, rilanciò l'azione di governo o la paralizzò del tutto sotto i veti incrociati degli alleati, che puntavano né più né meno a cuocere Berlusconi a fuoco lento? Allora come oggi si pretese una nuova legge elettorale, con gli esiti che tutti conosciamo. E qualcuno ha persino il coraggio di imbellettare questo ritorno alla vecchia Cdl con la necessità di «aggiornare culturalmente il centrodestra».

E' solo all'interno di questo schema, alla guida di un partito tutto suo fortemente condizionante, che Fini ritiene di avere qualche chance di conquistare la leadership del centrodestra. Dietro la richiesta di crisi "pilotata" (ennesima anomalia di un presidente della Camera che crede così poco nella centralità del Parlamento da proporre una crisi extraparlamentare), di rimpastone (con allargamento all'Udc) e di revisione dell'agenda di governo in nome del "bene" del Paese, c'è l'unica cosa che interessi davvero a Gianfranco Fini: avere la garanzia di essere il candidato premier del centrodestra nel 2013. Non vuole giocarsi apertamente la successione, vuole averla garantita come un'eredità, e in data certa. Quando ha aperto il fuoco, lo scorso aprile, lo ha fatto perché si sentiva - non a torto - retrocesso nelle seconde e terze linee per la successione.

Ma Fini candidato premier, ed eventualmente Berlusconi al Quirinale, è un accordo che nessuno dei due può garantire all'altro. Semplicemente perché non è così che funziona, anche se Fini, da residuo della Prima Repubblica, sembra non averlo ancora capito: checché se ne dica, non siamo in una monarchia o in dittatura, altri possono ambire legittimamente alla leadership del centrodestra e un'eventuale successione designata dallo stesso Berlusconi potrebbe funzionare solo se politicamente fondata, il che equivale a dire che il premier non può garantirla a prescindere dai rapporti di forza e dagli equilibri politici. E ammesso che a Berlusconi interessi il Quirinale, non potrebbe comunque fidarsi di Fini per arrivarci. Detto questo, se fosse conclamato che nel 2013 Berlusconi lascia a favore di Fini, il Cav. perderebbe immediatamente, un minuto dopo, ogni autorevolezza presso i suoi stessi ministri, i suoi parlamentari, le parti sociali, perché nessuno di questi soggetti metterebbe le sue sorti e i suoi obiettivi politici nelle mani di un premier a scadenza. E' un principio "fisico" della politica valido ad ogni latitudine. Se annunci la data del passaggio di consegne, di fatto perdi il potere dal giorno dopo l'annuncio. E' sacrosanto che la leadership sia contendibile, ma in modo trasparente e passando per il giudizio degli elettori, non con manovre di palazzo.

Come si vede, dunque, l'obiettivo di Fini è in un modo o nell'altro l'abbattimento di Berlusconi evitando le urne, ma c'è ancora chi, come Giuliano Ferrara, per non ammettere di aver visto male finge di credere che con «un po' di cinismo, con l'aggiunta di un'anticchia di professionismo politico» da parte di Berlusconi e dei suoi consiglieri le escandescenze finiane si sarebbero potute ridimensionare a normale «dialettica interna» al Pdl. Le pretese di Fini di questi giorni dimostrano il contrario. La presunta "cacciata" non fu che un pretesto generosamente concesso, l'uscita dal Pdl e la nascita di una formazione tutta sua erano passi irrinunciabili e pianificati da tempo. Non dobbiamo dimenticarci quando è iniziata la resa dei conti. Nonostante l'approccio sostanzialmente immobilista del governo riguardo le riforme strutturali durante la crisi, paradossalmente è dalle elezioni regionali di quest'anno, vinte in modo schiacciante ma del tutto inatteso da Berlusconi, che ci troviamo in uno stato di paralisi totale in Parlamento. Eppure, il Berlusconi che usciva vincitore da quella prova elettorale sembrava consapevole del suo "momentum" favorevole per dare una spinta all'azione di governo. Ma proprio in quel momento Fini, che - ancora una volta sbagliando i suoi conti - aveva puntato sulla sconfitta del centrodestra, dà inizio alla sua escalation, convinto di essere all'ultima spiaggia. Non perché fosse in crisi la politica del Pdl e del governo, promossa per tre volte in tre anni dagli elettori, ma perché a rischio le sue ambizioni personali.

Monday, November 08, 2010

Saltati tutti gli schemi

Mai era accaduto nella storia della Repubblica che un presidente della Camera chiedesse le dimissioni di un presidente del Consiglio; mai che dei ministri rimettessero il loro mandato nelle mani di un presidente della Camera e non del presidente del Consiglio (politicamente) e della Repubblica (formalmente). Dello strappo di Fini a Perugia insisto nel sottolineare innanzitutto lo strappo istituzionale e costituzionale, che solo l'ossessione antiberlusconiana impedisce al presidente Napolitano, ai commentatori e ai costituzionalisti di vedere e denunciare come tale. La crisi è alle porte e una semplice e inquietante domanda è sempre più incalzante: in quale veste, da presidente della Camera o da leader di partito, Fini salirà sul Colle per le consultazioni di rito? Le sue valutazioni sulla crisi e sull'ipotesi di scioglimento delle Camere non saranno forse influenzate (per usare un eufemismo) dal tornaconto della sua nuova formazione politica? E' istituzionalmente corretto, dunque, che salga da Napolitano da presidente della Camera e non, piuttosto, "solo" da capogruppo?

Come si vede, i nodi dell'incompatibilità del ruolo politico di Fini con la carica che ricopre - che da sempre ho considerato rispetto alla casa di Montecarlo un motivo più serio per cui chiederne le dimissioni - vengono prepotentemente al pettine e disconoscerli significa essere in malafede. E ha così a cuore Fini la centralità del Parlamento, che di fatto chiede l'apertura di una crisi "al buio": pretende che Berlusconi si dimetta perché lo ha chiesto lui da un comizio, quando decoro istituzionale e decenza politica vorrebbero che si "parlamentarizzasse" la crisi assumendosi ciascuno la responsabilità di un voto nelle aule parlamentari. Ma certo, comprendiamo l'imbarazzo di Fini nel votare formalmente la sfiducia al governo insieme alla sinistra.

Nel merito, quella di Fini è semplicemente una proposta indecente: il più prosaico dei rimpasti di governo, che guarda caso implicherebbe più poltrone per Fli. Cosa è cambiato dal 29 settembre, quando la fiducia al governo fu rinnovata in Parlamento anche da Fli? Nulla, se non che Berlusconi nel frattempo ha accettato l'idea di un nuovo patto di legislatura e riconosciuto Fli come terza forza del centrodestra. Ma non basta più, adesso ci vuole il rimpasto, ovviamente senza alcuna garanzia che ottenute le poltrone cessi il logoramento. Una richiesta che smaschera una volta per tutte il desiderio inconfessabile di Fini: ripristinare, allargando anche all'Udc, i rapporti di forza della legislatura 2001-2006 (peccato che quelli erano legittimati dalle urne) e "ingabbiare" il ministro dell'Economia Tremonti, perché in politica - si sa - conti se puoi spendere. E in questi mesi Fini non è riuscito a far percepire nient'altro che la voglia di contare di più e la sua personale acrimonia nei confronti di Berlusconi. Se non gli riesce, ha fatto capire di non avere alcuno scrupolo rispetto all'ipotesi di un bel governo "tecnico" con la sinistra per cambiare la legge elettorale (che oggi lo scandalizza tanto ma che lui e Casini imposero al Cav. nel 2005 come condizione per rimanere alleati).

Di farsa in farsa

E' una farsa anche la presidenza Obama, che solo oggi - dopo averle chieste e legittimate per due anni - si accorge che le elezioni in Birmania non potevano essere nient'altro che questo: una farsa. Il regime ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma la comunità internazionale - Stati Uniti e Ue in testa - le ha richieste a gran voce, ha insistito illudendosi di poter avviare un processo democratico nel Paese. Evidentemente così non è stato. I generali, come prevedibile, hanno mostrato buon viso a cattivo gioco: elezioni sì, ma a modo nostro. E chissà cos'hanno ottenuto in cambio dall'Occidente. Adesso ci ritroviamo con un Parlamento che gode comunque di una legittimità, sia pure solo formale, maggiore di prima (visto che erano vent'anni che non si votava); Aung San Suu Kyi ancora in catene; e le opposizioni democratiche divise. Un altro capolavoro di Obama e del buonismo internazionale.

Friday, November 05, 2010

Adesso non basta più

Adesso «non basta più» un patto di legislatura, «non basta più» prendere atto che esiste una nuova forza nel centrodestra. Anche se Menia e Moffa riconoscono che ciò che ha offerto ieri il Cav. «corrisponde a quanto avevamo chiesto da tempo», secondo Adolfo Urso invece «non basta più». Perché non basta più? Semplice: «La nostra presenza al governo - recrimina Urso a Omnibus, su La7 - è quella del ministro Andrea Ronchi, che è un ministro senza portafoglio su 24 componenti il Consiglio dei ministri, 13 con ministeri e 9 senza portafoglio più Berlusconi e Letta. Su 24, Fli oggi ha una presenza significativa di un ministro senza portafoglio [altri due sono sottosegretari, ma non siedono in Cdm, ndr]. Il che cosa significa? Che loro ci considerano esterni alla maggioranza, loro ci considerano... questo non è un comportamento che si può avere nei confronti di una forza e di un leader come Gianfranco Fini che tutti sanno essere di fatto il terzo soggetto della maggioranza, un leader storico e una forza storica ["storico" il leader, ma non la forza, ndr] del centrodestra». Insomma, riconosciuta da Berlusconi come terza forza del centrodestra, ora bisogna sostanziare questo riconoscimento con i posti al governo. E meno male che non era una corrente; meno male che non era un'operazione da Prima Repubblica.

Thursday, November 04, 2010

Berlusconi tende la mano

«Se c'è la volontà di andare avanti con il nostro governo e dimostrare lealtà ai nostri elettori siamo pronti a realizzare un patto di legislatura e a proporre un rinnovamento del sistema di alleanze dentro il centrodestra» (il che in soldoni vuol dire riesumare la vecchia Cdl), «a prendere atto dell'esistenza di una diversa offerta politica nell'ambito del centrodestra». Questo il passaggio centrale dell'intervento di Berlusconi alla direzione del Pdl. E' deciso ad esperire fino in fondo la linea della trattativa, ad andare a "vedere" il gioco di Fini, riconoscendo - come fin dall'inizio gli consigliavano le "colombe", tra cui Il Foglio di Giuliano Ferrara - il ruolo competitivo di Fini nel centrodestra. Si direbbe, dunque, che i finiani vengono accontentati su tutta la linea. Nessun alibi, rilancio sul programma e mano tesa in risposta agli interventi a gamba tesa di Fli. Cesserà a questo punto il logoramento finiano? Io scommetto di no. Ma almeno capiremo, finalmente, se l'obiettivo di Fini era davvero quello di condizionare in modo costruttivo l'azione di governo, e vedersi riconosciuto un ruolo di primo piano nel centrodestra, o soltanto di logorare logorare logorare.

Il problema di Fini, temo, è che se viene meno la sua funzione di grimaldello per abbattere Berlusconi, o quanto meno logorarlo, la sinistra, le procure e i giornaloni lo mollano, e non può permetterselo.

Statalisti sorpresi in contropiede

Scontata l'autocritica, l'umiltà, la disponibilità a collaborare di Obama nel giorno della sconfitta, solo i primi mesi del 2011 ci diranno se il presidente ha davvero deciso di cambiare rotta. Intanto qui da noi, come previsto, si leggono le solite fesserie sui Tea Party. Rozza, patetica, imbarazzante è soprattutto l'analisi di Giuliano Amato (che tra l'altro passa per essere uno che di States ci capisce), una summa dei pregiudizi e del complesso di superiorità che rendono la sinistra così lontana dai cittadini.

Innanzitutto no, non stiamo parlando della solita sconfitta di mid-term subìta da quasi tutti gli ultimi presidenti Usa, non è un semplice bilanciamento di potere. Non lo è innanzitutto dal punto di vista numerico, per l'enorme quantità di seggi conquistati dai repubblicani; ma anche dal punto di vista politico, perché nelle urne gli americani hanno espresso un profondo e radicale rigetto delle politiche stataliste e keynesiane di Obama e del Congresso a guida democratica. Non è un voto d'inerzia, che dopo due anni tende a riequilibrare i rapporti di forza a Washington, ma insieme ragionato e di pancia.

Non ci risulta che la O'Donnell fosse candidata «in Nebraska», come afferma Amato, ma è senz'altro un piccolo abbaglio. Il fatto è che i Tea Party non sono liquidabili come un movimento rozzo e populistico, accostandoli addirittura a Beppe Grillo in Italia. L'analisi di Amato è inficiata dai soliti pregiudizi, per cui le campagne mediatiche degli avversari sono bollate come «inquinamento dei meccanismi democratici», mentre quelle proprie si presumono essere inchieste obiettive e coraggiose battaglie civili; quelle degli avversari politici, tanto più se parte di un movimento che nasce dal basso, non sono vere opinioni, di quelle «prodotte dal cervello sulla base di argomentazioni», ma solo atteggiamenti irrazionali; quelle diffuse contro Obama e la sua riforma sanitaria sono solo «grossolane menzogne», ma ci si è scordati delle menzogne diffuse per anni dal populismo di sinistra contro Bush; noi di sinistra, sembra dire Amato, siamo quelli della «ragione», i Tea Party quelli dell'«emozione».

E' innegabile, e inevitabile, che essendo un movimento che nasce dal basso i Tea Party contengano al loro interno manifestazioni folcloristiche e pulsioni populistiche. Ma al di là della retorica, degli eccessi e di certe derive estremiste (respinte dall'elettorato), la protesta origina da fatti reali e non da un odio cieco e razzista nei confronti di Obama; e si basa su un principio, condivisibile o meno ma non indegno; semplice e intuitivo, ma non per questo fallace: il governo migliore è quello che "governa" meno. Ed è il messaggio più autentico dei Tea Party (meno Stato, meno spesa, meno tasse) che è passato, che è stato premiato dagli elettori, non gli orpelli integralisti. Sulla base di queste elezioni di midterm oggi possiamo finalmente scommettere sulla maturazione del movimento e sulla marginalizzazione dei suoi elementi più retrivi.

Non va dimenticato che i Tea Party nascono non solo contro Obama e i democratici, ma contro tutto l'establishment di Washington che ha reagito alla crisi spendendo il denaro dei contribuenti nei salvataggi bancari e nel big government, ossia "premiando" i colpevoli della crisi: il mondo della finanza che ha male operato sul mercato e le autorità pubbliche che hanno male governato l'economia. E la loro protesta non poteva non riguardare anche il Gop, che da tempo sotto Bush aveva abbracciato il big government. Certo, il malcontento verso lo statalismo che covava da tempo è esploso con la crisi e con le ricette ulteriormente stataliste e keynesiane di Obama. E' comprensibile che molti americani, vedendo il loro Paese procedere a passi spediti verso un modello assistenzialista di tipo europeo, senza che i repubblicani sembrassero in grado di opporsi efficacemente, abbiano reagito con le loro forze.

Bisognerebbe, invece, prendere atto di un fenomeno per molti sconcertante, per altri insperato: mentre i politici hanno approfittato della crisi per sostenere il fallimento del mercato e la rivincita dello statalismo, e quindi per espandere di nuovo il ruolo dello Stato nell'economia, i cittadini - almeno nei Paesi anglosassoni come Gran Bretagna e Stati Uniti (ma in misura minore anche nel Vecchio Continente) - invece di farsi prendere dal panico hanno continuato a diffidare dello Stato, se la stanno prendendo con la classe politica e vorrebbero i politici più distanti possibile dalle loro tasche. Non ve l'aspettavate, vero?

Wednesday, November 03, 2010

Sberla a Obama, vince il volto migliore dei Tea Party

Valanga, uragano, tsunami... Chiamatela come volete, ma la sberla che gli americani hanno assestato a Obama e ai democratici è davvero sonora. I repubblicani assumono il controllo della House, ma il numero di seggi conquistati è davvero impressionante, oltre ogni più rosea aspettativa: passano da 178 a 243 seggi, ossia +63, credo il margine più ampio del dopoguerra, superiore anche alla leggendaria vittoria del 1994 (+54). Sarebbe sbagliato non chiamarlo trionfo solo perché non sono riusciti, per un pelo, a conquistare la maggioranza anche al Senato. Hanno comunque strappato sei seggi senatoriali agli avversari, tra cui il seggio dell'Illinois che fu di Obama, e sono ancora in corsa per strapparne altri due, Colorado e Washington, dove i contendenti sono testa a testa. Potrebbe finire 51 a 49, dunque, o i repubblicani potrebbero fermarsi a 47, ma è una vittoria netta che cambia notevolmente i rapporti di forza al Senato. Vittoria ampia dei repubblicani anche nell'elezione di 37 governatori su 50. Strappano dieci Stati ai democratici e ne perdono uno, la California (un democratico succede infatti a Schwarzenegger). L'amica di Fini, Nancy Pelosi, non sarà più la Speaker della Camera, mentre Harry Reid evita per un soffio una clamorosa sconfitta e resta leader del Senato, ma dovrà cambiare musica.

Abbiamo assistito nel complesso ad un processo elettorale entusiasmante, cui da lontano non possiamo che guardare con invidia. Perché come spesso capita negli Usa i movimenti dal basso, come i Tea Party, hanno condizionato le scelte (sia di candidati che di agenda) dei vertici dei partiti, con esiti - com'è giusto che sia - alterni; e perché l'uninominale si conferma un sistema ad alto tasso di rinnovamento della classe politica.

TEA PARTY - Molto si scriverà, e molto di caricaturale temo, sui Tea Party. In fin dei conti, imponendo spesso al Gop i loro candidati, l'hanno avvantaggiato o piuttosto danneggiato? Si dirà che per colpa dei Tea Party i repubblicani non hanno conquistato il Senato. La realtà è molto semplice, persino ovvia: i candidati dei Tea Party hanno vinto, o hanno sfiorato la vittoria, laddove hanno saputo mantenere il loro focus sulla protesta antistatalista al tempo stesso risultando affidabili agli occhi degli elettori indipendenti; hanno perso, sonoramente e giustamente, laddove erano semplicemente impresentabili. E' vero, quindi, che perdendo in Delaware con la O'Donnell e in Connecticut con la McMahon, è svanito il sogno della maggioranza anche al Senato, ma in quante altre sfide alla Camera e al Senato la spinta del movimento è stata decisiva? Non scordiamoci che il Gop fino a qualche mese fa era allo sbando, in una grave crisi di credibilità presso i suoi stessi elettori, e l'impressione è che il contributo dei Tea Party l'abbia in qualche modo rivitalizzato, portandolo ad una vittoria altrimenti impensabile, almeno in queste proporzioni. Certi estremismi, che molti temono, sono stati spazzati via dagli elettori, un segnale inequivocabile anche per Sarah Palin. Sconfitte salutari, che depurano i Tea Party dagli orpelli integralisti - presi troppo spesso a pretesto dai media per screditare il movimento - e rinvigoriscono il loro messaggio più genuino, semplice e vincente (meno Stato, meno spesa, meno tasse), che arriva autorevolmente a Washington sulle gambe di senatori come Rand Paul (Kentucky) e Marco Rubio (Florida), ma anche del democratico Joe Manchin (West Virginia).

OBAMA - Con il voto di ieri gli americani hanno inequivocabilmente bocciato le politiche stataliste e keynesiane dell'amministrazione Obama ma soprattutto l'operato del Congresso a guida democratica. Sembra tornare di moda l'idea semplice e intuitiva che non è lo Stato a creare veri posti di lavoro. Il presidente è stato abbandonato da quei settori dell'elettorato che avevano creduto in lui nel 2008 portandolo alla Casa Bianca. Ha deluso sia quelli che si aspettavano un change radicale, sia quegli elettori moderati che si aspettavano una politica post-partisan, in grado, come aveva promesso, di superare gli steccati ideologici tra i partiti e di unire il Paese. E' vero che ha incontrato da parte repubblicana e nel Paese una tenace opposizione, ma il suo approccio è sembrato subito quello che non sarebbe dovuto essere: ideologico.

Ma non sono d'accordo con quanti sostengono che Obama debba dire addio alla rielezione nel 2012. Abbiamo avuto molte prove di quanto in due soli anni la politica americana possa mutare radicalmente. Il presidente ha tutto il tempo per tornare a scaldare i cuori dei suoi vecchi sostenitori, o per trovarne di nuovi (anche perché per la Casa Bianca i repubblicani hanno un serio problema di leadership). Molto dipenderà da come deciderà di affrontare le nuove maggioranze alla Camera e al Senato e quindi i nuovi rapporti di forza con i repubblicani. Può scendere in trincea, difendere con le unghie e con i denti le riforme fin qui realizzate, accettando di non combinare gran ché nei prossimi due anni ma tornando a scaldare i cuori più radicali tra i suoi elettori delusi, e quindi provare a vincere nel 2012 da sinistra, accusando il Congresso repubblicano per il mancato change; oppure, può scegliere la strada verso il centro percorsa brillantemente da Clinton dopo la sconfitta di midterm nel 1994, abbandonando le posizioni più radicali e l'immagine quasi salvifica, messianica, legata al suo personaggio, e magari concentrandosi sulla politica estera.

Nel primo caso sarebbe un azzardo, scommetterebbe su un cambiamento profondo delle coordinate culturali e sociali dell'America, che queste elezioni però sembrano smentire; nel secondo, smentirebbe i connotati stessi della sua elezione del 2008 e dovrebbe reinterpretare in termini più pragmatici e in senso più unitario, davvero post-partisan, le speranze di cambiamento degli americani. Dovrebbe riuscire a incarnare un change molto diverso da quello del 2008. Una sterzata di 180° che difficilmente passerebbe inosservata e che metterebbe comunque a dura prova la sua credibilità.