Anche su L'Opinione
Sembra un successo politico per il Pdl l'adozione della sua proposta di riforma elettorale come testo base in Commissione Affari costituzionali al Senato, per di più con la risurrezione, per l'occasione, della vecchia alleanza, CdL (con Casini e Fini) più Lega, e l'apparente isolamento di Pd e Idv. E' invece l'ennesimo atto di autolesionismo di un partito prossimo al suicidio per la sua stupidità politica, prim'ancora che per gli scandali. Tempo per rimediare ce ne sarebbe, l'iter parlamentare è appena all'inizio, a patto di accorgersi dell'errore.
A ben vedere, infatti, senza votare il testo base il Pd incassa il premio di maggioranza alla coalizione (preferito rispetto al partito), seppure ridotto al 12,5%. D'ora in avanti, quindi, potrà sia continuare a trattare per un premio più consistente e i collegi, sia lucrare politicamente sul ritorno alle preferenze, che nell'arco di pochi mesi, dopo i casi Fiorito nel Lazio e Zambetti in Lombardia, sono passate da un'estrema popolarità, come antidoto all'odiato porcellum, all'impopolarità in quanto strumento criminale della 'ndrangheta e del clientelismo.
Oltre alla follia di farsi alfiere delle preferenze proprio nel momento in cui le cronache ricordano all'opinione pubblica tutto il marcio che sono capaci di tirar fuori, con questo testo (il modello greco!) il Pdl cancella la novità sistemica rappresentata dall'ingresso in politica di Berlusconi, il governo scelto dagli elettori, e contraddice lo spirito costitutivo di un partito unitario del centrodestra. Casini, infatti, fa bingo, conquistando con il 5-6% dei voti la golden share di qualsiasi governo e nel Pdl gli unici a poter festeggiare sono coloro che possono contare su una propria corrente, quindi soprattutto gli ex An. Se, dunque, le preferenze oggi servono ad evitare la scissione del partito, sono anche la migliore garanzia della sua ulteriore, rapida balcanizzazione immediatamente dopo il voto. E semmai il Pdl dovesse ripensarci, il Pd se ne intesterebbecomunque il merito. Un capolavoro, non c'è che dire.
Il fenomeno del Parlamento dei nominati va superato, non c'è dubbio, ma per non ricaderci sotto una forma ancor più subdola, occorre capire per quale motivo i vertici dei partiti vogliono mantenere il totale controllo sugli eletti: il guaio è che lo strumento della fiducia lega la sopravvivenza dei governi ai giochi e agli umori del Parlamento, nonostante da quasi vent'anni ormai i cittadini siano convinti di decidere nelle urne chi li dovrà governare. In poche parole, non c'è una piena separazione tra esecutivo e legislativo e ciò finisce per ledere l'indipendenza e il corretto funzionamento sia dell'uno che dell'altro potere. Controllando gli eletti, i partiti di maggioranza si sforzano di blindare la volontà degli elettori, quelli all'opposizione di ribaltarla.
Beninteso che nessun sistema è perfetto, alcuni mettono un freno al malcostume politico, altri lo alimentano esponenzialmente. Se il binomio collegio uninominale-primarie è l'unico modo per restituire davvero ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti, le preferenze sono una truffa persino peggiore delle liste bloccate del vituperato porcellum. Soprattutto se corte, queste ultime consentono all'elettore di sapere in anticipo nomi e cognomi di chi contribuisce ad eleggere con il proprio voto. Esprimendo le sue preferenze, invece, si illude di scegliere, ma nel migliore dei casi gli eletti vengono decisi dai giochi tra le correnti, di cui è all'oscuro, nel peggiore il voto è inquinato dal clientelismo e dalla malavita. Poiché l'elettore non conosce i cavalli che il partito ha deciso di far correre per davvero nella sua circoscrizione, le preferenze "d'opinione" (che di media in pochissimi esprimono) si disperdono, e per garantirsi il seggio è sufficiente controllare/comprare qualche migliaio di voti, che non basterebbero, invece, in un collegio uninominale.
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Friday, October 12, 2012
Thursday, July 19, 2012
Urrà per Rossella ma non per l'Italia
Urrà per Rossella Urru. La sua liberazione è una bellissima notizia, ma c'è poco da festeggiare. Il suo riscatto non rappresenta certo il riscatto dell'Italia. Soprattutto non dovrebbero lasciarsi andare ad eccessive manifestazioni di giubilo le nostre autorità, che hanno gestito malissimo questa vicenda come altre simili: nove mesi senza toccar palla e alla fine una liberazione, come sembra, dietro pagamento di un riscatto tramite intermediari di altri paesi. E guai a dimenticare le "vacanze" coatte nel Kerala dei nostri due marò. Non se ne parla da settimane, nessun organo di stampa o televisivo sta seguendo gli sviluppi giudiziari. Ma è ormai chiaro che subiranno tutto il processo sotto chiave in India. Una umiliazione nazionale senza precedenti.
Inoltre, visto che qualche procura indaga sulla presunta trattativa Stato-mafia, per quale motivo non si dovrebbe indagare anche sulle presunte trattative Stato-rapitori. Non solo le leggi italiane vietano il pagamento di riscatti in caso di sequestri (divieto che potrebbe non valere se è lo Stato a pagare, ma in questo caso ci si dovrebbe interrogare sul senso e l'umanità di una simile normativa), ma soprattutto mi sembra lampante, chiaro come il sole, che l'eventuale pagamento per la Urru, come per altri ostaggi, costituirebbe un aiuto alle organizzazioni terroristiche, e un pericoloso incentivo al business dei sequestri, esattamente come la presunta attenuazione del 41-bis avrebbe favorito la mafia. Dov'è la differenza? Qualche magistrato è in grado di spiegarcela? La trattativa Stato-mafia, se c'è stata, come le trattative Stato-rapitori, se e quando ci sono state, dovrebbero essere denunciate come scandali politici, cioè di cattiva politica.
Apprendiamo tra l'altro dal profilo twitter dell'on. Gianni Vernetti, ex sottosegretario per gli affari esteri, che «si è sempre trattato e spesso pagato per liberare gli ostaggi in giro per il mondo. Ora lo si dice anche». «quel che ho scritto e la mia opinione - precisa - si è sempre trattato e spesso (quindi non sempre) pagato».
Inoltre, visto che qualche procura indaga sulla presunta trattativa Stato-mafia, per quale motivo non si dovrebbe indagare anche sulle presunte trattative Stato-rapitori. Non solo le leggi italiane vietano il pagamento di riscatti in caso di sequestri (divieto che potrebbe non valere se è lo Stato a pagare, ma in questo caso ci si dovrebbe interrogare sul senso e l'umanità di una simile normativa), ma soprattutto mi sembra lampante, chiaro come il sole, che l'eventuale pagamento per la Urru, come per altri ostaggi, costituirebbe un aiuto alle organizzazioni terroristiche, e un pericoloso incentivo al business dei sequestri, esattamente come la presunta attenuazione del 41-bis avrebbe favorito la mafia. Dov'è la differenza? Qualche magistrato è in grado di spiegarcela? La trattativa Stato-mafia, se c'è stata, come le trattative Stato-rapitori, se e quando ci sono state, dovrebbero essere denunciate come scandali politici, cioè di cattiva politica.
Apprendiamo tra l'altro dal profilo twitter dell'on. Gianni Vernetti, ex sottosegretario per gli affari esteri, che «si è sempre trattato e spesso pagato per liberare gli ostaggi in giro per il mondo. Ora lo si dice anche». «quel che ho scritto e la mia opinione - precisa - si è sempre trattato e spesso (quindi non sempre) pagato».
Friday, June 01, 2012
Non sono metodi mafiosi
Non sono metodi mafiosi. L'Agenzia delle entrate, riporta oggi La Stampa, ha spedito a 300 mila contribuenti una lettera in cui fa sapere di «aver rilevato spese apparentemente non compatibili con i redditi dichiarati», avvertendo che non è dovuta alcuna risposta alla missiva, ma che nel caso il contribuente «non fosse in grado di dimostrare la compatibilità delle spese sostenute con il reddito dichiarato, l'Agenzia delle entrate potrà procedere all'accertamento sintetico del reddito complessivo». Ma no, non è una lettera minatoria, non sono metodi mafiosi. E allega alla lettera un elenco di spese "significative", ma senza indicarne l'ammontare, nemmeno complessivo, «per tutelare la sua riservatezza». Cioè, capite l'assurdità? Per tutelare la mia privacy non comunicano l'ammontare delle mie spese in una lettera a me indirizzata. Fin troppo evidente che il vero scopo è non scoprire le "carte" che hanno in mano, cioè il bluff. Infatti, redditometro e spesometro non sono ancora attivi e le spese allegate sono talmente comuni (rette scolastiche, contributi previdenziali o la stipula di un mutuo), alcune persino dovute per legge, da non essere propriamente in odore di evasione.
E se le lettere sono "mirate", e non si tratta di sparare nel mucchio, perché non scatta direttamente l'accertamento? L'operazione è un'altra: inculcando una «sana paura», proprio a ridosso della presentazione delle dichiarazioni dei redditi, si tenta di convincere i contribuenti a dichiarare qualche euro in più, tanto per non sbagliarsi e non far insospettire il fisco. Ma no, non è estorsione, non sono metodi mafiosi. In questo modo forse si inculca negli evasori e nei contribuenti quella «sana paura» di cui parlava tempo fa Befera, ma non meravigliamoci se poi torna indietro "insano terrore". Ma no, non sono metodi mafiosi.
Passato un giorno dalla denuncia di Buffon sulla «vergogna» della giustizia-spettacolo, dei processi mediatici, del rapporto marcio, perverso tra procure e media, con le fughe di notizie e i blitz con telecamere al seguito, il circuito mediatico-giudiziario passa al contrattacco. Corriere e Repubblica tirano fuori un'"informativa" (con tanto di documenti in copia pdf) della Guardia di Finanza di Torino in cui si segnalano alcune movimentazioni di denaro "sospette" da un conto di Buffon ad una ricevitoria di Parma. Movimenti che fanno presto a diventare «puntate», «scommesse milionarie». Risalgono al 2010 e non hanno avuto seguito sul piano penale (se di scommesse si tratta, sono comunque legali) né sportivo (se di scommesse si tratta, potrebbero essere su altri campionati o altri sport). Ma tanto basta a sputtanare Buffon che aveva osato toccare i fili che legano procure e giornali. Una ritorsione in puro stile non mafioso.
Che Buffon abbia o meno scommesso sul calcio italiano (commettendo quindi un illecito sportivo), a questo punto passa in secondo piano. E' il tempismo che inquieta, il potere del circuito procure-giornali di stritolare con la gogna mediatica qualsiasi cittadino, a prescindere, che osi criticarli dovrebbe preoccupare molto di più del calcioscommesse.
La sensazione è che dall'Italia delle caste siamo passati all'Italia delle cosche.
E se le lettere sono "mirate", e non si tratta di sparare nel mucchio, perché non scatta direttamente l'accertamento? L'operazione è un'altra: inculcando una «sana paura», proprio a ridosso della presentazione delle dichiarazioni dei redditi, si tenta di convincere i contribuenti a dichiarare qualche euro in più, tanto per non sbagliarsi e non far insospettire il fisco. Ma no, non è estorsione, non sono metodi mafiosi. In questo modo forse si inculca negli evasori e nei contribuenti quella «sana paura» di cui parlava tempo fa Befera, ma non meravigliamoci se poi torna indietro "insano terrore". Ma no, non sono metodi mafiosi.
Passato un giorno dalla denuncia di Buffon sulla «vergogna» della giustizia-spettacolo, dei processi mediatici, del rapporto marcio, perverso tra procure e media, con le fughe di notizie e i blitz con telecamere al seguito, il circuito mediatico-giudiziario passa al contrattacco. Corriere e Repubblica tirano fuori un'"informativa" (con tanto di documenti in copia pdf) della Guardia di Finanza di Torino in cui si segnalano alcune movimentazioni di denaro "sospette" da un conto di Buffon ad una ricevitoria di Parma. Movimenti che fanno presto a diventare «puntate», «scommesse milionarie». Risalgono al 2010 e non hanno avuto seguito sul piano penale (se di scommesse si tratta, sono comunque legali) né sportivo (se di scommesse si tratta, potrebbero essere su altri campionati o altri sport). Ma tanto basta a sputtanare Buffon che aveva osato toccare i fili che legano procure e giornali. Una ritorsione in puro stile non mafioso.
Che Buffon abbia o meno scommesso sul calcio italiano (commettendo quindi un illecito sportivo), a questo punto passa in secondo piano. E' il tempismo che inquieta, il potere del circuito procure-giornali di stritolare con la gogna mediatica qualsiasi cittadino, a prescindere, che osi criticarli dovrebbe preoccupare molto di più del calcioscommesse.
La sensazione è che dall'Italia delle caste siamo passati all'Italia delle cosche.
Tuesday, December 13, 2011
Curare un obeso ad abbuffate
Anche su Notapolitica
Viviamo in uno strano Paese, dove alla crisi del debito sovrano nella zona euro si risponde non tagliando la spesa e abbattendo il nostro debito con dismissioni di patrimonio pubblico, ma aumentando le tasse. Se il riequilibrio dei conti pubblici dal 2010 al 2014, cioè l'azzeramento del deficit, si realizza - lo certifica la Corte dei Conti - «in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico», cioè «nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più di 45 miliardi)», evidentemente l'obiettivo non è far dimagrire lo Stato, ma "salvarlo" così obeso come lo conosciamo. E infatti la bizzarra terapia sembra consistere in ricorrenti abbuffate di tasse.
Ma non deve sorprendere, perché è lo stesso Paese nel quale gli organi di stampa espressione della borghesia e del mondo industriale - come Corriere della Sera, Sole24Ore, Radio24 - da anni, e con più vigore in questi giorni, sono concentrati prioritariamente sulle campagne, per lo più demagogiche, contro la "casta" dei politici e contro l'evasione fiscale. Così Sergio Rizzo, sul Corriere, denuncia che l'evasione si è quintuplicata negli ultimi trent'anni, dimenticandosi però di ricordare che negli stessi trent'anni la pressione fiscale si è decuplicata. Non è strano che in Italia, anziché attaccare l'elevata imposizione fiscale, il "business" metta le sue bocche da fuoco mediatiche a disposizione dello Stato per la caccia all'evasore? Se avessero profuso altrettante energie nel condannare la spesa pubblica e l'insopportabile livello della tassazione, forse oggi sarebbe stata più forte e consapevole la pressione dell'opinione pubblica in tal senso.
Finché permarrà, invece, un approccio moralistico e ideologico ai fenomeni economici e sociali, non sconfiggeremo né l'evasione fiscale né la mafia. Solo chi è troppo accecato dal populismo e imbevuto di cultura statalista, infatti, non riesce a vedere che l'evasione fiscale in Italia è un fenomeno così di massa, così diffuso e capillare, che non può avere una spiegazione soltanto delinquenziale, o peggio antropologica (lo scarso senso civico degli italiani), ma probabilmente è alimentato da un istinto di autodifesa nei confronti di uno Stato-padrone e da ineludibili necessità economiche: a certi costi le attività produttive risultano semplicemente insostenibili. E il paradosso è che unirsi alla caccia all'evasore significa aiutare lo Stato ad intermediare quote sempre maggiori di ricchezza (non rubata, ma fino a prova contraria prodotta lavorando onestamente), in definitiva quindi aiutare proprio la "casta" degli odiati politici ad aumentare il loro potere sui cittadini. Allo stesso modo, bisogna molto laicamente riconoscere che ai livelli attuali di pressione fiscale, sprechi e inefficienze, in alcune aree del Paese le organizzazioni criminali sono più competitive dello Stato, perché meno costose e più efficienti nel controllo del territorio.
Come provano da una parte l'inarrestabile corsa della pressione fiscale negli ultimi trent'anni e dall'altra la vera e propria "Stasi" tributaria che sta prendendo forma, prima con il giustizialismo del "solve et repete" (prima si paga, poi si contesta) e i poteri sempre più invasivi di Equitalia, ora con la definitiva caduta del segreto bancario, la risposta italiana alla crisi è la socialistizzazione a tappe forzate della ricchezza che sempre meno la società è in grado di produrre. Purtroppo il rischio concreto, nel 2012, è che il Paese si trovi stretto in una morsa recessiva letale: la lotta all'evasione che con il suo armamentario di sequestri, ipoteche e pignoramenti potrebbe provocare fallimenti a catena di piccole-medie imprese, con le ricadute che possiamo immaginare sull'occupazione; e la patrimoniale da 53 miliardi sulla casa che potrebbe causare una drastica contrazione dei consumi e/o un netto calo del valore degli immobili, se dovesse innescarsi una crisi dei mutui o un'ondata di vendite da parte dei proprietari pensionati.
Stavolta non mi trovo d'accordo con Luca Ricolfi, per il quale per tagliare la spesa bisogna prima studiare dove e come. A mio modesto avviso l'ordine dei fattori dovrebbe essere invertito: solo i tagli, anche se lineari, obbligano a "studiare". Come dimostra la nostra storia fiscale, se aspettiamo di avere i «piani operativi pronti» non taglieremo mai nulla. E' solo affamando la bestia che le si può imporre di dimagrire.
Viviamo in uno strano Paese, dove alla crisi del debito sovrano nella zona euro si risponde non tagliando la spesa e abbattendo il nostro debito con dismissioni di patrimonio pubblico, ma aumentando le tasse. Se il riequilibrio dei conti pubblici dal 2010 al 2014, cioè l'azzeramento del deficit, si realizza - lo certifica la Corte dei Conti - «in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico», cioè «nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più di 45 miliardi)», evidentemente l'obiettivo non è far dimagrire lo Stato, ma "salvarlo" così obeso come lo conosciamo. E infatti la bizzarra terapia sembra consistere in ricorrenti abbuffate di tasse.
Ma non deve sorprendere, perché è lo stesso Paese nel quale gli organi di stampa espressione della borghesia e del mondo industriale - come Corriere della Sera, Sole24Ore, Radio24 - da anni, e con più vigore in questi giorni, sono concentrati prioritariamente sulle campagne, per lo più demagogiche, contro la "casta" dei politici e contro l'evasione fiscale. Così Sergio Rizzo, sul Corriere, denuncia che l'evasione si è quintuplicata negli ultimi trent'anni, dimenticandosi però di ricordare che negli stessi trent'anni la pressione fiscale si è decuplicata. Non è strano che in Italia, anziché attaccare l'elevata imposizione fiscale, il "business" metta le sue bocche da fuoco mediatiche a disposizione dello Stato per la caccia all'evasore? Se avessero profuso altrettante energie nel condannare la spesa pubblica e l'insopportabile livello della tassazione, forse oggi sarebbe stata più forte e consapevole la pressione dell'opinione pubblica in tal senso.
Finché permarrà, invece, un approccio moralistico e ideologico ai fenomeni economici e sociali, non sconfiggeremo né l'evasione fiscale né la mafia. Solo chi è troppo accecato dal populismo e imbevuto di cultura statalista, infatti, non riesce a vedere che l'evasione fiscale in Italia è un fenomeno così di massa, così diffuso e capillare, che non può avere una spiegazione soltanto delinquenziale, o peggio antropologica (lo scarso senso civico degli italiani), ma probabilmente è alimentato da un istinto di autodifesa nei confronti di uno Stato-padrone e da ineludibili necessità economiche: a certi costi le attività produttive risultano semplicemente insostenibili. E il paradosso è che unirsi alla caccia all'evasore significa aiutare lo Stato ad intermediare quote sempre maggiori di ricchezza (non rubata, ma fino a prova contraria prodotta lavorando onestamente), in definitiva quindi aiutare proprio la "casta" degli odiati politici ad aumentare il loro potere sui cittadini. Allo stesso modo, bisogna molto laicamente riconoscere che ai livelli attuali di pressione fiscale, sprechi e inefficienze, in alcune aree del Paese le organizzazioni criminali sono più competitive dello Stato, perché meno costose e più efficienti nel controllo del territorio.
Come provano da una parte l'inarrestabile corsa della pressione fiscale negli ultimi trent'anni e dall'altra la vera e propria "Stasi" tributaria che sta prendendo forma, prima con il giustizialismo del "solve et repete" (prima si paga, poi si contesta) e i poteri sempre più invasivi di Equitalia, ora con la definitiva caduta del segreto bancario, la risposta italiana alla crisi è la socialistizzazione a tappe forzate della ricchezza che sempre meno la società è in grado di produrre. Purtroppo il rischio concreto, nel 2012, è che il Paese si trovi stretto in una morsa recessiva letale: la lotta all'evasione che con il suo armamentario di sequestri, ipoteche e pignoramenti potrebbe provocare fallimenti a catena di piccole-medie imprese, con le ricadute che possiamo immaginare sull'occupazione; e la patrimoniale da 53 miliardi sulla casa che potrebbe causare una drastica contrazione dei consumi e/o un netto calo del valore degli immobili, se dovesse innescarsi una crisi dei mutui o un'ondata di vendite da parte dei proprietari pensionati.
Stavolta non mi trovo d'accordo con Luca Ricolfi, per il quale per tagliare la spesa bisogna prima studiare dove e come. A mio modesto avviso l'ordine dei fattori dovrebbe essere invertito: solo i tagli, anche se lineari, obbligano a "studiare". Come dimostra la nostra storia fiscale, se aspettiamo di avere i «piani operativi pronti» non taglieremo mai nulla. E' solo affamando la bestia che le si può imporre di dimagrire.
Thursday, April 21, 2011
Inchieste alla bufala
Quante puntate di Annozero ci ha dedicato Santoro sulla tv pubblica? Quante paginate quelli di Repubblica e Il Fatto Quotidiano? Quante Procure ci hanno basato le loro inchieste? Addirittura tre (Palermo, Caltanissetta e Firenze)! Ebbene, quel Massimo Ciancimino (figlio del mafioso Vito), che veniva portato in palmo di mano come autentico oracolo e icona dell'antimafia, vera e propria star televisiva, la cui attendibilità non poteva essere messa in discussione pena l'essere additati tra coloro che ostacolano la ricerca della verità sulle stragi di mafia del '92-'93 e sulla presunta trattativa Stato-mafia, è stato fermato oggi con l'accusa di «calunnia aggravata», perché dalle perizie condotte dalla polizia scientifica è emerso che uno dei "pizzini" da lui consegnati è stato volgarmente falsificato.
Non un pizzino qualsiasi, ma quello che avrebbe dovuto inchiodare l'ex capo della Polizia De Gennaro come il "signor Franco", l'agente dei servizi che tramite il padre Vito avrebbe trattato con i boss di Cosa Nostra per conto dello Stato. Ebbene, il nome di De Gennaro risulta essere stato sovrapposto a posteriori su un vecchio documento poi banalmente fotocopiato (e ci voleva la Scientifica per accorgersene!). E questo "pizzino" è l'architrave fondamentale su cui poggia l'intera ricostruzione del Ciancimino jr.
«Noi sempre rigorosi», si giustifica adesso Ingroia (il magistrato che parla ai comizi); con lui «nessun rapporto privilegiato», giura Messineo. Balle, balle, balle. Per anni Ciancimino è stato ritenuto attendibile dai pm, addirittura chiamato a testimoniare in aula, al processo dove sono imputati il generale dei Carabinieri Mori e il colonnello Obinu.
Ma le speranze delle tre procure che pendevano dalle labbra di Ciancimino jr., nonché dai "pizzini" e dai "papelli" da lui fabbricati, andavano ben oltre: collegare in qualche modo Berlusconi e Forza Italia alla mafia e alle stragi. Peccato che fino ad ora l'unico elemento certo emerso sulla presunta trattativa Stato-mafia è che in quegli anni, subito dopo le stragi, fu sospeso il 41 bis a centinaia di boss da un governo di centrosinistra guidato da Ciampi, ministro degli Interni Mancino e presidente della Repubblica Scalfaro.
Adesso è chiaro che per anni questi pm hanno rovistato nella spazzatura, sperperando soldi dei contribuenti, allontanandoci dalla "verità" sulle stragi e probabilmente facendo un grosso favore alla mafia.
Non un pizzino qualsiasi, ma quello che avrebbe dovuto inchiodare l'ex capo della Polizia De Gennaro come il "signor Franco", l'agente dei servizi che tramite il padre Vito avrebbe trattato con i boss di Cosa Nostra per conto dello Stato. Ebbene, il nome di De Gennaro risulta essere stato sovrapposto a posteriori su un vecchio documento poi banalmente fotocopiato (e ci voleva la Scientifica per accorgersene!). E questo "pizzino" è l'architrave fondamentale su cui poggia l'intera ricostruzione del Ciancimino jr.
«Noi sempre rigorosi», si giustifica adesso Ingroia (il magistrato che parla ai comizi); con lui «nessun rapporto privilegiato», giura Messineo. Balle, balle, balle. Per anni Ciancimino è stato ritenuto attendibile dai pm, addirittura chiamato a testimoniare in aula, al processo dove sono imputati il generale dei Carabinieri Mori e il colonnello Obinu.
Ma le speranze delle tre procure che pendevano dalle labbra di Ciancimino jr., nonché dai "pizzini" e dai "papelli" da lui fabbricati, andavano ben oltre: collegare in qualche modo Berlusconi e Forza Italia alla mafia e alle stragi. Peccato che fino ad ora l'unico elemento certo emerso sulla presunta trattativa Stato-mafia è che in quegli anni, subito dopo le stragi, fu sospeso il 41 bis a centinaia di boss da un governo di centrosinistra guidato da Ciampi, ministro degli Interni Mancino e presidente della Repubblica Scalfaro.
Adesso è chiaro che per anni questi pm hanno rovistato nella spazzatura, sperperando soldi dei contribuenti, allontanandoci dalla "verità" sulle stragi e probabilmente facendo un grosso favore alla mafia.
Friday, November 19, 2010
Il governo Ciampi si calò le braghe
Con le rivelazioni di Conso in commissione Antimafia, il teorema della trattativa Stato-mafia, i vari pizzini e papelli, con i quali si volevano incastrare Berlusconi e FI, stanno invece coinvolgendo il governo Ciampi del '93, sostenuto dalla sinistra. Roba da prime pagine, ma i professionisti dell'antimafia tacciono. Non credo ci fu una trattativa nel vero senso del termine, e cioè che i nostri ministri erano mafiosi o hanno voluto aiutare la mafia. Come ha spiegato l'allora ministro della giustizia Conso, ci fu una decisione politica - revocare il 41bis per cercare di fermare le stragi (come da richiesta riferita da Ciancimino tramite il famoso "papello"). Sbagliata, sciagurata, perché fermò le stragi sì, ma lo Stato si calò le braghe. Una grave responsabilità politica, di cui si deve chiedere conto al governo di allora. Politicamente, non giudiziariamente.
Wednesday, November 17, 2010
La metamorfosi di Saviano nuovo "professionista" dell'antimafia
Roberto Saviano si sta "santorizzando" (o meglio, "travaglizzando"). Da talentuoso e apprezzato scrittore di denuncia e rappresentazione della realtà delle mafie si sta rapidamente trasformando in un tribuno e in uno dei tanti professionisti dell'antimafia. Comincia a buttarla in politica e, soprattutto, a prendere per oro colato ciò che non lo è: inchieste giudiziare neanche arrivate alla fase del dibattimento. L'aspetto più grave della sua replica alle critiche di Maroni è che rivela una profonda ignoranza: dice di essersi limitato a raccontare dei «fatti», ma evidentemente ignora che una verità è giudiziariamente accertata alla fine di un procedimento, non all'inizio.
Quando poi, in un'intervista a la Repubblica, paragona il ministro dell'Interno addirittura al boss camorrista detto Sandokan, solo perché Maroni l'ha invitato a ripetere le sue accuse alla Lega in un faccia-a-faccia, «guardandolo negli occhi», chiedendo nient'altro che un contraddittorio, come gli avrebbe chiesto anche l'avvocato del boss, dimostra la sua faziosità e capziosità. Saviano d'altronde ha già dimostrato di non essere intellettualmente onesto nella prima puntata, quando, parlando di Falcone, si era guardato bene dall'indicare per nome e per cognome i suoi nemici (tutti nella magistratura e nell'intellettualità e nella politica di sinistra). Ha imparato presto chi può permettersi di attaccare e chi no, se vuole conservare lo status di eroe civile e cantore dell'antimafia politicamente corretta.
Molto semplicemente, Saviano si è montato la testa. Ha cominciato a credere di essere investito di una missione salvifica, denunciare e ripulire il marcio della società, a cominciare, ovviamente, dal mondo dell'imprenditoria e della politica (di centrodestra e del Nord). Un conto è raccontare l'inchiesta condotta dalla Boccassini e da Pignatone sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia, altra cosa è alludere ad un legame, ad una «interlocuzione», tra uno dei partiti al governo, la Lega, e la mafia. Non si può escludere, è già accaduto in passato, che le mafie riescano a contattare singoli esponenti politici locali, di tutti i partiti, ma da qui a insinuare una «interlocuzione» consapevole, deliberata, ce ne passa e che abbia tirato in ballo proprio la Lega (nonostante il consigliere leghista citato non fosse nemmeno indagato) forse ha a che fare con un senso di rivalsa nei confronti del nord, quasi un goffo tentativo di coinvolgerlo in un fenomeno che certo, può infiltrarsi, ma che è nel Dna del sud. Quando parla di «silenzio» si sbaglia, evidentemente è poco informato. Sulle infiltrazioni della 'ndrangheta al nord non c'è affatto «silenzio», né sottovalutazione da parte del governo. Basta informarsi sui provvedimenti adottati, gli arresti, la storia di denuncia che può vantare in particolare la Lega. Ma a questa difesa ci penserà Maroni, se gliene sarà data l'opportunità.
Saviano dice che si limita a raccontare «storie», ma raccontare storie non è mai neutro. Quindi, dovrebbe innanzitutto essere onesto con i telespettatori circa il punto di vista ideologico della sua trasmissione. Quando, poi, si avanzano in tv ipotesi diffamatorie, bisogna dare alla controparte la possibilità di difendersi. Maroni ha diritto ad un contraddittorio con Saviano dinanzi allo stesso identico pubblico. E quando si invitano leader politici per brevi comizietti, siamo alla tribuna politica, che ha delle regole precise.
Quando poi, in un'intervista a la Repubblica, paragona il ministro dell'Interno addirittura al boss camorrista detto Sandokan, solo perché Maroni l'ha invitato a ripetere le sue accuse alla Lega in un faccia-a-faccia, «guardandolo negli occhi», chiedendo nient'altro che un contraddittorio, come gli avrebbe chiesto anche l'avvocato del boss, dimostra la sua faziosità e capziosità. Saviano d'altronde ha già dimostrato di non essere intellettualmente onesto nella prima puntata, quando, parlando di Falcone, si era guardato bene dall'indicare per nome e per cognome i suoi nemici (tutti nella magistratura e nell'intellettualità e nella politica di sinistra). Ha imparato presto chi può permettersi di attaccare e chi no, se vuole conservare lo status di eroe civile e cantore dell'antimafia politicamente corretta.
Molto semplicemente, Saviano si è montato la testa. Ha cominciato a credere di essere investito di una missione salvifica, denunciare e ripulire il marcio della società, a cominciare, ovviamente, dal mondo dell'imprenditoria e della politica (di centrodestra e del Nord). Un conto è raccontare l'inchiesta condotta dalla Boccassini e da Pignatone sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Lombardia, altra cosa è alludere ad un legame, ad una «interlocuzione», tra uno dei partiti al governo, la Lega, e la mafia. Non si può escludere, è già accaduto in passato, che le mafie riescano a contattare singoli esponenti politici locali, di tutti i partiti, ma da qui a insinuare una «interlocuzione» consapevole, deliberata, ce ne passa e che abbia tirato in ballo proprio la Lega (nonostante il consigliere leghista citato non fosse nemmeno indagato) forse ha a che fare con un senso di rivalsa nei confronti del nord, quasi un goffo tentativo di coinvolgerlo in un fenomeno che certo, può infiltrarsi, ma che è nel Dna del sud. Quando parla di «silenzio» si sbaglia, evidentemente è poco informato. Sulle infiltrazioni della 'ndrangheta al nord non c'è affatto «silenzio», né sottovalutazione da parte del governo. Basta informarsi sui provvedimenti adottati, gli arresti, la storia di denuncia che può vantare in particolare la Lega. Ma a questa difesa ci penserà Maroni, se gliene sarà data l'opportunità.
Saviano dice che si limita a raccontare «storie», ma raccontare storie non è mai neutro. Quindi, dovrebbe innanzitutto essere onesto con i telespettatori circa il punto di vista ideologico della sua trasmissione. Quando, poi, si avanzano in tv ipotesi diffamatorie, bisogna dare alla controparte la possibilità di difendersi. Maroni ha diritto ad un contraddittorio con Saviano dinanzi allo stesso identico pubblico. E quando si invitano leader politici per brevi comizietti, siamo alla tribuna politica, che ha delle regole precise.
Tuesday, November 02, 2010
Procure scatenate e gioco di squadra
Milano di nuovo all'attacco, Palermo che scalda i motori su un "giro di escort". Ed è sintomatico che sul caso Ruby si sia avventata la toga super-rossa Boccassini, che coordina la Dda (antimafia) del capoluogo lombardo, ma evidentemente trova il tempo (interrogatori anche il giorno di Ognissanti) di occuparsi di minori e prostituzione. Ma sintomatico del suo movente politico è soprattutto come è arrivata a mettere le mani sull'inchiesta: il reato ipotizzato nel fascicolo - favoreggiamento della prostituzione minorile - esula infatti dall'antimafia. Ma il pm assegnatario del fascicolo dal 2009 è stato promosso - guarda caso solo pochi giorni fa, il 28 ottobre - al pool antimafia, e la regola a Milano vuole che i pm che cambiano dipartimento portino con sé le loro inchieste, e che a sovrintenderle sia, dunque, il nuovo capo.
Il caso Ruby è molto poco chiaro, ma trapelano i tipici contorni del caso gonfiato ad arte per essere mediatizzato e usato politicamente. Inutile addentrarsi nei meandri dell'inchiesta, a partire dal fermo della ragazza, sembra per furto (accusa però formalizzata solo pochi giorni fa, e secondo alcuni mai), anche se ha rischiato di essere spedita in comunità in quanto minorenne senza documenti. Sul premier non c'è l'ombra di un reato, e questa volta, diversamente dal caso Noemi, nessuno lo accusa esplicitamente di un rapporto sessuale con una minorenne (dal momento che Ruby ha subito smentito), e nonostante la sua telefonata alla questura il caso Ruby venne trattato nel rispetto delle procedure, come conferma lo stesso procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, certo non un "berlusconiano". Lo scopo, però, mediaticamente parlando è già raggiunto: alludere e "mascariare".
Come già accaduto diverse volte, tutto sembra destinato a sgonfiarsi e a rivelarsi per quello che è: un caso puramente mediatico per armare il grilletto di Fini, in quello che sembra un perfetto gioco di squadra, tacito o meno importa poco, con le procure. "Dài, Gianfranco, cosa ti serve ancora per battere questo calcio di rigore?" Peccato che una volta segnato il gol, coloro lo hanno spinto sul dischetto saranno gli stessi che lo relegheranno in panchina.
Sia pure effimero dal punto di vista giudiziario, non è detto quindi che il caso sia privo di conseguenze politiche, dal logoramento ulteriore alla caduta del governo. Ancora una volta, infatti, Fini ha scelto di cavalcare la vicenda. Con gran faccia tosta chiede le dimissioni del premier, pur essendo a sua volta in una condizione non irreprensibile, per aver introdotto in Rai la sua personale parentopoli, e visto che nelle stesse carte con le quali i giudici romani chiedono per lui l'archiviazione sul caso Montecarlo, si rileva tuttavia che sotto il contratto d'affitto le firme del locatore e del locatario «appaiono identiche» e Fini stesso aveva promesso di dimettersi se fosse stato dimostrato che il cognato è il vero proprietario dell'immobile.
Ed è significativo che i nuovi siluri mediatico-giudiziari siano stati lanciati proprio nel momento in cui il governo tentava di rilanciare la propria azione, e tentava di puntellare, a partire dalla giustizia, la fragile tregua con i finiani. Ma Fini ha subito colto la palla al balzo per romperla, a dimostrazione che non ci sbagliavamo nel reputare il logoramento e l'abbattimento del Cav. l'unico reale obiettivo di Fini, e quindi impossibile qualsiasi compromesso, o modus vivendi tra i due - come invece sostenevano molte "colombe" intorno al premier, Il Foglio tra questi.
Né è un caso che accerchiamento giudiziario e macchina del fango si siano rimessi in moto non appena si è cominciato a mettere nero su bianco la riforma della giustizia. Se vivessimo in un Paese normale, ci si chiederebbe come mai certe procure non si fanno mai venire qualche sospetto prima di dare credito alle accuse dei mafiosi contro i poliziotti che li hanno arrestati (il maresciallo Lombardo, il tenente Canale, il colonnello Meli, il generale Mori: tutti assolti); se vivessimo in un Paese normale, ci si chiederebbe se i fallimenti continui e clamorosi di certe procure, perse in una perenne quanto sterile caccia al fantomatico "livello politico" (che prima faceva rima con Andreotti e dal 1994 fa rima con Berlusconi), non favoriscano oggettivamente la mafia. Se vivessimo in un Paese normale, su tutto questo, sul perché certe procure sembrano un po' troppo "vittime" dei depistaggi politici dei pentiti, si aprirebbe davvero una commissione parlamentare d'inchiesta.
I giornali sentono per l'ennesima volta l'odore del "sangue" politico di Berlusconi, zaffate che arrivano fin dentro i palazzi romani. E' possibile che Berlusconi cada, ma primo, i finiani dovranno votargli contro in Parlamento assumendosene la responsabilità; secondo, il caso Ruby prima o poi si smonterà; terzo, sia nel caso di ribaltone, che di elezioni anticipate, battere il Cav. nelle urne sarà molto più dura che "abbatterlo".
UPDATE
La versione di Ruby al settimanale Oggi: nessuno sapeva che fosse minorenne; una sola volta dal premier, ma niente sesso, "solo" un regalo di 7 mila euro; il "bunga bunga"? solo la vecchia barzelletta; quando Berlusconi ha saputo che era minorenne, «mi ha detto che non voleva più sentirmi»; uscita dalla questura, Berlusconi «mi ha detto che non voleva più vedermi»; da quel 27 maggio interrogata dai pm per ben 23 volte (!), non sul presunto furto ma «solo su Silvio». Uno zelo degno di miglior causa.
Il caso Ruby è molto poco chiaro, ma trapelano i tipici contorni del caso gonfiato ad arte per essere mediatizzato e usato politicamente. Inutile addentrarsi nei meandri dell'inchiesta, a partire dal fermo della ragazza, sembra per furto (accusa però formalizzata solo pochi giorni fa, e secondo alcuni mai), anche se ha rischiato di essere spedita in comunità in quanto minorenne senza documenti. Sul premier non c'è l'ombra di un reato, e questa volta, diversamente dal caso Noemi, nessuno lo accusa esplicitamente di un rapporto sessuale con una minorenne (dal momento che Ruby ha subito smentito), e nonostante la sua telefonata alla questura il caso Ruby venne trattato nel rispetto delle procedure, come conferma lo stesso procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, certo non un "berlusconiano". Lo scopo, però, mediaticamente parlando è già raggiunto: alludere e "mascariare".
Come già accaduto diverse volte, tutto sembra destinato a sgonfiarsi e a rivelarsi per quello che è: un caso puramente mediatico per armare il grilletto di Fini, in quello che sembra un perfetto gioco di squadra, tacito o meno importa poco, con le procure. "Dài, Gianfranco, cosa ti serve ancora per battere questo calcio di rigore?" Peccato che una volta segnato il gol, coloro lo hanno spinto sul dischetto saranno gli stessi che lo relegheranno in panchina.
Sia pure effimero dal punto di vista giudiziario, non è detto quindi che il caso sia privo di conseguenze politiche, dal logoramento ulteriore alla caduta del governo. Ancora una volta, infatti, Fini ha scelto di cavalcare la vicenda. Con gran faccia tosta chiede le dimissioni del premier, pur essendo a sua volta in una condizione non irreprensibile, per aver introdotto in Rai la sua personale parentopoli, e visto che nelle stesse carte con le quali i giudici romani chiedono per lui l'archiviazione sul caso Montecarlo, si rileva tuttavia che sotto il contratto d'affitto le firme del locatore e del locatario «appaiono identiche» e Fini stesso aveva promesso di dimettersi se fosse stato dimostrato che il cognato è il vero proprietario dell'immobile.
«Il contratto di locazione intervenuto tra il locatore Timara Ltd, priva della indicazione della persona fisica che la rappresentava, e il locatario Giancarlo Tulliani reca sotto le diciture "locatore" e "locatario" due firme che appaiono identiche, così come quelle apposte sulla clausola integrativa recante la data 24/2/2009, allegata al contratto».Il gioco è fin troppo scoperto: prima si aziona la macchina del fango, poi si accusa il premier di non volersi occupare dei problemi "reali" della gente. Ma se le sorti politiche del Paese sembrano dipendere da una minorenne marocchina, è difficile credere che sia per uno strano impulso di Berlusconi ad autosputtanarsi. I finiani invocano l'apertura di una nuova fase ma al contempo la sabotano, spalleggiati dalle, anzi spalleggiando le procure.
Ed è significativo che i nuovi siluri mediatico-giudiziari siano stati lanciati proprio nel momento in cui il governo tentava di rilanciare la propria azione, e tentava di puntellare, a partire dalla giustizia, la fragile tregua con i finiani. Ma Fini ha subito colto la palla al balzo per romperla, a dimostrazione che non ci sbagliavamo nel reputare il logoramento e l'abbattimento del Cav. l'unico reale obiettivo di Fini, e quindi impossibile qualsiasi compromesso, o modus vivendi tra i due - come invece sostenevano molte "colombe" intorno al premier, Il Foglio tra questi.
Né è un caso che accerchiamento giudiziario e macchina del fango si siano rimessi in moto non appena si è cominciato a mettere nero su bianco la riforma della giustizia. Se vivessimo in un Paese normale, ci si chiederebbe come mai certe procure non si fanno mai venire qualche sospetto prima di dare credito alle accuse dei mafiosi contro i poliziotti che li hanno arrestati (il maresciallo Lombardo, il tenente Canale, il colonnello Meli, il generale Mori: tutti assolti); se vivessimo in un Paese normale, ci si chiederebbe se i fallimenti continui e clamorosi di certe procure, perse in una perenne quanto sterile caccia al fantomatico "livello politico" (che prima faceva rima con Andreotti e dal 1994 fa rima con Berlusconi), non favoriscano oggettivamente la mafia. Se vivessimo in un Paese normale, su tutto questo, sul perché certe procure sembrano un po' troppo "vittime" dei depistaggi politici dei pentiti, si aprirebbe davvero una commissione parlamentare d'inchiesta.
I giornali sentono per l'ennesima volta l'odore del "sangue" politico di Berlusconi, zaffate che arrivano fin dentro i palazzi romani. E' possibile che Berlusconi cada, ma primo, i finiani dovranno votargli contro in Parlamento assumendosene la responsabilità; secondo, il caso Ruby prima o poi si smonterà; terzo, sia nel caso di ribaltone, che di elezioni anticipate, battere il Cav. nelle urne sarà molto più dura che "abbatterlo".
UPDATE
La versione di Ruby al settimanale Oggi: nessuno sapeva che fosse minorenne; una sola volta dal premier, ma niente sesso, "solo" un regalo di 7 mila euro; il "bunga bunga"? solo la vecchia barzelletta; quando Berlusconi ha saputo che era minorenne, «mi ha detto che non voleva più sentirmi»; uscita dalla questura, Berlusconi «mi ha detto che non voleva più vedermi»; da quel 27 maggio interrogata dai pm per ben 23 volte (!), non sul presunto furto ma «solo su Silvio». Uno zelo degno di miglior causa.
Tuesday, September 14, 2010
Cose che sul Corrierino non si scrivono...
E si vanno a dire fuori. Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, a La Vanguardia:
«Fini parla adesso di Berlusconi in termini critici. Ma dove è stato negli ultimi 16 anni? In quest'arco di tempo ha votato e appoggiato le peggiori leggi ad personam promosse da Berlusconi».Ernesto Galli Della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, al quotidiano svizzero Basler Zeitung:
(...)
«Sono molto critico con Berlusconi ma gli riconosco dei meriti. È uno dei leader europei più longevi, il che significa o che la politica italiana non trova soluzioni o che Berlusconi ha talento. È a capo di un governo che ha gestito abbastanza bene la crisi economica e non sta lavorando male in ambiti come quello scolastico o della lotta alla criminalità organizzata... Gli sbarchi sono diminuiti e l'integrazione degli immigrati è soddisfacente anche nelle zone governate dalla Lega Nord... Spesso, quando si critica Berlusconi su quest'argomento ci si dimentica che l'Italia, come la Spagna, è per gli immigrati una delle porte verso l'Europa».
(...)
«Berlusconi ha molte colpe e il Corriere lo ha criticato per questo motivo, pero a volte è vittima dei pregiudizi. Che lui non faccia nulla per non alimentare questi pregiudizi è un'altra questione».
«Fini non ha idee, non ha intuito e nemmeno visione politica. Cinquant'anni per capire cosa è stato il fascismo, quindici per capire come funziona Berlusconi: si può avere fiducia in un simile politico?».
Monday, July 12, 2010
Ennesima sconfessione. Chi paga?
Nessun giornale, tranne due eccezioni (Il Giornale di Sicilia e Libero), ha riportato la notizia dell'assoluzione definitiva di Carmelo Canale, oggi capitano dei carabinieri e per anni, da maresciallo e da tenente, il principale e più fidato collaboratore di Borsellino. Un'altra bruciante sconfitta per la Procura di Palermo, ai cui magistrati qualcuno dovrebbe cominciare a chiedere conto dei loro tragici errori. Non a chissà quale "trattativa", ma ai loro errori bisogna guardare per capire perché ancora non siamo arrivati alla verità sulle stragi di mafia. Qui la ricostruzione di Lino Jannuzzi per chi ne vuole sapere di più.
Monday, July 05, 2010
A proposito di eroi...
«Quando la "Giustizia" arriva a questi orrori, quando l'amministrazione della Giustizia può arrivare fino al punto di torturare e uccidere un uomo per costringerlo a testimoniare il falso, allora può anche succedere che il più infame dei mafiosi, al confronto dei suoi aguzzini, appaia come un "eroe"».
Tuesday, June 29, 2010
Più che una sentenza una pietra tombale
Quel «gradino» la Corte d'appello di Palermo non l'ha voluto salire. Anzi, quel «gradino» l'ha distrutto. Era stato il procuratore generale Nino Gatto, nella sua ultima requisitoria, a chiedere ai giudici una sentenza «gradino», tale da consentire di salirne altri per «accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese». Aveva richiamato i giudici ai loro «doveri», ammonendo che «qui è il potere che viene processato, un potere che ha tentato di condizionare e di sfuggire al processo». Ebbene, Dell'Utri è stato sì condannato a sette anni per l'evanescente reato di concorso esterno in associazione mafiosa (torneremo su questo), pena ridotta rispetto ai nove della sentenza di primo grado e ben lontana dagli undici chiesti dalla Procura, ma è stato assolto perché «il fatto non sussiste» riguardo la parte più scottante, le condotte successive al 1992, quelle che secondo i pm avrebbero dovuto provare la "trattativa" tra mafia e politica da cui scaturirono le stragi e il ruolo di Cosa Nostra nella nascita di Forza Italia. Non sussistono né la mediazione politico-mafiosa attraverso Mangano, né quella attraverso Graviano-Spatuzza. Se mai un "terzo livello" c'è stato, se mai c'è stato un patto tra Stato e mafia, Dell'Utri - e Berlusconi - non c'entrano nulla.
Questa assoluzione è l'aspetto più rilevante e il pg se ne rende conto, non lo nasconde. Tutto il significato e la portata della sentenza di oggi sta proprio nella delusione della pubblica accusa. «Sono profondamente deluso», è stato infatti il primo commento del procuratore generale Gatto, «perché la parte relativa alla politica la ritengo quella in cui l'accusa era meglio fondata, più forte», la parte che definisce «addirittura più granitica» (rispetto a quella riguardante gli episodi estorsivi a danno di Berlusconi e Fininvest, su cui la condanna a Dell'Utri è stata confermata). Una sentenza «storica», ammette, «sebbene la Corte non abbia ritenuto di potere salire quel "gradino" necessario a leggere, secondo quanto avevo proposto, la stagione politica e la vicenda della trattativa». Vicenda che secondo la Corte «non sussiste». Adesso basta con i teoremi dei professionisti dell'antimafia, basta con la "trattativa", con l'"Entità", con il fantomatico "terzo livello", o comunque lo si voglia chiamare. Basta con gli Spatuzza, basta con gli Ingroia, i Grasso, basta con i Santoro, i Travaglio, e basta con la Repubblica e con i "finiani" di supporto. Tutto è stato spazzato via e rispedito ai mittenti, i quali, ne siamo certi, non demorderanno privi come sono di senso del ridicolo.
Venendo alla condanna, il concorso esterno si riferisce a quelle che in realtà sarebbero azioni estorsive a danno di Berlusconi e della Fininvest. E' bene ricordare, infatti, che Dell'Utri è stato condannato perché pagando il "pizzo" per garantire protezione personale a Berlusconi ed evitare danni alle antenne e alla Standa in Sicilia, ha «rafforzato» finanziariamente la mafia, e quindi concorso dall'esterno all'associazione mafiosa. Insomma, sarebbe l'unico che per aver pagato il "pizzo" per conto di Berlusconi e delle sue aziende (ammesso e non concesso che abbia davvero pagato), viene considerato complice invece che vittima della mafia. E' una sentenza, quindi, che anche sul lato della condanna, come altre assoluzioni celebri (vedi di recente quella di Mannino) getta un'ombra inquietante sul reato di "concorso esterno in asssociazione mafiosa", per il quale i condannati credo siano poche decine e nessun politico.
Questa assoluzione è l'aspetto più rilevante e il pg se ne rende conto, non lo nasconde. Tutto il significato e la portata della sentenza di oggi sta proprio nella delusione della pubblica accusa. «Sono profondamente deluso», è stato infatti il primo commento del procuratore generale Gatto, «perché la parte relativa alla politica la ritengo quella in cui l'accusa era meglio fondata, più forte», la parte che definisce «addirittura più granitica» (rispetto a quella riguardante gli episodi estorsivi a danno di Berlusconi e Fininvest, su cui la condanna a Dell'Utri è stata confermata). Una sentenza «storica», ammette, «sebbene la Corte non abbia ritenuto di potere salire quel "gradino" necessario a leggere, secondo quanto avevo proposto, la stagione politica e la vicenda della trattativa». Vicenda che secondo la Corte «non sussiste». Adesso basta con i teoremi dei professionisti dell'antimafia, basta con la "trattativa", con l'"Entità", con il fantomatico "terzo livello", o comunque lo si voglia chiamare. Basta con gli Spatuzza, basta con gli Ingroia, i Grasso, basta con i Santoro, i Travaglio, e basta con la Repubblica e con i "finiani" di supporto. Tutto è stato spazzato via e rispedito ai mittenti, i quali, ne siamo certi, non demorderanno privi come sono di senso del ridicolo.
Venendo alla condanna, il concorso esterno si riferisce a quelle che in realtà sarebbero azioni estorsive a danno di Berlusconi e della Fininvest. E' bene ricordare, infatti, che Dell'Utri è stato condannato perché pagando il "pizzo" per garantire protezione personale a Berlusconi ed evitare danni alle antenne e alla Standa in Sicilia, ha «rafforzato» finanziariamente la mafia, e quindi concorso dall'esterno all'associazione mafiosa. Insomma, sarebbe l'unico che per aver pagato il "pizzo" per conto di Berlusconi e delle sue aziende (ammesso e non concesso che abbia davvero pagato), viene considerato complice invece che vittima della mafia. E' una sentenza, quindi, che anche sul lato della condanna, come altre assoluzioni celebri (vedi di recente quella di Mannino) getta un'ombra inquietante sul reato di "concorso esterno in asssociazione mafiosa", per il quale i condannati credo siano poche decine e nessun politico.
Wednesday, June 16, 2010
Perché le Procure si sono mosse così tardi per Spatuzza?
Bene ha fatto il Viminale a non concedere a Spatuzza lo status di "pentito" e quindi a non ammetterlo al programma di protezione speciale disposto per i collaboratori di giustizia (mentre restano «le ordinarie misure di protezione ritenute adeguate al livello specifico di rischio segnalato»). Decisione non solo legittima, ma sacrosanta, visto che di tutta evidenza le tre procure - di Firenze, Caltanissetta e Palermo - che hanno avanzato la richiesta, lo hanno fatto in ragione delle dichiarazioni rese da Spatuzza ben oltre il limite dei 180 giorni previsto dalla legge. Per impedire il malcostume delle "dichiarazioni a rate" o "ad orologeria", infatti, la legge stabilisce che per essere ammesso al programma di protezione speciale, il "pentito" debba dichiarare non tutto quello che sa, ma almeno tutto quello di cui parlerà, una specie di sommario quindi, entro 180 giorni da quando ha espresso la disponibilità a collaborare. Abbondantemente al di fuori di quanto riferito entro i 180 giorni, quando addirittura escluse coinvolgimenti di politici nelle stragi del '92-'93, sono le successive rivelazioni di Spatuzza sul presunto "patto" tra Stato e mafia che coinvolgerebbe Dell'Utri e Berlusconi.
Per le tre procure richiedenti - ma ancora per nessun giudice - Spatuzza resta «attendibile», ma viene allora da chiedersi come mai non abbiano avanzato prima al Ministero la richiesta di inserirlo nel programma, cioè fin da quando - dal 26 giugno del 2008 - iniziò a parlare della strage di Via D'Amelio. Da quel momento, e per i sei mesi successivi, la richiesta sarebbe stata certamente accolta. Perché tanto scandalo ora, se sono sembrati gli stessi procuratori i primi a non credergli? Il sospetto è che l'abbiano cominciato a ritenere «attendibile» solo quando ha chiamato in causa Dell'Utri e Berlusconi. E' bene ricordare, inoltre, che l'esclusione dal programma dei "pentiti" è un provvedimento meramente amministrativo, spetta comunque ai giudici valutare nel merito l'attendibilità dei racconti.
Per le tre procure richiedenti - ma ancora per nessun giudice - Spatuzza resta «attendibile», ma viene allora da chiedersi come mai non abbiano avanzato prima al Ministero la richiesta di inserirlo nel programma, cioè fin da quando - dal 26 giugno del 2008 - iniziò a parlare della strage di Via D'Amelio. Da quel momento, e per i sei mesi successivi, la richiesta sarebbe stata certamente accolta. Perché tanto scandalo ora, se sono sembrati gli stessi procuratori i primi a non credergli? Il sospetto è che l'abbiano cominciato a ritenere «attendibile» solo quando ha chiamato in causa Dell'Utri e Berlusconi. E' bene ricordare, inoltre, che l'esclusione dal programma dei "pentiti" è un provvedimento meramente amministrativo, spetta comunque ai giudici valutare nel merito l'attendibilità dei racconti.
Thursday, February 25, 2010
Rischio nuovi cedimenti
Le iniziative giudiziarie delle ultime settimane, unite alla solita ondata di limacciose intercettazioni - quelle che hanno coinvolto Balducci (figura trasversale degli appalti pubblici), Bertolaso e Verdini (su cui gli elementi emersi sono debolissimi), poi Scaglia (per il quale sembra valere il teorema "non poteva non sapere") e il senatore Di Girolamo (semi-sconosciuto e già scaricato dal Pdl), ma anche amministratori locali di diverso colore politico - non sembrano di per sé prefigurare una nuova Tangentopoli, né minacciare il consenso del governo e di Berlusconi. Eppure, la politica è sulla difensiva, c'è la corsa a farsi vedere dalla parte dei "moralizzatori". La questione morale, confinata fino ad oggi nell'Italia dei Valori, nella sinistra radicale e solo in parte nel Pd, viene ripresa anche a destra. E fa breccia, persino nel berlusconismo, il tema dell'incandidabilità. Un clima - in questo sì simile a quello di Tangentopoli - che rischia di produrre nuovi cedimenti della politica nei confronti della magistratura.
Si stabilisca per legge l'incandidabilità dei condannati in via definitiva, si sente invocare da più parti [va ricordato che già oggi le sentenze di condanna per i reati di corruzione possono includere - e nella maggior parte dei casi la includono - la pena accessoria dell'esclusione dall'elettorato passivo. E' il giudice a stabilirlo]. D'Alema ha provato ad andare oltre, chiedendosi se sia davvero necessario aspettare sentenze passate in giudicato. Lo stesso Berlusconi, e Fini, ritengono di "buon senso" che obbedendo a una sorta di codice etico interno i partiti si impegnino a non candidare indagati o rinviati a giudizio.
Dovrebbe essere quasi scontato in un Paese normale, ma non dimentichiamoci che il problema della magistratura politicizzata non si è improvvisamente dissolto. E il paradosso è che mentre si discute di riforme in grado di riequilibrare i rapporti tra politica e giustizia, saltati dall'abolizione dell'immunità parlamentare sull'onda di Tangentopoli, il rischio è di fare passi nella direzione opposta, concedendo spazi di manovra ancora più ampi ai magistrati politicizzati. Basti l'esempio dell'approvazione in prima lettura alla Camera di una legge che prevede il carcere per il candidato che si avvalga della propaganda di un "sorvegliato speciale" e di "voti mafiosi". Una legge molto scivolosa, come spiega Pecorella.
Si pone certamente un problema di selezione e reclutamento della classe politica, ma non va risolto a colpi di leggi-manifesto e di campagne moralizzatrici. Riguardo l'opacità delle relazioni fra gruppi di affari e personale politico, Angelo Panebianco fa notare, oggi sul Corriere della Sera, che «le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche». E comunque l'architrave del "sistema gelatinoso" è «l'economia parassitaria» (che cioè vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese, ma non solo.
Un altro esempio di reazione schizofrenica della politica è quando si denunciano clientelismi e sostegni mafiosi e poi si sostiene il ritorno alle preferenze. Meglio il collegio uninominale, che non è del tutto al riparo dai quei fenomeni, ma quanto meno consente alla stampa e all'opinione pubblica di esercitare uno "screening" più accurato sui candidati, essendo questi ridotti a due (massimo tre) per collegio.
Il rischio è che tutto si riduca a nuovi esiziali cedimenti della politica alla magistratura politicizzata. L'impegno da parte dei partiti a non candidare indagati o rinviati a giudizio, o una legge che sancisca l'incandidabiltà dei condannati, possono alimentare l'appetito di protagonismo di certi magistrati dal grilletto facile, mettersi nelle mani di certe procure, concedergli un vero e proprio diritto al vaglio delle candidature, un po' come il controllo esercitato sui candidati dal Consiglio dei guardiani in Iran. Attenzione.
Si stabilisca per legge l'incandidabilità dei condannati in via definitiva, si sente invocare da più parti [va ricordato che già oggi le sentenze di condanna per i reati di corruzione possono includere - e nella maggior parte dei casi la includono - la pena accessoria dell'esclusione dall'elettorato passivo. E' il giudice a stabilirlo]. D'Alema ha provato ad andare oltre, chiedendosi se sia davvero necessario aspettare sentenze passate in giudicato. Lo stesso Berlusconi, e Fini, ritengono di "buon senso" che obbedendo a una sorta di codice etico interno i partiti si impegnino a non candidare indagati o rinviati a giudizio.
Dovrebbe essere quasi scontato in un Paese normale, ma non dimentichiamoci che il problema della magistratura politicizzata non si è improvvisamente dissolto. E il paradosso è che mentre si discute di riforme in grado di riequilibrare i rapporti tra politica e giustizia, saltati dall'abolizione dell'immunità parlamentare sull'onda di Tangentopoli, il rischio è di fare passi nella direzione opposta, concedendo spazi di manovra ancora più ampi ai magistrati politicizzati. Basti l'esempio dell'approvazione in prima lettura alla Camera di una legge che prevede il carcere per il candidato che si avvalga della propaganda di un "sorvegliato speciale" e di "voti mafiosi". Una legge molto scivolosa, come spiega Pecorella.
Si pone certamente un problema di selezione e reclutamento della classe politica, ma non va risolto a colpi di leggi-manifesto e di campagne moralizzatrici. Riguardo l'opacità delle relazioni fra gruppi di affari e personale politico, Angelo Panebianco fa notare, oggi sul Corriere della Sera, che «le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche». E comunque l'architrave del "sistema gelatinoso" è «l'economia parassitaria» (che cioè vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese, ma non solo.
Un altro esempio di reazione schizofrenica della politica è quando si denunciano clientelismi e sostegni mafiosi e poi si sostiene il ritorno alle preferenze. Meglio il collegio uninominale, che non è del tutto al riparo dai quei fenomeni, ma quanto meno consente alla stampa e all'opinione pubblica di esercitare uno "screening" più accurato sui candidati, essendo questi ridotti a due (massimo tre) per collegio.
Il rischio è che tutto si riduca a nuovi esiziali cedimenti della politica alla magistratura politicizzata. L'impegno da parte dei partiti a non candidare indagati o rinviati a giudizio, o una legge che sancisca l'incandidabiltà dei condannati, possono alimentare l'appetito di protagonismo di certi magistrati dal grilletto facile, mettersi nelle mani di certe procure, concedergli un vero e proprio diritto al vaglio delle candidature, un po' come il controllo esercitato sui candidati dal Consiglio dei guardiani in Iran. Attenzione.
Tuesday, January 12, 2010
Modello Rosarno, Calabria. Modello Sud, Italia
Mentre i cittadini di Rosarno scendono in piazza per contrastare "l'immagine di una città xenofoba, mafiosa e razzista veicolata dai mass media nazionali e da qualche esponente della politica e dell'associazionismo a livello regionale e nazionale", il formidabile reportage di Giuseppe Salvaggiulo, per La Stampa, fa chiarezza come neanche una commissione d'inchiesta avrebbe potuto sui veri motivi alla base degli scontri dei giorni scorsi tra immigrati africani e residenti. In testa al corteo di ieri pomeriggio uno striscione piangeva: "Abbandonati dallo Stato, criminalizzati dai mass media, 20 anni di convivenza non sono razzismo". Abbandonati, ma anche assistiti, come documenta Salvaggiulo raccontando il «miracolo» delle «arance di carta».
«Le arance si moltiplicavano, ma solo sulle fatture, per gonfiare i rimborsi» europei. Un business che «ingolosiva politica e cosche». «Grazie alle "arance di carta" come qui le chiamano - scrive Salvaggiulo - prosperavano anche tanti magazzini e industrie di trasformazione, che davano lavoro a 1.000-1.500 rosarnesi. Altri 2.000-2.500 campavano con un diverso stratagemma. L'Inps garantisce un sussidio ai braccianti disoccupati, purché abbiano lavorato almeno 102 giorni nell'ultimo biennio. In caso di calamità, bastano solo 5 giorni. Dieci anni fa, c'erano tremila rosarnesi iscritti come braccianti disoccupati. In un terzo dei casi le assunzioni erano fittizie e servivano a riscuotere gli assegni statali: bastava un'autocertificazione e ogni anno piovevano 8 milioni di euro divisi in 2.500 persone, circa 3 mila euro a testa. Anche in questo caso - spiega il corrispondente de La Stampa - il sistema si reggeva su una truffa. I contributi previdenziali non venivano versati, i finti braccianti facevano un altro lavoro e in campagna ci andavano gli immigrati, che costano la metà. Arance di carta e sussidi europei, lavoro di carta e assegni Inps, tremila pensionati e mille impiegati pubblici: così si sosteneva l'economia di Rosarno».
Un sistema che tuttavia negli ultimi anni ha ceduto. «La stretta dell'Inps ha ridotto i braccianti disoccupati a 1.200 e i relativi assegni da 8 a 2 milioni l'anno. E l'escalation delle truffe sui contributi ai produttori ha messo in allarme l'Ue». Prima gli arresti e poi sono cambiate le regole europee: «Oggi i rimborsi arrivano a forfait: 1.500 euro a ettaro a prescindere dalla produzione». Sparite le «arance di carta», crollati il prezzo di vendita e gli incassi, oggi i contadini lasciano le arance sugli alberi e Rosarno, «che fino a due anni fa aveva bisogno nei campi di 1.800 immigrati clandestini, oggi ne richiede solo alcune centinaia».
Ma siccome «bulgari e romeni, cittadini europei, sono più appetibili degli africani», «i mille neri degli accampamenti sono rimasti senza lavoro». Ecco perché la tensione è esplosa. Ed ecco perché - se lo chiedeva ieri Ferrara, in realtà conoscendo bene la risposta - queste cose accadono in Calabria e «non nel Veneto gretto, piccolo borghese, minimprenditoriale, piastrellaro, razzista, xenofobo, leghista». Solo dopo che è scoppiato il casino e sono finiti in tv e sui giornali - e non prima - i cittadini onesti di Rosarno si ribellano. Più onorevole la scelta dei loro concittadini che si sono ribellati a tutto questo fuggendo al Nord o all'estero.
«Le arance si moltiplicavano, ma solo sulle fatture, per gonfiare i rimborsi» europei. Un business che «ingolosiva politica e cosche». «Grazie alle "arance di carta" come qui le chiamano - scrive Salvaggiulo - prosperavano anche tanti magazzini e industrie di trasformazione, che davano lavoro a 1.000-1.500 rosarnesi. Altri 2.000-2.500 campavano con un diverso stratagemma. L'Inps garantisce un sussidio ai braccianti disoccupati, purché abbiano lavorato almeno 102 giorni nell'ultimo biennio. In caso di calamità, bastano solo 5 giorni. Dieci anni fa, c'erano tremila rosarnesi iscritti come braccianti disoccupati. In un terzo dei casi le assunzioni erano fittizie e servivano a riscuotere gli assegni statali: bastava un'autocertificazione e ogni anno piovevano 8 milioni di euro divisi in 2.500 persone, circa 3 mila euro a testa. Anche in questo caso - spiega il corrispondente de La Stampa - il sistema si reggeva su una truffa. I contributi previdenziali non venivano versati, i finti braccianti facevano un altro lavoro e in campagna ci andavano gli immigrati, che costano la metà. Arance di carta e sussidi europei, lavoro di carta e assegni Inps, tremila pensionati e mille impiegati pubblici: così si sosteneva l'economia di Rosarno».
Un sistema che tuttavia negli ultimi anni ha ceduto. «La stretta dell'Inps ha ridotto i braccianti disoccupati a 1.200 e i relativi assegni da 8 a 2 milioni l'anno. E l'escalation delle truffe sui contributi ai produttori ha messo in allarme l'Ue». Prima gli arresti e poi sono cambiate le regole europee: «Oggi i rimborsi arrivano a forfait: 1.500 euro a ettaro a prescindere dalla produzione». Sparite le «arance di carta», crollati il prezzo di vendita e gli incassi, oggi i contadini lasciano le arance sugli alberi e Rosarno, «che fino a due anni fa aveva bisogno nei campi di 1.800 immigrati clandestini, oggi ne richiede solo alcune centinaia».
Ma siccome «bulgari e romeni, cittadini europei, sono più appetibili degli africani», «i mille neri degli accampamenti sono rimasti senza lavoro». Ecco perché la tensione è esplosa. Ed ecco perché - se lo chiedeva ieri Ferrara, in realtà conoscendo bene la risposta - queste cose accadono in Calabria e «non nel Veneto gretto, piccolo borghese, minimprenditoriale, piastrellaro, razzista, xenofobo, leghista». Solo dopo che è scoppiato il casino e sono finiti in tv e sui giornali - e non prima - i cittadini onesti di Rosarno si ribellano. Più onorevole la scelta dei loro concittadini che si sono ribellati a tutto questo fuggendo al Nord o all'estero.
Tuesday, November 17, 2009
Commissariare la democrazia? Si può, secondo Ingroia e Scarpinato
Su il Velino
«Quella di Palermo è una procura normale, o una sorta di tribunale supremo della rivoluzione giudiziaria permanente?». Se lo chiede oggi Maurizio Crippa su Il Foglio. Purtroppo non è un interrogativo retorico o capzioso, considerando certe tesi, recenti e passate, di alcuni suoi procuratori e i processi che hanno condotto o stanno conducendo. In un recente convegno organizzato dall'Italia dei Valori, il procuratore aggiunto di Palermo Antono Ingroia ha attaccato le annunciate riforme del governo in materia di giustizia, sostenendo che nel nostro Paese c'è «un'emergenza democratica», che da decenni l'Italia sarebbe governata da chi fa affari con la mafia, da chi ha gli stessi obiettivi della mafia, cerca l'impunità come la mafia e vuole abbattere lo stato di diritto, depotenziando i pm con leggi come quella sulle intercettazioni, e che contro tutto questo occorra «ribaltare il corso degli eventi». Una frase estrapolata dal suo contesto, si è difeso il pm.
Ma è lo stesso Ingroia che insieme ad un altro procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato (il pm del processo a Giulio Andreotti), firmava un articolo dal titolo "Un programma per la lotta alla mafia", pubblicato sulla rivista MicroMega n. 1/2003 (numero che raccoglieva in tutti gli ambiti programmi di governo alternativi al governo Berlusconi), in cui sosteneva la necessità di «un'istanza politica superiore» che in determinate circostanze - di «collegamenti» con la mafia, o «condizionamento» da parte di essa, di elementi di un governo eletto - avesse il compito «di sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza».
LEGGI TUTTO
P.S. Significative - e inquietanti - anche le tesi espresse più di recente in questo convegno organizzato da Magistratura Democratica.
«Quella di Palermo è una procura normale, o una sorta di tribunale supremo della rivoluzione giudiziaria permanente?». Se lo chiede oggi Maurizio Crippa su Il Foglio. Purtroppo non è un interrogativo retorico o capzioso, considerando certe tesi, recenti e passate, di alcuni suoi procuratori e i processi che hanno condotto o stanno conducendo. In un recente convegno organizzato dall'Italia dei Valori, il procuratore aggiunto di Palermo Antono Ingroia ha attaccato le annunciate riforme del governo in materia di giustizia, sostenendo che nel nostro Paese c'è «un'emergenza democratica», che da decenni l'Italia sarebbe governata da chi fa affari con la mafia, da chi ha gli stessi obiettivi della mafia, cerca l'impunità come la mafia e vuole abbattere lo stato di diritto, depotenziando i pm con leggi come quella sulle intercettazioni, e che contro tutto questo occorra «ribaltare il corso degli eventi». Una frase estrapolata dal suo contesto, si è difeso il pm.
Ma è lo stesso Ingroia che insieme ad un altro procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato (il pm del processo a Giulio Andreotti), firmava un articolo dal titolo "Un programma per la lotta alla mafia", pubblicato sulla rivista MicroMega n. 1/2003 (numero che raccoglieva in tutti gli ambiti programmi di governo alternativi al governo Berlusconi), in cui sosteneva la necessità di «un'istanza politica superiore» che in determinate circostanze - di «collegamenti» con la mafia, o «condizionamento» da parte di essa, di elementi di un governo eletto - avesse il compito «di sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza».
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P.S. Significative - e inquietanti - anche le tesi espresse più di recente in questo convegno organizzato da Magistratura Democratica.
Friday, September 11, 2009
Lotta al mercatismo e mafia, così Fini va a sbattere
E' stato molto deludente il discorso di Fini ieri a Gubbio. Un Fini interessato davvero ad un fertile dibattito interno, avrebbe lanciato un paio di temi su cui a suo avviso è carente la riflessione all'interno del partito e del governo (che so, l'immigrazione o la bioetica, le riforme istituzionali o la vita interna al partito), avrebbe approfondito per bene quelli, anche scontrandosi con le visioni a lui contrapposte. E invece no. Ha toccato un'infinità di argomenti, ma superficialmente, senza approfondirli davvero, inanellando una serie di slogan provocatori e avvalorando così il sospetto che voglia solo concorrere con altri a demolire la leadership di Berlusconi, in un modo che ricorda fin troppo da vicino l'azione di logoramento portata avanti nella legislatura 2001-2006 dall'Udc di Casini e Follini (e per la verità, almeno in parte anche da lui stesso).
C'è un'espressione usata ieri da Fini che più di tutte richiama il lavorio di chi, all'interno di una coalizione, si sente insoddisfatto degli equilibri di potere e strattona per cambiarli: «Cambio di marcia». Quante volte l'abbiamo sentito invocare da un Casini o da un Follini, ma anche all'interno di quell'armata brancaleone che fu l'Unione prodiana?
Va bene tutto. Invocare più democrazia interna, più dibattito. Sono in molti a ritenere a ragione che nel Pdl ci sia bisogno di più democrazia e dibattito interno. Sull'immigrazione e il biotestamento, come ho già detto, sono contento dei ripensamenti di Fini. Ma neanche la politica economica del governo, stando a quello che ha detto ieri a Gubbio, gli sta bene. Però non la vorrebbe più liberale. Altro che leader di una destra aperta e moderna! La vorrebbe più "sociale", avrebbe voluto nelle finanziarie più spesa pubblica, proprio come Bersani, che rimprovera al governo di non aver fatto abbastanza perché non ha distribuito «soldi veri».
Fini - mi auguro che se ne siano accorti i miei amici liberali che in lui credono di aver trovato una voce che li rappresenti - ha definito «geniale» l'intuizione della «lotta al mercatismo», ma poi ha accusato Tremonti di non fare abbastanza: «Bisogna tradurla» e «non credo che l'ultima Finanziaria sia stata un esempio di lotta alle degenerazioni del mercato», ha aggiunto. E sembrava proprio Bersani quando ha in pratica accusato il governo di negare la crisi, e quando ha lamentato che «nell'ultima Finanziaria c'è ben poco di politiche autenticamente di solidarietà sociale».
Ma dove Fini è scivolato di brutto è in quel passaggio sulle stragi di mafia. O è un ingenuo irresponsabile, o davvero ha deciso di partecipare all'ennesima campagna giornalistico-giudiziaria che si sta preparando contro il premier. Ma quali «elementi nuovi»? Rimproverando al Pdl di dare l'impressione di temere l'accertamento della «verità», Fini finge di non sapere che si tratta dei soliti magistrati militanti, come Ingroia e Scarpinato, che cercano di rimestare tra i rifiuti dei pentiti per riesumare vecchi teoremi politici contro Berlusconi. Ed è grave sia che non lo abbia capito, sia che finga. Si leggesse piuttosto il commento di oggi di Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera. Forse si è reso conto di averla sparata grossa e con le dichiarazioni di stamattina Fini è sembrato voler correggere il tiro.
C'è un'espressione usata ieri da Fini che più di tutte richiama il lavorio di chi, all'interno di una coalizione, si sente insoddisfatto degli equilibri di potere e strattona per cambiarli: «Cambio di marcia». Quante volte l'abbiamo sentito invocare da un Casini o da un Follini, ma anche all'interno di quell'armata brancaleone che fu l'Unione prodiana?
Va bene tutto. Invocare più democrazia interna, più dibattito. Sono in molti a ritenere a ragione che nel Pdl ci sia bisogno di più democrazia e dibattito interno. Sull'immigrazione e il biotestamento, come ho già detto, sono contento dei ripensamenti di Fini. Ma neanche la politica economica del governo, stando a quello che ha detto ieri a Gubbio, gli sta bene. Però non la vorrebbe più liberale. Altro che leader di una destra aperta e moderna! La vorrebbe più "sociale", avrebbe voluto nelle finanziarie più spesa pubblica, proprio come Bersani, che rimprovera al governo di non aver fatto abbastanza perché non ha distribuito «soldi veri».
Fini - mi auguro che se ne siano accorti i miei amici liberali che in lui credono di aver trovato una voce che li rappresenti - ha definito «geniale» l'intuizione della «lotta al mercatismo», ma poi ha accusato Tremonti di non fare abbastanza: «Bisogna tradurla» e «non credo che l'ultima Finanziaria sia stata un esempio di lotta alle degenerazioni del mercato», ha aggiunto. E sembrava proprio Bersani quando ha in pratica accusato il governo di negare la crisi, e quando ha lamentato che «nell'ultima Finanziaria c'è ben poco di politiche autenticamente di solidarietà sociale».
Ma dove Fini è scivolato di brutto è in quel passaggio sulle stragi di mafia. O è un ingenuo irresponsabile, o davvero ha deciso di partecipare all'ennesima campagna giornalistico-giudiziaria che si sta preparando contro il premier. Ma quali «elementi nuovi»? Rimproverando al Pdl di dare l'impressione di temere l'accertamento della «verità», Fini finge di non sapere che si tratta dei soliti magistrati militanti, come Ingroia e Scarpinato, che cercano di rimestare tra i rifiuti dei pentiti per riesumare vecchi teoremi politici contro Berlusconi. Ed è grave sia che non lo abbia capito, sia che finga. Si leggesse piuttosto il commento di oggi di Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera. Forse si è reso conto di averla sparata grossa e con le dichiarazioni di stamattina Fini è sembrato voler correggere il tiro.
Wednesday, September 24, 2008
Tra Stato e camorra guerra o convivenza
Anche se non ha ancora compiuto il passetto decisivo, sono d'accordo più con Maroni che con La Russa. E' comprensibile il timore del ministro La Russa: parlando di «guerra civile» si concede un'«importanza extracriminale» alla camorra, quasi le si riconosce lo status di "controparte" rispetto allo Stato, quello status che le stesse Br agognavano.
Non è un problema di potenza della camorra, ma di inefficienza e mancanza di volontà da parte dello Stato. Nel senso che per mettere una pietra definitiva sopra al fenomeno mafioso in Italia ci vorrebbe un bel po' di risoluto uso della forza, più che dei tribunali. Il guaio è che la violenza ha un alto prezzo politico, anche se usata per stroncare un fenomeno criminale che mina alla base ogni sforzo di sviluppo di mezza Italia.
Anche se avrei usato più l'espressione "guerra insurrezionale" che «guerra civile», mi pare che Maroni abbia capito che è lo Stato ad essere minacciato dalla camorra, che non è semplice criminalità. La «guerra tra bande» di cui parla La Russa costituisce in realtà un attacco all'autorità dello Stato, il cui esito finale non sta solo nella conquista da parte di una delle bande del «monopolio della criminalità sul territorio», ma anche nell'instaurazione, o nella riaffermazione, della "legalità" camorristica al posto di quella dello Stato.
Insomma, non è una «guerra civile», ma Maroni ha capito che ad uscirne sconfitto è lo Stato, non questa o quella banda. Non solo l'eccidio di Castel Volturno è stato un «atto di terrorismo», le mafie compiono di continuo atti di terrorismo volti a far comprendere alla popolazione nella quale operano chi è che comanda e chi esercita il potere sul territorio. Per la sfida diretta che la "legalità" camorristica porta alla legalità delle istituzioni democratiche, alla sovranità stessa dello Stato sul territorio, le cosche mafiose andrebbero affrontate con lo stesso spirito e con gli stessi metodi usati contro i gruppi insurrezionali e terroristici in Iraq - sebbene non così feroci (?) e mosse non da un'ideologia politico-religiosa.
Possiamo decidere di non volere che lo Stato raggiunga tali livelli di uso della forza, ma allora dobbiamo abituarci a convivere con le mafie.
Non è un problema di potenza della camorra, ma di inefficienza e mancanza di volontà da parte dello Stato. Nel senso che per mettere una pietra definitiva sopra al fenomeno mafioso in Italia ci vorrebbe un bel po' di risoluto uso della forza, più che dei tribunali. Il guaio è che la violenza ha un alto prezzo politico, anche se usata per stroncare un fenomeno criminale che mina alla base ogni sforzo di sviluppo di mezza Italia.
Anche se avrei usato più l'espressione "guerra insurrezionale" che «guerra civile», mi pare che Maroni abbia capito che è lo Stato ad essere minacciato dalla camorra, che non è semplice criminalità. La «guerra tra bande» di cui parla La Russa costituisce in realtà un attacco all'autorità dello Stato, il cui esito finale non sta solo nella conquista da parte di una delle bande del «monopolio della criminalità sul territorio», ma anche nell'instaurazione, o nella riaffermazione, della "legalità" camorristica al posto di quella dello Stato.
Insomma, non è una «guerra civile», ma Maroni ha capito che ad uscirne sconfitto è lo Stato, non questa o quella banda. Non solo l'eccidio di Castel Volturno è stato un «atto di terrorismo», le mafie compiono di continuo atti di terrorismo volti a far comprendere alla popolazione nella quale operano chi è che comanda e chi esercita il potere sul territorio. Per la sfida diretta che la "legalità" camorristica porta alla legalità delle istituzioni democratiche, alla sovranità stessa dello Stato sul territorio, le cosche mafiose andrebbero affrontate con lo stesso spirito e con gli stessi metodi usati contro i gruppi insurrezionali e terroristici in Iraq - sebbene non così feroci (?) e mosse non da un'ideologia politico-religiosa.
Possiamo decidere di non volere che lo Stato raggiunga tali livelli di uso della forza, ma allora dobbiamo abituarci a convivere con le mafie.
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