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Friday, August 18, 2006

Summer Edition

Mi prendo qualche giorno di riposo. Vi lascio con una selezione di post delle ultime settimane. Nel frattempo, vi invito ad aderire subito all'iniziativa radicale per Israele nell'Unione europea.

Attacco al liberalismo. Da più fronti (18 agosto)
Le zone d'ombra della sicurezza (17 agosto)
L'unica medicina si chiama «individualismo» (16 agosto)
Berman, Ottolenghi, Lewis: la risposta al fascismo islamico (15 agosto)
Non c'è tempo da perdere: Israele subito nell'Ue (12 agosto)
Basta ipocrisie sui servizi segreti (11 agosto)
CVD. Si sono presi anche il nuovo Consiglio (11 agosto)
Aboliamolo! (11 agosto)
Una riforma americana dei rapporti fra stato e religione (11 agosto)
Non abbiamo appreso nulla dalla Sarajevo del 1914 e dalla Monaco del 1938? (10 agosto)
La vera natura della minaccia: i fascisti islamici (10 agosto)
Lieberman ha vinto, i Democratici hanno perso (9 agosto)
Di nuovo, il problema del 1933. Ma non vogliono capirlo (9 agosto)
Guerriglia mediatica (8 agosto)
Italiani si nasce e si diventa (7 agosto)
Rosa nel Pugno punto e a capo (6 agosto)
La strage di Cana, cast e regia di Hezbollah (4 agosto)
La guerra delle immagini (3 agosto)
La guerra contro fascismo e teocrazia è anche nostra (2 agosto)
E' l'Europa di Monaco. E' la Francia di Vichy (1 agosto)
Rosa nel Pugno. Oggetto e contesto della crisi (1 agosto)
La strage di Cana firmata Hezbollah (31 luglio)

D'Alema si rende conto di fare il gioco di Teheran?

Dopo l'intervista a L'Espresso, di cui ha ampiamente parlato oggi Il Foglio, le parole di D'Alema, questa mattina, alle commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato non lasciano dubbi: sbaglia analisi, come avevamo scritto riportando un articolo di Carlo Panella di qualche giorno fa.
«La crisi tra Libano e Israele deve essere considerata in un quadro più generale, in cui rimane cruciale il tema israelo-palestinese, che rimane senza dubbio il cuore della crisi mediorientale, cui occorre dare una risposta per disinnescare le ragioni del conflitto che potrebbe allargarsi ed estendersi».
Se la questione palestinese fosse davvero stata al centro di tutto, e non fosse, invece, da sempre strumento nelle mani delle politiche di potenza e aggressive delle tirannie del Medio Oriente, sarebbe stata da tempo risolta pacificamente. Il «cuore della crisi mediorientale», della violenza e del sottosviluppo di quel mondo, è la tirannia, un'ideologia totalitaria che si fonda su una versione oscurantista della religione islamica.
«Può apparire non semplice considerare che del governo libanese che noi vogliamo aiutare, che è sostenuto dall'Occidente e visto con simpatia dagli Usa, faccia parte Hezbollah, difficilmente liquidabile come un gruppo terroristico essendo un movimento ed essenzialmente un partito politico rappresentato in Parlamento e che chi va in Libano si trova ad incontrare».
Questo passaggio di D'Alema rivela l'idea che il ministro degli Esteri ha di Hezbollah e, quindi, della missione internazionale in Libano, di cui l'Italia farà parte. Come ha benissimo spiegato oggi Emanuele Ottolenghi, su Il Riformista, «senza disarmare Hezbollah e impedire il suo riarmo la missione non solo fallirebbe gli obiettivi imposti dalle risoluzioni Onu 1559, 1680 e 1701, ma finirebbe col fare delle nostre forze uno scudo difensivo per un'organizzazione terroristica che fa capo a Teheran».

Si rendono conto di questo, il ministro D'Alema e il Governo Prodi? «In questa situazione – ha detto un generale al ministro della Difesa Parisi – ha poco senso anche ottenere, ammesso che Kofi Annan lo sappia fare, regole d'ingaggio precise; se dobbiamo aiutare un esercito che però non esiste, rischiamo di mandare in Libano 3.500 ostaggi».

Dopo la passeggiata a Beirut a braccetto di uno dei parlamentari di Hezbollah, D'Alema ha chiarito che «il contingente italiano non disarmerà Hezbollah». Chiede Ottolenghi: «E' di questo che ha discusso con i parlamentari di Hezbollah durante quel tenero abbraccio? E' questo il prezzo che l'Italia paga ai terroristi per l'incolumità delle nostre truppe? O ci sono altre cambiali di cui scopriremo in seguito?»

In poche parole, la posizione dell'Italia (la forza internazionale, e quindi il contingente italiano, «non disarmerà Hezbollah») si spiega semplicemente con un codardo, quanto goffo, tentativo di star simpatici a Hezbollah per tutelare le nostre truppe da possibili attentati, o c'è qualcosa di più? Ci è difficile credere che il qualcosa di più sia inconsapevole. Per questo ci inquieta il sospetto che con la sua politica estera D'Alema finisca per far sostenere all'Italia le ambizioni iraniane e siriane di controllo del Libano.

Se infatti il significato che a Roma si dà della missione Onu è «l'integrazione di Hezbollah nella forza armata libanese», allora si dev'essere consapevoli che si sta consegnando il Libano nelle mani di Ahmadinejad.

Da parte sua, in questa situazione, il centrodestra dovrebbe essere così bravo da non cedere all'isolazionismo, mettendo in discussione il "sì" alla missione, ma senza fare sconti sul suo mandato, la catena di comando, le regole d'ingaggio, e soprattutto sulla politica estera italiana, che volutamente o no rischia di diventare un asso nella manica degli ayatollah a Teheran.

Non toccherà all'Onu disarmare Hezbollah, ma al Governo libanese. E' la posizione, di suo già molto discutibile e poco comprensibile, espressa anche a Washington, che "copre" la posizione di Prodi sulla missione italiana. Però attenzione: compito della forza internazionale non sarà quello di andare materialmente a togliere le armi dalle mani di Hezbollah, ma - non giochiamo con le parole - di far rispettare la risoluzione 1701 dell'Onu e quelle cui si richiama, tra cui la 1559, quindi di garantire concretamente il disarmo di Hezbollah. Se l'obiettivo della forza internazionale è l'attuazione delle risoluzioni, il disarmo di Hezbollah dev'essere in qualche modo conseguito.

Attacco al liberalismo. Da più fronti

Il liberalismo occidentale potrebbe avere lo stesso destino del marxismo. Non sono parole di Wojtyla, che dopo la caduta del comunismo in Europa ha concentrato la sua azione critica nei confronti del consumismo, del capitalismo e degli stili di vita dell'Occidente liberale. Né sono le parole di Papa Ratzinger, che sta proseguendo ancora più energicamente su quella via, contro «la dittatura del relativismo». Ma potrebbero esserlo di entrambi.

Si tratta, invece, dell'ultima "lucida" analisi di Ahmadinejad, che trova più di una sponda in Vaticano: «Abbiamo visto cosa è accaduto al marxismo e ora vediamo costa sta accadendo al liberalismo occidentale. Quello che accade in Libano indica la fine delle potenze politiche che si muovono fuori delle ideologie religiose e rende chiaro che in futuro saremo testimoni dell'aumento della tendenza verso la spiritualità da parte della gente», ha detto in un discorso all'Università di Teheran (AdnKronos del 10 agosto, ore 18,35).

Un'analisi perfetta, in poche righe, di questa «guerra alla modernità», l'abbiamo letta su Formamentis:
Abbiamo capito che qui (nell'attuale congiuntura storica) si fa la guerra alla modernità, non tanto alla tecnica, ma alla sua invasività, che porta al mutamento delle strutture sociali, fino ad arrivare a quell'illuminismo drastico che conduce gli uomini alla promiscuità e al relativismo etico e morale. Quell'espressione, "il modo di vivere occidentale", significa questo. Noi diremo che è liberalismo, cioè cercare il massimo della libertà individuale nel rispetto delle libertà altrui, e promuovere una sostenibilità sociale del principio, sostenibilità negata fin da subito sia dal fondamentalismo che dal neoconservativismo cattolico. Il guaio della modernità è che comporta una certa crisi permanente dell'identità, un lasciarsi continuamente alle spalle l'idea di una tradizione, e piuttosto di perdere l'identità, e cadere nel travaglio permanente, qualcuno è disposto financo ad immolarsi (la paura della crisi genera mostri). Questa avversione alla modernità potrebbe essere l'ultimo banco di prova, o ne usciamo o soccombiamo, però almeno sapremo.
Due considerazioni. Quello di certi cattolici, ma direi più delle gerarchie vaticane, e dei "laici" devoti che cercano di strumentalizzare la religione a supporto della Tradizione, è più reazione che conservatorismo. Il conservatorismo è compatibile con la modernità. E' la tendenza d'animo non al rifiuto, ma alla cautela e alla riflessione su ciò che dal passato è utile portarsi dietro come bagaglio verso il futuro.

I fondamentalismi sanno di non poter fare a meno della tecnica, ma sono spaventati dal mutamento delle strutture sociali che provoca il suo libero uso. Per questo, propongono, e dove vi riescono se ne servono, sistemi politici totalitari con i quali prendono il monopolio dell'uso della tecnica e controllano, o s'illudono di contrallare, i mutamenti sociali.

Thursday, August 17, 2006

Le zone d'ombra della sicurezza

Nessuna misura d'emergenza, nessuna eccezionalità, nessun anacronistico stato di guerra. Ciascun potere e corpo dello Stato rispetti le proprie funzioni costituzionali: Governo e Parlamento esercitino la responsabilità politica della difesa

Giorni fa, all'indomani degli attacchi terroristici sventati a Londra, il Wall Street Journal scriveva che era «giunto il momento di riflettere sulle politiche che ci hanno protetto e su coloro che si sono costantemente opposti a queste politiche». Negli Stati Uniti il dibattito su sicurezza nazionale e stato di diritto non s'è fermato un attimo dal settembre 2001, mentre in Italia non è mai davvero cominciato. Per lo meno mai seriamente, in modo approfondito e trasparente, ma solo a colpi di iniziative giudiziarie e ipocrite dichiarazioni di principio.

Anche qui da noi, tuttavia, coloro che affermano che la guerra al terrorismo dev'essere combattuta non con le bombe, ma con gli strumenti dell'intelligence, al dunque cercano di limitare anche quegli strumenti, sospettando persino la sola "collaborazione" con i servizi di uno dei principali nostri alleati, gli Stati Uniti, scordandosi che le garanzie ordinarie che pongono dei limiti alla sorveglianza e alla detenzione sono molto minori qui in Europa, per esempio in Francia e in Italia, che negli Usa.

Angelo Panebianco, con un primo editoriale, del 13 agosto, ha scosso dal torpore qualche anima candida. E' ingenuo «credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche». Ha quindi individuato, oltre alla categoria del «nemico interno», coloro che di fatto parteggiano per i jihadisti, la categoria dei «neofiti della legalità», contrapposti ai «liberali di antica data», che «hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale».

Panebianco s'è incaricato di affrontare un argomento taciuto, un vero e proprio tabù nell'Europa pacifica e del benessere dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, ma da sempre molto studiato dai filosofi politici: lo stato di guerra e la sua eccezionalità.

«Accettare tacitamente un compromesso fra stato di diritto e esigenze della sicurezza nazionale» vuol dire «salvaguardare le regole e le procedure dello stato di diritto, contemporaneamente accettando l'esistenza di una "zona grigia", al confine fra legalità e illegalità, in cui gli operatori della sicurezza siano messi in condizioni di agire. Ci sono "ambiti riservati" davanti ai quali lo stato di diritto si arresta, non entra, se non, e solo in casi eccezionali, con la massima cautela».

Panebianco non s'illude che non esistano «rischi di degenerazioni». Ve ne sono. Ma proprio la delicatezza di tracciare una linea di confine, mantenere un equilibrio, richiedono grande «vigilanza e responsabilità politica». La politica, ai suoi massimi livelli, deve svolgere la funzione di controllo per «impedire le sempre possibili degenerazioni». Come dicevamo in un precedente post, perseguire i reati spetta alla magistratura, la difesa nazionale al Governo, controllato dal Parlamento. Non vedo in questo nessuna esigenza di misure d'emergenza, nessuna eccezionalità, nessun anacronistico "stato di guerra". Mi accontenterei del semplice rispetto delle proprie funzioni costituzionali da parte di ciascun potere e corpo dello Stato.

L'operato dei servizi di sicurezza, proprio perché segreto, ai confini della legalità (e qualche volta oltre), è sottoposto al controllo della suprema autorità politica di una democrazia: l'assemblea rappresentativa. E il Governo è responsabile di fronte al Parlamento dell'uso che fa dei servizi.

La cosa sorprendente dell'inchiesta sulla cattura dell'imam Abu Omar non è tanto, o non solo, una magistratura che conduce una battaglia ideologica e cerca di condizionare la politica estera e di sicurezza del paese, ma è proprio la politica (di destra e di sinistra) che non reagisce, che non si rende conto dell'invasione della magistratura in un campo che non le compete: la difesa nazionale.

Se vi suonano sospette le parole di Panebianco o Ferrara, ascoltate il filosofo liberal Michael Walzer, che sottolinea l'importanza di un dibattito pubblico e, infine, di una decisione politica, e difende il Patriot Act voluto da Bush e dal Congresso Usa: un tentativo, forse imperfetto, di dotarsi di regole adeguate alla lotta al terrorismo, ma di certo non un attacco alle libertà civili.

Panebianco sottoscrive parola per parola la risposta data giorni fa da Emma Bonino all'Unità su eventuali operazioni di sicurezza che sconfinino nell'illegalità: «Sono scelte politiche di riduzione del danno di cui ci si assume la responsabilità politica di volta in volta e di cui, magari, non si deve andare fieri. Scelte che si fanno di giorno in giorno e dipendono dal contesto. Non mi scandalizza, anche se si può sbagliare».

Se da una parte, infatti, ci sono da considerare «le sempre possibili degenerazioni», da evitare con il controllo e la responsabilità politica ai massimi livelli, dall'altra non si deve scordare che è proprio indebolendo la democrazia in uno dei compiti per cui si giustifica l'esistenza dello Stato, la difesa della comunità, che prima o poi, per reazione della maggior parte dei cittadini, si finisce «dritto filato verso soluzioni autoritarie».

Wednesday, August 16, 2006

L'unica medicina si chiama «individualismo»

Un'intera generazione rischia di sparire in un enorme buco nero. La «guerra dei talenti» è l'unica soluzione, e la più equa

L'Italia non è un paese «fondato sul lavoro», come dice la nostra Costituzione al primo articolo. E' fondato su una struttura sociale e politica di tipo familistico-corporativo.

Quello della società civile non è che un mito, scrive sul Corriere Ernesto Galli Della Loggia. Se possibile, la società civile è persino peggiore della classe politica. La «vera specificità negativa dell'Italia» è il peso delle corporazioni.
«Si è visto che quella assenza di società civile che tutta la nostra tradizione si è abituata a lamentare è un'assenza sì, ma a cui corrisponde un formidabile pieno: il pieno delle corporazioni. È questa la vera specificità negativa dell'Italia e della sua secolare vicenda, il peso enorme che da noi hanno tutte le associazioni particolari, dalla famiglia alle molte altre che, a scala sempre maggiore, ne riproducono patologicamente alcuni meccanismi: il carattere originario e obbligatorio del vincolo, il mutuo soccorso sperato e assicurato, la inevitabile limitatezza degli orizzonti. La famiglia (termine non a caso fatto proprio dalla massima associazione criminale del paese), il clan, la comitiva, l'ordine, la corporazione, e poi, e insieme, tutto ciò che ha sapore di "parte", che ha radici nel "locale", nel "paese", negli "amici", nelle cose "di casa": sono questi da secoli i pilastri poderosissimi intorno ai quali si è costruita la società italiana...»
Quei «pilastri» rischiano di soffocare la nostra società. Quale rimedio? L'unica terapia prevede massicce dosi di merito individuale e di sano conflitto sociale e politico.

Un'intera generazione non può più aspettare. Se non verranno per tempo introdotte le riforme e le liberalizzazioni necessarie, in grado di valorizzare il talento individuale, la generazione fra i 30 e i 40 anni d'età rischia di sparire in un enorme buco nero.

Si tratta di quella generazione, certamente la più strategica per il futuro del nostro paese, che oggi vive in «una sorta di area di parcheggio, un limbo». Ha un lavoro, spesso precario, ma non sbocchi professionali la cui chiave d'accesso sia il merito. Augusto Palombini, responsabile nazionale dell'Associazione Dottorandi italiani spiegava al Riformista che «non esiste nessun paese civile in cui, a 35 anni e nel pieno della maturità intellettuale, gli studiosi non siano messi in condizione di fornire il proprio contributo all'università con soddisfazione professionale nell'ambito della didattica e della ricerca e con prospettive di carriera... La nostra generazione sembra sconfitta prima ancora di essere messa nelle condizioni di giocare la partita», concludeva amaramente.

Il sistema è addirittura «disincentivante», esprime una cultura «antimeritocratica» e dimostra un'incredibile forza autoconservativa. «Magari - aggiungeva Palombini - ci fosse la guerra del talento, ovvero una competizione basata sulle qualità individuali...»

Non si tratta di creare una nuova classe di privilegiati o di assistiti, né di incentivi una tantum. Il problema è cambiare le regole. In mancanza di un disservizio da provocare - come nel caso di tassisti, controllori di volo, tramvieri, eccetera - quali forme di lotta ha una generazione di fatto senza voce?

«Siamo una classe sotto molti punti di vista ma siamo proprio noi i primi a non percepirci come tale», dichiarava, sempre al Riformista, Francesco Grillo, "cervello" fuggito alla London School of Economics. C'è quindi un problema di consapevolezza, ma anche di percezione di obiettivi. Di sicuro, al nostro paese «serve il conflitto». Grandi dibattiti e divisioni politiche che possano produrre grandi scelte e, attraverso quelle, unire il paese. Concludeva Grillo: «Il paese ce la fa e noi ce la facciamo non con la retorica del paese unito ma solo se ci sono attori in conflitto, scontro, competitività in un quadro di regole che valorizzino i meriti. Autoetichettarsi come giovani non basta».

Messa per il centrodestra

Da chi non te l'aspetti. Paolo Messa, curatore di Formiche - la rivista di Follini per capirci - traccia su Il Foglio il disegno di un nuovo centrodestra e scopre che «un centrodestra rinnovato non potrà fare a meno di Bonino e Capezzone».

Al ministro Bonino e al presidente di Commissione Capezzone riconosce l'incisività della loro azione politica. «ci sono. La loro presenza in Parlamento e nel governo si avverte».
«Capezzone e Bonino si sono affermati in meno di cento giorni come il più solido ancoraggio liberale e riformista di centrodestra nell'Unione. Nessun cavallo di Troia – quella è una paura che lasciamo ai cacciatori di fantasma professionisti – ma un lucido e coerente posizionamento politico di cui si sente la necessità. Non è un caso la visibilità che il quotidiano della Confindustria riserva ai seguaci di Pannella: è il segno e il riconoscimento di un approccio attento al mondo produttivo».
Messa torna all'esito delle elezioni politiche, per ricordare, ove ce ne fosse bisogno, che il posizionamento dei radicali, «fra i tanti, opinabili, motivi della sconfitta d'un soffio» di Berlusconi, è stato «tecnicamente quello meno discutibile».
«Tutti gli studiosi di flussi elettorali riconoscono infatti che quello dei Radicali è stato l'unico vero passaggio secco di voti da una coalizione all'altra».
Per questo, il Cavaliere «non si dà pace del mancato accordo con Pannella e i suoi», ma - ammette Messa - non può che prendersela con «il veto "etico" dell'Udc», che ha di fatto «favorito il centrosinistra, nonostante il risultato della Rosa nel Pugno sia stato deludente».

E' «curioso», osserva il curatore di Formiche, che «a parlare della necessità di allargamento sia la maggioranza», già di per sé così ampia da rischiare di non reggere le contraddizioni interne. «Ad avere questo obiettivo dovrebbe essere invece l'opposizione (se vuol tornare a essere maggioranza)». E i temi etici non dovrebbero costituire motivo di veto per far parte di coalizioni di governo.

E quindi, Messa conclude: «Un centrodestra rinnovato, che voglia essere competitivo e saldo nella sua radice liberale dovrà rinunciare a qualche estremista di troppo, ma non potrà fare a meno di Capezzone e Bonino».

Tuesday, August 15, 2006

Berman, Ottolenghi, Lewis: la risposta al fascismo islamico

Il saluto dei fascisti islamici di HezbollahL'islamismo tra i totalitarismi. Qualcosa di più di un gruppo eversivo, ma di meno di uno scontro di civiltà. «Riconversione ideologica delle masse» contro il rischio islamizzazione. «Dobbiamo liberarli, altrimenti ci distruggeranno»

Farebbe un po' sorridere, se non si trattasse di cose tremendamente serie, che i "grandi" giornali italiani si accorgono ora, con tre anni di ritardo, della riflessione di Paul Berman sulla minaccia fondamentalista. Il dibattito sull'islamo-fascismo, di cui solo oggi i loro lettori sono portati a conoscenza, appare quasi surreale a chi queste cose le mastica ormai da anni, avendo avuto la possibilità, e la voglia, di attingere ad altre fonti.

Dà, però, il senso del colpevole ritardo con cui i mainstream media si muovono nell'analisi degli eventi. O, ancor più, della refrattarietà a trattarli in profondità. Ci sono volute le parole di Bush sui «fascisti islamici», per la verità neanche le prime, in coincidenza con una nuova strage, questa volta mancata, a far deflagrare il dibattito.

Su molti blog, compreso questo, se ne parlava già ben tre anni fa, quando, grazie soprattutto a Christian Rocca, abbiamo conosciuto Paul Berman, e il suo libro "Terrore e liberalismo", sulla natura antifascista della guerra al fondamentalismo, ancora oggi una delle migliori analisi del fenomeno, e Christopher Hitchens, che ha coniato l'espressione «islamo-fascismo». Oltreoceano e sui blog che seguono la politica internazionale si sviluppò subito il dibattito su quelle tesi, che furono per lo più accolte.

Nei giorni scorsi Berman è stato intervistato dal Corriere per esporre gli argomenti a sostegno dell'espressione «islamo-fascismo», termine che definisce «storicamente e linguisticamente» il più appropriato a spiegare l'«estremismo islamico». Si tratta di un'ideologia «strettamente imparentata con nazismo, fascismo e franchismo...», che, «come i totalitarismi europei del Novecento, è basata su una mitologia che da una parte vede un popolo probo e giusto, dall'altra una cospirazione cosmica di nemici stranieri e forze interne inquinanti che lo opprime. Imponendogli di scatenare una guerra di sterminio: una titanica lotta mitologica di liberazione... Condividono un'utopia: il ritorno all'età d'oro del passato, rielaborata in versione futurista... lo scopo dei jihadisti è restaurare l'età d'oro del Califfato del VII secolo».

Altro elemento che li unisce è il «culto della morte», cui, «in un modo o nell'altro, tutti i movimenti fascisti sono approdati». Tutti i totalitarismi sono «germinati in Europa... e poi si sono diramati nel mondo, ispirati dagli stessi testi e pensatori». Il «moderno islamismo» non sfugge a questa regola, «fondato nel 1928 in Egitto con i Fratelli Musulmani e poi con il Baathismo, nato a Damasco» da intellettuali di formazione europea.

L'Occidente, e soprattutto la sinistra, stentano a riconoscere la vera natura della minaccia. E' un'altra similitudine con i totalitarismi del '900. Anche allora l'Europa, il mondo intellettuale e politico, non riconobbero la minaccia e se ne fecero travolgere, quando addirittura non se ne invaghirono. «L'inabilità di capire questi movimenti e la tendenza ad incoraggiarli, direttamente o indirettamente, è un'altra tragica costante... e spiega forse il motivo per cui essi, prima o poi, hanno finito per travolgere l'Europa. Oggi vediamo la stessa confusione e incapacità di mobilitarsi di fronte al fascismo islamico che sperimentammo di fronte al nazifascismo».

Ma se possibile, oggi «le colpe degli intellettuali sono maggiori» e la sinistra, con l'eccezione di Blair, «non sta facendo niente».
«L'intellighenzia, soprattutto a sinistra, è intenta a impugnare categorie storiche e socio-economiche per capire cosa c'è di razionale, congruo e persino ammirevole in questi movimenti. Dimenticandosi che dal '79 a oggi il fascismo islamico ha sterminato milioni di persone, ma questi morti restano invisibili a molti intellettuali e leader occidentali che in un grottesco delirio osano paragonare Hezbollah e i terroristi iracheni ai partigiani francesi e italiani».
Emanuele Ottolenghi, su Il Riformista, premette che «i paragoni storici sono sempre quelli che sono. Ma le categorie servono a capire un fenomeno», e la più utile per capire il terrorismo islamista e l'ideologia fondamentalista è «quella del totalitarismo», usata da Berman.
«L'Islam radicale usa brutali meccanismi di repressione, s'ispira a un passato mitico a cui vuol far ritorno, aspira a imporre un nuovo ordine e spazzare via un mondo corrotto, articola un'ideologia pervasiva di tutti gli aspetti della vita, impone un'ortodossia comportamentale attraverso uno stato-partito e i suoi meccanismi repressivi. A capo di questi movimenti c'è un leader carismatico; chi ne fa parte è votato a un culto della morte e della violenza».
Sono tutti elementi che accomunano nazismo, fascismo e islamismo. In molti, avverte Ottolenghi, si smarcano dal dibattito storico e terminologico, perché cercano di «sminuire» le caratteristiche del terrorismo islamico «per timore delle conseguenze di dir le cose come stanno».
«E' giusto includere l'Islam radicale nella categoria dei totalitarismi perché agisce come un'ideologica totalitaria, il cui scopo precipuo è di creare un nuovo ordine mondiale fondato su un'utopia, il trionfo della quale giustifica qualunque mezzo, compreso l'assassinio di chiunque sia d'ostacolo e di milioni di altri innocenti».
«Un'altra virtù del termine fascismo» applicato al radicalismo islamico, ha spiegato Berman al Corriere, è che «ci permette di capire come il nemico sia qualcosa di ben più grande di un piccolo gruppo eversivo, che può essere liquidato con le armi. Ma allo stesso tempo è anche qualcosa di molto più piccolo di uno scontro tra civiltà».

Appare quindi risibile l'obiezione di Gilles Kepel, avanzata nell'intervista concessa a la Repubblica, per la quale non sarebbe possibile parlare di un «fascismo islamico» perché, a suo avviso, «i gruppi terroristici islamici sono il contrario di un movimento di massa». E' esattamente il contrario. I gruppi combattenti potranno anche essere una stretta minoranza, ma l'ideologia jihadista, nella formula wahabita o sciita, ha da tempo messo le proprie radici nelle grandi masse arabo-islamiche. Si tratta forse ancora di una parte minoritaria dell'intera società mediorientale, ma certo è un fenomeno di massa, che riguarda milioni di persone. E la sua diffusione suggerisce un altro paragone, quello con la nazionalizzazione delle masse europee, studiata da Mosse per spiegare nazismo e fascismo. Il fenomeno si sta ripetendo nella "nazione" islamica? Siamo di fronte a una «islamizzazione delle masse musulmane»?

Secondo lo stesso Ottolenghi, la causa del terrorismo «non è che l'Occidente sbaglia politica estera. La causa è una radicalizzazione della società islamica - in Medio Oriente e in Europa - e il rifiuto di molti musulmani di abbracciare appieno i valori occidentali».

L'attualità del processo di «islamizzazione delle masse» non fa che confermare l'importanza della battaglia politica e ideologica contro l'islamismo. Si tratta, aggiunge infatti Berman, di «un movimento politico moderno, con tutti i suoi limiti», che «può essere neutralizzato solo con la forza della persuasione. Come fascismo, nazismo e comunismo, caduti grazie alla riconversione ideologica delle masse».

L'intellettuale liberal vede anche un «pericolo» per l'Occidente, «perdere i suoi sacri valori liberali, distruggendo la natura stessa della nostra democrazia, accanendoci contro gli emigranti e diventando dei bigotti anti-Islam, intolleranti e razzisti. Se ciò dovesse accadere, la nostra società non sarebbe mai più la stessa».

Se da una parte dobbiamo guardarci dal «pericolo» indicato da Berman, rischiamo di perdere la democrazia anche se non sapremo affrontare la guerra al terrorismo per quella che è: una guerra antifascista. Dovremmo ricordare cosa successe quando l'Europa «provò a "capire" e "soddisfare le rivendicazioni" di una Germania arrabbiata e umiliata negli anni Trenta», avverte Ottolenghi.

Il rischio è che parti sempre più consistenti delle nostre società abbandonino la democrazia, spiegando «l'incapacità della democrazia a resistere al male come il risultato del fallimento dei suoi fondamenti morali». Esattamente come accadde negli anni '20 e '30 del secolo scorso, quando i governi liberali fallirono nel «gestire la minaccia del comunismo», ma soprattutto - direi - le difficoltà economiche e le forme accelerate di modernizzazione, economica e politica, del primo dopoguerra, rafforzando la risposta autoritaria di fascismo e nazismo.
«Il fallimento occidentale di vedere nell'Islam radicale un'ideologia totalitaria finirà col portare voti e influenza politica all'estrema destra europea. La strada si aprirà quindi a un processo di erosione di valori liberal-democratici...»
L'incapacità dell'Occidente di guardare in faccia il "male", e di chiamarlo per quello che è, è stata al centro anche di un'intervista di Bernard Lewis al Corriere:
«La grande differenza tra noi e loro è che loro credono in se stessi e in ciò che stanno facendo, noi no. Paghiamo la crisi morale dell'Occidente con il suo devastante cocktail di correttezza politica, complesso di colpa "liberal" e multiculturalismo. Parlo soprattutto dell'Europa. Nel Vecchio Continente l'Islam gode di un livello di immunità dalle critiche che la Cristianità ha perso e l'Ebraismo non ha mai avuto».
Che fare? Lewis ripropone quella che qualcuno, facendolo sorridere, ha definito «Dottrina Lewis», di cui avevamo già parlato mesi fa. La prima cosa da fare è riconoscere la vera natura della minaccia terroristica, con la sua dimensione ideologica e totalitaria. Gli islamici moderati continuano a essere la maggioranza, seppure paralizzati dalla minoranza «più energica».

«L'unica medicina si chiama libertà. La stragrande maggioranza dei Paesi islamici continua a essere governata da tiranni. Regimi autocratici vessati da difficoltà socio-economiche inenarrabili che costituiscono il terreno più fertile per la prolificazione del terrore... Ma non è l'emancipazione economica la più importante, bensì l'emancipazione politica. Basta guardare all'Iraq dove il tentativo di stabilire il primo governo democratico stava funzionando, ma la prospettiva di un Iraq davvero libero ha terrorizzato i tiranni dei paesi limitrofi spingendoli ad adoperarsi in tutti i modi per impedirlo. E purtroppo ci stannno riuscendo».

Il leader sciita Moqtada al Sadr, con il suo esercito del Mahdi e un suo peso politico (cinque ministri nel governo iracheno e trenta parlamentari), si candida al ruolo di Hezbollah iracheno, uno stato dentro lo stato. Il suo legame con Teheran è sempre più stretto e aver trattato il suo ingresso nell'"arco costituzionale" è stato un errore, che gli ha dato il doppio vantaggio dell'ambiguità del movimento bicefalo: armi e politica.

Tuttavia, secondo Lewis, non si tratta di «esportare» democrazia, ma di rimuovere gli ostacoli e dare una mano: «La rivoluzione deve partire dal basso, noi possiamo fornire solo un aiuto discreto. Com'è successo in Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale: a trasformare la penisola ci hanno pensato gli italiani. Noi abbiamo dato una mano».

A questo punto, due sono gli scenari in Iraq: «O gli iracheni riusciranno, con il nostro aiuto, a fondare una società aperta e democratica che porterebbe pace e stabilità nel Medio Oriente, o noi, e loro, falliremo e i tiranni e i terroristi vinceranno. Allora, Occidente e Islam si distruggeranno a vicenda, lasciando il futuro a India e Cina. Dobbiamo liberarli, altrimenti ci distruggeranno».

Per la forza Onu una vera mission impossible

A chi spetta disarmare Hezbollah?

«Chi vincerà la guerra?». L'editoriale più equilibrato sull'esito politico e militare del cessate-il-fuoco seguito alla risoluzione 1701 dell'Onu mi è parso quello sul Foglio di oggi. E' troppo presto, al di là delle contrapposte proclamazioni di vittoria, per stabilire chi abbia vinto. Anche perché si è trattato solo di una prima fase della guerra tra Israele e Iran.

Per decretare un vincitore bisognerà prima capire se gli Hezbollah riusciranno o no a ricostruire le loro postazioni nel sud del Libano e se manterranno il loro peso di partito armato nella politica libanese. E questo dipenderà in gran parte dal carattere della missione della forza internazionale, dal suo mandato e dalle regole d'ingaggio.

Il problema sono le troppe ambiguità della risoluzione Onu, soprattutto sul disarmo di Hezbollah. In tanti, in Italia (e soprattutto a sinistra) pensano che la forza d'interposizione debba semplicemente innalzare la bandiera dell'Onu al confine e tenere separati, con equidistanza, o «equivicinanza», Israele e Hezbollah. Se davvero fosse così, la missione sarebbe fallita ancor prima di cominciare.

L'amministrazione Bush, dall'inizio della crisi, ha ribadito che non avrebbe tollerato un ritorno allo status quo ante, ma la risoluzione 1701 rischia proprio di far ritornare la situazione allo status quo ante, con l'aggravante di una milizia, Hezbollah, che ha dimostrato di saper tenere testa a Israele sul piano militare e quello politico, ergendosi quindi a vera e propria "icona" antisionista nel mondo arabo.

La nuova risoluzione torna a chiedere il disarmo di Hezbollah, ma non indica con precisione a chi spetta il compito di farlo eseguire. Autorizza una missione di peacekeeping secondo il Capitolo VI della Carta dell'Onu, che, seppur rinforzata come ha ricordato la Rice («tutte le misure che si renderanno necessarie»), non prevede che i caschi blu disarmino Hezbollah né contiene il riferimento al Capitolo VII sull'uso delle armi, delimitato quindi all'autodifesa.

Il compito di disarmare le milizie sciite dovrebbe essere affidato all'esercito libanese, composto in gran parte proprio di soldati sciiti. Operazione difficile, sempre ammesso che il governo di Siniora riesca effettivamente a ordinare il disarmo. Il leader di Hezbollah, Nasrallah, ha parlato chiaramente: «Non è il momento di parlare di disarmo». Il ministro della Difesa libanese, Elias Murr, ha già dichiarato che «l'esercito libanese non andrà nel sud per togliere le armi a Hezbollah e fare il lavoro che non hanno fatto gli israeliani».

Così stando le cose, non sarà una passeggiata per il contingente italiano che farà parte della nuova Unifil. Sarà peggio che in Iraq e Afghanistan. «Se gli Hezbollah ricevono l'ordine di deporre le armi non ci saranno problemi. Quest'ordine lo dovrebbe dare il governo libanese che non l'ha potuto mai dare nonostante una risoluzione delle Nazioni Unite. Se non c'è la volontà di posare le armi, allora la possibilità di poter onorare la risoluzione significa andargliele a prendere per poterle distruggere. E questo rende complicato il compito», ha spiegato il generale Franco Angioni, comandante della missione italiana in Libano dell'83, al Tg5. D'altra parte, il tipo di mezzi che dovrebbero essere utilizzati, confermerebbero le non rosee previsioni: non sarà una passeggiata.

Al Corriere, invece, un altro generale, ha avanzato tutto il suo scetticismo sull'efficacia delle missioni militari Onu, svelando particolari poco noti della catena di comando: «Missioni a guida Onu? Sono state un disastro». Non un parere qualsiasi, ma del generale Fabrizio Castagnetti, responsabile delle missioni estere. Il piano per il Libano è quasi pronto, non è questo il problema: «Le mie perplessità riguardano il funzionamento dei vertici della forza di pace».
«Perché il comandante ha le mani legate. Non può prendere decisioni senza consultare il Palazzo di Vetro, a New York. Ma le sue invocazioni di ottenere delle direttive chiare si infrangono contro la burocrazia elefantiaca delle Nazioni Unite. Nessuno si prende la responsabilità di trasmettere un ordine. Invece il comandante ha quasi sempre bisogno di ricevere input chiari e rapidi altrimenti non sa cosa fare... Prendiamo il caso della Somalia, ed abbiamo davanti il disastro che ne è venuto fuori sotto il comando Onu. Stessa storia nei Balcani. Alcuni comandanti sono sprofondati nella disperazione più nera perché non riuscivano a ottenere uno straccio di direttiva dall' Onu. Abbandonati. In Ruanda l'ufficiale che guidava la missione si mise a piangere perché all'Onu nessuno gli dava ascolto mentre la gente si massacrava».
Sarebbe stata preferibile una «coalition of willings», tenendo fuori l'Onu.

La cosa più probabile è che l'Unifil e l'esercito libanese «coesisteranno» con Hezbollah, che si riarmerà e riprenderà a intimidire il governo libanese e Israele. E' lo scenario più probabile, anche considerando che Siria e Iran, gli sponsor e i rifornitori di Hezbollah, non hanno subito alcuna conseguenza negativa per il ruolo destabilizzatore svolto in questi anni. Anzi, la loro influenza regionale è aumentata. Sarà pure propaganda, ma oggi hanno festeggiato la vittoria di Hezbollah. Il presidente siriano Assad ha detto che «la vittoria di Hezbollah ha distrutto i piani Usa per ridisegnare il Medio Oriente». Il presidente iraniano Ahmadinejad ha affermato che Hezbollah «ha issato la bandiera della vittoria» su Israele. E in Europa c'è chi vuole offrire ancora più carote, e sempre più grosse.

Vivere e morire a Jenin, Cisgiordania

Ragazzo giustiziato a JeninJenin, Cisgiordania. Accusato di collaborare con gli israeliani, Bassim Al-Mallah, un ragazzo di 21 anni, è stato barbaramente giustiziato in una pubblica piazza. Costretto a inginocchiarsi davanti a un mucchio di sabbia e ucciso mentre attorno a lui molti scattavano foto con il telefonino.
Foto Reuters

Saturday, August 12, 2006

Non c'è tempo da perdere: Israele subito nell'Ue

Sono innegabili gli errori, militari e politici, commessi dall'attuale leadership israeliana. La preparazione delle milizie sciite a un conflitto ha colto di sorpresa l'esercito e il governo di Gerusalemme e una vittoria netta, militare e politica, su Hezbollah e i suoi sponsor a Damasco e Teheran, è ancora lontana e tutt'altro che scontata. Fermandosi ora, Israele lascia alle risoluzioni dell'Onu, con ben poche possibilità di riuscita, di portare a termine il lavoro iniziato, in realtà con molti errori tattici e strategici difficili da correggere all'ultimo minuto. A questo punto, l'obiettivo minimo è raggiungere il fiume Litani, per liberare il territorio israeliano almeno dalla minaccia dei razzi Katiuscia, e (magari!) la valle della Bekaa.

L'azione militare non basta quindi, nei termini in cui Israele la sta conducendo in Libano. Tsahal ha di fronte una guerriglia sofisticatissima, che all'occorrenza sa combattere anche una guerra di tipo tradizionale, persino di posizione, e capace di affrontare il nemico che avanza. Dispone di un alto potenziale di armamenti e di continui rifornimenti.

La Guerra del Vietnam dovrebbe averci insegnato che è pressoché impossibile avere ragione di una guerriglia senza colpire le basi da cui arrivano armi, comandi e intelligence. L'Iran, e la Siria, aiutano attivamente le milizie Hezbollah. Dalla base di Anjar, sede della Decima Divisione dell'esercito siriano, nel territorio siriano a pochi chilometri dalla cittadina libanese di Az Zabdani, arriverebbero a Hezbollah i rifornimenti, gli ordini e le informazioni di intelligence dai siriani e dai Guardiani della Rivoluzione iraniani contro l'esercito israeliano. Tali obiettivi, in Siria, e anche in Iran, dovrebbero essere colpiti.

L'azione militare non può bastare. Raccogliamo l'appello di Pannella e dei radicali: occorre subito una mobilitazione, «italiana, europea, parlamentare, politica, nonviolenta radicale, immediata», per salvare Israele, e non solo. «Nessuno sembra voler scorgere, presentire, il già vissuto per il mondo, dalla Sarajevo del 1914 alla Monaco nazi-pacifista del 1938». Ci vuole subito Israele nell'Ue e nella Nato.

Pannella ha sottolineato che mai come oggi ci troviamo di fronte alla «criminale attualità e imminenza di un attacco a Israele volto ma anche, questa volta, adeguato a cancellarne l'esistenza dalla faccia della terra». Il leader radicale ha chiamato in causa le responsabilità, gli errori, delle classi dirigenti a Bruxelles e a Gerusalemme, che hanno scelto le prime «l'Europa gollista delle patrie contro la patria europea», le seconde la carta nazionalistica, di cui il criterio "territori contro pace" è l'ultima sintesi, della difesa di Israele, che è costata danni enormi in vite umane e nell'immagine.

Israele è invece «realtà europea», la sua storia è la «sintesi» della storia dei popoli europei.

Risoluzione approvata, ma Israele non può fermarsi

Ancora 7-10 giorni per assicurarsi ciò che la forza Onu non potrà assicurare

Il Consiglio di Sicurezza ha dunque approvato all'unanimità la risoluzione 1701 (il testo), messa a punto da Francia e Stati Uniti, sulla quale si sono detti d'accordo sia il premier israeliano Olmert che il libanese Siniora. Tuttavia, il "sì" di Libano e Israele è condizionato al vaglio dei rispettivi governi che si riuniranno tra sabato e domenica. Ed Hezbollah? Cosa risponde Hezbollah?

Per il momento ha risposto l'Iran, che definisce «unilaterale» la risoluzione, perché soddisfa solo gli «interessi sionisti», e quindi «non potrà essere accettata dal governo e dal popolo libanese». Invece, il governo libanese sembra «propenso ad accettare», ma è l'opinione del ministro delle Comunicazioni, il più anti-siriano.

Ieri pomeriggio Olmert, definendo «insoddisfacente» il testo, aveva dato comunque via libera all'offensiva di terra, anche per tentare un'ultima forma di pressione, ma soprattutto per cercare quella vittoria netta che ancora manca. E che mancherà, per i troppi errori iniziali. A questo punto, l'obiettivo minimo è raggiungere il fiume Litani, per liberare il territorio israeliano almeno dalla minaccia dei razzi Katiuscia, e (magari!) la valle della Bekaa.

La cessazione delle operazioni militari è ancora lontana. Cosa dice la risoluzione. Si chiede un cessate-il-fuoco «totale» anche se non «immediato», perché Israele ha necessità di allargare la zona cuscinetto, almeno fino al fiume Litani, dove poi si dovrà posizionare la forza d'interposizione. L'esercito israeliano si ritirerà progressivamente dalle posizioni conquistate nel sud del Libano lasciandole sotto il controllo dell'esercito regolare libanese affiancato da una forza internazionale di 15 mila uomini, guidata dalla Francia ma con contingenti spagnoli, italiani e turchi. Il ritiro, come volevano Israele e Stati Uniti, è quindi condizionato al dispiegamento di questa forza d'interposizione.

Insomma, è evidente che le ostilità non cesseranno finché la forza internazionale non sarà pronta a dispiegarsi, pare 7-10 giorni, poiché sarebbe impossibile per l'esercito israeliano tenere le posizioni "sulla difensiva", sotto attacco degli Hezbollah senza sparare un colpo, in attesa che la forza d'interposizione sia pronta. La risoluzione prevede anche l'embargo sulle armi e su qualunque equipaggiamento militare «a qualsiasi entità o individuo del Libano».

Sembrerebbe una risoluzione che accoglie, nei punti fondamentali, le esigenze israeliane, tuttavia il diavolo si nasconde nei dettagli e il testo è molto lungo. A una prima lettura mi pare che manchi quell'esplicito riferimento al capitolo VII della Carta dell'Onu, quello sull'uso della forza da parte della forza internazionale, senza il quale rimane ambiguo il suo mandato e incerta la capacità di contribuire concretamente al disarmo di Hezbollah.

I giornali della sinistra israeliana Ha'aretz e Maariv criticano duramente Olmert: «Ci ha condotti in guerra promettendo vittoria e ha ottenuto solo umiliazione e lutti. Non può restare al potere».
Non hanno tutti i torti. In questo momento Israele avrebbe avuto bisogno di una leadership più ferma e capace. Se la cessazione delle ostilità dovesse arrivare nelle prossime ore, o nei prossimi giorni, quella di Israele non sarebbe una vittoria netta contro Hezbollah e i suoi sponsor a Teheran e Damasco. Sono stati compiuti errori strategici e, fermandosi ora, Israele lascia alle risoluzioni dell'Onu, con ben poche possibilità di riuscita, di portare a termine il lavoro iniziato da Tsahal.

Friday, August 11, 2006

Basta ipocrisie sui servizi segreti

Lo stemma della CiaServono un dibattito pubblico trasparente e un controllo democratico, ma mancano leader politici che lo affermino con chiarezza

Pare che i nostri servizi segreti abbiano saputo degli attacchi sventati a Londra dai tg, o qualcosa di simile. Oggi un "retroscena" del Corriere confermava che i nostri 007 sono stati informati comunque ad arresti già conclusi. Questo perché nel nostro paese i servizi segreti non sono più segreti. Che vengano intercettati il capo del Sismi e i suoi collaboratori e le conversazioni finiscano sui giornali è tema per una barzelletta. Ma c'è poco da ridere: con l'arresto dei responsabili della prima Divisione e l'inchiesta sullo stesso direttore Nicolò Pollari, assistiamo, senza che la politica e l'opinione pubblica se ne preoccupino minimamente, al sequestro dei servizi da parte della Procura di Milano.

Le intercettazioni, in particolare, rivelando nomi, sedi e anche l'identità di alcuni collaboratori che si trovano all'estero, hanno screditato l'intero sistema di sicurezza e mostrato una permeabilità che di certo ci provoca un certo isolamento a livello internazionale.

Nell'editoriale di oggi, Giuliano Ferrara ricorda che «la capacità di azione dei servizi, protetti efficacemente dai poteri dello stato, si dimostra essenziale nella battaglia per difendere le popolazioni civili dalla guerra scatenata dal terrorismo internazionale di matrice islamica». Invce, da noi, «per effetto di un'inchiesta della magistratura, propalata a mezzo stampa tramite la solita "fuga" di notizie corredate da intercettazioni, la collaborazione tra l'intelligence italiana e quella americana è stata messa in piazza, descritta come una sorta di tradimento, dileggiata in ogni modo. La conseguenza più probabile è che l'Italia non possa più essere considerata, dalla rete dei servizi internazionali che combattono il terrorismo, un soggetto affidabile, e quindi sia abbandonata a se stessa. L'effetto di questo isolamento sarebbe, ovviamente, un colossale aumento del pericolo di attentati...»

L'operato dei servizi di sicurezza, proprio perché segreto, ai confini della legalità (e qualche volta oltre), è sottoposto al controllo della suprema autorità politica di una democrazia: l'assemblea rappresentativa. E il Governo è responsabile di fronte al Parlamento dell'uso che fa dei servizi.

La cosa sorprendente dell'inchiesta sulla cattura dell'imam Abu Omar non è tanto, o non solo, una magistratura che conduce una battaglia ideologica e cerca di condizionare la politica estera e di sicurezza del paese, ma è proprio la politica (di destra e di sinistra) che non reagisce, che non si rende conto dell'invasione della magistratura in un campo che non le compete: la difesa nazionale.

Ferrara è un conservatore, si dirà. bene, allora si legga cosa dice Michael Walzer, icona dell'intellettualità liberal americana, che a La Stampa spiega perché piuttosto che operare "extralegem", è sempre preferibile agire in un contesto di legalità democraticamente adottato.

«Se i servizi di sicurezza temono di avere ostacoli lo devono dire con chiarezza, parlare pubblicamente, e spiegare perché esistono minacce di fronte alle quali servono nuovi provvedimenti. Adottare provvedimenti extralegem è una scorciatoia che non fa comprendere al pubblico di quali minacce si sta parlando e quali rimedi sono considerati necessari. Se invece tutto avviene alla luce del sole può iniziare un dibattito pubblico al termine del quale i rappresentanti politici decidono cosa fare sulla base delle leggi... Se ritengono di aver bisogno di nuove leggi devono dircelo». Il filosofo liberal ha ragione quando osserva che in Europa «mancano i leader politici che lo affermino con chiarezza, a volte preferiscono cedere alla tentazione di agire oltre le leggi».

Quello che Walzer non sa è che in Italia il solo fatto di collaborare con i servizi segreti Usa viene perseguito dalla magistratura e messo alla gogna dalla stampa, e la politica rimane del tutto intimidita.

Walzer difende anche il Patriot Act, che «ha consentito alla polizia americana di svolgere operazioni simili a quelle delle polizia europee, come ad esempio intercettare tutti i cellulari di un'unica persona senza il bisogno di singole autorizzazioni (cosa che in Italia è possibile da sempre, n.d.r.)». Un tentativo, forse imperfetto, di dotarsi di regole adeguate alla lotta al terrorismo, ma di certo non una mostruosità, soprattutto se si tiene presente che le minime ed eccezionali riduzioni di garanzie in Italia sono regola e prassi.

«... il Patriot Act è stato utile, ha rafforzato la sicurezza americana, mentre in altri casi, come nei rapporti fra datore di lavoro e dipendenti, contiene degli eccessi da cancellare. Ma il Patriot Act è comunque una legge, frutto di un dibattito terminato con un voto del Congresso, come dovrebbe avvenire in ogni democrazia». Ed è questa la cosa più importante. Magari fossimo in grado di dotarci di un Patriot Act europeo. E' già tanto se i servizi segreti fossero lasciati lavorare.

CVD. Si sono presi anche il nuovo Consiglio

Il palazzo dell'Onu a GinevraCome volevasi dimostrare, ne parlavamo fin da marzo, quando fu istituito, ripetendoci a maggio, quando furono eletti i suoi membri. Il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani, quello che doveva sostituire la ormai screditata Commissione, è già completamente in mano alle dittature, come gli Stati Uniti, che si erano opportunamente rifiutati di candidarsi a farne parte, avevano previsto per tempo.

Riunito in sessione straordinaria a Ginevra, ha approvato una risoluzione che condanna Israele per le «gravi violazioni» dei diritti umani in Libano e chiesto un'inchiesta internazionale sulla «sistematica presa di mira e uccisione di civili da parte di Israele in Libano». Il testo, promosso da un gruppo di Paesi musulmani, è stato approvato con 27 voti a favore, undici contrari e otto astensioni. I Paesi dell'Unione Europea membri del Consiglio (Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Olanda, Polonia e Regno Unito) insieme con Canada, Giappone, Romania e Ucraina hanno votato contro criticando la mancata menzione nel testo degli attacchi di Hezbollah nel nord di Israele. In favore si sono invece schierati una maggioranza di Paesi musulmani e latino-americani. Anche Cina, Russia e India hanno votato a favore. Alcuni paesi africani si sono astenuti. L'Italia è tra i paesi osservatori.

Aboliamolo!

Nel 1945, Luigi Einaudi scriveva a proposito dell'Ordine dei giornalisti: «L'albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero. Ammettere il principio dell'albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti».

Non si ferma l'azione liberalizzatrice del presidente della Commissione Attività produttive della Camera, Daniele Capezzone, e a giudicare dalle reazioni l'ultima iniziativa è stata per qualcuno una brutta sorpresa ferragostana. Oggi, in una conferenza stampa, Capezzone ha presentato una proposta di legge per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, orpello legislativo retaggio del fascismo, una delle caste più potenti, privilegiate e intoccabili del nostro paese. La PdL è sostenuta già dalle firme di alcuni appartenenti alla categoria.

Netta chiusura nelle reazioni dei vertici della casta. «L'Ordine deve essere tutelato, rafforzato e non distrutto. Quella dei Radicali è una proposta che destabilizza le condizioni di una intera categoria» (Lorenzo Del Boca, presidente dell'Ordine dei giornalisti); «Quella di Capezzone è un'iniziativa "turistica", che non ha alcun valore» (Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia); «La questione prioritaria per l'Ordine dei giornalisti non è l'abolizione, che resta soltanto un sogno dei radicali, ma la rivisitazione della legge istitutiva del 1963... Abolire l'Ordine sarebbe un grave errore...» (Bruno Tucci, presidente dell'Ordine dei giornalisti del Lazio).

Non si scompone Capezzone, che aveva messo in conto l'ostilità dei vertici della corporazione.

L'iniziativa è sostenuta anche da alcuni blogger di fama: Mario Adinolfi, Christian Rocca, Luca Sofri, Carlo Stagnaro.

Che ne dite, da settembre, di lanciare l'iniziativa "I blogger per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti"?

Una riforma americana dei rapporti fra stato e religione

Ampliando una lettera spedita al Riformista tre volte in questa settimana ma mai pubblicata

Thomas Jefferson«I tempi cambiano», è il titolo che il Riformista dà a una lettera di Enrico Manca. Ma mai abbastanza. Grazie al Concordato dell'84 la religione cattolica non è più «la sola religione dello Stato italiano». Per il resto, confermati, riorganizzati, ampliati, i vecchi privilegi. Giorni fa, Teodori indicava a Ferrara il Concordato, «obsoleto orpello istituzionale che ferisce credenti e non credenti, la fede e la politica», come «bersaglio comune» a laici liberali e atei devoti. Dalla firma di Craxi e Casaroli sono trascorsi oltre vent'anni. Come mai parlare del suo superamento, come fa la Rosa nel Pugno, è ritenuto atto di lesa maestà?

E' giunto il momento di una riforma "americana" dei rapporti fra stato e chiese, la sola che garantisce alle chiese di muoversi liberamente anche nell'arena politica. L'attivismo sempre maggiore di gruppi che fondano sulla fede le loro iniziative politiche e culturali, la richiesta di un maggiore interventismo della Chiesa cattolica sui temi etici, sono spinte che implicitamente richiamano il modello americano di "civil religion".

Negli Stati Uniti, la vitalità del sentimento religioso, la rilevanza dei temi morali nel dibattito pubblico, la funzione civile delle religioni e la libertà di cui godono, dipendono strettamente dalla rigida separazione fra stato e chiesa, che tutela prima di tutto la credibilità delle fedi.

La libertà d'azione dei gruppi religiosi e delle chiese nella società americana è massima, ma allo Stato la Costituzione Usa non permette alcun riconoscimento del loro ruolo, né logiche e privilegi concordatari. Nei testi costituzionali non v'è alcun richiamo alle radici giudaico-cristiane e il "Creator" cui si accenna è aconfessionale, deista. La Costituzione regola il funzionamento delle istituzioni, gli Emendamenti pongono concreti limiti all'azione del governo sulle libertà individuali; la Dichiarazione d'Indipendenza proclama inalienabili diritti e il governo con il consenso dei governati.

Al contrario, in Europa la Chiesa si è intimamente confusa con i poteri terreni accettandone i privilegi. Scriveva già Tocqueville nell'800: gli europei «odiano la fede più come l'opinione di un partito che come una erronea credenza; e nel sacerdote combattono assai più l'amico del potere che non il rappresentante di Dio». Ma le posizioni anticoncordatarie non sono estranee alla cultura cattolica italiana. Rosmini auspicava per la Chiesa «una libertà senza privilegi». I popolari di De Gasperi, memori dell'evangelico «gratis accepistis, gratis date» (Mt. 10,8), chiedevano «diritti in un paese di liberi e non privilegi in uno Stato di schiavi». La "Gaudium et spes" afferma che «la Chiesa non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall'autorità civile. Anzi essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti ove constatasse che il loro uso possa far dubitare della sincerità della sua testimonianza».

Ratzinger e Ruini lamentano l'assenza di Dio, ma preferiscono una fede racchiusa in un prontuario mondano, pubblica in modo parastatalizzato, alla libertà di una "civil religion" italiana. Se l'Italia avrà mai una "civil religion" non dipende da una «sana» laicità, ma dalla Chiesa cattolica, se vorrà rinunciare a legislazioni e logiche concordatarie, al suo status dominante, che altera il libero mercato religioso, e disfarsi dell'entità giuridica statuale del Vaticano per divenire corpo intermedio nella società.

Come mai tali aspetti non sono neanche sfiorati nei convegni? L'omissione di questi grandi temi rende le lamentele dei vescovi sull'assenza di Dio nella sfera pubblica e le "guerre culturali" dei teocon nostrani assai sospette di neoclericalismo e neotemporalismo.

Dall'Onu arriverà la risoluzione, ma non la soluzione

Dicevamo alcuni giorni fa che nel Consiglio di Sicurezza si stavano riformando le stesse divisioni della crisi irachena. E questo nonostante il nuovo approccio multilaterale della diplomazia Usa guidata dalla Rice, segno che non fu l'unilateralismo Usa a dividere la comunità internazionale contro Saddam, quanto la politica estera francese che, portandosi dietro la Russia, tende troppo spesso a fare il gioco di dittatori e terroristi in funzione anti-americana e anti-israeliana.

Bocciata da Israele, com'era ovvio, la evidente provocazione russa, lo stallo al Palazzo di Vetro è totale. Francia e Stati Uniti sono divisi sull'applicazione del cessate-il-fuoco in Libano e, come al solito, Russia e Cina salgono sul carro parigino. La Francia, sposando le obiezioni libanesi, sostenute dalla Lega Araba, alla bozza su cui era stato raggiunto l'accordo con gli Usa, propone che l'esercito israeliano si ritiri «immediatamente» dopo la cessazione delle ostilità, lasciando le posizioni conquistate agli osservatori dell'Unifil - la cui missione in questi anni doveva essere proprio quella di evitare ciò che è successo - i quali «entro 72 ore» le consegnerebbero a 15 mila soldati dell'esercito libanese, di cui proprio ieri il presidente Lahoud ha detto al Corriere che Hezbollah «fa parte integrante».

Tutto ciò, risponde Washington, consentirebbe agli Hezbollah di riprendere il controllo del sud del Libano: i caschi blu dell'Unifil sono pochi e male armati; 72 ore creano un pericoloso vuoto di potere; le forze libanesi da sole non sono in grado di resistere alla pressione dei miliziani sciiti.

Le domande da porsi per giudicare l'efficacia delle risoluzioni che usciranno dall'Onu sono altre: che tipo di ispezioni ci saranno in porti e aeroporti libanesi, e ai confini, per controllare l'embargo di armi a Hezbollah? La forza internazionale sarà autorizzata ad agire contro agenti siriani o iraniani? Che succede se Hezbollah si rifiuta di disarmare? Cosa farà se sarà attaccata, o se riprenderanno i lanci di razzi su Israele? Accadrà come nel 1983, fuga a gambe levate?

No, tutto induce sempre più a pensare che dall'Onu non arriverà la soluzione al problema del disarmo di Hezbollah. Israele dovrà studiare altri rimedi, militari e politici.

Thursday, August 10, 2006

Non abbiamo appreso nulla dalla Sarajevo del 1914 e dalla Monaco del 1938?

Se vogliamo avere un'idea di cosa succedeva in Europa nel 1938, basta guardarci intorno

Uno che ha capito la natura della minaccia è Marco Pannella, che con un duro comunicato annuncia per sabato una conferenza stampa: «Non c'è un solo giorno da perdere. O divampa la mobilitazione - italiana, europea, parlamentare, politica, nonviolenta radicale, immediata - per salvare Israele, o divamperanno Israele e il mondo, poiché nessuno sembra voler scorgere, presentire, il già vissuto per il mondo, dalla Sarajevo del 1914 alla Monaco nazi-pacifista del 1938».

Pannella sembra l'unico ad aver capito l'importanza dell'intervista del presidente libanese, filosiriano, Lahoud, oggi al Corriere: Hezbollah è «parte integrante dell'esercito libanese... La milizia combatte come i vietcong. E io sono con loro». «Il puzzle ha ora tutte le sue tessere», per il leader radicale una «conferma che Israele si è mosso appena in tempo, in incomprensibile, grave, colpevole, ritardo contro la grande, pluriannunciata replica dell'atto di guerra delle Due Torri dell'11 settembre 2001. Replica incommensurabilmente più ambiziosa, più grave, mortale, condotta e lanciata, ai suoi confini, dal territorio avanzato di Iran e Siria, e dallo sconfinato fronte del terrorismo e del neo-fondamentalismo ateo-musulmano animato da Bin Laden, da Al Qaida... "Sproporzionata", apparve per il nostro Ministro degli Esteri la "reazione" di Israele. "Ma sproporzionata a che, di grazia?" chiedemmo subito. I fatti ora dimostrano che la reazione di Israele oltre che tardiva è stata probabilmente "sproporzionata per difetto" rispetto all'obiettivo mortale del quale può già ora, già in queste settimane, essere vittima».

In Libano è «venuta alla luce una realtà ben più grave di quella evidentemente sospettata e volutamente ignorata in primo luogo dall'Europa di quegli Stati nazionali che stanno tornando di fatto a scomporla, negarla, asservirla, subordinarla. L'Onu rischia di ridursi a maceria politica, burocratica, etica sotto la quale vengono sepolte la sua missione e i suoi obblighi costitutivi...»

E' «surreale», scriveva qualche giorno fa Victor Davis Hanson, rileggere oggi le parole di Chamberlain, Daladier, e Pio XI, o i discorsi di Charles Lindbergh, o Padre Coughlin. «Anche la nostra attuale generazione è sull'orlo dell'insanità morale», non riuscendo a distinguere tra la reazione di una democrazia attaccata e i sui aggressori. «Sì, forse Israele poteva colpire più velocemente, più duro; sì, ha condotto una inadeguata campagna di relazioni pubbliche... ma si è perso di vista il tema morale centrale dei nostri tempi: una democrazia aggredita da una guerra asimmetrica sta cercando di proteggere se stessa contro terroristi giunti dal VII secolo...»

In breve, conclude amaramente Davis Hanson, «se vogliamo avere un'idea di cosa succedeva in Europa nel 1938, basta guardarci intorno».

La vera natura della minaccia: i fascisti islamici

Saluto dei fascisti islamiciNon a caso Bush, commentando gli attacchi sventati oggi dalle intelligence americana e britannica, ha parlato di «fascisti islamici»: «... Ci ricordano duramente che questa nazione è in guerra con i fascisti islamici, che useranno ogni mezzo per distruggere coloro fra noi che amano la libertà, per colpire la nostra nazione».

Gli Stati Uniti «in guerra con fascisti islamici». Con quella espressione Bush dimostra di aver compreso la natura della minaccia. In realtà l'ha compresa da tempo. Se si escludono i molti commentatori e studiosi (da Berman a Ledeen, da Hitchens a Davis Hanson e a Bernard Lewis), per lo più di area neocon, tra i primi, alla Casa Bianca, nell'amministrazione Bush, a usare l'espressione islamo-fascismo per definire il nemico di questo scontro, furono, sul New York Times, due dei consiglieri per la sicurezza nazionale, Stephen J. Hadley e Frances Fragos Townsend.

L'importante è capire la natura della minaccia. E D'Alema, ma è in buona compagnia, non l'ha capita o finge di non capirla. Giorni fa, su Il Foglio, era Carlo Panella a spiegare quale fosse il grave, e più comune, errore d'analisi, prendendo ad esempio proprio il ministro degli Esteri italiano. Quella in corso non è una banale contesa fra nazioni, tra potenze regionali. Siria e Iran non sono alla ricerca del riconoscimento di un loro status, ed è falso che una volta coinvolte potranno svolgere un ruolo di stabilizzazione. Non sono in gioco l'Istria e la Dalmazia, Nizza e la Savoia, né le alture del Golan. E' un "conflitto di sistema" tra il blocco delle democrazie e un nuovo totalitarismo, che ha una versione fondamentalista dell'Islam, contraria alla modernità occidentale, come catalizzatore del consenso. La posta in gioco non è negoziabile.

«Il mondo - concludeva Panella - ha di fronte, di nuovo, il problema del "1933"», un movimento «utopista totalitario, antisemita e feroce, che gode di un consenso di massa radicato». Dopo la nazionalizzazione della masse europee, la quarta ideologia del '900: «l'islamizzazione della masse arabe», come avevamo scritto fin dall'anno scorso.

"Nulla sarà come prima". "Il mondo è cambiato". Ricordate le parole sulla bocca di tutti all'indomani dell'11 settembre 2001? E in che cosa, se non in questo, il mondo dopo l'11 settembre sarebbe cambiato? L'11 settembre a New York, l'11 marzo a Madrid, il 7 luglio a Londra, l'Afghanistan, l'Iraq, gli attacchi sventati oggi e la guerra in Libano, sono tutti diversi espisodi e fronti di un'unica guerra. Nonostante in molti, per motivi molto diversi fra loro, si rifiutino di chiamarla "guerra", l'espressione "guerra contro i fascisti islamici" è la più corretta e segnerà la nostra epoca, anche se non vuol dire che possa, e debba, essere combattuta e vinta solo nel momento bellico.

Probabilmente domani si parlerà di un possibile collegamento fra i tentati attacchi sventati a Londra e la guerra in Libano. C'è, ma non nel senso di un'alleanza tra Al Qaeda da una parte e Iran e Siria dall'altra. Il wahabismo di Al Qaeda e lo sciismo dell'Iran sono due visioni diverse e anche contrapposte dell'Islam, ma hanno nemici comuni. E molte più analogie politico-ideologiche di quante ne avessero nazismo e stalinismo. I due trovarono un'intesa tattica che permise a Hitler di muovere guerra. Non mi sembra il caso di oggi. Tra Al Qaeda e Iran vedo più un rapporto di competizione e questo per l'Occidente potrebbe anche essere peggio. Al Qaeda - basti ricordare il recente messaggio di Al Zawahiri - teme forse di essere scavalcata dall'Iran, agli occhi dei musulmani, nella guerra anti-sionista e, in generale, nella guida del Jihad globale. Al Qaeda e Iran competono per aggiudicarsi la guida religiosa, politica e militare della "Umma" musulmana.

Hezbollah è «parte integrante dell'esercito libanese», ha detto oggi il presidente libanese filosiriano Lahoud al Corriere della Sera: «La milizia combatte come i vietcong. E io sono con loro». L'importanza di questa dichiarazione è stata colta a pieno forse solo da Marco Pannella. L'intervista di Lahoud porta un utile elemento chiarificatore alla riflessione. Prova che la leadership libanese è ancora saldamente in mano ai siriani e a Hezbollah, altrimenti a una dichiarazione del genere un Siniora qualsiasi avrebbe risposto e gran parte del mondo politico libanese si sarebbe ribellato. Quell'intervista semplifica il quadro. La leadership libanese è complice di Hezbollah, sapeva cosa preparava, l'ha appoggiato o ha taciuto.

Uno dei maggiori studiosi di Islam, Bernard Lewis, sul Wall Street Journal (tradotto da Il Foglio), è tornato a parlare della minaccia iraniana.

Con l'Iran non c'è deterrenza nucleare che tenga. La visione apocalittica e l'ideologia del martirio - ormai radicata nel mondo islamico anche se non ha paralleli nel suo passato - rende il regime degli ayatollah impermeabile a quella paura di distruzione reciproca che frenò Usa e Urss, India e Pakistan.

Ahmadinejad ha annunciato che darà il 22 agosto la risposta definitiva sull'offerta avanzata da Europa e Stati Uniti per risolvere il problema dello sviluppo del programma nucleare iraniano. Ma perché questa data?, si è chiesto Lewis:
«Quale significato ha la data del 22 agosto? Quest'anno, il 22 agosto corrisponde nel calendario islamico al ventisettesimo giorno del mese di Rajab dell'anno 1427. Questa, secondo la tradizione, è la notte in cui i musulmani commemorano il volo notturno del profeta Maometto sulle ali del cavallo Buraq, prima alla "moschea più lontana" (normalmente identificata con Gerusalemme) e poi al paradiso (cfr. Corano XVII, 1). Questa potrebbe essere considerata la data più appropriata per la fine apocalittica di Israele e se necessario del mondo intero».
Non è affatto certo, ovviamente, che gli iraniani abbiano deciso di scatenare un'apocalisse proprio il 22 agosto. Anzi, mi è parso strano che Lewis vi abbia accennato. Non credo che l'Iran sia già in possesso della bomba. Possibile che si sia fatto beffe di tutti i servizi segreti occidentali e mediorientali? Può darsi, invece, che Ahmadinejad intenda giocarsi quella data in termini di propaganda. Ma, suggerisce lo studioso, «sarebbe saggio tenere presente questa possibilità», quella dell'olocausto nucleare.

«Rivelatrice» una frase dell'ayatollah Khomeini, citata sui manuali delle scuole superiori iraniane:
«Annuncio a tutto il mondo che se i divoratori del mondo intendono ostacolare la nostra religione, noi ci schiereremo contro tutto il mondo e non ci fermeremo fino a quando non l'avremo distrutto. O diventiamo tutti liberi, oppure procederemo verso la più grande libertà che è offerta dal martirio. In entrambi i casi, la vittoria e il successo sono assicurati».
Di fronte a una simile visione, a cosa può valere il deterrente che ha funzionato così bene durante la Guerra Fredda, quello della distruzione reciproca? Alla fine, per Khomeini, «ciò che conta sarà la destinazione: l'inferno per gli infedeli e il paradiso per i credenti». Si chiede Lewis: «Come si può affrontare un tale nemico, con una simile concezione della vita e della morte?».

Nel lungo termine, non si può che «fare leva su tutti i musulmani, iraniani, arabi e di altri paesi che non condividono questa visione apocalittica; che piuttosto si sentono minacciati, almeno e probabilmente, ancora più di noi stessi». Forse sono la maggioranza, ma il problema è: come raggiungerli? Come renderli consapevoli di ciò che sta accadendo, e della vita e le libertà che gli sono negate? Servono 10, 100, 1000 Radio Londra.

Toh, Beirut è ancora in piedi...

Foto satellitare di Beirut. Nei cerchi le zone colpite dai raid israelianiMentre continuano a venir fuori foto taroccate di questo strano fotografo, Adnan Haji, a farci ancor più dubitare della copertura mediatica di questa guerra sono le parole del libanese Michael Béhé dell'agenzia Metula News Agency, riportate da Imprescindibile, di nome e di fatto (Nicola Dell'Arciprete). Il giornalista libanese spiega con dovizia di dettagli quel che è stato bombardato e - soprattutto - quel che non è stato bombardato, lo stato d'animo della maggioranza silenziosa dei libanesi nei confronti della presenza di Hezbollah e una spiegazione logica dell'apparentemente elevato numero di vittime civili in Libano.
La mappa satellitare di Beirut (qui accanto, n.d.r.) mostra le due porzioni della città colpite dai bombardamenti della città. Si tratta di Harek Hreit e i quartieri controllati da Hetzbollah a Dayaa. Oltre a queste due zone Tsahal ha fatto saltare in aria un edificio di 9 piani che ospitava il quartier generale di Hezbollah nel centro di Beirut, un deposito di armi siriano nel porto, due radar dell'esercito libanese messi a disposizione di Hezbollah e un camion sospettato di trasportare armi nel quartiere cristiano di Ashrafieh. Per finire, le strade e le infrastrutture aeroportuali. Quindi, conclude il libanese Michael Béhé: non esiste nessuna "distruzione di Beirut". Il 95% della Beirut che non sta dalla parte delle milizie terroriste di Hezbollah, continua a vivere. Andate a Beirut e provate a cercare un tavolo libero in un ristorante prima delle 9 e mezza di sera? - dice Béhé. Il conteggio delle vittime civili, poi. Vengono infatti contati tra i "civili" militanti di Hezbollah senza uniforme...
Facile dare l'idea di una città rasa al suolo, usando trucchetti come questi. «Gli israeliani non stanno distruggendo il Libano, che i libanesi non difendono... è questo il paradosso dell'ultima delle guerre mediorientali», è il commento conclusivo di Imprescindibile.

Wednesday, August 09, 2006

Lieberman ha vinto, i Democratici hanno perso

Joe Lieberman, sconfitto, ma vincenteJoe Lieberman, Democratico, tre volte senatore e candidato vicepresidente di Al Gore alle presidenziali del 2000, ha perso le primarie del suo partito (48 a 52%) per la candidatura al seggio senatoriale del Connecticut, pagando il suo coerente sostegno alla guerra in Iraq e alla lotta al terrorismo. Ha vinto Ned Lamont, un milionario del settore delle telecomunicazioni, pacifista e forsennato anti-Bush, beniamino dei blogger alla DailyKos e della sinistra radicale.

Lieberman ha perso, ma in realtà ha vinto. O, meglio, questa sconfitta può segnare una svolta nella sua carriera politica, proiettarlo addirittura alla Casa Bianca. Qualche giorno fa, William Kristol, sul Weekly Standard, vedeva nella probabile sconfitta di Lieberman «un'opportunità politica» per l'amministrazione Bush: «Se anche Lieberman non fosse in grado di vincere come indipendente a novembre, sarebbe un ottimo Segretario alla Difesa per i rimanenti anni del mandato Bush. E se invece con la sua candidatura indipendente dovesse farcela... sarebbe davvero così stravagante ipotizzare un ticket repubblicano per le presidenziali del 2008 McCain-Lieberman, o Giuliani-Lieberman, o Romney-Lieberman, o Allen-Lieberman, o Gingrich-Lieberman?».

Dick Morris, sul New York Post, spiega che «le notizie della morte politica di Lieberman sono premature e grandemente esagerate. Lieberman ha perso una battaglia, ma può ancora vincere la guerra correndo per il Senato come indipendente». Ed è proprio ciò che Lieberman ha deciso di fare, sapendo di poter giocare su un più vasto bacino di elettorato rispetto a Lamont: sui Democratici moderati (come minimo il 48% della base), gli elettori non schierati e anche parte dell'elettorato repubblicano, presso cui gode di buona stima.
«Naturalmente sono rammaricato per i risultati, ma non sono scoraggiato. Non sono rammaricato solo perché ho perso, ma perché oggi ha vinto la vecchia politica della polarizzazione faziosa. Nell'interesse del nostro stato, del nostro paese e del mio partito, non posso lasciare e non lascerò che questo risultato permanga».
Sul Washington Post, qualche giorno fa, Robert Kagan spiegava in anticipo le ragioni della sconfitta di Lieberman, finendo per ritrarre le figura di un politico serio e affidabile. Forse troppo, per una sinistra ormai preda della propaganda, della faziosità, dell'ipocrisia.
«Se Lieberman perde, non sarà perché ha sostenuto la guerra. La maggior parte dei leader politici democratici e dei policymaker di affari esteri, e molti columnist liberal, l'hanno appoggiata. Né perderà perché si è opposto al ritiro delle truppe quest'anno. I vertici Democratici concordano che un ritiro anticipato sarebbe un errore. Né perché è stato troppo complice con il presidente Bush. Lieberman ha avanzato le sue critiche alla gestione della guerra in Iraq e su molte altre politiche dell'amministrazione. No, il peccato di Lieberman è di tipo diverso. Lieberman viene condannato oggi perché... non ha ammesso di essersi sbagliato. Non ha allontanato i suoi ex alleati e non li ha condannati. Non si è definito vittima delle bufale. Non ha provato a fingere di non aver mai sostenuto la guerra...»
Tutto torna, commenta sarcasticamente Kagan.
«Almeno nel breve periodo, la disonestà intellettuale paga... Paga dimenticarti dei tuoi scritti e discorsi passati. Paga condannare coloro con i quali una volta eri d'accordo... L'unica cosa che non paga è l'onestà intellettuale. Se Joe Lieberman perde, non sarà perché ha sostenuto la guerra o perché ancora la sostiene. Sarà perché si è rifiutato di scegliere uno dei molti disonorevoli modi disponibili per salvare la sua carriera politica. E' l'ultimo uomo onesto, e potrà pagare per questo, ma almeno potrà dormire la notte. E potrà trovare un po' di consolazione sapendo che la storia, almeno una storia onesta, sarà più buona con lui che con il suo partito».
Lanny J. Davis, che ha seguito da vicino la campagna elettorale, sul Wall Street Journal riferisce con stupore della grande quantità di «maccartismo» che ha riscontrato a sinistra, citando le accuse, piene d'odio e moraliste, rivolte contro Lieberman soprattutto dalla blogosfera leftist.

Hanno perso, e di brutto, i Democratici, che si ritrovano il partito ostaggio di una sinistra radicale, priva di cultura di governo, peccato capitale nella politica americana. Le elezioni, negli Stati Uniti, si vincono al centro, con il requisito essenziale di non apparire deboli e inaffidabili sulla sicurezza nazionale.

Una sinistra contro la guerra, che ha assunto un atteggiamento "europeo" contro Israele, persino con un governo di centro a Gerusalemme, che reagisce a un attacco e non sta difendendo insediamenti nei Territori occupati. Secondo John McIntyre, per il Partito Democratico «la vittoria di Lamont rappresenta un grande passo indietro alla formula perdente di McGovern». All'apice delle proteste contro la guerra in Vietnam, gli americani votarono al 57% per Nixon e Wallace nel 1968, e al 60% per Nixon nel 1972 contro il partito anti-guerra di McGovern.

La sconfitta di Lieberman oggi, nelle primarie del partito, potrebbe voler dire, come allora, l'inizio di una serie di sconfitte e di un lungo periodo di lontananza dalla Casa Bianca per i Democratici.

I low cost. Mercato più libero, più equo

Insieme a Phastidio, è il miglior blog che tratta di economia, ma più attento al mondo del lavoro e del welfare: Idraulico polacco. Sua un'esemplare difesa dei voli low cost, presi d'assalto dai moralismi congiunti del deputato dell'Udc D'Agrò - che proponeva al ministro Bianchi di stilare una "black list" delle compagnie che applicano prezzi bassi e poi non rispettano i diritti dei lavoratori o le misure di sicurezza - e del Manifesto, che giorni fa ospitava un editoriale in cui si diceva che i voli commerciali «fanno la guerra al clima» e che i «viaggiatori ecopax» [?!] avrebbero il dovere di interrogarsi sul successo dei low cost e dire «no grazie, prendo il treno, o il traghetto».
«I low cost non piacciono né a destra né a sinistra. Meglio ristabilire sane tariffe di classe, così si svuotano un po' i cieli, i ragazzi di Pescara andranno a Londra in treno o in traghetto (che notoriamente sono alimentati da fiori di campo e non consumano nè elettricità nè petrolio), ci metteranno dieci volte tanto, e pagheranno dieci volte di più».
In effetti, i voli low cost dimostrano come in un settore come quello dell'aviazione civile il libero mercato abbia aperto a milioni di ragazzi, soprattutto non benestanti, le porte dell'Europa. Una rivoluzione dei costi garantita da quello che alcuni chiamano "liberismo selvaggio" e che ha reso tanti ragazzi meno abbienti più liberi e più ricchi di conoscenze e, quindi, di possibilità per costruirsi un futuro a un livello più alto del gradino sociale di partenza. Spesso invece, l'editoriale del Manifesto segnalato da Idraulico polacco ne è la prova, la sinistra è talmente classista e snob da non rendersene conto.

Come nessuno si è accorto del «volto duro» di Zapatero, che ha definito senza mezzi termini «inaccettabile» l'occupazione delle piste dell'aeroporto Prat di Barcellona da parte dei lavoratori di Iberia il cui posto di lavoro è a rischio perché la compagnia ha perso l'appalto per la gestione dei servizi di terra.

E voi, quanti Big Mac vi potete permettere?

In Europa le quattro città più care del pianeta: Oslo, Londra, Copenaghen e Zurigo, seguite al quinto posto da Tokyo. Sempre in Europa si lavora di meno. E' quanto emerge dallo studio UBS "Prezzi e Salari", che ogni anno stila la classifica delle città più care del mondo e del relativo potere d'acquisto dei cittadini.

Come termine di paragone anche un prodotto omogeneo a livello mondiale, il Big Mac. Per il suo acquisto a Zurigo bastano 15 minuti di lavoro, mentre la media mondiale risulta di 35 minuti. Le differenze sono notevoli: a Nairobi serve un'ora e mezza di lavoro per potersi comprare un Big Mac. Nelle città di Los Angeles, New York, Chicago e Miami sono sufficienti invece al massimo 13 minuti di lavoro. A causa dei maggiori costi di produzione, nelle città svizzere e scandinave servono da 15 a 20 minuti. Per Milano sono stati indicati invece 20 minuti, per Roma 39. Agli ultimi posti della classifica ci sono Delhi, Manila e Giacarta (86 minuti).

L'Asia è il continente dove si lavora a ritmi forsennati, quasi 50 giorni l'anno in più rispetto all'Europa occidentale. In un anno il numero medio di ore lavorate nelle città asiatiche è infatti di 2.088 (con una settimana di 42 ore di lavoro), mentre a Parigi o a Berlino si arriva rispettivamente a 1.480 e 1.610 ore.

Quanti Big Mac vi potete permettere?

Di nuovo, il problema del 1933. Ma non vogliono capirlo

Saluto dei miliziani Hezbollah durante una manifestazioneDopo la nazionalizzazione della masse europee, la quarta ideologia del '900: «l'islamizzazione della masse arabe»

Si sarà accorto il ministro degli Esteri D'Alema che l'agenzia di stampa ufficiale del regime siriano ha distorto un passaggio della sua intervista a La Stampa, dello scorso 3 agosto? Sul suo sito, citando proprio quell'intervista, l'agenzia Sana riporta tra virgolette: «Italy will support Syria's stance in defending its interests and reaching a solution to the occupied Golan issue».

Ora: molto è discutibile dell'intervista, e certo non si può dire che l'atteggiamento di D'Alema fosse ostile alla Siria, ma il "will support" manca del tutto. Queste le parole del vicepremier:
«E' evidente che da parte di Damasco si rivendica il diritto a partecipare ad un processo di pace in Libano che comporti anche la ricerca di soluzioni per il Golan. La Siria teme invece di essere marginalizzata da un nuovo processo che allontani la prospettiva del recupero dei territori occupati da Israele nel 1967».
Quindi, un passaggio descrittivo della posizione e degli interessi della Siria nella crisi libanese, che certamente rivela una disposizione non ostile di D'Alema verso Damasco, viene tradotto come aperto appoggio.

Solo uno strapuntino dell'informazione di regime. Gli dài una mano e quelli si prendono il braccio. Per questo un ministro degli Esteri dovrebbe starci attento.

Una lettura interessante delle posizioni di D'Alema la offriva, ieri su Il Foglio, Carlo Panella. D'Alema, come Nixon e Eisenhower nel '56, «non comprende Israele e si rifiuta di dare retta a un leader socialista che invece ha capito tutto». Allora non si fidarono di Guy Mollet, oggi non si fida di Shimon Peres.

Sulla crisi di Suez Washington rifiutò l'analisi francese e «da quel momento fraintese quanto accadeva in Medio Oriente e sbagliò in buona parte tattiche e strategie». Mollet, infatti, sosteneva che sul Canale di Suez «non si giocava solo uno scontro col nazionalismo di Nasser, ma un inedito e drammatico "conflitto di sistema" tra il blocco delle democrazie e un nuovo totalitarismo. "Leggete La filosofia della Rivoluzione di Nasser – disse Mollet a Dillon – e vi accorgerete che è peggio del Mein Kampf"».

Gli Usa non gli diedero retta e continuarono a considerare le pretese egiziane sul Canale - in violazione palese della convenzione di Costantinopoli che garantiva il libero accesso universale agli stretti - una normale contesa tra nazioni, ignorando invece il suo connotato ideologico. Addirittura, dopo la sconfitta della guerra anglo-franco-israeliana, Nixon festeggiava la «nuova» posizione americana, finalmente capace di arginare le intenzioni neo-colonialiste degli europei.

L'effetto di quella vittoria egiziana, secondo Panella, «fu il radicamento del jihadismo prima nella versione militaresca di Nasser, Saddam, Assad e Arafat e poi in quella fondamentalista di Khomeini e dei salafiti wahabiti». Come allora Nixon, D'Alema «sbaglia analisi perché non fa sua quella del laburista Peres (identica a quella di Mollet)».
«La mia impressione è che Siria e Iran cercano un riconoscimento del loro ruolo e status. E' evidente che da parte di Damasco si rivendica il diritto a partecipare ad un processo di pace in Libano che comporti anche la ricerca di soluzioni per il Golan. La Siria teme invece di essere marginalizzata da un nuovo processo che allontani la prospettiva del recupero dei territori occupati da Israele nel 1967. Ciò che abbiamo detto ai siriani è che se avranno un ruolo positivo, se contribuiranno ad isolare l'estremismo, anziché incoraggiarlo, ciò gli consentirà di difendere anche i loro interessi».
Massimo D'Alema (La Stampa, 3 agosto)
Ritenere che il «processo di stabilizzazione» non solo possa, ma debba «coinvolgere Siria e Iran» è un grave errore d'analisi. I due paesi non si muovono solo in un'ottica di potenza regionale. Essi stessi, a gran voce, ripetono che il loro obiettivo è un conflitto ideologico il cui primo passo è distruggere Israele. Panella ricorda a D'Alema «che "umma" non si traduce con "nazione", ma con "comunità islamica" e che Siria e Iran combattono per una sharìa, come aveva intuito Mollet, che regola una società totalitaria, con punti di contatto col nazismo: Führerprinzip, diritti dimezzati della donna, dittatura della fede unica e stato etico, incubo dell'apostasia, il tutto cementato dall'odio per gli ebrei».

«Il mondo - conclude Panella - ha di fronte, di nuovo, il problema del "1933"», un movimento «utopista totalitario, antisemita e feroce, che gode di un consenso di massa radicato». Dopo la nazionalizzazione della masse europee, la quarta ideologia del '900: «l'islamizzazione della masse arabe», come avevamo scritto fin l'anno scorso.

Tuesday, August 08, 2006

Scontro finale per il futuro del Libano. Nubi su Damasco

Teheran non mollerà l'osso libanese

Il senso di ottimismo di Germania e Gran Bretagna su un imminente accordo, all'Onu, sulla prima risoluzione in merito alla guerra in Libano, che il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier e il premier britannico Blair avevano affidato stamani alle agenzie di stampa, è stato rapidamente, e beffardamente, gelato dal "no" di Mosca, poi parzialmente rientrato nel pomeriggio.

La bozza veniva definita «inutilizzabile» dal Libano dal rappresentante di Mosca alle Nazioni Unite, l'ambasciatore Vitaly Churkin. «Per noi è evidente che un tale progetto, che è inutilizzabile dalla parte libanese, non dovrà essere adottato, perché non farebbe altro che condurre al proseguimento del conflitto e delle violenze». Probabilmente solo un bel gesto nei confronti della Lega araba.

Non resta che aspettare, pare giovedì, e vedere quali, e quante, delle obiezioni avanzate dal Libano e dalla Lega araba saranno state accolte nella risoluzione, grazie alla disponibilità francese e all'ultima giravolta dei russi.

Intanto, c'è la cauta apertura del premier israeliano Olmert alla proposta libanese di dispiegare 15 mila soldati regolari sul confine con Israele: «È un passo interessante che dobbiamo esaminare. Dobbiamo verificarne tutti gli aspetti, e vedere in quale misura è realizzabile e in che tempi». E soprattutto verificare che Hezbollah non riesca a infiltrare l'esercito libanese. Israele, ha ribadito il premier, «non vuole occupare il Libano. Non vogliamo restare in Libano, vogliamo realizzare gli obiettivi dell'operazione: impedire il lancio di razzi ed allontanare Hezbollah dall'area. Prima lasceremo il Libano Sud, più saremo soddisfatti».

Ma gli snodi di questa giornata sono le nubi minacciose che si stanno addensando su Damasco e la ferma volontà di Teheran di non mollare l'osso libanese.

L'Iran non assisterà immobile al disgregarsi delle capacità militari di Hezbollah, alla perdita del territorio che controlla, e, quindi, al venir meno della sua influenza politica sul Libano, usato come campo base da cui lanciare attacchi contro Israele. Stati Uniti e Gran Bretagna, i regimi arabi sunniti con il loro silenzio-assenso in funzione antiraniana, e suo malgrado l'Onu, stanno lasciando parecchio tempo a Israele per terminare la "disinfestazione". Inoltre, ed è il campanello d'allarme suonato a Teheran e Damasco, all'Onu sta emergendo la concreta possibilità di un intervento internazionale che potrebbe rendere definitiva l'eliminazione dell'influenza iraniana sul Libano.

Ne parla in modo convincente Carlo Pelanda, oggi su Il Foglio. L'Iran, e la Siria, aiutano attivamente le milizie Hezbollah. Dalla base di Anjar, sede della Decima divisione dell'esercito siriano, dall'altra parte della città libanese di Az Zabdani, arriverebbero le informazioni di intelligence siriane e dei Guardiani della Rivoluzione iraniani contro l'esercito israeliano.

«Potrà l'Iran accettare la sconfitta? Dai primi segnali pare che non lo vorrà fare», osserva Pelanda. Userà l'arma del petrolio, ma soprattutto Teheran «sta tentando di condizionare il governo libanese, ricattandolo con la minaccia di una guerra civile, ad agire secondo modi utili al regime di Ahmadinejad. E sta cercando qualche governo che dica quanto sia essenziale dialogare con l'Iran per risolvere la crisi, finora ottenendo soltanto il sostegno di Prodi, probabilmente a fronte di un ricatto contro l'Eni e/o di sostanziosi incentivi».

La carta ancora nelle mani di Teheran è di «trasformare il conflitto Israele/Hezbollah in uno Israele/Libano, costringere i paesi arabi a scendere in campo a difesa di uno di loro e la comunità internazionale ad accettare l'Iran al tavolo negoziale per le soluzioni, ritardando nel frattempo l'intervento internazionale per costringere Israele a far la figura di occupante e ritirando metà degli Hezbollah per salvarli e poi riutilizzarli».

Che il ruolo di Iran e Siria preoccupi, si vede anche dalle parole di ieri del presidente Bush, che ha ripetuto le sue accuse agli autori dell'«attacco a Israele» - che «creano caos, e ricorrono al terrorismo per fermare l'avanzata delle democrazie in Medio Oriente» - ma innanzitutto spiegato ai sostenitori del dialogo, ingenui o in malafede, che i contatti con Damasco ci sono stati, che non è una questione di comunicazione quella che impedisce una soluzione della crisi, bensì di una risposta non positiva da parte dei regimi di Damasco e Teheran.

Se a quanto pare quella della Rice è la linea "morbida", la linea dura è sostenuta in particolare da Daniel Pipes, il direttore del Middie East Institute, consulente della Casa Bianca intervistato oggi dal Corriere.

Pipes dubita che l'intervento dell'Onu «possa avere un effetto costruttivo e duraturo». «Non eliminerà le cause della crisi». E ha spiegato che «le divergenze sul Libano sono il prodotto delle vecchie divergenze sulla strategia da seguire verso il radicalismo islamico, già emerse sulla Palestina, l'Iraq, l'Iran». Per risolvere la crisi libanese, conclude, «bisognerebbe fare alla Siria, lo sponsor di Hezbollah, un'offerta che non possa rifiutare: minacciare di bombardarla a meno che non neutralizzi questo gruppo terroristico... In base alla risoluzione 1680 dell'Onu dello scorso anno la Siria doveva impedire il transito di armi sul suo territorio. Con o senza l'Onu e l'Ue, gli Usa devono ammonirla che la colpiranno, se continuerà ad aiutare Hezbollah». Per farla cedere, secondo l'analista, «basterebbe un blitz mirato contro le intrastrutture terroristiche e militari siriane». E sarebbe «una lezione anche per l'Iran».

Gli europei non capiscono che «la partita in Libano è cruciale, che mette in pericolo, oltre a Israele, il Medio Oriente e l'Europa, che non si deve chiudere con la vittoria del radicalismo islamico, un movimento simile al fascismo e al comunismo, forse ancora più fanatico».

Che si guardi sempre più alla Siria lo dimostra anche l'intervista al Giornale del ministro della Sicurezza israeliano, Avi Dichter: «Damasco è una minaccia».
«Stiamo già pensando a come colpire per mettere fine a tutto ciò... A Damasco sanno cosa significa minacciare Israele, e sono consapevoli del prezzo che pagherebbero. Il problema non sono le loro minacce, ma quello che già stanno facendo. Grazie a loro Hezbollah continua a ricevere rifornimenti e testate missilistiche. A noi basta questo».