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Thursday, August 17, 2006

Le zone d'ombra della sicurezza

Nessuna misura d'emergenza, nessuna eccezionalità, nessun anacronistico stato di guerra. Ciascun potere e corpo dello Stato rispetti le proprie funzioni costituzionali: Governo e Parlamento esercitino la responsabilità politica della difesa

Giorni fa, all'indomani degli attacchi terroristici sventati a Londra, il Wall Street Journal scriveva che era «giunto il momento di riflettere sulle politiche che ci hanno protetto e su coloro che si sono costantemente opposti a queste politiche». Negli Stati Uniti il dibattito su sicurezza nazionale e stato di diritto non s'è fermato un attimo dal settembre 2001, mentre in Italia non è mai davvero cominciato. Per lo meno mai seriamente, in modo approfondito e trasparente, ma solo a colpi di iniziative giudiziarie e ipocrite dichiarazioni di principio.

Anche qui da noi, tuttavia, coloro che affermano che la guerra al terrorismo dev'essere combattuta non con le bombe, ma con gli strumenti dell'intelligence, al dunque cercano di limitare anche quegli strumenti, sospettando persino la sola "collaborazione" con i servizi di uno dei principali nostri alleati, gli Stati Uniti, scordandosi che le garanzie ordinarie che pongono dei limiti alla sorveglianza e alla detenzione sono molto minori qui in Europa, per esempio in Francia e in Italia, che negli Usa.

Angelo Panebianco, con un primo editoriale, del 13 agosto, ha scosso dal torpore qualche anima candida. E' ingenuo «credere che la guerra dichiarata all'Occidente dal terrorismo jahadista possa essere affrontata con gli stessi strumenti con cui ci si difende dai ladri di polli o dai rapinatori di banche». Ha quindi individuato, oltre alla categoria del «nemico interno», coloro che di fatto parteggiano per i jihadisti, la categoria dei «neofiti della legalità», contrapposti ai «liberali di antica data», che «hanno sempre saputo che lo stato di diritto deve convivere, se si vuole sopravvivere, con le esigenze della sicurezza nazionale».

Panebianco s'è incaricato di affrontare un argomento taciuto, un vero e proprio tabù nell'Europa pacifica e del benessere dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, ma da sempre molto studiato dai filosofi politici: lo stato di guerra e la sua eccezionalità.

«Accettare tacitamente un compromesso fra stato di diritto e esigenze della sicurezza nazionale» vuol dire «salvaguardare le regole e le procedure dello stato di diritto, contemporaneamente accettando l'esistenza di una "zona grigia", al confine fra legalità e illegalità, in cui gli operatori della sicurezza siano messi in condizioni di agire. Ci sono "ambiti riservati" davanti ai quali lo stato di diritto si arresta, non entra, se non, e solo in casi eccezionali, con la massima cautela».

Panebianco non s'illude che non esistano «rischi di degenerazioni». Ve ne sono. Ma proprio la delicatezza di tracciare una linea di confine, mantenere un equilibrio, richiedono grande «vigilanza e responsabilità politica». La politica, ai suoi massimi livelli, deve svolgere la funzione di controllo per «impedire le sempre possibili degenerazioni». Come dicevamo in un precedente post, perseguire i reati spetta alla magistratura, la difesa nazionale al Governo, controllato dal Parlamento. Non vedo in questo nessuna esigenza di misure d'emergenza, nessuna eccezionalità, nessun anacronistico "stato di guerra". Mi accontenterei del semplice rispetto delle proprie funzioni costituzionali da parte di ciascun potere e corpo dello Stato.

L'operato dei servizi di sicurezza, proprio perché segreto, ai confini della legalità (e qualche volta oltre), è sottoposto al controllo della suprema autorità politica di una democrazia: l'assemblea rappresentativa. E il Governo è responsabile di fronte al Parlamento dell'uso che fa dei servizi.

La cosa sorprendente dell'inchiesta sulla cattura dell'imam Abu Omar non è tanto, o non solo, una magistratura che conduce una battaglia ideologica e cerca di condizionare la politica estera e di sicurezza del paese, ma è proprio la politica (di destra e di sinistra) che non reagisce, che non si rende conto dell'invasione della magistratura in un campo che non le compete: la difesa nazionale.

Se vi suonano sospette le parole di Panebianco o Ferrara, ascoltate il filosofo liberal Michael Walzer, che sottolinea l'importanza di un dibattito pubblico e, infine, di una decisione politica, e difende il Patriot Act voluto da Bush e dal Congresso Usa: un tentativo, forse imperfetto, di dotarsi di regole adeguate alla lotta al terrorismo, ma di certo non un attacco alle libertà civili.

Panebianco sottoscrive parola per parola la risposta data giorni fa da Emma Bonino all'Unità su eventuali operazioni di sicurezza che sconfinino nell'illegalità: «Sono scelte politiche di riduzione del danno di cui ci si assume la responsabilità politica di volta in volta e di cui, magari, non si deve andare fieri. Scelte che si fanno di giorno in giorno e dipendono dal contesto. Non mi scandalizza, anche se si può sbagliare».

Se da una parte, infatti, ci sono da considerare «le sempre possibili degenerazioni», da evitare con il controllo e la responsabilità politica ai massimi livelli, dall'altra non si deve scordare che è proprio indebolendo la democrazia in uno dei compiti per cui si giustifica l'esistenza dello Stato, la difesa della comunità, che prima o poi, per reazione della maggior parte dei cittadini, si finisce «dritto filato verso soluzioni autoritarie».

3 comments:

UMBERTO MAGNI said...

Ho postato adesso l'intervista. Ti scomoda fargli un pò di pubblicità?
Ciao

Anonymous said...

Il problema italiano è che a livello politico nessuno è in grado di prendersi queste responsabilità. Anche nel caso in oggetto, nessun politico ha fatto dichiarazioni in tal senso, e se la politica se ne chiama fuori, rimane solo in balia dell'arbitrio dei servizi, che a volte funzionano per il bene comune a altro volte meno.

Anonymous said...

Ottimo. Anche Popper era pienamente d'accordo.