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Thursday, December 15, 2016

20 gennaio, faster please!

Non ci mancherai Barack, sore loser in chief

Donald Trump non è ancora alla Casa Bianca e si sprecano su tv, radio e giornali preoccupate analisi sui favori che farà all'"amico" Putin... Nessun bilancio, invece, sugli otto anni di regali fatti da Obama e Hillary Clinton. Sul primo ci sono (per ora) solo parole, intenzioni al massimo. Dei secondi a parlare sono i fatti. Nessuna amministrazione americana ha fatto più di Obama per Russia e Iran. Durante i suoi mandati abbiamo visto i maggiori successi geopolitici (e militari) russi che si ricordino da decenni, dalla Crimea al Medio Oriente. E pensare che all'inizio proprio Obama e Hillary avevano perseguito con convinzione la politica del "reset" con Mosca, insultando McCain e Romney in campagna elettorale per il loro approccio più aggressivo verso i russi (da "relitti" della Guerra Fredda). Dunque, Obama dovrebbe essere il primo a tacere.

E forse, invece di prevedere il futuro, sarebbe più serio per il nostro giornalista collettivo cominciare dall'analisi del presente e del passato, perché non è detto che i danni di Obama e Clinton siano reversibili, ora, con un atteggiamento ostile verso Mosca.

La Russia è una nazione "più piccola e più debole di noi", "non produce nulla che la gente desideri", "non ha il potere di cambiarci, né di indebolirci". E' il sassolino che si è voluto togliere dalla scarpa il presidente uscente nella sua ultima conferenza stampa. Tutto vero, e dovrebbero ricordarselo i putiniani alle vongole. Peccato che le parole di Obama siano dettate da frustrazione e rosicamento, perché proprio da quelli lì - piccoli e deboli - si è fatto fregare su tutti i fronti per 8 (otto!) lunghi anni.

Eh già, quello di Obama è un brutto finale di partita. Dopo le iniziali frasi di circostanza, lui e i Dems stanno dando prova di essere i veri sore losers e "un-American".

Solo poche settimane fa Hillary Clinton e la sua campagna denunciavano Trump come "un-American" per aver detto che le elezioni potevano essere truccate. Ma ora che la Clinton ha perso, sono i suoi - in primis il capo della sua campagna John Podesta, con la sponda di alcune fonti della Cia di Obama, citate dal WashPo - a sostenere che le elezioni sono state davvero truccate, a vantaggio di Trump, niente meno che per opera del Cremlino... e cercano addirittura il colpo di mano (grandi elettori sotto assedio, alcuni minacciati di morte). Questo sì, è davvero "un-American".

E sarebbe un autogol, perché significherebbe ammettere che il presidente Obama e la Cia e tutte le altre agenzie governative non hanno saputo proteggere la democrazia americana dalle ingerenze di una potenza straniera sulle elezioni... Sarebbe la prima volta nella storia... Non so chi ne esca peggio, ma somiglierebbe più a un fallimento epocale di Obama e dei democratici (SE fosse vero).

Ci sarebbe da cominciare a capire il fenomeno Trump, a "studiare" le sue prime mosse, ma i media s'attaccano alla ridicola storia che la Russia ha "hackerato" le elezioni... E qui da noi ovviamente si banchetta con le bufale confezionate dai media liberal d'oltreoceano...
Want to recognize Russia as an enemy? Want Congress to do a thoroughgoing investigation of all its espionage and meddling in our country, including efforts to influence election outcomes? Want to hold Trump’s feet to the fire because you’re worried that he and some of his subordinates seem oddly well-disposed toward Putin, a murderous, anti-American dictator? By all means, let’s do it. It’s way past time.

But let’s not pretend the "Russia hacked the election" farce is anything other than what it is: a scheme by the Democrat-media complex to rationalize a do-over - to persuade the Electoral College that it is not bound by the election results. The spectacle we’re watching has nothing to do with Russia.

Tuesday, December 13, 2016

Un "dealmaker" al Dipartimento di Stato

Pubblicato su Ofcs Report

Il "petroliere". Il ceo di Exxon Tillerson è la scelta di Trump come segretario di Stato: diffidare da chi lo liquida come amico (e quindi "servo") di Putin

Nella formazione della sua squadra di governo il presidente eletto Donald Trump continua a stupire con scelte all'insegna non dell'ideologia, ma del pragmatismo, della competenza e della coerenza con le priorità indicate in campagna elettorale. Scelte di altissimo profilo, che indicano la sua intenzione di circondarsi delle menti e delle carriere più brillanti del Paese nei vari ambiti di governo. Dopo tre generali - James Mattis alla Difesa, John Kelly alla Sicurezza interna e Michael Flynn come consigliere alla Sicurezza nazionale - è finalmente arrivata la scelta per la casella più importante e influente della sua amministrazione, la carica di segretario di Stato. Trump ha scelto Rex Wayne Tillerson, presidente e amministratore delegato della Exxon Mobil, una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo. Ha superato di slancio i "due litiganti", il favorito dell'establishment del Partito repubblicano Mitt Romney, candidato alla Casa Bianca di quattro anni fa, e l'ex procuratore ed ex sindaco di New York Rudy Giuliani, fedelissimo della prima ora di Trump, che però nei giorni scorsi si era ritirato dalla corsa. Ad affiancare Tillerson nel ruolo di vicesegretario dovrebbe essere l'ex ambasciatore presso le Nazioni Unite, John Bolton.

"It's the economy...", anzi "il petrolio...", direbbe con occhi sbarrati il personaggio interpretato da Robert Redford nel celebre film di Sidney Pollack "I tre giorni del Condor". E nel mercato del petrolio la geopolitica è pane quotidiano. Almeno un paio di cose ce le dice sulle intenzioni di Trump questa scelta destinata a destare molte polemiche e perplessità. Primo, che per il neo presidente anche in politica estera la vera priorità è l'economia. Secondo, che pensa di dover concludere molti accordi, se vuole accanto a sé come segretario di Stato un uomo d'affari abituato a siglare accordi ad altissimo livello con enormi poste in gioco. Tillerson è infatti il "dealmaker" per eccellenza, un maestro di geopolitica. E non è un mistero che in cima all'agenda di Trump, dichiarate in campagna elettorale, ci sono due "mission impossible": una maggiore cooperazione con la Russia (il "reset" con Mosca fu mancato persino da Hillary Clinton e Obama all'inizio dei loro mandati) e un duro confronto con la Cina sul commercio, la politica monetaria e le questioni di sicurezza. Roba da far tremare i polsi a chiunque, un po' meno forse a chi è abituato a negoziare accordi da miliardi di dollari.

Lo stesso Trump ha spiegato di averlo scelto per il suo bagaglio di conoscenze globali e le sue abilità da manager. "La cosa che mi piace di più di Rex Tillerson è che ha una vasta esperienza nel trattare con successo con tutti i tipi di governi stranieri", "è un giocatore di calibro mondiale... conosce molti dei giocatori e li conosce bene". "La sua tenacia, la sua ampia esperienza e profonda comprensione della geopolitica lo rendono un'eccellente scelta", ha aggiunto il presidente eletto, anticipando che il futuro segretario di Stato "promuoverà la stabilità regionale e si concentrerà sui principali interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Rex sa come si gestisce un'impresa globale, il che è cruciale per guidare con successo il Dipartimento di Stato, e le sue relazioni con i leader di tutto il mondo non sono seconde a nessuno". Anche le multinazionali hanno una loro politica estera, la cui priorità di solito è la stabilità. Ma per quanto siano "globali", gli interessi di una multinazionale non coincidono con quelli di un Paese come gli Stati Uniti. E' solo una delle perplessità che Tillerson dovrà dissipare.

Destano preoccupazioni, inoltre, e saranno motivo di una resistenza probabilmente bipartisan in Senato alla ratifica della sua nomina, i suoi ottimi rapporti con il presidente russo Vladimir Putin. In Russia Tillerson ha concluso per Exxon importanti accordi, così come in un'altra cinquantina di Paesi, molti dei quali retti da governi altrettanto autoritari (se non sanguinari) e tra i più corrotti (Ciad, Venezuela, Libia, Iraq, Angola, Guinea equatoriale). Nel 2011 ha negoziato con le autorità russe un gigantesco accordo che consente alla Exxon di esplorare i giacimenti dell'Artico, permettendo in cambio alla compagnia petrolifera russa Rosneft di investire nelle concessioni Exxon nel mondo. Nel 2012 è stato insignito da Putin (insieme al nostro Paolo Scaroni, ex ad di Eni) dell'Ordine dell'Amicizia, onorificenza che il Cremlino riserva ai cittadini stranieri che più hanno contribuito a migliorare le relazioni con la Russia. Inoltre, si è detto contrario alle sanzioni occidentali contro Mosca (che definisce "ineffective", inefficaci).

Tillerson è stato quindi sbrigativamente "bollinato" dalla solita stampa mainstream, dall'"inviato collettivo", e da alcuni commentatori come "l'amico di Putin". Analisi che tuttavia rischiano di rivelarsi superficiali, come d'altronde siamo ormai abituati a notare quando si parla di Trump. Che senso ha parlare di "amicizia" nel mondo degli affari e, ora, in politica estera? In questi ambiti il concetto di amicizia dev'essere quanto meno contestualizzato e relativizzato. Ci può essere stima, rispetto reciproco. Ci possono essere buoni e persino ottimi rapporti. Ma a certi livelli, quando sono in gioco da una parte affari per miliardi di dollari e dall'altra le ambizioni geopolitiche di un Paese come la Russia, non esiste "amicizia". Esistono gli interessi e l'intelligenza, l'abilità dei giocatori di concludere un accordo soddisfacente per entrambe le parti, "win-win". Se questa è amicizia, ben venga anche fra avversari in politica internazionale. Così come è difficile immaginare che Tillerson abbia per "amicizia" anteposto gli interessi di Putin a quelli della Exxon, perché dovrebbe anteporli a quelli degli Stati Uniti che ora èchiamato a rappresentare? E detto tra parentesi, è curioso come gli stessi che oggi, prim'ancora che metta piede alla Casa Bianca, accusano Trump di voler favorire la Russia non abbiano emesso un fiato in questi otto anni, mentre le incertezze e i pasticci di Obama e di Hillary Clinton spianavano davvero la strada a Putin regalando alla Russia i maggiori successi geopolitici - dall'Ucraina al Medio Oriente - degli ultimi decenni, di cui oggi probabilmente non resta che prendere atto con realismo.

A raccomandare Tillerson al transition team di Trump, niente meno che James Baker, stimato segretario di Stato (di scuola realista) durante la presidenza di Bush padre, l'ex segretario alla difesa ed ex direttore della Cia Robert Gates e l'ex segretario di Stato Condoleezza Rice, esponenti di spicco delle amministrazioni di George W. Bush. E tutte autorevoli personalità "di governo", che godono di una stima bipartisan nella comunità degli affari esteri statunitense. Non esattamente le referenze di un "tirapiedi" di Putin. L'amicizia di Tillerson con Putin è "una narrazione completamente falsa", avverte Bob Gates intervistato dalla Pbs. "Penso sia un errore pensare che siccome Rex Tillerson ha fatto con successo affari in Russia, allora lui sia il migliore amico di Putin". "Ampia conoscenza, esperienza e successo nel trattare con dozzine di governi e leader in ogni angolo del mondo", è il valore aggiunto che Tillerson porterà al Dipartimento di Stato secondo Gates, che lo definisce "una persona di grande integrità, il cui unico obiettivo in carica sarebbe quello di tutelare e far avanzare gli interessi degli Stati Uniti... Sarà un campione globale dei migliori valori del nostro Paese". Dello stesso tenore la dichiarazione di supporto della Rice, secondo cui porterà al Dipartimento di Stato la sua "ampia e straordinaria esperienza internazionale, una profonda comprensione dell'economia globale e la sua ferma convinzione nello speciale ruolo dell'America nel mondo". Lo definisce "uomo d'affari di successo e patriota", che "rappresenterà gli interessi e i valori degli Stati Uniti con impegno e risolutezza".

Ma nella biografia di Tillerson emergono anche particolari interessanti: boy scout in gioventù, tra il 2010 e il 2012 è stato il capo di tutti gli scout d'America, sostenendo la decisione di ammettere anche ragazzi e ragazze dichiaratamente omosessuali. E' un patito di Abraham Lincoln e uno dei suoi libri preferiti è "La rivolta di Atlante" di Ayn Rand, pietra miliare del pensiero libertario.

Che la promozione attiva della democrazia, il "nation-building", l'interventismo come imperativo morale non saranno i principi-guida della politica estera dell'amministrazione Trump lo sapevamo già e la scelta di una figura come Tillerson alla guida del Dipartimento di Stato ne è la conferma. Questo non significa tuttavia che Trump o Tillerson agiranno da "fantocci" di Putin e che gli interessi degli Stati Uniti saranno svenduti alla Russia. Nel 2008, al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, Tillerson ha bacchettato Mosca sullo stato di diritto: "Non c'è rispetto per la legge, nella Russia di oggi", deve "migliorare il funzionamento del sistema giudiziario e della magistratura". "Non condivido tutto ciò che Putin sta facendo - ha spiegato, a febbraio, agli studenti dell'Università del Texas - Non condivido tutto ciò che molti leader stanno facendo. Ma Putin comprende che sono un uomo d'affari. E ho investito molti soldi, la nostra compagnia ha investito molti soldi in Russia, con molto successo". Affari o amicizia?

Sunday, December 11, 2016

Quali profughi? Il grande inganno dell'accoglienza

Corriere di oggi, pagina 25, andatevi a leggere quanto pesano i profughi siriani sull'ondata migratoria che arriva in Italia (dati 9 dicembre 2016)... Come? Sì, avete letto bene, la Siria non figura nemmeno tra le nazionalità dichiarate al momento dello sbarco... Poi rileggetevi le recenti dichiarazioni del commissario europeo Avramopoulos ("Se confrontiamo Italia e Grecia vediamo che fino all'80% dei migranti che attraversano il Mar Egeo sono profughi, mentre la maggioranza di quelli che arrivano in Italia dal Mediterraneo centrale, anche in questo caso l'80%, sono irregolari"), incrociatele con il dato sulle espulsioni dall'Italia (sempre Corriere di oggi, "espulso solo uno su dieci"), e capirete perché l'emergenza immigrazione in Italia è tutta nostra, non c'entra nulla il "dovere morale" di accogliere i profughi ma dipende dalle assurde politiche dei nostri governi, e questo spiega perché sul tema siamo completamente isolati in Europa.

Immigrazione senza fondo che, insieme alla stagnazione economica, è anche la principale causa della caduta di consensi al Governo Renzi (e, quindi, della sconfitta referendaria che gli è costata Palazzo Chigi). La Merkel l'ha capito e si è ricandidata per un quarto mandato non senza aver cambiato musica proprio sull'immigrazione.

UPDATE 16 dicembre
Il Financial Times ha preso visione di un documento di Frontex, l'agenzia europea per i confini esterni, in cui si accusano le ong che operano nel Mediterraneo di collusione con gli scafisti... Ma del primo complice, il governo italiano, ancora non si sono accorti... Per ora.

Tutti gli errori di Renzi e il fattore 40%

Gli errori di Renzi da una parte, le incertezze sulla reale motivazione degli elettori del No dall'altra. Hanno prevalso i primi. L'aspetto positivo dell'esito del voto referendario del 4 dicembre è che una pessima riforma costituzionale è stata bocciata. Quello negativo è che per chissà quanti anni nessuna maggioranza si azzarderà a toccare una delle Costituzioni più brutte, illiberali e disfunzionali tra le democrazie occidentali (e se lo farà, la riforma sarà il frutto di un compromesso ancora più al ribasso e andrà incontro al medesimo esito). Sul piano politico, l'aspetto positivo è che se ne va a casa un governo che in modo quasi criminale ha sprecato tre preziosissimi anni in cui, tra flessibilità sui conti concessa dalla Commissione europea e quantitive easing di Draghi, si erano create condizioni irripetibili per rilanciare l'economia del nostro Paese. E li ha sprecati buttando dalla finestra miliardi di euro (conto che ci ritroviamo ogni anno nelle clausole di salvaguardia) in mance elettorali e spesa pubblica improduttiva. L'aspetto negativo è che i governi futuri saranno molto probabilmente peggiori.

I vecchi partiti sembrano ancor di più impegnati in trame e trucchetti che lungi dallo sgonfiare il M5S, rischiano di alimentare la rabbia popolare che lo fa crescere nelle urne. Ricordate uno dei principali argomenti che fu usato nel 2013 a sostegno di un governo di legislatura, nonostante il "pareggio" elettorale, anziché un rapido ritorno al voto? Ve lo ricordo: "Bisogna far ripartire l'economia e fare le riforme per sgonfiare il voto di protesta al M5S"... Ecco, allora proprio su questo blog (febbraio/marzo 2013) fui facile profeta. Nel 2013 il M5S prese il 25%, oggi dai sondaggi gli viene attribuito più del 30%. E nel frattempo sono riusciti a bruciare la "carta Renzi"... Un nuovo governo che dovesse essere ricordato per il salvataggio di Mps tramite bail in e una legge elettorale "anti-cinquestellum" rischia di offrire due formidabili assist a Grillo. Se c'è un filo rosso che lega la vittoria della Brexit, quella di Trump e quella del No al referendum italiano non è certo il populismo, né i vincitori, che in comune hanno solo la spinta anti-establishment, la rivolta contro lo status quo (Trump e i Brexiters da una parte e M5S dall'altra sono politicamente agli antipodi).

Il filo rosso è il rifiuto di un'immigrazione senza freni, della retorica politicamente corretta dell'"accoglienza", che nel caso italiano si coniugano ad una politica economica che produce stagnazione, che deprime le aspettative di vita del ceto medio produttivo, di fatto escluso da anni dall'agenda politica. Un mix esplosivo che ha causato un drastico calo di consensi soprattutto tra gli elettori (ceti medio-bassi e di centrodestra) che più servivano a Renzi per vincere il referendum (non bastando i voti di un Pd diviso). Pensionati, esodati, insegnanti, in ultimo gli statali... Renzi ha finito con il rivolgersi all'interno del solito recinto della sinistra. Non poteva bastare. [UPDATE 18 dicembre] A sentire la sua relazione all'assemblea del Pd di domenica ha capito di aver sbagliato a voler parlare del merito della riforma, quando il voto era politico, ma non ha capito che il problema non è nella narrazione, bensì nell'azione di governo. 1) I ceti produttivi dovrebbero tornare al centro dell'agenda politica, basta con le leggi del politicamente corretto; 2) cambio rotta sull'immigrazione (Merkel docet). Se non lo capisce, caput...

Ma il peccato originale di Renzi è aver avuto troppa fretta, essere voluto arrivare a Palazzo Chigi senza passare per le urne (e per di più alla guida del partito sbagliato...): la sua è (era?) una leadership che per attuare il cambiamento promesso avrebbe richiesto di essere spinta da un forte mandato elettorale (e sostenuta da una coerente maggioranza parlamentare). Invece, si è messo alla guida di un governo "di minoranza" nel Paese, minato da una consistente fronda interna, pretendendo di trasformarlo in qualcos'altro. Molti dimenticano infatti che nel 2013 la legislatura era iniziata con un governo di coalizione per fare alcune riforme e tornare non subito ma presto al voto. Privi di maggioranza al Senato e dopo aver conquistato il controllo della Camera per uno 0 virgola per cento di voti e un premio di maggioranza dichiarato incostituzionale, i Dem - prima Letta poi Renzi - hanno trasformato il secondo e terzo governo non indicato dagli italiani in un "monocolore", grazie a una serie di operazioni trasformistiche, e si sono presi tutto (Quirinale, nomine, leggi manifesto), come se avessero ricevuto un mandato elettorale schiacciante.

Se governi come se avessi preso il 50%+1 dei voti anziché il 29, e non ti sei nemmeno candidato a premier, rompi con l'unico alleato che ti serviva per le riforme (Berlusconi), prima o poi ex amici, avversari ed elettori ti presentano il conto. Tra gli errori la scelta di Mattarella, che ha causato la rottura con Berlusconi (o almeno gli ha offerto un pretesto). Sbruffoneggiare contro chi bene o male ancora controlla un pacchetto di voti decisivo per le riforme, e in vista del referendum confermativo, sapendo che una parte dei tuoi ti avrebbe comunque tradito, non è stata una grande idea. Renzi quindi non sarebbe comunque sfuggito alla "personalizzazione" del voto: dal momento che ha deciso di votarsi da solo la riforma, era ovvio che sarebbe diventata la riforma del Governo e quindi associata alla sua sopravvivenza. L'errore è a monte.

IL FATTORE 40% - La buona notizia per Matteo Renzi è che dal referendum si ritrova con un elettorato potenziale tutto suo niente male: il 41% del 68,5% degli elettori, 13,5 milioni di voti. Non sono pochi (11,2 milioni furono gli elettori del 41% conquistato dal Pd alle Europee del 2014). Gli altri, i suoi avversari, se li dovranno dividere gli elettori che hanno votato No. Non si tratta ovviamente di voti già acquisiti, "in tasca". Ma di un elettorato potenziale. Quello del 4 dicembre è stato un voto molto politico. Non solo sul Governo, ma molto polarizzato proprio sulla persona del premier e sul "renzismo". Quasi un referendum pro/contro Renzi. Chi ha votato Sì deve avere un orientamento almeno un po' positivo verso Renzi, dargli ancora un certo credito. Si chiama, appunto, elettorato potenziale.

Il problema è che si tratta del suo elettorato potenziale. Suo di Renzi, non di Renzi leader del Pd. Quei 13 milioni di elettori voterebbero, forse, Matteo Renzi, ma non tutti Renzi candidato premier del Pd. E la differenza è sostanziale. Tra Renzi e quei voti c'è un macigno da spostare: il Partito democratico. Renzi oggi è in mezzo al guado: alla guida del Pd è troppo "di sinistra" per convincere gli elettori di centrodestra e troppo "di destra" per mobilitare tutta la sinistra. Se non riesce a superare questo guado, da solo alla guida di un nuovo soggetto politico o caricandosi sulle spalle ciò che resta del partito, il Pd rischia di essere la sua tomba politica.

Con il Governo Gentiloni Renzi è riuscito a schivare le trappole di un Renzi-bis (avrebbe perso la faccia e si sarebbe fatto logorare) e di un governissimo (l'inciucio). Un suo uomo a Palazzo Chigi dovrebbe garantirgli un ritorno al voto in tempi ragionevoli, al massimo entro fine maggio/inizio giugno. Ma come dimostra l'esperienza di Berlusconi con Dini nel 1995, anche il braccio destro più fedele può trasformarsi nel peggiore degli ostacoli, anche al di là delle sue intenzioni, se le circostanze si presentano. E una legge elettorale proporzionale, ma anche il Mattarellum, in questo contesto di fatto tripartitico, possono aiutare (forse) Renzi a guidare il partito di maggioranza relativa, ma non un Governo di cambiamento. Una nuova Dc, alleata di un Psi 2.0 (ciò che resta di FI), non corrisponde alla promessa del Matteo Renzi del 2012/2013.

Friday, December 02, 2016

Ancora qualche speranza per il Sì e le deboli ragioni di un voto inutile

Nessuna previsione sull'esito del voto di domenica, solo alcuni "indizi" in un senso o nell'altro...
Da una parte gli errori di Renzi (nella riforma, troppo debole, e nell'azione di governo), dall'altra qualche dubbio sul netto vantaggio dei No nei sondaggi (forse sopravvalutati, perché forse in realtà sono meno motivati) e l'antirenzismo.

Renzi ha commesso, tra i tanti, almeno due errori che potrebbero essergli fatali.
Nella riforma non c'è una sola idea forte che possa mobilitare un voto d'opinione per il Sì (ne avrebbe avuto bisogno, avendo contro tutte le altre forze politiche), se non una generica voglia di cambiamento, qualunque esso sia. Ha commesso il tipico errore dei riformisti con molte ambizioni e poche convinzioni: non volendo scontentare nessuno, tanto meno scandalizzare i sacerdoti della Carta, e inseguendo compromessi sempre più al ribasso con la sua minoranza interna, il premier si ritrova con un testo senz'anima, scritto male, per cui è difficile votare con entusiasmo nel merito, senza nemmeno essere riuscito né a garantirsi un ampio sostegno in Parlamento né a tenere unito il suo partito.

Un altro errore fatale ha a che fare invece con l'azione di governo. Pensando di fare bella figura a buon mercato ha insistito con una politica sull'immigrazione letteralmente suicida, che è a mio avviso non l'unica ma la principale causa della caduta di consensi rispetto al 40% preso alle europee. E ciò che è più grave, proprio tra gli elettori dei ceti medio-bassi e di centro e centrodestra che orfani del berlusconismo gli avevano aperto una linea di credito e senza i quali - avrebbe dovuto pensarci prima - domenica sarà difficilissimo superare il 50%+1.

Dunque, come registrano le ultime corse clandestine, la strada per il Sì è molto in salita. Ma alcuni elementi lasciano aperto qualche spiraglio...
Se è vero che il No è forte soprattutto tra i giovanissimi e al Sud, è anche vero che si tratta in entrambi i casi di elettori a forte rischio astensionismo dell'ultima ora. Non mi sembra, inoltre, che il fronte del No si sia troppo sforzato di spiegare che questa volta non è previsto alcun quorum perché il referendum sia valido, mentre molti elettori sono ormai abituati a pensare che basti non partecipare per far fallire un referendum. Infine, l'antirenzismo, il "tutti contro Renzi", somiglia sempre più all'antiberlusconismo. Nel caso di Berlusconi per molti anni gli elettori hanno continuato a simpatizzare nel segreto dell'urna per l'"eroe mascariato" e demonizzato. Potrebbe scattare per Renzi lo stesso meccanismo? Votare No solo per farlo fuori per quanti elettori può essere un motivo sufficiente?

Nelle analisi della stampa sia italiana che estera la vittoria del No in Italia sarebbe coerente con il vento di "populismo" globale che avrebbe fatto prevalere la "Brexit" nel Regno Unito e portato Trump alla Casa Bianca. In entrambi i casi a nulla sono valse le minacce di catastrofi su cui hanno tentato di far leva i loro avversari, rilanciate in modo compatto dai mainstream media e dalle principali istituzioni politiche e finanziarie (catastrofi che puntualmente non si sono realizzate, anzi...). Tuttavia, il contesto italiano è molto più complesso. Innanzitutto, pezzi di establishment e di vecchia politica sono presenti e protagonisti in entrambi i fronti referendari. Inoltre, qui gli elettori, al contrario di quelli inglesi e americani, considerando i fondamentali dell'economia italiana hanno qualche ragione in più per temere l'instabilità politica che si aprirebbe dopo una sconfitta di Renzi e l'avvento dell'ennesimo governo tecnico, con cui si sono troppe volte scottati.

Sì o no, dunque? Volendo decidere nel merito, la riforma fa schifo. Anche se non c'è un rischio di deriva autoritaria (la sinistra controlla da 25 anni la presidenza della Repubblica, continuerà con o senza riforma: vi siete mai chiesti come mai nonostante i due governi più longevi siano quelli Berlusconi non sia mai capitata l'elezione del presidente con una maggioranza di centrodestra in Parlamento? Solo un caso?). C'è semmai il rischio di una deriva "confusionaria", ma quella è già in corso da tempo...

Un motivo per il Sì potreste trovarlo nel voler comunque infrangere il tabù di una Costituzione intoccabile, nella certezza che questa riforma richiederà correzioni e nella speranza (illusione?) che prima o poi qualcuno avrà le palle per proporre al Paese una vera riforma. Dovesse vincere il No, va considerata molto seriamente l'ipotesi che il capitolo riforme costituzionali si chiuda per almeno un altro decennio.

E infine, c'è il Sì o il No "politico": no, per mandare a casa il Governo Renzi. Sì, per rottamare opposizioni che non offrono nessuna seria alternativa a Matteo Renzi. Attenzione però: se vince il No si cestina la riforma ma è altamente improbabile che Renzi si ritiri a vita privata. Anzi, lontano dal governo, meglio ancora se per un anno e mezzo, potrebbe recuperare slancio, si ritroverebbe la campagna elettorale (gli alibi?) già scritta ("l'Italia stava ripartendo ma non mi hanno fatto finire le riforme") e con milioni di Sì (quasi il 50%) tutti suoi, mentre per i suoi avversari l'eventuale maggioranza del No al referendum si tradurrebbe, alle elezioni politiche, in molteplici minoranze difficilmente coalizzabili per candidarsi al governo del Paese. In ogni caso, state sereni: che vinca il sì o che vinca il no, questo sfortunato Paese è ormai irrimediabilmente destinato al declino e al soffocamento fiscale e burocratico.