Pagine

Wednesday, March 31, 2010

Gli inconsolabili

Da un lato scoprono l'acqua calda: ma guarda un po', tutti i partiti in termini assoluti hanno perso voti, persino la Lega (l'unica ad aver guadagnato qualcosa, invece, in termini percentuali, avendo in parte compensato l'elevata astensione con la maggiore fedeltà del suo elettorato). Per non parlare del Pdl, che avrebbe perso addirittura 2,5 milioni di voti. Insomma, la tentazione è di dire che in fondo, se hanno perso tutti, non ha vinto nessuno. Alla vigilia ci avevano spiegato che un forte astensionismo avrebbe penalizzato le forze di governo, limitando le loro chance di conquistare altre regioni oltre a Lombardia e Veneto. Il forte astensionismo c'è stato (è cresciuto dell'8%, con il picco di oltre l'11 nel Lazio), ma la notizia vera è che non ha penalizzato le forze di governo, permettendogli anzi di strappare ben quattro regioni (le più "pesanti") alle forze di opposizione.

Dovrebbe stupire, insomma, non quanti voti ha perso il Pdl, ma quanti piuttosto non ne ha persi, e quanti ne hanno persi i partiti di opposizione, che avrebbero dovuto fare il pieno del malcontento degli italiani, persino Di Pietro, che avrebbe dovuto tenere almeno quanto la Lega. Come fa notare Velardi, «il centrosinistra avrebbe dovuto vincere queste elezioni per due motivi semplici, banali, universali»: la crisi economica, «che toglie lavoro e preoccupa tutti». Dal che si evince, invece, o che la crisi non c'è, o che il governo non sta facendo poi così male; «le classiche elezioni di medio termine. Quelle che un governo in carica perde (quasi) sempre». Nel 2005, ricorda Velardi, finì 12 a 2 (con l'Abruzzo). Oggi «Sarkozy straperde in Francia, mentre in Italia il governo in carica, gravato da scandali (veri o presunti), da ossessive campagne di stampa, da inchieste più o meno fondate, e con una politica di mediocre gestione ordinaria di un paese declinante, le elezioni le vince»; per non parlare del Lazio, dove il Pdl correva azzoppato.

L'astensione record è senz'altro indice di una disaffezione dell'elettorato per l'intero sistema dei partiti e di un certo disgusto per questa particolare campagna elettorale. Ma questo è persino troppo ovvio, e allora c'è chi preferisce consolarsi guardando ai milioni di voti persi dal Pdl, piuttosto che alle quattro regioni strappate agli avversari. Comprensibile. Pur con tutti gli avvertimenti del caso, anche gli analisti più esperti paragonano tranquillamente elezioni diversissime tra di loro: le Regionali di domenica e lunedì con le Europee dell'anno scorso. Sia Mannheimer sul Corriere che D'Alimonte sul Sole sottolineano che rispetto a Politiche ed Europee il voto alle Regionali tende ad essere molto più frammentato a causa della presenza di molte liste locali e che in molte regioni "pesanti" le liste civiche personali dei candidati presidente riescono ad assorbire quote rilevanti di voti dai partiti maggiori delle coalizioni, Pdl e Pd. Senza considerare, poi, l'esclusione della lista del Pdl a Roma e provincia e il tentativo di dirottare i suoi voti, in gran parte riuscito, sulla Lista Polverini.

Allora, se proprio si vuole estrarre un attendibile dato di riepilogo nazionale dei due principali partiti, bisognerebbe attribuire al Pdl e al Pd per lo meno i voti delle liste personali di quei candidati direttamente riconducibili ai due partiti. Dunque, al Pdl i voti delle liste di Renata Polverini (Lazio), Sandro Biasotti (Liguria), Rocco Palese - e Raffaele Fitto - (Puglia), Giuseppe Scopelliti (Calabria) e Nicola Pagliuca (Basilicata). Al Pd quelli delle liste di Mercedes Bresso (Piemonte), Claudio Burlando (Liguria), Agazio Loiero (Calabria) e solo in parte (la metà) di Nichi Vendola (Puglia).

Dai risultati così elaborati emerge un Pdl al 31,4% (31,13 escludendo la provincia di Roma), con perdite minime dunque rispetto al 32,3% del 2009, al 33,3 del 2008 e al 31,4 del 2005 (dati ottenuti sempre escludendo la provincia di Roma). Mentre il Pd si attesta al 27,03%, guadagnando qualche decimale di punto rispetto alle ultime Europee (26,6%), ma restando molto al di sotto del 34,1% delle Politiche del 2008 e del 32,5% delle precedenti Regionali. Un'operazione simile la fa Mannheimer, mentre D'Alimonte si limita ad aggiungere al Pdl solo i voti della Lista Polverini, nonostante rispetto al Pd molti più candidati presidente avevano liste personali, alcune davvero molto votate. In termini assoluti il Pdl perde 2,1 milioni di voti rispetto alle Europee dell'anno scorso (il 23%) e il Pd poco meno di un milione di voti (circa il 12%). Bisogna poi considerare che le regioni "rosse" erano tutte chiamate al voto, mentre tra quelle "azzurre" mancava, per esempio, la Sicilia.

C'è tuttavia da considerare un ulteriore aspetto che mi pare nessuno abbia sottolineato. Stiamo confrontando le Regionali, le elezioni più maggioritarie, presidenzialiste, che abbiamo in Italia, con le Europee, quelle più proporzionaliste. Non stiamo mettendo insieme mele e pere, ma mele e meloni. Ebbene, alle Europee o alle Politiche gli elettori non possono votare solo per il candidato presidente. Mentre alle Regionali un numero sempre maggiore di elettori si limita ad esprimere la propria preferenza per uno dei candidati alla presidenza, senza mettere una croce anche su una delle liste collegate. E questi voti solo ai candidati presidente - circa il 10% del totale dei voti espressi - che siano frutto di pigrizia, indecisione o di semplificazione "presidenzialista", pur considerando il voto disgiunto e il traino del candidato, sarebbe sbagliato non considerarli in qualche misura collegati alle coalizioni di liste che li esprimono, e in particolare ai due partiti maggiori, Pdl e Pd.

Tuesday, March 30, 2010

Sinistra irrecuperabile, ora le riforme

Mamma mia che tonfo. E pensare che alla chiusura dei seggi domenica sera, fino alle prime proiezioni di lunedì pomeriggio, vedendo il crollo dell'affluenza, anche i più ottimisti non prevedevano per il centrodestra un risultato migliore di un 9 a 4. L'astensionismo, caso più unico che raro, ha penalizzato più o meno in egual misura le due coalizioni e non - come si pensava - maggiormente le forze di governo. Ma non solo, come da previsioni della vigilia, Lazio e Piemonte sono rimaste in bilico fino all'ultimo, il centrodestra è riuscito addirittura a strappare al centrosinistra entrambe le regioni, le due più importanti al voto domenica e lunedì.

Non si interrompe quindi la "striscia" positiva del centrodestra. Vittoria schiacciante alle Politiche; tenuta alle Europee; promossa alle nostre mid-term. All'inizio della legislatura governava in appena 4 regioni e la sinistra in 14. Ora la situazione si è ribaltata, con il centrodestra che governa in 11 regioni, abitate da 42 milioni di italiani, e il centrosinistra in 7. La vittoria di Cota in Piemonte, sia pure di misura, sancisce l'espulsione del Pd dalle regioni del Nord, quelle più produttive. Ma perde anche nelle regioni più popolose del Centro-Sud (Lazio e Campania) e conserva la Puglia solo grazie a una non oculata decisione del Pdl sulla candidatura.

Un risultato impensabile dopo due mesi di campagna elettorale in cui è successo di tutto: prima è stata colpita l'immagine del "governo del fare" con l'inchiesta che ha coinvolto Bertolaso e la Protezione civile; poi il caos liste ha messo a dura prova l'immagine e la credibilità del Pdl, il partito del premier, cui alla fine è stato impedito di correre a Roma e provincia; infine, le intercettazioni di Trani e il solito caso Santoro.

Berlusconi, che inizialmente era propenso a mantenere un basso profilo, si è visto costretto a scendere in campo e ad occupare la scena per scongiurare quello che si stava configurando come un disastro (per la coalizione, per il Pdl e per le prospettive nei successivi tre anni di governo). E per l'ennesima volta si è dimostrato più forte di tutti gli attacchi e di tutte le avversità. Cosa è stata la presunta novità comunicativa di Raiperunanotte a confronto dell'ultima settimana-dieci giorni di campagna di Berlusconi?

Di fronte a candidati deboli (all'inizio della campagna, auspicavo una «sconfitta salutare» per il Pdl che candidava una ex sindacalista della ex Cisnal alla guida del Lazio), con un Pdl in crisi, diviso e demoralizzato, la sinistra non ha saputo far altro che puntare sull'unico punto di forza del centrodestra: Berlusconi. Ricompattato, il partito che non era riuscito a presentare la propria lista nella circoscrizione di Roma è riuscito in pochi giorni a dirottare quasi tutti i propri voti sulla Lista Polverini, riducendo al minimo la dispersione.

No, a questo punto è inutile aspettarsi che finalmente i leader del Pd abbiano imparato la lezione che l'antiberlusconismo non paga, perché ormai è evidente che non hanno più il controllo dell'opposizione: sono travolti dal loro stesso popolo, che accecato d'odio per Berlusconi si fa ammaliare da Di Pietro, da Santoro e Travaglio; sono scavalcati dalle Procure e da la Repubblica, che dettano temi e tempi dell'opposizione a Berlusconi, che' tanto poi i rovesci nelle urne toccano al Pd. Anche volendo, non sembrano più in grado di frenare l'antiberlusconismo e di impostare un'opposizione su basi diverse.

Fa comodo a molti ora mettere in evidenza il successo annunciato della Lega, la vittoria landslide di Zaia e il sorpasso sul Pdl in Veneto, così come la penetrazione in Emilia Romagna. Da un lato, infatti, si pensa di spaventare l'elettorato moderato e del Pdl sull'influenza crescente che Bossi eserciterà sul governo e su Berlusconi; dall'altro, dall'interno del Pdl, Fini e i finiani avranno un motivo in più per 'provocare' Berlusconi e il partito, troppo schiacciati sulle posizioni leghiste in tema di sicurezza e immigrazione.

Ma la cosa davvero sorprendente di queste elezioni è il fenomeno Berlusconi. Sia il leghista Cota che la "finiana" Polverini devono la loro elezione al premier, che da questa campagna emerge sempre più come quello che nel centrodestra ha i voti veri, su tutto il territorio nazionale, dal Piemonte alla Campania. La realtà è che senza Berlusconi la Lega non esce dal lombardo-veneto. Commentatori, giornalisti e politici benpensanti non si rendono conto che la Lega, come ha scritto di recente solo Il Foglio, è ormai un fattore stabilizzante nella coalizione. E quando si addita la forza della Lega pensando di mettere in cattiva luce il governo agli occhi degli elettori, non ci si accorge di fargli in realtà un favore, perché nessuno ormai teme più i leghisti, sempre più sinonimo di coerenza e concretezza.

La cosa buona di queste elezioni è che da qui alla fine della legislatura abbiamo tre anni senza appuntamenti elettorali intermedi. Il che non significa che il governo farà finalmente le riforme (istituzionali ed economiche), ma che però non ha più alibi per non farle e sarà giudicato su questo. Il mandato ce l'ha, pieno ed esplicito, la forza dei numeri pure. Niente scuse.

Monday, March 29, 2010

Il centrodestra batte anche l'astensionismo

A prescindere da come si concluderanno i testa-a-testa in Piemonte (dove è in vantaggio Cota) e in Lazio (dove è in vantaggio Bonino), il fatto clamoroso - su cui dopo il dato dell'affluenza di ieri sera alle 22 e fino ad oggi pomeriggio alle 15 nessuno avrebbe scommesso - è che il centrodestra ha tenuto. Il pronostico della vigilia di 7 a 4 per il centrosinistra e due regioni in bilico viene rispettato, nonostante la forte astensione - in gran parte provocata dal disgusto di tanti elettori per una campagna elettorale funestata dai colpi del partito della destabilizzazione - a detta di tutti avrebbe dovuto danneggiare nella misura di tre quarti la coalizione di governo.

Non è avvenuto. Insomma, in mattinata prevaleva lo scoramento nel centrodestra. I politologi dovranno invece interrogarsi sul fenomeno di un astensionismo così forte (l'8% nelle nove regioni i cui dati sono gestiti dal Ministero dell'Interno e addirittura oltre l'11% nel Lazio) che stranamente ha risparmiato le forze di governo e ha penalizzato direi quasi in egual misura le due coalizioni. Altro, quindi, che "sindrome francese". Qui da noi la probabile vittoria di Cota in Piemonte, che sancirebbe l'espulsione del Pd dalle regioni del Nord più produttive, quella della Bonino nel Lazio, comunque di un soffio, quindi solo grazie all'assenza determinante della lista del Pdl a Roma e provincia (un danno quantificabile in 3-4 punti percentuali), nonché la buona performance di Rocco Palese in Puglia (con il 44 per cento si è avvicinato fino a tre punti da Vendola, cui solo la Poli Bortone ha evitato una sconfitta), significherebbero una ormai inattesa - rispetto a come si erano messe le cose - affermazione del centrodestra e personale di Berlusconi, che ancora una volta ha evitato il disastro rispondendo ad attacchi concentrici.

Senza considerare le vittorie "landslide" in Veneto, Lombardia, Campania e Calabria. Insomma, nel 2005, dopo quattro anni di governo Berlusconi, gli elettori erano a tal punto delusi e contrariati da decretare un 11 a 2 per la sinistra. Oggi, dopo due anni di governo Berlusconi, gli elettori mostrano una disaffezione bipartisan alla politica, ma assegnano alla coalizione di governo anche la terza grande regione del Nord e la più popolosa del Sud, la Campania, mentre il centrodestra è di fatto maggioranza anche nel Lazio e in Puglia. In particolare la tenuta del Pdl, la cui immagine e credibilità è stata messa a dura prova in questa campagna elettorale, dimostra che pur non essendo certo un partito perfetto, e pagando qualche sciatteria di troppo, non è però un partito di plastica, tanto da essere riuscito nel Lazio a spostare gran parte dei suoi voti su una lista civica in soli dieci giorni.

Il Pdl e la Lega escono da queste elezioni forti della propria identità e con un prezioso avvertimento (non deludere le aspettative di cambiamento del proprio elettorato); il Pd e il centrosinistra rimangono senza identità, se non quella del dipietrismo e dell'antiberlusconismo, comunque portentosi fattori di mobilitazione degli elettori del centrodestra.

Vince il partito della destabilizzazione

Un simile crollo dell'affluenza potrebbe annunciare un vero e proprio terremoto politico elettorale. Se alle 22 di ieri ha votato circa il 9 per cento in meno che nel 2005, il dato finale dell'affluenza potrebbe faticare non poco a superare il 60 per cento (raggiungendo, ottimisticamente, il 63%), contro il 73 di cinque anni fa. Il fantasma dell'astensionismo si sta dunque materializzando nelle dimensioni più temute e non è difficile intuire chi colpirà: il centrodestra. Anzi, il Pdl. Tre astenuti su quattro potrebbero essere elettori del Pdl, i cui consensi in termini percentuali (considerando anche l'assenza della lista a Roma e provincia) potrebbero fermarsi ben al di sotto del 35%.

Un astensionismo simile potrebbe danneggiare fortemente anche il Pd, mentre a giovarsene - sia pure in termini meramente percentuali e non numerici - sarebbero i principali partiti alleati delle formazioni maggiori (Lega e Di Pietro). La mia impressione è che neanche l'Udc troverà motivi per rallegrarsi. Per quanto riguarda i governi regionali, a questo punto è da escludere un'affermazione del centrodestra in Lazio e Piemonte (e a maggior ragione, di sorprese in Liguria e Puglia neanche a parlarne), mentre rimarrebbe probabile in Campania e Calabria. Risultato finale: 9 a 4 per il centrosinistra.

Riguardo le cause, altro che "sindrome francese". E' ovvio che un astensionismo di tali proporzioni è più di un campanello d'allarme per il governo e le forze di maggioranza che lo sostengono, verso cui l'elettorato mostra disaffezione e disillusione. Ma non è un caso che proprio nel Lazio - dove è assente la lista del Pdl e più forti sono state le polemiche sul caos liste - si registra il picco di astensionismo (il 12% in meno). La sensazione è che a far esplodere la voglia di astensione - da un aumento fisiologico del +2-3% ad un vero e proprio boom del 9% - sia stato più che altro il disgusto per una campagna elettorale che definire anomala sarebbe un eufemismo.

Il caos liste, quindi la battaglia a colpi di ricorsi, carte bollate, decreti e piazze piene, la solita giostra di intercettazioni e le solite inchieste ad orologeria, che tra qualche settimana si riveleranno infondate, le pretestuose polemiche sui talk show Rai, hanno occupato i tre quarti della campagna elettorale, avvelenato il clima e quindi dissolto ogni interesse, già scarso, degli elettori per la competizione elettorale e per candidati già deboli di per sé.

Il governo e le forze che lo sostengono, che evidentemente non hanno corrisposto alle aspettative di cambiamento del proprio elettorato, ci hanno senz'altro messo del loro, hanno offerto il fianco con la loro sciatteria e il loro immobilismo, ma ad ottenere oggi i primi risultati, dopo un anno di tentativi e sforzi andati a vuoto, è il partito della destabilizzazione. Una destabilizzazione perseguita da vari "agenti" - pezzi 'deviati' della magistratura, gruppi economico-editoriali, il partito dei giustizialisti (Santoro-Travaglio-Di Pietro) - ciascuno con il proprio obiettivo (dal semplice abbattimento di Berlusconi alla destrutturazione del bipolarismo, dalla conservazione di un primato morale, e quindi di un potere di condizionamento, sulla politica alla tutela di privilegi corporativi), ma uniti dalla medesima strategia: la delegittimazione dell'intero sistema politico. E complice la soggezione di un Pd in crisi di identità, queste forze hanno sequestrato l'opposizione costituzionale.

Intendiamoci, i politici ce la mettono tutta per delegittimarsi da sé, principalmente non riuscendo a fare il loro lavoro e a far funzionare le istituzioni. Ma è in corso un pericoloso e spregiudicato gioco al massacro, che approfittando della debolezza della politica, avvalendosi di ordini dello Stato fuori controllo e poteri esterni non democratici, e dando sfogo a pulsioni populiste, mette a rischio la democrazia stessa nel nostro Paese. Prima di oggi Berlusconi, con il grande consenso di cui godeva, era l'unico argine. Ma domani? Sarà ancora più difficile per il governo reagire nel solo modo in cui dovrebbe - e avrebbe dovuto-potuto reagire anche prima: riforme, riforme, riforme. Da domani la maggioranza sarà più irrequieta al suo interno, Fini più scalpitante, e il Pd, rinfrancato dal primo stop degli avversari, meno incline a ragionare.

UPDATE: e il partito Montezemolo...
L'astensione record fa comprensibilmente tornare alla memoria l'articolo a doppia firma Andrea Romano-Carlo Calenda, della Fondazione Italia Futura, in cui si invitavano esplicitamente gli elettori a disertare le urne. Non per qualunquismo ma per un «messaggio forte, persino ultimativo, che si manifesterebbe attraverso la decisione consapevole e legittima di non esercitare un diritto di scelta la cui efficacia è stata svilita», mentre votare oggi, «per riprendere il giorno dopo la quotidiana lamentazione sul sistema politico nel suo complesso», rappresenta forse «un qualunquismo ancora peggiore».

In democrazia, ribadisce oggi Andrea Romano al Corriere della Sera, «l'astensione può essere lo strumento con cui l'elettore respinge un'offerta politica deludente». E' certamente ciò che sta accadendo e certamente, come ho scritto, è stata una campagna elettorale «tra le peggiori degli ultimi anni. Rissosa, rivolta all'indietro e non al futuro, mai centrata sui problemi reali, lontanissima dalle aspettative dei giovani». Ma questo «segnale» rappresentato dalla crescita dell'astensione avrà davvero l'effetto di dare «un impulso utile ad un auspicabile rinnovamento del copione»? O piuttosto ad un ulteriore imbarbarimento? Luca Cordero di Montezemolo e il Corriere della Sera rappresenterebbero questo preteso «rinnovamento»? Sembrano già pronti a intestarsi il partito dell'astensione, ma in democrazia dovrebbero contarsi i voti, non i "non voti".

Thursday, March 25, 2010

Un boomerang le intimazioni vaticane

Se il voto del 28 e 29 marzo si caratterizza, come si sta sforzando di caratterizzarlo Berlusconi, non solo come voto per scegliere i governi regionali ma anche per dare «nuova forza e supporto al mio governo per operare nella direzione delle riforme» (il premier, ormai non sappiamo con quale credibilità, è tornato a parlare di «rivoluzione liberale», dal presidenzialismo alla riforma della giustizia e del fisco), allora c'è qualche possibilità che i candidati di centrodestra riescano a strappare la vittoria al foto-finish in Piemonte e Lazio. Ma se si caratterizza come voto "religioso" contro i candidati "laicisti" le possibilità a mio avviso diminuiscono.

Il tentativo di mobilitazione in cui si sta spendendo in quest'ultima settimana Berlusconi contro il pericolo dell'astensionismo, toccando i tasti giusti (voto utile, scelta di campo, promessa di riforme, carattere nazionale del voto), può riuscire, ma rischia di essere indebolito, e non rafforzato dalla mobilitazione del voto cattolico tentata dal cardinale Bagnasco con l'intervento a gamba tesa dell'altro giorno. Se la Polverini appare voler resistere alla tentazione, giornali e politici di centrodestra sembrano voler ricorrere nuovamente, come all'inizio della campagna, all'arma religiosa, non avvedendosi che il bacino elettorale cui possono rivolgersi i candidati di centrodestra è ben più ampio di quello delimitato da quegli elettori disposti a rispondere presente fin dentro le urne ad un richiamo integralista alla dottrina etica e sociale della Chiesa. Sono ben pochi, e a mio avviso comunque meno di quanti sarebbero allontanati da quella vera e propria intimazione.

L'intervista del Mons. Fisichella a il Giornale rischia di peggiorare le cose: non solo si chiede ormai esplicitamente ai cattolici di non votare la Bonino nel Lazio e la Bresso in Piemonte («il richiamo alla libertà di coscienza è sacrosanto, ma... il cattolico non può con il proprio voto favorire leggi o programmi che non sono conformi ai principi non negoziabili»), ma si intima anche a quei politici di non chiederlo neanche, il voto ai cattolici («i candidati i quali hanno impegnato tutta la loro attività politica nel perseguire programmi che contrastano apertamente con alcuni fondamentali valori a noi cari, sarebbe opportuno che per coerenza essi stessi chiedessero ai cattolici di non essere votati»).

Un intervento, quello di Bagnasco, che Il Secolo XIX definisce «uno scivolone di prim'ordine» per lo stesso segretario della Cei («aver affidato a un pugno di voti le sorti della Chiesa italiana, è apparso, nei sacri palazzi, come un passo a dir poco improvvido. Anche perché il colpo assestato da Bagnasco è arrivato troppo tardi, a pochi giorni dal voto»). E perché potrebbe mobilitare l'elettorato di sinistra a sostegno della Bonino più di quanto sia in grado di mobilitare contro di lei quello moderato e gli indecisi.

Lo spazio vacante nel Pdl

Sul futuro del Pdl, e del centrodestra, consiglio la lucidissima riflessione di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, riassumibile in pochi passi: ad oggi l'unico esponente del Pdl che ha posto le basi di un «progetto che possiamo definire "post-berlusconiano", in grado, cioè, sulla carta, di andare oltre Berlusconi», è Tremonti. Al quale se non altro bisogna riconoscere la serietà di averlo fatto non con lo stillicidio dei distinguo quotidiani e strumentali (come Fini), ma con la sua «azione di governo» (coesione sociale più responsabilità fiscale), le «alleanze sociali» e la sua «proposta politico-culturale».

Una proposta politica che può «spiazzare» la sinistra (e in realtà lo ha già fatto), ma c'è una parte del partito che «non può riconoscersi nel tremontismo», quella liberista, e - sottolinea Panebianco cogliendo un punto importante ma sottovalutato - «la dismissione del programma liberista è forse il problema che più pesa sulle prospettive del Pdl». Come ci siamo sforzati di far notare ai liberali attratti dalla parabola dell'attuale presidente della Camera, «l'oppositore per antonomasia, Fini, non lo ha fin qui riconosciuto come il tema su cui costruirsi una posizione di forza per le sfide del dopo Berlusconi».

C'è, insomma, uno «spazio vacante» che né Tremonti né Fini hanno occupato e sembrano intenzionati ad occupare. «Anziché scegliere la strada, che potrebbe rivelarsi sterile, della fronda continua - riflette Panebianco - Fini avrebbe potuto contrapporsi a Tremonti (e a Bossi) in nome delle ragioni (abbandonate) del '94, diventando punto di riferimento per quella parte dell’elettorato di centrodestra non catturabile né dalla Lega né dal tremontismo. Anche la polemica con Berlusconi, in questo caso, si sarebbe dovuta concentrare sulle incoerenze, sul divario fra promesse e realizzazioni, sull'abbandono del liberismo originario». Questa strada «sarebbe stata certamente in conflitto con la formazione personale e le esperienze passate di Fini ma, a ben vedere, non più di quanto lo siano le posizioni assunte sui temi etici o sull'immigrazione». Non si vede ad oggi, purtroppo, una figura che abbia la forza politica di contrapporsi a Fini e a Tremonti investendo su quell'ampio spazio vacante all'interno del centrodestra.

Wednesday, March 24, 2010

Il passo di Google incoraggiato da Washington

Forte anche delle recenti prese di posizione del Dipartimento di Stato Usa e dello stesso presidente Obama sulla libertà di Internet, Google ha deciso di non sottostare più alla autocensura che gli era stata imposta dal regime di Pechino, e che aveva accettato fin dal 2006, per poter entrare nel "mercato" cinese. Continuerà a fornire ricerche in lingua cinese reindirizzando le richieste da Google.cn verso il proprio sito di Hong Kong, Google.com.hk. Il fatto che Google abbia deciso di smettere di filtrare e censurare i risultati delle ricerche, come imporrebbe la legge cinese, non significa che il regime rinunci ad esercitare e anzi ad intensificare il suo controllo, i suoi "blocchi", o a mettere a segno attacchi informatici come quelli che nel gennaio scorso hanno colpito le caselle di posta elettronica di diversi dissidenti e i sistemi di alcune multinazionali, sollevando un caso diplomatico tra Washington e Pechino.

Il governo di Pechino si guarda bene dal trasformare in caso politico e diplomatico quella che, fa sapere, resta «una questione esclusivamente commerciale» e che, assicura il portavoce del Ministero degli Esteri, non avrà alcuna ripercussione sulle relazioni bilaterali tra Cina e Stati Uniti, a meno che «qualcuno intenda politicizzarla». Ma precisa, a scanso di equivoci, che continuerà a gestire Internet in conformità con le proprie leggi. Cioè censurando. Per ritorsione ha già cominciato a limitare l'accesso ad alcuni contenuti e collegamenti, ma prima o poi potrebbe decidere di bloccare ogni accesso ai servizi di Google. E c'è anche il rischio che utilizzi quanto accaduto come pretesto per limitare le libertà e i diritti di cui ancora godono i cittadini di Hong Kong.

Non è solo una contesa tra la nazione più popolosa del pianeta e una vera e propria superpotenza di Internet, ma pur sempre una società privata. Né solo una questione di libertà e di diritti umani. E' in gioco anche la sicurezza nazionale di altri stati. Il governo cinese, infatti, compie operazioni di spionaggio, "cyber-intrusioni" nei sistemi di grandi multinazionali (e non è escluso anche di enti governativi). Si è servito anche di Google, che ha così visto messa a rischio la propria credibilità. Il passo di Google, non facile perché rischia l'espulsione da un mercato potenzialmente immenso come quello cinese, è stato certamente accolto con favore a Washington, che l'aveva in qualche modo incoraggiato. Proprio gli attacchi informatici del gennaio scorso, infatti, avevano indotto l'amministrazione Obama a intervenire e a porre la lotta contro la censura delle dittature su Internet tra le priorità della propria politica estera (e di sicurezza).

Riconoscendo che la sua politica aziendale era incompatibile con l'autocensura richiesta per operare in Cina, Google ha di fatto accolto l'invito rivolto dal segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, alle compagnie americane. Nel suo solenne discorso del gennaio scorso la Clinton aveva assicurato l'impegno del governo Usa «a promuovere la libertà di Internet», affiancando e sostenendo organizzazioni private, investendo nella ricerca e nello sviluppo della tecnologia delle telecomunicazioni per «migliorare le armi che già abbiamo a disposizione per garantire la sicurezza e per consentire a tutti il libero accesso alla Rete».

Aveva avvertito «Paesi o individui» responsabili di cyber-attacchi che «dovranno affrontare delle conseguenze e la condanna internazionale». In particolare, si era rivolta con fermezza alla Cina, chiedendole di «condurre una puntuale e trasparente indagine» sui cyber-attacchi, e aveva lanciato un appello alle società d'informatica americane che operano all'estero, affinché si rifiutino di sostenere o tollerare la censura: «Spero che il rifiuto della censura possa diventare un tratto distintivo delle compagnie d'informatica e di tecnologia americane. Dovrebbe diventare parte del nostro brand nazionale».

Google l'ha ascoltata. La sua decisione si inquadra nella nuova politica che per lo meno sulla libertà di Internet la Casa Bianca ha inaugurato nei confronti della Cina. In qualche modo ne è frutto.

Tuesday, March 23, 2010

L'effetto "B" sulla campagna nel Lazio

Mi pare che ormai in dieci delle 13 regioni in cui si vota i rapporti di forza tra i candidati si siano abbastanza consolidati: al centrosinistra dovrebbero andarne sei (Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Puglia e Basilicata) e al centrodestra quattro (Lombardia, Veneto, Campania, Calabria). Ciò significa che a decretare la vittoria dell'uno o dell'altro schieramento sarà il responso delle urne nelle tre regioni rimanenti. Oltre che in Liguria (dov'è leggermente in vantaggio il centrosinistra), soprattutto nelle due più pesanti e in bilico, Lazio e Piemonte. Considerando che il centrodestra, pur perdendo in tutte e tre queste regioni, passerebbe comunque da due a quattro regioni governate, ma che il centrosinistra parte da una base di consensi fortemente ridotta rispetto alle ultime regionali nel 2005 (e che pochi mesi fa la prospettiva del sorpasso - 7 a 6 o addirittura 8 a 5 - sembrava alla portata del centrodestra), bisognerebbe parlare di pareggio nel caso in cui il Lazio andasse agli uni e il Piemonte agli altri, o viceversa, mentre se in entrambe le regioni si affermasse una sola coalizione, allora avremmo una vittoria piena.

Di elementi anomali in questa campagna elettorale ce ne sono stati tali e tanti che prevedere l'impatto che avranno sulle intenzioni di voto dei cittadini in una regione come il Lazio, dov'è testa-a-testa tra Polverini e Bonino, è impossibile. Ieri si è aggiunta anche la variabile vaticana, con l'intervento a gamba tesa del segretario della Cei Bagnasco, che ha voluto richiamare i cattolici disorientati a «inquadrare» il proprio voto, in qualsiasi competizione elettorale, anche locale e regionale, nell'ottica di quei «valori non negoziabili» che sono in gioco su temi quali l'aborto e la famiglia. Tradotto: non votate per la Bonino o per la Bresso.

Un richiamo così esplicito e a così pochi giorni dal voto significa che le gerarchie ecclesiastiche ritengono realistica - e temibile - la vittoria di Emma Bonino nel Lazio e ciò che più temono non è certo la sorte dei «valori non negoziabili», su cui i governatori possono ben poco, ma quella di ben altri "valori", le «strutture sanitarie di ispirazione cristiana», che però non hanno altrettanto presa sugli elettori.

La reazione delle due candidate è stata composta e saggia dal punto di vista di entrambe. Né la Polverini ha strumentalizzato le parole di Bagnasco (al contrario di quanto stanno tentando di fare le forze politiche che la sostengono, Pdl e Udc), né la Bonino è caduta nella trappola di una reazione anticlericale come in passato. Non ha certo bisogno di ispessire il suo profilo "laicista", correndo il pericolo di alienarsi davvero qualche voto cattolico, mentre la Polverini è consapevole che il bacino elettorale del centrodestra, quello a cui può rivolgersi, è ben più ampio di quello delimitato dalle posizioni del Vaticano.

Difficile valutare l'effetto di questo intervento. Apparentemente, e nelle intenzioni della Cei, dovrebbe avvantaggiare la Polverini, ma non mi stupirei se avesse l'effetto opposto, anche considerando la crisi di credibilità morale della Chiesa in questo periodo di scandali sulla pedofilia. Come ho già avuto modo di scrivere, non credo che il problema della Bonino sia mai stato il cosiddetto "voto cattolico". Piuttosto, è in generale la mobilitazione di tutto l'elettorato Pd e a sinistra del Pd. E per i cattolici che solitamente votano centrosinistra, esattamente come per gli altri, è l'esame di antiberlusconismo quello che conta per capire se possono fidarsi di un candidato e mobilitarsi per esso. La Bonino questo esame mi pare averlo superato brillantemente. Il resto, viene dopo. Piuttosto, la forte personalizzazione della campagna ancora una volta su Berlusconi rischia di dividere gli elettori nei soliti blocchi, impedendo alla Bonino di attrarre voti da destra e alla Polverini di attrarne da sinistra, come i loro profili autorizzavano a ritenere possibile.

Il male oscuro del Ventesimo secolo

Dice Antonio Di Pietro: «Chi non ha nulla da nascondere non deve temere le intercettazioni». Un'affermazione che dovrebbe far rabbrividire ogni sincero liberale e democratico e che sicuramente ha fatto rabbrividire Piero Ostellino: «Non è sorprendente che lo pensi un ex poliziotto; è anomalo che ci creda un ex magistrato; è inquietante che lo dica un parlamentare della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista». Sul Corriere di oggi avverte che il «male oscuro di cui soffre la nostra democrazia è una "malattia dell'anima" degli italiani» ed è «la stessa sindrome della quale sono morte le democrazie, in Italia, in Spagna, in Germania, nel Ventesimo secolo».
«Si violano le libertà individuali, per il Bene comune; e si finisce con uccidere la democrazia. I cittadini della Germania comunista - come ha raccontato il film Le vite degli altri - erano preoccupati, e indignati, dell'intrusione delle intercettazioni telefoniche nella loro vita privata da parte della polizia politica (la Stasi). In Italia, gran parte degli intellettuali, dei media, della classe politica, dei cittadini comuni è entusiasta dell'idea di sapere che cosa pensano, e dicono al telefono, "gli altri". Ma la divulgazione delle intercettazioni, anche in presenza di fumus criminis, è persino una violazione della sfera privata, nonché dei suoi diritti, anche dell'inquisito, per non parlare di chi ne è esente. Da noi, si ritengono "utili" le intercettazioni e "giusta" la loro divulgazione in nome di una non meglio precisata Etica pubblica. I tedeschi orientali sognavano l'eliminazione delle intercettazioni, e l'hanno salutata come una liberazione alla caduta del Muro che aveva separato il mondo dell'oppressione da quello della libertà. Molti italiani ne auspicano l'aumento e plaudono alla loro divulgazione come una garanzia democratica. Nella loro testa non è ancora caduto il Muro che dovrebbe separare l'idea di libertà, e di moralità, individuali da quella di "Stato-papà-padrone" che veglia sui propri figli, ne punisce, e ne corregge, i difetti con le intercettazioni e la loro divulgazione».

Monday, March 22, 2010

Pretese assurde e facce di c... bronzo

Assurda non è la stima della questura dei partecipanti alla manifestazione del Pdl sabato a Piazza San Giovanni (150 mila). Assurdo è «l'autogol» comunicativo, come l'ha giustamente definito il ministro Maroni, dei capogruppo alla Camera e al Senato del Pdl, Cicchitto e Gasparri, che hanno preferito polemizzare sui numeri della questura, insistendo sul miraggio del milione, invece di sottolineare come, proprio stando a quei numeri "ufficiali", il Pdl abbia comunque richiamato in piazza più manifestanti delle opposizioni sabato scorso (sei volte di più). Un'occasione persa che rivela la scarsa materia cerebrale persino di chi guida il partito di maggioranza relativa alla Camera e al Senato, e non solo di chi lo guida a livello locale.

Quella di gonfiare fino all'inverosimile il numero dei manifestanti è una bruttissima e ormai patetica abitudine bipartisan. Ogni volta si spara più o meno una cifra dieci volte superiore a quella realistica. Se a Piazza del Popolo due sabati fa c'erano 200 mila persone invece di 25 mila, sabato scorso ecco che si sarebbero materializzate in Piazza San Giovanni un milione di persone, quando non potevano essere più di 150 mila. E la cosa più ridicola è che non ci si rende conto che si tratta comunque di numeri ragguardevoli, tali da ritenere un successo entrambe le manifestazioni.

Ormai il calcolo dei presenti ad una manifestazione lo può fare chiunque. Si calcola la superficie della piazza in mq e si moltiplica per tre, massimo quattro, tante sono infatti le persone che possono stare in piedi stipate in un metro quadrato. Poi, si arrotonda a seconda dello spazio occupato da palco e stand, o delle vie laterali eventualmente occupate dai manifestanti. Applicando la formula alle piazze in questione, si ottiene più o meno la stima della questura. Se non il numero esatto, almeno l'ordine di grandezza è quello: 140-160 mila a Piazza San Giovanni; 25-40 mila a Piazza del Popolo.

Davvero senza vergogna il modo opportunistico in cui la Giunta regionale del Lazio ha utilizzato il decreto interpretativo del governo sul caos liste per non concedere il rinvio del voto alla lista di Sgarbi, riammessa la scorsa settimana. Quando si tratta di non ammettere la lista del Pdl a Roma e provincia, il decreto è inapplicabile nel Lazio e la Regione decide persino di ricorrere contro di esso dinanzi alla Corte costituzionale, sostenendo che vale la legge elettorale regionale; quando si tratta di evitare il rinvio, spudoratamente ci si richiama al decreto contro cui si è fatto ricorso e dichiarato inapplicabile per due volte dallo stesso Tar del Lazio. Altro che rispetto delle regole e legalità, questo dimostra la totale strumentalità con cui il Pd e la sinistra (i compagni di viaggio della Bonino nel Lazio) hanno affrontato la vicenda liste. Tentando di approfittare di sviste giudiziarie o ingenuità da parte del Pdl per escludere gli avversari o comunque avvantaggiarsene.

Friday, March 19, 2010

Capolavoro Obama: da una gaffe una crisi

Era solo una gaffe (l'annuncio da parte di fonti del governo israeliano del via libera alle costruzioni a Gerusalemme Est proprio quando era in visita il vicepresidente Usa Biden) «ma Obama ha scelto di trasformarla in una crisi con Israele». E' quanto sostiene Charles Krauthammer, sul Washington Post. Non era un cambiamento politico, perché Gerusalemme è «fuori dall'accordo Obama-Netanyahu del 2009 sul congelamento per dieci mesi degli insediamenti in Cisgiordania».

Sotto Obama, Netanyahu ha portato il suo governo di centrodestra ad accettare numerose concessioni per riavviare il processo di pace (uno Stato plaestinese in prospettiva; sostegno all'economia della Cisgiordania, «congelamento» degli insediamenti). Perché, dunque, l'irrigidimento, solo per una banale gaffe? «Sarà forse perché Obama preferisce blandire i nemici e attaccare gli alleati - quindi Israele non dovrebbe prenderla sul personale (come sostiene Robert Kagan)? Perché Obama vuole far cadere l'attuale governo israeliano di centrodestra (come sostiene Jeffrey Goldberg)?» Oppure, ipotizza Krauthammer, sarà perché Obama «si vede come uno storico redentore il cui irresistibile carisma sanerà la frattura tra Cristianità e Islam... e ha poca pazienza verso questo seccante stato ebraico che insiste spavaldamente nel suo diritto all'esistenza?».

Tremonti meno peggio di Bersani

Il dibattito sulla crisi dell'altro giorno alla Camera ha avuto poca visibilità, soverchiato dai casi giudiziari che ormai monopolizzano l'attenzione dei media e lo scontro politico. Ma il confronto Tremonti-Bersani mi ha ricordato ancora un volta il perché un blog come questo, che non è mai stato tenero con il ministro Tremonti e, anzi, è contro il tremontismo, preferirà sempre Tremonti a Bersani. La fotografia la scatta con estrema precisione uno degli editoriali del Foglio di oggi, in cui si spiega che il segretario del Pd ha sciupato l'occasione, che invocava da mesi, per far conoscere un progetto di politica economica alternativo a quello del governo e le sue proposte concrete per uscire dalla crisi:
«In realtà non era facile. Al di là delle polemiche, la linea concretamente adottata da Giulio Tremonti - mettere le poche risorse disponibili a sostegno della coesione sociale, dagli ammortizzatori e alla sanità - è quella che più corrisponde a una tradizionale visione "di sinistra". Non volendo riconoscere questo dato di fatto, magari per chiederne un perfezionamento e un rafforzamento, Bersani è passato per il sostenitore della spesa facile, che come dimostrano gli esempi greco e spagnolo non va affatto a vantaggio dell'occupazione».
Lo scrivo da tempo: la linea di politica economica di Tremonti può essere definita "di sinistra" perché "socialmente conservativa", il che significa tenerci un modello di welfare arretrato, dispendioso ed inefficiente, una elevata tassazione ed una enorme spesa pubblica improduttiva, oppressiva e fonte di corruzione. Tranne qualche piccolo aggiustamento, è inutile aspettarsi da questo governo (anche se la speranza in un ultimo colpo di coda di Berlusconi è l'ultima a morire) un cambiamento di paradigma, da socialdemocratico a liberale. Lo stesso Brunetta, tanto odiato a sinistra, a ben vedere non sta smantellando le pletoriche strutture statali, sta cercando di farle funzionare, ciò che dovrebbe stare a cuore ad ogni sincero statalista.

Di fronte a una politica economica come questa, il Pd ha due modi per impostare la sua opposizione: o fa inversione e critica l'immobilismo del governo "da destra", cioè da una posizione liberale, oppure lo fa ancora più da sinistra, rischiando di diventare demagogico (Bersani che invoca "vere" manovre e soldi "freschi"). Ma così l'unica differenza che emerge è che il governo persegue una politica di sinistra cautamente riformista e responsabile (cioè per lo meno è attento ai conti pubblici e cerca di far funzionare la macchina statale), mentre il Pd diventa il partito dell'irresponsabile tassa-e-spendi, com'era al governo con Prodi. In termini ancora più brutali, con il primo non si arresta il declino, ma si gestisce, con il secondo acceleriamo verso il baratro. Finché la dialettica rimarrà entro questi paletti, un liberale preferirà sempre Tremonti a Bersani, pur turandosi il naso.

Piuttosto che dare un po' ragione a Berlusconi

L'arresto dell'ex numero 2 di Nichi Vendola, Sandro Frisullo, nell'ambito dell'inchiesta sulla sanità pugliese, giunge come un fulmine a ciel sereno per il centrosinistra, che però non si scompone. Primo, perché Frisullo era già stato allontanato dalla Giunta Vendola otto mesi fa. Secondo, perché l'immagine di Vendola non corre troppi rischi. Nichi è un demagogo, populista e moralizzatore, mentre nonostante fosse il suo vice - e quindi forse avrebbe dovuto accorgersi se qualcosa "puzzava" - Frisullo è catalogato come dalemiano. Un capro espiatorio perfetto per una sinistra ansiosa di far pulizia al suo interno, quasi un motivo in più per votare Vendola ricordandosi di cosa rappresenta D'Alema.

Ma nel Pd una punta di sospetto nei confronti della magistratura barese trapela. Se Bersani commenta placido «ci affidiamo alla magistratura, anche se siamo in campagna elettorale. Questa è la nostra posizione e da qui non ci muoviamo», il dalemiano Latorre faceva notare che «di fronte ad un'inchiesta che viene da così lontano, è del tutto evidente che il fatto che l'arresto avvenga a una settimana dalle elezioni, potrebbe suscitare qualche dubbio, sospetto» sulla tempistica.

E in effetti non ha tutti i torti. Sebbene gli elementi a carico di Frisullo appaiano più seri di quelli a carico di un Bertolaso o dello stesso Berlusconi a Trani, i motivi dell'arresto sfuggono. Pericolo di inquinamento delle prove? O forse pericolo di fuga, o di reiterazione del reato? Difficile invocare l'esistenza di uno dei tre a un anno dall'inizio dell'inchiesta, come se in tutti questi mesi Frisullo non avesse potuto inquinare, scappare o reiterare e invece, magicamente, da oggi potesse.

Un arresto, insomma, che oltre a riportare al centro dell'attenzione l'inchiesta sulla sanità pugliese, rafforza l'impressione, questa volta sul lato sinistro della politica, di una campagna elettorale in qualche modo scandita, se non condizionata, dagli interventi della magistratura. Chissà che Berlusconi in fondo in fondo non abbia un pizzico ragione... ma la differenza è che la sinistra ci mette poco a scaricare i suoi e a mettersi sull'attenti al richiamo delle procure (si guardi al caso Del Turco). Sarebbe molto stupido se fosse per non dare ragione a Berlusconi.

Wednesday, March 17, 2010

Napolitano richiama all'ordine il Csm

Nessuna "pratica a tutela" da parte del Csm contro il ministro della Giustizia Alfano per le ispezioni disposte nei confronti della Procura di Trani. Un'iniziativa che stava assumendo i contorni di una vera e propria intimidazione preventiva da parte dell'organo di autogoverno dei magistrati contro Alfano, reo semplicemente di aver esercitato un suo potere, quello di inviare ispettori quando ne ravvisi i pressupposti. L'intervento del capo dello Stato è stato ancora una volta determinante nel riportare il Csm "all'ordine", nell'alveo cioè del suo ruolo costituzionale.

"Tale richiesta - ha infatti rilevato il Quirinale - non poteva discutersi, mancandone i presupposti, come apertura di una 'pratica a tutela'... ed è stata perciò correttamente assegnata alla VI Commissione". Se le ispezioni "non possono interferire nell'attività di indagine di qualsiasi Procura", ricorda Napolitano, il Csm "non può pronunciarsi preventivamente sullo svolgimento" delle ispezioni, ma solo esprimersi sulle "relazioni conclusive". Il Csm, spiega il presidente, "può solo richiamare gli orientamenti generali già indicati da ultimo con deliberazione del 24 luglio 2003 circa i 'rapporti fra segreto di indagine e poteri dell'Ispettorato'", che tra l'altro, osserva, sono già "ben chiari a chi svolge attività ispettiva per conto del Ministero della Giustizia e a chi dirige la Procura di Trani". "Vanno in sostanza rispettate l'autonomia delle indagini e l'autonomia degli interventi ispettivi disposti dal Ministro della Giustizia nei limiti dei suoi poteri".

Di fatto, come sempre con grande equilibrio, il presidente ha "stoppato" la pratica "preventiva" contro le ispezioni disposte da Alfano che il Csm voleva avviare probabilmente per intimidirlo e creare un nuovo caso di contrapposizione ai massimi livelli istituzionali tra magistratura e governo. La decisione del Csm (del comitato di presidenza, per la precisione) che il presidente Napolitano, come sostiene Mancino, ha "condiviso", è quella di aver assegnato alla VI Commissione la pratica sulle ispezioni alla Procura di Trani, non certo l'iniziativa di aprire una "pratica a tutela". Constatando che sono state "rimesse le questioni al loro posto", e quindi il governo dovrebbe "evitare drammatizzazioni e contrapposizioni", Mancino stesso ammette implicitamente che le questioni, prima dell'intervento del presidente, non erano affato "al loro posto", e che ci andavano "rimesse".

UPDATE 18 marzo, ore 10,28:
Il Csm conferma la marcia indietro e si adegua alle osservazioni espresse ieri dal capo dello Stato in una nota e recepite dal suo stesso comitato di presidenza con la decisione di assegnare la pratica, non più "a tutela", sull'ispezione presso la Procura di Trani alla Sesta commissione - cui non spetta di tutelare i magistrati da eventuali invasioni di campo, ma che si occupa di problemi ordinamentali - e non alla Prima come inizialmente richiesto. Nessuna istruttoria del Csm sull'ispezione disposta dal ministro della Giustizia Alfano, dunque, ma solo una risoluzione che si limiterà a ribadire i principi generali alla base dei "rapporti fra segreto di indagine e poteri dell'Ispettorato", come aveva spiegato ieri nella sua nota il presidente Napolitano.

Regime change in Iran? No, in Israele

La crisi tra Stati Uniti e Israele sulle nuove costruzioni a Gerusalemme Est, definita dall'ambasciatore israeliano a Washington Michael Oren «la più seria degli ultimi 35 anni», rafforza l'impressione che questa presidenza «corteggia» i nemici dell'America, senza ottenere però alcun risultato concreto dalle sue politiche di engagement, e trascura, o addirittura maltratta, gli amici di sempre, mettendo a rischio alleanze strategiche. Non sono migliorati i rapporti con l'Europa, gli alleati nel sud-est asiatico sono preoccupati della relazione speciale che Washington cerca con Pechino, e ora si incrinano i rapporti con Israele. Finora l'unico successo di politica estera di Obama è l'Iraq, che in realtà è un successo dell'odiato George W. Bush.

Oltre alle divergenze su come affrontare la questione nucleare iraniana, un altro motivo di tensione rimasto finora latente tra Gerusalemme e Washington è esploso questa settimana. Colpa dell'annuncio improvvido, da parte di settori del governo israeliano, del via libera alla costruzione di 1.600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, proprio durante la visita del vicepresidente Usa Joe Biden, quando sono mesi che l'amministrazione Obama preme per ottenere un congelamento degli insediamenti per favorire la ripresa dei negoziati, sia pure indiretti, tra israeliani e palestinesi. La tempistica infelice è apparsa uno sgarbo a Washington, ma altrettanto imprudentemente Hillary ha reagito con una richiesta («cancellare la decisione») di quelle impossibili da accettare da parte del governo israeliano, perché ne va della tenuta della sua coalizione.

Tanto che qualcuno in Israele, e qualcuno negli stessi Stati Uniti, si chiede se per caso Obama voglia far cadere Netanyahu, o per lo meno indurlo a disfarsi dell'estrema destra. Insomma, sarebbe paradossale se l'amministrazione che non pensa neanche a un regime change in Iran, lo cercasse invece in un Paese alleato, e democratico, come Israele.

Intanto, Bret Stephens, sul Wall Street Journal, ricorda a tutti che il conflitto israelo-palestinese «non è territoriale», non sono gli insediamenti il vero problema. Se si fosse trattato di terra, di buone offerte nell'ultimo decennio (Barak nel 2000 e Olmert nel 2008), che includevano persino la divisione di Gerusalemme, gli israeliani ne hanno avanzate, ma sono sempre state rigettate dai palestinesi. No, il conflitto è «esistenziale». Se gli israeliani ormai hanno ampiamente accettato l'idea di vivere con uno Stato palestinese ai loro confini, i palestinesi non sono ancora pronti. A bloccare il processo di pace non sono 1.600 case in più, ma è soprattutto la crisi di leadership palestinese, divisa tra Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza.

Comunque vada, alle mid-term saranno guai

Che la riforma sanitaria rappresenti o meno il "momento" che definirà la presidenza Obama, come ogni presidenza Usa ha avuto il suo, è certo che questa settimana importanti nodi sia di politica interna che estera stanno venendo al pettine. La Casa Bianca e la speaker della Camera, Nancy Pelosi, confidano di ottenere il via libera definitivo al testo di riforma già approvato dal Senato, ma è ancora aperta (e incerta) la caccia ai 216 voti necessari e a ben vedere neanche un esito positivo è del tutto privo di rischi per il presidente e i Democratici.

Se passa e diventa legge, potranno sì vantare un successo che sarà celebrato come una pietra miliare nella politica progressista americana. Tuttavia, la riforma non incontra il favore dell'opinione pubblica conservatrice e moderata, mentre l'ala liberal, più di sinistra, del partito e dell'elettorato, è comunque delusa per il sacrificio, in nome del pragmatismo, della public option, l'elemento più innovativo, cioè il "pilastro" assicurativo pubblico da affiancare alle assicurazioni private.

Peggio ancora se la riforma dovesse naufragare, perché sia la presidenza che la maggioranza democratica al Congresso, oltre che deludere le aspettative di riforma del proprio elettorato, e trovarsi di fronte alle accuse di "tradimento" dell'ala liberal, darebbero prova di incapacità di governo. Insomma, in entrambi i casi le elezioni di mid-term del prossimo novembre rimangono a rischio e Obama potrebbe ritrovarsi azzoppato nei prossimi anni fino alla corsa per un secondo mandato.

Il principale ostacolo è costituito dai deputati democratici, molto più preoccupati della loro rielezione che delle sorti politiche del presidente. Votando a favore, infatti, temono di perdere consensi nei loro collegi in vista del voto di novembre. C'è la ritrosia da parte di alcuni a finanziare l'aborto con soldi pubblici, sia pure indirettamente, ma soprattutto pesano gli enormi costi - stimati in 875 miliardi di dollari - della riforma, che graveranno su un debito pubblico già insopportabilmente alto per gli standard Usa e richiederanno probabilmente, come paventano i Repubblicani, nuove tasse.

Sarebbero loro, i deputati che avranno votato sì, i primi ad essere sanzionati dall'elettorato. I sondaggi mostrano che nei collegi in bilico circa il 60% degli elettori voterà per un candidato contrario alla riforma. Per questo si affaccia l'ipotesi di far passare la riforma senza un vero e proprio voto formale. Nancy Pelosi pensa a un pacchetto di "aggiustamenti" non sostanziali, che in base ai regolamenti in vigore alla Camera può valere come un sì automatico al testo del Senato, risparmiando così ai singoli deputati l'imbarazzo di un voto esplicito.

Tuesday, March 16, 2010

Ti devi far linciare in tv, e anche in silenzio!

Scandalosi i processi mediatici di Santoro-Travaglio, non le "pressioni"

Non solo Berlusconi. Anche Masi e i legali di imputati come Cosentino, Tarantini e Mills fanno "pressioni" sull'Agcom perché intervenga su Annozero. O meglio, si lamentano - e giustamente - per le puntate in cui i loro assistiti vengono esposti ad una vera e propria gogna mediatica. "Pressioni" non solo comprensibili, ma anche fondate e giustificate. Per cercare di fermare quello scempio di Annozero, a tutela dell'immagine di cittadini già sotto processo e innocenti fino a sentenza definitiva (se avessi avuto i numeri, avrei telefonato anch'io ai commissari Agcom).

Invece di interrogarci sulla liceità di quelle "pressioni", o piuttosto lamentele, bisognerebbe chiedersi come sia possibile che vadano in onda (ancor più grave: sulla tv pubblica) processi mediatici senza contraddittorio e a colpi delle "docu-fiction" confezionate da Santoro e da Travaglio. E' questa la vera inciviltà. E' questo ciò di cui dovremmo discutere. E' legittimo - direi doveroso - che ci siano forme di pressione e lamentele per fermare tutto questo. E' singolare, piuttosto, che a qualche magistrato sembri strano che all'Authority per le comunicazioni venga chiesto quanto meno di occuparsene e di porvi rimedio. Insomma, pare che ci si debba far linciare in tv, e rimanendo pure in silenzio, senza neanche potersi lamentare con chi di dovere.

La beffa: Minzolini, non "Il Fatto", avrebbe violato il segreto

Finalmente vengono resi noti (ma ancora non ufficialmente) i reati contestati dalla Procura di Trani al presidente del Consiglio Berlusconi (concussione e violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, reato quest'ultimo "desueto" dal 1954 - fonte: il Velino), al commissario dell'Agcom Innocenzi (favoreggiamento, avrebbe negato infatti agli inquirenti di aver ricevuto pressioni) e al direttore del Tg1 Minzolini. Nei confronti di quest'ultimo, oltre al danno, una vera e propria beffa. Ma come, c'è un giornale che rivela il contenuto di intercettazioni che lo riguardano coperte da segreto, che fa il nome di tre indagati prim'ancora che gli interessati ricevano gli avvisi di garanzia, e chi si ritrova indagato per «rivelazioni di segreti inerenti a un procedimento penale»?

Lui, Minzolini, che casomai è vittima delle pressioni del premier, ma che invece si ritrova indagato per aver rivelato «a terzi» il contenuto dell'interrogatorio a cui fu sottoposto a Trani il 17 dicembre 2009, che tra l'altro non ha riguardato Annozero o la linea editoriale del suo Tg, ma l'inchiesta di partenza, quella sui tassi applicati ai possessori di una carta di credito 'revolving'. La cosa sarebbe ancor più incredibile e indecente se venisse fuori che le rivelazioni che si contestano a Minzolini sono quelle rese negli ultimi giorni per difendersi dalle rivelazioni - quelle sì illegali - del Fatto Quotidiano! Cioè: per difendersi da attacchi a mezzo stampa basati sulla violazione del segreto istruttorio è costretto a sua volta a rivelare il contenuto del suo interrogatorio, non di altri, ma i magistrati accusano lui e non il giornale che ha violato per primo il segreto. Resta comunque l'interrogativo: la Procura di Trani sta indagando su come al Fatto Quotidiano possano essere giunte notizie sull'inchiesta e persino il contenuto delle intercettazioni coperte da segreto?

Monday, March 15, 2010

Giustizialismo è il nostro maccartismo

Premesso che la campagna del senatore McCarthy, da cui l'odiato maccartismo, meriterebbe ben altri approfondimenti per farla uscire dal torpore del luogo comune in cui è stata fatta cadere, veniamo all'emozione che Eugenio Scalfari confida gli abbia suscitato rivedere su Sky il «bellissimo» film di George Clooney "Good Night and Good Luck", che narra come un giornalista della Cbs, Edward R. Murrow, si sia opposto con la sua trasmissione ai metodi da "caccia alle streghe" di McCarthy, provocandone il declino politico.

E' ovvio che Scalfari ha subito collegato quel momento di alta televisione e quella grande impresa giornalistica alla sospensione dei talk show Rai, ai cui conduttori qui da noi viene impedito di fare i "Murrow" italiani. Nel coraggio del giornalista della Cbs deve aver quindi rivisto quello con cui Santoro si batte contro Berlusconi e dev'essersi commosso per la parole conclusive del protagonista del film: «La televisione è uno strumento che può e deve contribuire a rendere le persone più consapevoli, più responsabili e più libere. Se mancano questi presupposti e questi obiettivi la televisione è soltanto una scatola piena di fili elettrici e di valvole». Aggiungendo di suo che è invece «una scatola, ma a volte molto pericolosa, se qualcuno se ne impadronisce e la controlla a proprio uso e consumo».

Opportunamente Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera, fa notare al fondatore di Repubblica che «in quel discorso così fiero risuonano altre parole, che sarebbe illecito ignorare». Dice a un certo punto Murrow: «Dobbiamo sempre ricordare che un'accusa non è una prova e che la colpevolezza dipende da prove concrete e dall'esito di un regolare processo. Non cammineremo nel timore l'uno dell'altro. Non sprofonderemo in un'epoca di irragionevolezza se ci affideremo alla nostra storia e alla nostra dottrina». «Da noi - osserva amaramente Battista - la ricerca meticolosa delle prove è considerata un'attività superflua, se non il sabotaggio di un'inchiesta» e - il caso Trani, con l'uso ancora una volta criminale e poliziesco delle intercettazioni, lo dimostra - «perché aspettare una sentenza definitiva se il tribunale mediatico del popolo ha già emesso il suo verdetto persino nelle fasi iniziali di un'inchiesta?».

Se qualche similitudine si può azzardare, è quella - anche fisica - tra McCarthy e Antonio Di Pietro, tra il maccartismo e il giustizialismo, che si avvale di tre braccia: braccio giudiziario, mediatico e politico. Se quello giocato dalla stampa e dalla tv in America fu il ruolo di guardiani democratici rispetto agli eccessi del maccartismo, qui da noi il ruolo di certa stampa è tutt'altro che "garantista", è quello di avanguardia giustizialista. E il giustizialismo italiano oggi è concentrato tutto nella lotta contro Berlusconi. Una vera e propria caccia alla "strega Berlusconi" che va avanti da sedici anni, e ora alle "streghe" che lo circondano. Come dimostrano le ultime inchieste e offensive mediatico-giudiziarie, falliti gli attacchi diretti al premier, si cerca di delegittimare chi gli è vicino, gli artefici del suo consenso, chi collabora - e persino chi parla al telefono - con lui. Da Bertolaso a Letta, da Minzolini a Innocenzi, ecco le vittime dei «nuovi maccartisti» all'italiana che sono nelle procure, nelle "gazzette delle procure" e in Parlamento.

Ancora fango nel buio

Come previsto, è passato il week end e non sappiamo molto di più di quanto sapessimo venerdì scorso, grazie al Fatto Quotidiano, dell'inchiesta in corso a Trani che coinvolgerebbe il presidente del Consiglio Berlusconi, il commissario dell'Agcom Innocenzi e il direttore del Tg1 Minzolini. Neanche gli interessati ne sanno di più. Sarebbero indagati, ma non hanno ancora ricevuto avvisi di garanzia e mentre, secondo non meglio precisate «fonti giudiziarie tranesi», Minzolini non sarebbe in realtà tra gli indagati, oggi il premier Berlusconi, attraverso un'istanza depositata dai suoi avvocati, ha chiesto ufficialmente di sapere se risulta o no iscritto nel registro degli indagati. Un suo diritto, a questo punto, visto che il caso è di dominio pubblico, e mi pare grave il silenzio della Procura.

Un silenzio ufficiale, perché a quanto pare con i giornalisti continua a parlare. Allegate agli atti, secondo quanto riporta oggi il Corriere della Sera, «ci sarebbero tredici conversazioni di Innocenzi con il presidente del Consiglio, e cinque dello stesso premier con il direttore del Tg1 Augusto Minzolini». Il procuratore capo di Trani Carlo Maria Capristo chiarisce però che si tratta di documentazione che gli ispettori ministeriali non potranno esaminare («è la legge a impedire che possano visionare atti coperti dal segreto, dunque noi non daremo alcun documento. Faccio il magistrato da trent'anni, sono sempre stato in prima linea e questa è la prima ispezione che subisco, ma conosco le regole»).

Una presa per il cu... coperti dal segreto una minchia! Gli ispettori ministeriali dunque non possono visionare le intercettazioni. Le quali però, evidentemente, sono potute già finire, dalla scorsa settimana, sotto gli occhi dei giornalisti del Fatto Quotidiano. Come sia potuto accadere, Capristo dice di non saperlo: «Siamo noi le prime vittime di quanto èaccaduto e io posso assicurare che da questo ufficio nulla è trapelato».

Di fronte a tutto questo marasma politico e a questo uso ancora una volta criminale, da stato di polizia, delle intercettazioni, «non serve evocare un'età dell'oro che non è mai esistita», osserva lucidamente Angelo Panebianco, sul Corriere.

Saturday, March 13, 2010

"Tacete, il nemico vi ascolta!"

Il fatto che in Italia possano essere per mesi intercettate (anche se in maniera indiretta, cioè sull'apparecchio di persone indagate) conversazioni del presidente del Consiglio senza che nessun servizio di sicurezza, né alcun ministero, se ne accorga, dimostra che non siamo in un regime, semmai che siamo costantemente sull'orlo del golpe giudiziario. Le conversazioni telefoniche che riguardano Berlusconi sono state captate perché parlava con persone le cui utenze erano sotto controllo. A partire da un'inchiesta avviata su presunti tassi d'usura applicati ai titolari di carte di credito tipo "revolving", "casualmente", apprende l'agenzia Ansa da fonti giudiziarie tranesi, gli inquirenti si sarebbero imbattuti in un giro di telefonate tra il premier Berlusconi, il direttore del Tg1 Minzolini e il commissario dell'Agcom Innocenzi. Da qui, avrebbero aperto un nuovo filone investigativo "assolutamente autonomo". Invece di chiudere, il magistrato quindi rimane in ascolto. E quando si accorge che al telefono c'è addirittura Berlusconi, moltiplica le sue attenzioni, anche se è chiaro che né lui né gli altri due c'entrano nulla con l'inchiesta in corso e pur sapendo che la nuova vicenda non è comunque di sua competenza. Ciò dimostra l'uso da stato poliziesco delle intercettazioni. Non per sorvegliare sospettati e rafforzare elementi di prova nei confronti di indagati, ma per "pescare" nuove notizie di reato da quella che a tutti gli effetti, di telefonata in telefonata, si trasforma in una rete "a strascico".

Annunciando l'invio di ispettori a Trani, il ministro della Giustizia Alfano ha sottolineato che l'inchiesta «evidenzia almeno tre gravissime patologie che sono chiare allo studente che affronta all'università l'esame di procedura penale: un problema gravissimo di competenza territoriale, un secondo problema di abuso delle intercettazioni, e un terzo che riguarda la rivelazione del segreto d'ufficio».

Tradimento e inganno o speranza d'alternativa?

Mai come oggi forse nella storia radicale, e nella loro personale, Marco Pannella ed Emma Bonino sono stati così distanti in modo così eclatante. Divergenze nel corso degli anni ce ne sono certamente state, e anche di notevoli, ma mai sono emerse in modo così vistoso. Tenere un piede fuori, ma anche uno dentro Piazza del Popolo, non è cosa facile, anche per i contorsionismi radicali:

Bonino stamattina, poche ore prima della manifestazione:
«Mi auguro e voglio che sia non tanto e non solo una manifestazione contro un regime da basso impero, ma una manifestazione di proposta e soprattutto di speranza. Credo sia possibile un nuovo inizio per preparare un'alternativa».
Pannella oggi a Radio Radicale:
«Questa mobilitazione e questo linciaggio dell'avversario sono un logoro gioco delle parti. A Piazza del popolo si compie oggettivamente l'ennesimo tradimento, l'inganno del popolo serio e buono che vi sarà convogliato».
Due strade che sono destinate a dividersi? Non si può escludere, ma certo si rafforza l'impressione di due separati in casa, animati evidentemente da ambizioni e ossessioni diverse.

Friday, March 12, 2010

Rappresaglia contro Minzolini

Su il Velino

Nel mezzo di una campagna elettorale dagli animi già esasperati per il caos liste si apre una nuova offensiva mediatico-giudiziaria, lungo l'asse procure-organi di stampa e settori politici giustizialisti, volta a colpire il premier Berlusconi e a intimidire il direttore del Tg1 Augusto Minzolini. Lo strumento, ancora le intercettazioni telefoniche. Dopo il capo della Protezione civile Guido Bertolaso, questa volta a farne le spese sono Minzolini e un commissario dell'Agcom, Giancarlo Innocenzi, oltre a Berlusconi, naturalmente. Un caso che riaccende le polemiche sull'uso delle intercettazioni. Da una semplice indagine della Procura di Trani sui tassi d'usura di alcune carte di credito "revolving", di telefonata in telefonata si arriva ad ascoltare conversazioni che nulla hanno a che fare con l'inchiesta di partenza, ma che vedono protagoniste personalità ben più importanti e persino il presidente del Consiglio. Emerge un uso delle intercettazioni non come strumento per rafforzare gli elementi di prova a carico di indagati o sospettati, ma come vera e propria rete "a strascico" da cui "pescare" possibili ipotesi di reato.

Dalla procura le intercettazioni finiscono sui tavoli della redazione del giornale di Marco Travaglio, Il Fatto Quotidiano, che ci informa del loro contenuto e ci dice che sulla base di queste intercettazioni sarebbero indagati...
LEGGI TUTTO

Dal caso Italia al caso mezza Italia

Liste forse escluse, l'immagine del Pdl ai minimi, candidati deboli, Berlusconi non può che personalizzare su di sé la campagna elettorale per provare a vincere (o a questo punto a non pedere) le regionali, aiutato dallo schieramento avversario che, persa un'occasione buona per dimostrare fair play e sensibilità democratica, sembra non riuscire ad esprimere altro che dipietrismo contro Berlusconi. La manifestazione di domani rischia di dare una mano al premier, ancor di più dopo il nuovo caso intercettazioni che coinvolge Berlusconi, il direttore del Tg1 Minzolini (che guarda caso si era schierato con decisione contro questo uso delle intercettazioni, tanto che è stato subito punito), e il commissario dell'Agcom Innocenzi, reo evidentemente di essersi permesso di sollevare dubbi sulla correttezza di Annozero.

Il "caso" è tutto qui, ma scoppia al momento giusto, per Travaglio e Di Pietro, finendo per estremizzare ancora di più la manifestazione di domani a Piazza del Popolo, complicando così la posizione del Pd.

Se a Bersani è bastato solleticare l'ego di Pannella («ah, se avessi saputo venti o trent'anni fa che avrei avuto una mezz'ora di Pannella tutta per me...») per tenere buoni i radicali con la loro proposta di sanatoria e rinvio del voto (non sostenuta dall'unica "radicale" in questo momento in grado di esercitare un minimo di influenza sul centrosinistra, essendo candidata alla presidenza del Lazio, e cioè Emma Bonino), Di Pietro è irrefrenabile e a prescindere da attacchi o no al presidente Napolitano domani in piazza, è intenzionato ad approfittare delle circostanze per rastrellare consensi tra gli elettori più arrabbiati e frustrati della sinistra. E pazienza se ciò produca un vantaggio per Berlusconi...

Bersani si è presentato all'assemblea dei radicali riducendo a 180 gradi la loro battaglia a 360 gradi per la legalità. Se per i radicali l'illegalità è sistematica, riguarda tutte le liste e tutte le regioni, per il segretario del Pd il «pasticcio» liste è «tutto loro», del centrodestra, «la palla della confusione e del pasticcio è tutta di là, lasciamogliela di là. Non indeboliamoci da soli». In una parola: approfittiamone - e di corsa! Non per ristabilire la legalità, ma per vincere, una volta tanto: «Andiamo davanti agli elettori, andiamoci tranquilli e, soprattutto, andiamoci per vincere. Abbiamo mobilitato il nostro popolo, lasciamo perdere i cavilli e i ricorsi».

Due posizioni apparentemente inconciliabili, si dirà, ma c'è un però. Emma Bonino con il loro appoggio rischia di farcela ad essere eletta governatrice del Lazio. Quindi, evitare rotture. Bersani si permette addirittura di liquidare come «cavilli» la battaglia di legalità dei radicali, un azzardo che una volta avrebbe suscitato le ire di Pannella, mentre l'altro giorno solo sorrisi e abbracci per il segretario del Pd che candida Emma e ha la pazienza di ascoltare un'ora di discorso dell'anziano leader radicale.

Ufficialmente i radicali restano sulla linea del rinvio delle elezioni in tutte le regioni e con uno scatto d'orgoglio si sono rifiutati di esserci sabato, ad una manifestazione che ha tutt'altro obiettivo che la legalità, ma se un piede è fuori, allo stesso tempo cercano di tenerne uno dentro Piazza del Popolo. Ci sarà la Bonino, infatti (la cui presenza è «doverosa per serietà», essendo sostenuta da tutta la coalizione di centrosinistra presente sabato). Pannella fa bene a sottolineare «Emma una di noi», perché altrimenti non ci si crederebbe. Quella che interessa ai loro alleati, e che purtroppo hanno servito con le loro ultime denunce e i loro ricorsi, è una legalità a metà, per escludere solo le liste del centrodestra. Così il "caso Italia" diventa il "caso mezza Italia".

Wednesday, March 10, 2010

Giallo sulle due versioni e Pd nella trappola Di Pietro

La versione ricostruita dal Tar del Lazio nell'ordinanza in cui respinge la richiesta di sospensiva avanzata dal Pdl contro la sua esclusione, di cui riporto questo passaggio (fonte: Ansa)...
«... al momento della scadenza delle ore 12, e della conseguente delimitazione dell'area di attesa, erano presenti per consegnare la documentazione prescritta solo quattro delegati di lista, tra i quali non figurava alcun delegato di parte ricorrente, e che solo dopo più di mezz'ora un delegato di parte ricorrente cercava di accedere alla predetta area, al fine di poter consegnare la lista e solo dopo le ore 12:30 veniva individuato all'interno dell'area di attesa un plico incustodito...»
... e la versione del Pdl, secondo la ricostruzione minuto per minuto degli eventi resa da Berlusconi in persona nella conferenza stampa di stamattina. Sull'inapplicabilità, secondo il Tar, del decreto interpretativo del governo mi sono già soffermato (mi pare quanto meno dubbia). Non sapremo probabilmente mai cosa è davvero successo negli uffici del tribunale di Roma intorno alle 12 di quel maledetto sabato, mentre è certo che non poteva essere impedito ai delegati del Pdl di presentare la loro lista anche con quaranta minuti di ritardo, pur verbalizzando l'avvenuta consegna oltre i termini della documentazione. Ciò ha impedito al Pdl di fare ricorso contro l'eventuale esclusione per presentazione oltre i termini. In quel caso, avrebbero dovuto giustificare il loro ritardo, mentre adesso devono dimostrare lo scatolone che avevano con sé conteneva tutta la documentazione necessaria. Il che rende la questione molto complicata.

Un passaggio interessante della ricostruzione di Berlusconi è il seguente (fonte: il Velino):
«Ore 14,15: convinto dell'arbitrarietà dell'intimazione Abrignani insisteste vigorosamente, ma viene chiamato dal Prefetto di Roma che lo invita a desistere da ogni azione di forza tesa ad ottenere comunque l'ingresso in cancelleria. Il prefetto asserisce di aver avuto dal presidente dell'ufficio centrale circoscrizionale dottor Durante precisa assicurazione che tutto sarebbe stato sanato a seguito di un ricorso, che consigliava di presentare tempestivamente allo stesso ufficio».
Alla luce dell'ordinanza del Tar, e delle ultime sentenze del Consiglio di Stato (in cui si parla in effetti di presenza nell'edificio e non nella fila, né di strisce), qualcosa mi dice che c'è ancora possibilità che il Consiglio di Stato riammetta la lista del Pdl per la provincia di Roma... Nel frattempo, Berlusconi ha fatto benissimo - era ora - a mettere in secondo piano i ricorsi e a tornare alla politica, alla campagna elettorale, confermando per il 20 marzo una manifestazione nazionale «non di protesta ma di proposta». Non dovrebbe quindi riguardare il diritto di voto, se non marginalmente, ma un patto dei 13 candidati governatori con i cittadini.

E' una «trappola» invece, come osserva Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, quella in cui si è infilato il Pd con la manifestazione di sabato. Il Pd avrebbe potuto approfittare dell'autogol del Pdl e dire «accertato che i nostri avversari sono dei pasticcioni, noi che abbiamo a cuore la sorte della democrazia e che non possiamo accettare che una competizione democratica venga svuotata di significato per assenza del nostro principale antagonista, sosterremo le scelte che farà il presidente della Repubblica per sanare questa anomala situazione». Invece, essendo un partito che si fa dettare l'agenda politica dai «giornali di riferimento» e da Antonio Di Pietro, sabato assisteremo al «pasticcio politico» del Pd, «summa e specchio di tutte le sue debolezze».

Il rischio che dalla manifestazione di sabato si levi una contestazione anche nei confronti del capo dello Stato, per la firma al decreto interpretativo del governo sul caos liste, e persino nei confronti del Pd, non è affatto scongiurato. Anzi, a sentire Antonio Di Pietro («parlerò eccome, ci mancherebbe» e «ribadirò che l'arbitro ha sbagliato»), c'è da aspettarselo. La reazione del Pd «ha già consentito al centrodestra, responsabile del pasticcio, di fare la vittima e di ergersi a difensore del presidente della Repubblica». E sabato concederà a Di Pietro una vetrina da «leader morale dell'opposizione».

E' il presidente Peres che parla al presidente Obama

Su L'Opinione:

Se il Consiglio di sicurezza dell'Onu per le sue divisioni interne non riesce ad adottare sanzioni risolute per fermare la corsa all'atomica di Teheran, figuriamoci quanto possa essere realistica l'ipotesi di sbattere fuori dalle Nazioni Unite la Repubblica islamica dell'Iran, su cui dovrebbe pronunciarsi l'Assemblea generale, dove senza il veto americano il sentimento anti-israeliano è spesso prevalente. La richiesta di espellere l'Iran dall’Onu non è però la boutade o la provocazione di un qualche ministro o deputato israeliano di secondo piano. No, giunge dal presidente della Repubblica israeliana, e premio Nobel per la pace, Shimon Peres, e anche per questo assume un evidente rilievo politico-diplomatico e simbolico, ma rappresenta un auspicio di cui bisogna cogliere il significato, piuttosto che una proposta concreta...

LEGGI TUTTO

Tuesday, March 09, 2010

La storia comincia a vendicare Bush

La notizia è che la democrazia, o almeno qualcosa che ci si avvicina il più possibile dato il contesto di quel Paese, è stata "esportata". Ed usiamo consapevolmente in modo provocatorio questo termine anche se non è il più appropriato. Già alle scorse elezioni in realtà gli iracheni avevano dimostrato di saper mettere la sordina alle esplosioni degli attentati terroristici con i loro voti, di non esserne intimiditi. Nel 2005, in piena era Bush e quando il Paese sembrava allo sbando, in preda agli insorti e ad al Qaeda, alle prime elezioni dopo la caduta della dittatura votò il 13 per cento in più degli iracheni rispetto al 62,4 per cento di questa volta, che è comunque oltre il 10 per cento in più delle provinciali dell'anno scorso.

Insomma, anche se i mainstream media sembrano essersene accorti solo ora, è dalla fine di Saddam che gli iracheni rispondono alle bombe a suon di voti. Solo che prima c'era Bush, non Obama, e non bisognava trasmettere all'opinione pubblica la speranza - almeno quella - di un Iraq democratico, ma l'immagine di un Paese sprofondato a causa dell'intervento americano in un girone infernale di violenza senza fine e senza voglia di riscatto. Ma alle elezioni di domenica scorsa è accaduto qualcosa in più, hanno votato per la prima volta in massa gli iracheni delle province sunnite, segno che la riconciliazione è davvero partita e il Paese si sta abituando al compromesso politico come prassi.

Anche se a Obama va dato il merito di non aver assunto decisioni irresponsabili sull'Iraq, nonostante la sua contrarietà alla guerra, oggi un discorso intellettualmente onesto non può prescindere dal riconoscere i meriti di George W. Bush, senz'altro superiori agli errori commessi (e poi rimediati con il coraggioso "surge"), e di quanti hanno sempre sostenuto la politica del regime change, anche per via militare, come possibilità di espansione - certo non automatica e irreversibile - della lbertà e della democrazia anche nel mondo arabo.

Oggi non manca nel campo dei realisti doc chi, come Richard Haass del Council on Foreign Relations, in ragione del fallimento della politica di engagement nei confronti di Teheran, comincia a prendere in considerazione il regime change anche per l'Iran, seppure ovviamente da perseguire dall'interno. Né manca chi, come Fareed Zakaria di Newsweek, comincia davvero a credere che l'esempio iracheno possa ridisegnare il Medio Oriente.

E oggi, sentito dal Corriere della Sera, l'editorialista del più famoso quotidiano liberal, Thomas Friedman, ricorda che l'Iraq è «riuscito a tenere due libere elezioni in cinque anni, sicuramente macchiate da violenze, ma sempre libere elezioni», e ammonisce che «non dobbiamo mai e poi mai sottovalutare l'importanza di questo fatto, nel contesto della storia del Paese e della regione. È un fatto enorme, fisicamente e simbolicamente». E inoltre, aggiunge, «non ci dobbiamo illudere neppure per un secondo che ciò che sta accadendo in Iraq non sia importante» per l'Iran. «Gli sciiti persiani dell'Iran guardano con senso di superiorità» ai loro vicini, ma ora «vedono gli sciiti iracheni tenere libere elezioni, mentre loro hanno dovuto scegliere da una lista predigerita di candidati. È un esempio dall'impatto potenziale immenso. Che siamo stati pro o contro la guerra in Iraq, credo sia tempo di concentrarsi su ciò che conta».

Le elezioni democratiche in Iraq si svolgono mentre Hollywood premia con sei oscar un film, come The Hurt Locker, che come ha scritto giustamente Maurizio Molinari, su La Stampa, «riconcilia l'America con gli eroi delle guerre del nuovo secolo». E premia «la volontà di informare sulla guerra rispetto al giudizio sulla guerra stessa». Una riconciliazione paragonabile, seppure in scala minore, a quella sul Vietnam con i film Il Cacciatore, di Michael Cimino, e Vittime di Guerra, di Brian De Palma. «Loro sono lì per noi. E noi siamo qui per loro», sono state le parole rivolte nella sua dedica dalla regista Kathryn Bigelow ai soldati in Iraq e Afghanistan, mostrando di essere consapevole di quanto vale il fronte interno («noi siamo qui per loro»). Una vittoria - e parole - impensabili qualche anno fa sul palcoscenico degli Oscar.

E con la sconfitta di Avatar, inoltre, osserva Il Foglio, a perdere sono anche un ecologismo e un pacifismo tanto ingenui al punto di apparire disumani, con il loro pregiudizio secondo cui a scatenare le guerre sono sempre gli americani – o gli occidentali – per sottrarre le ricchezze a popoli pacifici che vorrebbero solo vivere in armonia con la natura. Più umana la guerra rappresentata dalla Bigelow: un affare sporco e confuso, a volte necessaria e persino eroica.

Passare alla riduzione del danno

Come ho avuto modo di scrivere fin dall'inizio, la questione del Pdl laziale è molto più complicata rispetto al "listino" Formigoni e forse andava lasciata al suo destino. Governo e maggioranza dovrebbero a questo punto incassare con pragmatismo la decisione del Tar del Lazio, anche se desta più di qualche dubbio. Al massimo, se a breve, attendere il Consiglio di Stato. Il caos, il tira e molla di questi giorni, l'impressione che il decreto interpretativo sia stato superfluo per Formigoni e inutile per il Pdl nel Lazio, stanno demolendo l'immagine efficientista della coalizione di governo (incapace due volte: prima a presentare le liste, poi a risolvere il problema per decreto), il che rischia di tradursi in una emorragia di consensi. Passano i giorni, e la situazione rischia di aggravarsi fino ai limiti della irrecuperabilità. Quindi, è nel loro interesse chiudere al più presto in un modo o nell'altro, perché la campagna, la strategia comunicativa di Berlusconi, che potrebbero limitare il danno, non possono partire in questa incertezza. L'idea che siano state modificate le regole del gioco in corsa disturba anche gli elettori di centrodestra più moderati, ma non aver potuto salvare la lista del Pdl a Roma, se non altro, è un argomento in più, decisivo, per sostenere che il decreto non cambiava le regole, era davvero solo interpretativo.

Certo, la sentenza del Tar solleva dubbi inquietanti. Nel respingere la richiesta di sospensiva che avrebbe ammesso la lista del Pdl per la provincia di Roma, i giudici amministrativi fanno notare che il decreto interpretativo varato venerdì scorso dal governo «non può trovare applicazione perché la Regione Lazio ha dettato proprie disposizioni in tema elettorale esercitando le competenze date dalla Costituzione. A seguito dell'esercizio della potestà legislativa regionale, la potestà statale non può trovare applicazione nel presente giudizio». Sorge il dubbio però che ormai la questione sia solo politica. E' vero che la Costituzione attribuisce la legislazione elettorale di valenza regionale alle regioni, ma la norma chiamata in causa dal Tar del Lazio, l'articolo 2 della legge regionale del Lazio n. 2 del 20 gennaio 2005, dispone che «per quanto non espressamente previsto, sono recepite la legge 17 febbraio 1968, n. 108 (Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale) e la legge 23 febbraio 1995, n. 43 (Nuove norme per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario), e successive modifiche e integrazioni». Per tutto quello non espressamente previsto quindi la Regione Lazio si rimette alla normativa nazionale, che lo Stato ha tutto il diritto di interpretare.

E «successive modifiche e integrazioni», spiega il costituzionalista Ciro Sbailò a il Velino, significa che siamo di fronte a «un caso classico di "rinvio dinamico" che vincola la legge a un'altra legge. Quando, infatti, il rinvio è "statico", "le eventuali variazioni apportate all'atto cui si rinvia sono indifferenti". Nel caso di rinvio dinamico, invece, l'ordinamento "si adegua automaticamente a tutte le modifiche che nell'altro ordinamento si producono" (G. Pitruzzella). In altre parole - sostiene il professor Sbailò - con quel riferimento dinamico, il legislatore regionale ha aperto una strada che poi non può decidere di chiudere quando gli pare... Insomma, siamo di fronte a un atteggiamento a dir poco "creativo" dei giudici amministrativi».

Se alla discutibile decisione del Tar del Lazio aggiungiamo le magagne che stanno venendo fuori in Lombardia e in Piemonte, allora - posto che a questo punto, elettoralmente parlando, al centrodestra converrebbe forse non insistere - il problema diventa un altro, quello di una «dissidenza» di parte della magistratura nei confronti delle istituzioni democratiche tutte, come descritto da Il Foglio oggi:
«Quei magistrati, in sostanza, spingono il loro diritto a interpretare le leggi fino al limite di capovolgerle e non osservarle. I cavilli procedurali ai quali si sono appellati, il gioco di sponda formalistico con la Corte costituzionale, il derisorio rinvio della decisione definitiva a dopo lo svolgimento delle elezioni, sono lampanti esempi di una arrogante volontà di far prevalere le formalità sulla sostanza, il giurisdizionalismo sulla democrazia. L’intervento autorevole e sofferto di Giorgio Napolitano, che puntava a superare una contrapposizione lacerante con un preciso e coraggioso senso istituzionale, non solo non è stato accolto ma è stato frettolosamente archiviato. Il problema dunque, non è più quello dei pasticci combinati da qualcuno, dei tentativi di porvi rimedio, della validità delle scelte compiute dal governo, è invece quello di una sostanziale dissidenza giudiziaria, di un ordine che vuole prevalere sulle istituzioni elettive, dal Parlamento, al governo, al Quirinale. Il formalismo è l’aspetto esteriore di questa dissidenza».

Monday, March 08, 2010

Se l'Academy fa le cose per bene

Avatar è giustamente il grande bocciato dall'Academy. Ha perso tutti gli oscar più "pesanti", in palio per le categorie strutturali, quelle che "fanno" il film. Nessuna nomination per la recitazione, visto che le capacità degli attori - se ce n'erano - sono state troppo coperte dal digitale, mentre ha vinto gli unici oscar che indubbiamente meritava: effetti speciali, fotografia (dell'"italiano" Mauro Fiore) e scenografia. Ma è stato surclassato dal mozzafiato The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, che oltre a miglior film si è portato a casa miglior regia (prima volta a una donna), miglior sceneggiatura, miglior montaggio e i due oscar per i suoni. Il bravo e semi-sconosciuto protagonista era in corsa per migliore attore, ma ha dovuto cedere di fronte al monumentale Jeff Bridges. Ancora una volta grande in Crazy Heart, ma indubbiamente premiato anche per una carriera da "diesel" (L'ultimo spettacolo, La leggenda del re pescatore, L'amore ha due facce, Il grande Lebowski, sono i miei preferiti).

Finisce 6 a 3 il particolare derby tra James Cameron e l'ex moglie Kathryn Bigelow. Lei per chi non lo ricordasse è la regista degli splendidi Point Break e Strange Days, che già di per sé valevano l'oscar. Non sempre condivido le scelte dell'Academy, ma stavolta bisogna riconoscere che ha avuto il coraggio di bocciare il filmone pluri-milionario Avatar, premiato nelle sale più dal 3D che non dalla qualità del film in sé, e riconoscere invece il valore di un film uscito in sordina, con difficoltà nella distribuzione e dagli incassi modesti. E non manca nella più scintillante manifestazione di Hollywood il riconoscimento al cinema indipendente (il "prezioso" e toccante Precious ha vinto due oscar, attrice non protagonista e sceneggiatura non originale) e persino all'animazione (due oscar - colonna sonora, ad un altro italoamericano, e miglior film d'animazione - anche allo splendido e "profondo" Up).

Più perplesso per l'atteso e sospirato oscar per migliore attrice protagonista a Sandra Bullock per The Blind Side. Premetto però di non aver visto il film e il mio "pregiudizio" potrebbe non essere obiettivo visto che la Bullock non mi appassiona, non mi scalda. Esce con un bottino forse troppo magro Tarantino con Bastardi senza gloria (una sola statuetta, miglior attore non protagonista a Christoph Waltz). Che il regista di Pulp Fiction e Kill Bill non abbia ancora vinto come miglior film o migliore regia comincia a scandalizzare. Meritatissimi gli oscar ai due italoamericani (la fotografia di Avatar e la colonna sonora di Up): molta Italia nel loro sangue, poca nelle loro carriere, purtroppo.

Sunday, March 07, 2010

Napolitano ci ha messo la faccia, gli altri l'hanno persa

Tutti dovrebbero fare i conti con questa realtà. Nella spiegazione che ha fornito della sua firma al decreto "interpretativo" sul caos liste, il presidente della Repubblica non solo chiarisce che il testo presentatogli «non ha presentato a mio avviso evidenti vizi di incostituzionalità», ma mostra di condividerne il merito, o quanto meno di aver condiviso con il governo l'esigenza di un intervento legislativo, laddove spiega che si trattava di «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici» e sottolinea che «non era sostenibile che potessero non parteciparvi nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo». Non era sostenibile. Diversamente dalle opposizioni Napolitano ha ritenuto opportuno un intervento, ha riconosciuto che in gioco c'era «il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Dunque, se non il merito, almeno l'opportunità del decreto l'ha condivisa.

Per il capo dello Stato inoltre la soluzione avallata tutela entrambi gli interessi o beni coinvolti («il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi»), e «non si può negare che si tratti di beni egualmente preziosi», sottolinea. Ha chiarito inoltre che qualsiasi soluzione avrebbe «pur sempre dovuto tradursi in soluzione normativa», e che dati i tempi ristretti «quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge». Rispetto alle ipotesi riapertura dei termini, o rinvio, prospettategli giovedì sera da Berlusconi, quelle sì a forte rischio incostituzionalità, Napolitano ha insistito per un intervento che non cambiasse le regole in corsa. E l'ha ottenuto.

Nel messaggio si è poi voluto togliere due sassolini, uno dalla scarpa sinistra e una da quella destra. Laddove scrive che «certo sarebbe stato opportuno» un accordo bipartisan, ma fa notare quanto ciò sia difficile «ancor più in clima elettorale», non si può non vedere una frecciatina al Pd, che ad un confronto con il governo e con il Colle su una questione delicatissima, di fair play e correttezza del voto, ha preferito la propaganda, non resistendo alla tentazione di provare a "vincere facile". Laddove scrive che «un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri» ce l'ha con Di Pietro e ovviamente con Berlusconi, per il «teso incontro» di giovedì sera. Ma il fatto che nonostante il duro scontro di giovedì, ai limiti della rottura, con Berlusconi, Napolitano abbia comunque firmato un decreto che aiuta a risolvere il problema liste, ciò la dice lunga da un lato sull'onestà intellettuale e la correttezza del presidente, dall'altro sulla necessità e urgenza dell'intervento. Evidentemente Napolitano ha ritenuto davvero in pericolo il diritto di voto di milioni di cittadini e non gli è importato nulla né dell'arroganza di Berlusconi né della contrarietà della sinistra.

Il Pd non può quindi trincerarsi, per distinguersi dalla reazione di Di Pietro contro Napolitano, dietro il fatto che firmando il presidente si limita a un primo controllo di costituzionalità e non è politicamente responsabile nel merito del decreto. Ciò è senz'altro vero, ma indubbiamente Napolitano ci ha messo la faccia, e con la sua spiegazione lo rivendica con un coraggio e una trasparenza di cui gli va dato merito. Davvero si è dimostrato presidente di tutti. O il decreto è incostituzionale, un "golpe", e allora di una gravità inaudita che coinvolge anche Napolitano, come sostiene Di Pietro, oppure non lo è. In ogni caso emerge tutta la contraddittorietà della posizione del Pd, che da una parte fa ricorso alla piazza e alza le barricate, pronuncia parole e mette in atto iniziative da allarme democratico, come si farebbe per contrastare l'instaurazione di un regime; dall'altra pretende di lasciar fuori da tutto questo Napolitano.

Ancor più insostenibile, se possibile, la posizione dei radicali. Da una parte pretendono di denunciare l'illegalità generalizzata, sistematica e strutturale, di queste elezioni, fino a chiederne il totale annullamento, dall'altra scendono in piazza e si candidano con chi è convinto che il caos liste è tutta colpa dell'incapacità del Pdl a raccogliere le firme. Insomma, di questo "regime" partitocratico sono corresponsabili e coautori centrodestra e centrosinistra, come hanno sempre sostenuto loro, oppure il problema è il "dittatore" Berlusconi, come sostiene Di Pietro? La candidatura della Bonino soffre di questa contraddizione. Da candidata ha il dovere di contrapporsi a Berlusconi e al centrodestra, di gioire ed avvantaggiarsi dell'esclusione delle liste avversarie, ma come radicale non può che denunciare un'illegalità che riguarda tutti. Ha mai chiesto a Bersani se fosse d'accordo con l'annullamento delle elezioni per poter sanare le illegalità e cambiare le regole? Bersani avrebbe chiamato il premier per proporgli questa soluzione? Un rinvio, nella versione proposta da Berlusconi a Napolitano, o l'annullamento versione radicale, sarebbero stati ancor più contrastati dalla sinistra, e forse a questo punto quelli sì incostituzionali. Non prendiamoci in giro. I radicali hanno piegato la loro battaglia di legalità agli interessi di una parte; al di là delle intenzioni l'hanno resa uno strumento di lotta politica a danno di uno solo dei due schieramenti, e in tutto questo la loro lettura della realtà italiana va a farsi friggere.

E veniamo al centrodestra. Che pagherà un prezzo politico pesante per il disgusto suscitato, anche nei suoi elettori, prima dalla sciatteria e dall'inefficienza dimostrata dal Pdl, poi dalla sensazione che per rimediare ai suoi errori sia stato determinante un "aiutino" calato dall'alto e in corsa. Anche se l'"aiutino" non è stato necessario per la riammissione del "listino" Formigoni. Il Tar della Lombardia infatti ha deciso a prescindere dal decreto, gettando un'ombra sinistra sull'operato della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano, che una volta ammessa la lista non doveva più pronunciarsi su di essa, non aveva più alcun potere di intervento, e quindi non doveva neanche accogliere le pretese accampate contro le liste ammesse nel ricorso dei radicali, titolati a ricorrere solo contro la loro esclusione. Tecnicamente non si tratta neanche di una riammissione. Per il Tar Formigoni è sempre stato in corsa, dato che l'autorità che l'ha escluso non poteva farlo. Perché allora il governo ha voluto fare il decreto interpretativo prima della pronuncia del Tar lombardo? Salvare il Pdl a Roma, la cui riammissione è molto più difficile, era questo il vero scopo. Una volta riammesso Formigoni e la coalizione in Lombardia, infatti, la Lega non avrebbe più sostenuto la necessità di un intervento, e riguardando l'esclusione di una sola lista - sia pure maggioritaria - e non un intero schieramento e un candidato presidente, non sarebbe apparsa tale neanche a Napolitano.

Il prezzo per salvare il Pdl romano, sempre che il decreto basti, sarà alto. Di quanto potrà essere attenuato dipenderà dalla decisione del Tar laziale lunedì e dalla capacità di Berlusconi di spiegare ai cittadini cosa è successo. Accanto alla dabbenaggine dei dirigenti del Pdl locale, infatti, è anche vero che c'è stato un abuso di potere. Doveva essere consentita infatti la presentazione della lista anche fuori dai termini. La mancata presentazione ha impedito al Pdl di esercitare un diritto: quello di far valere nelle sedi competenti i motivi del suo ritardo. Mentre più emergono particolari sul caso Formigoni (fin dall'inizio avevo scritto che mi "puzzava"), più viene fuori non solo l'illegittimità dell'esclusione, come sancito dal Tar, ma anche la parzialità ai suoi danni della condotta della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano. Altro che inefficienza, nel caso Formigoni!