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Tuesday, March 09, 2010

La storia comincia a vendicare Bush

La notizia è che la democrazia, o almeno qualcosa che ci si avvicina il più possibile dato il contesto di quel Paese, è stata "esportata". Ed usiamo consapevolmente in modo provocatorio questo termine anche se non è il più appropriato. Già alle scorse elezioni in realtà gli iracheni avevano dimostrato di saper mettere la sordina alle esplosioni degli attentati terroristici con i loro voti, di non esserne intimiditi. Nel 2005, in piena era Bush e quando il Paese sembrava allo sbando, in preda agli insorti e ad al Qaeda, alle prime elezioni dopo la caduta della dittatura votò il 13 per cento in più degli iracheni rispetto al 62,4 per cento di questa volta, che è comunque oltre il 10 per cento in più delle provinciali dell'anno scorso.

Insomma, anche se i mainstream media sembrano essersene accorti solo ora, è dalla fine di Saddam che gli iracheni rispondono alle bombe a suon di voti. Solo che prima c'era Bush, non Obama, e non bisognava trasmettere all'opinione pubblica la speranza - almeno quella - di un Iraq democratico, ma l'immagine di un Paese sprofondato a causa dell'intervento americano in un girone infernale di violenza senza fine e senza voglia di riscatto. Ma alle elezioni di domenica scorsa è accaduto qualcosa in più, hanno votato per la prima volta in massa gli iracheni delle province sunnite, segno che la riconciliazione è davvero partita e il Paese si sta abituando al compromesso politico come prassi.

Anche se a Obama va dato il merito di non aver assunto decisioni irresponsabili sull'Iraq, nonostante la sua contrarietà alla guerra, oggi un discorso intellettualmente onesto non può prescindere dal riconoscere i meriti di George W. Bush, senz'altro superiori agli errori commessi (e poi rimediati con il coraggioso "surge"), e di quanti hanno sempre sostenuto la politica del regime change, anche per via militare, come possibilità di espansione - certo non automatica e irreversibile - della lbertà e della democrazia anche nel mondo arabo.

Oggi non manca nel campo dei realisti doc chi, come Richard Haass del Council on Foreign Relations, in ragione del fallimento della politica di engagement nei confronti di Teheran, comincia a prendere in considerazione il regime change anche per l'Iran, seppure ovviamente da perseguire dall'interno. Né manca chi, come Fareed Zakaria di Newsweek, comincia davvero a credere che l'esempio iracheno possa ridisegnare il Medio Oriente.

E oggi, sentito dal Corriere della Sera, l'editorialista del più famoso quotidiano liberal, Thomas Friedman, ricorda che l'Iraq è «riuscito a tenere due libere elezioni in cinque anni, sicuramente macchiate da violenze, ma sempre libere elezioni», e ammonisce che «non dobbiamo mai e poi mai sottovalutare l'importanza di questo fatto, nel contesto della storia del Paese e della regione. È un fatto enorme, fisicamente e simbolicamente». E inoltre, aggiunge, «non ci dobbiamo illudere neppure per un secondo che ciò che sta accadendo in Iraq non sia importante» per l'Iran. «Gli sciiti persiani dell'Iran guardano con senso di superiorità» ai loro vicini, ma ora «vedono gli sciiti iracheni tenere libere elezioni, mentre loro hanno dovuto scegliere da una lista predigerita di candidati. È un esempio dall'impatto potenziale immenso. Che siamo stati pro o contro la guerra in Iraq, credo sia tempo di concentrarsi su ciò che conta».

Le elezioni democratiche in Iraq si svolgono mentre Hollywood premia con sei oscar un film, come The Hurt Locker, che come ha scritto giustamente Maurizio Molinari, su La Stampa, «riconcilia l'America con gli eroi delle guerre del nuovo secolo». E premia «la volontà di informare sulla guerra rispetto al giudizio sulla guerra stessa». Una riconciliazione paragonabile, seppure in scala minore, a quella sul Vietnam con i film Il Cacciatore, di Michael Cimino, e Vittime di Guerra, di Brian De Palma. «Loro sono lì per noi. E noi siamo qui per loro», sono state le parole rivolte nella sua dedica dalla regista Kathryn Bigelow ai soldati in Iraq e Afghanistan, mostrando di essere consapevole di quanto vale il fronte interno («noi siamo qui per loro»). Una vittoria - e parole - impensabili qualche anno fa sul palcoscenico degli Oscar.

E con la sconfitta di Avatar, inoltre, osserva Il Foglio, a perdere sono anche un ecologismo e un pacifismo tanto ingenui al punto di apparire disumani, con il loro pregiudizio secondo cui a scatenare le guerre sono sempre gli americani – o gli occidentali – per sottrarre le ricchezze a popoli pacifici che vorrebbero solo vivere in armonia con la natura. Più umana la guerra rappresentata dalla Bigelow: un affare sporco e confuso, a volte necessaria e persino eroica.

2 comments:

luca said...

Da quando esistono i sondaggi d'opinione solo un presidente ha lasciato la Casa Bianca con un indice di popolarità più basso di Bush: Truman, che oggi viene ricordato come uno dei più grandi presidenti USA di sempre.
Anche Bush verrà rivalutato, magari fra 20 anni, magari a denti stretti da chi l'ha ricoperto di insulti.
Ma la storia comincia finalmente a dargli ragione.
Può aver commesso errori strategici nella gestione della guerra e del dopo-guerra (errori a mio avviso imputabili soprattutto a Rumsfeld), ma l'idea di fondo era giusta.
L'Iraq di oggi è nonostante tutto un paese più sicuro e soprattutto più libero di quello tiranneggiato da Saddam.

Cachorro Quente said...

Bè, se lo dice il Foglio che con Avatar è stato sconfitto il pacifismo, allora la rivalutazione di Bush è dietro l'angolo. Non fa una piega, visto che l'Academy conta tra i suoi membri i più autorevoli scienziati politici di oltreoceano.

Ma. Per. Piacere.

Miracolo, dopo 7 anni, 5000 vittime della coalizione, decine di migliaia di vittime dirette dell'invasione (più una stima di "morti in eccesso" di alcune centinaia di migliaia di unità, tra malattie e violenza settaria) e la totale perdita di credibilità degli USA su temi come la legalità internazionale e la tortura, possiamo festeggiare le elezioni in Iraq.

Cioè, anche mantenendo il più disarmante ottimismo sulla situazione politica del paese, e ignorando il costo umano dell'operazione, praticamente Bush avrebbe speso trilioni di dollari per rendere uno stato a caso sulla cartina democratico?
E per questo dovrebbe rivalutato?

Non commento nemmeno sul wishful thinking degli effetti positivi della "democratizzazione" del paese sulla regione (penso che Ahmadinejad si mangi le mani ogni giorno per il fatto che il suo peggior vicino è stato sostituito da un partito sciita).

Jimmomo, non c'è nulla di male a dire: "Ho sbagliato", anche dopo 7 anni.

P.S. anche in Afghanistan ci sono state due elezioni, ti consiglio l'argomento per il prossimo post!