Tutti dovrebbero fare i conti con questa realtà. Nella spiegazione che ha fornito della sua firma al decreto "interpretativo" sul caos liste, il presidente della Repubblica non solo chiarisce che il testo presentatogli «non ha presentato a mio avviso evidenti vizi di incostituzionalità», ma mostra di condividerne il merito, o quanto meno di aver condiviso con il governo l'esigenza di un intervento legislativo, laddove spiega che si trattava di «garantire che si andasse dovunque alle elezioni regionali con la piena partecipazione dei diversi schieramenti politici» e sottolinea che «non era sostenibile che potessero non parteciparvi nella più grande regione italiana il candidato presidente e la lista del maggior partito politico di governo». Non era sostenibile. Diversamente dalle opposizioni Napolitano ha ritenuto opportuno un intervento, ha riconosciuto che in gioco c'era «il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi». Dunque, se non il merito, almeno l'opportunità del decreto l'ha condivisa.
Per il capo dello Stato inoltre la soluzione avallata tutela entrambi gli interessi o beni coinvolti («il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi»), e «non si può negare che si tratti di beni egualmente preziosi», sottolinea. Ha chiarito inoltre che qualsiasi soluzione avrebbe «pur sempre dovuto tradursi in soluzione normativa», e che dati i tempi ristretti «quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge». Rispetto alle ipotesi riapertura dei termini, o rinvio, prospettategli giovedì sera da Berlusconi, quelle sì a forte rischio incostituzionalità, Napolitano ha insistito per un intervento che non cambiasse le regole in corsa. E l'ha ottenuto.
Nel messaggio si è poi voluto togliere due sassolini, uno dalla scarpa sinistra e una da quella destra. Laddove scrive che «certo sarebbe stato opportuno» un accordo bipartisan, ma fa notare quanto ciò sia difficile «ancor più in clima elettorale», non si può non vedere una frecciatina al Pd, che ad un confronto con il governo e con il Colle su una questione delicatissima, di fair play e correttezza del voto, ha preferito la propaganda, non resistendo alla tentazione di provare a "vincere facile". Laddove scrive che «un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri» ce l'ha con Di Pietro e ovviamente con Berlusconi, per il «teso incontro» di giovedì sera. Ma il fatto che nonostante il duro scontro di giovedì, ai limiti della rottura, con Berlusconi, Napolitano abbia comunque firmato un decreto che aiuta a risolvere il problema liste, ciò la dice lunga da un lato sull'onestà intellettuale e la correttezza del presidente, dall'altro sulla necessità e urgenza dell'intervento. Evidentemente Napolitano ha ritenuto davvero in pericolo il diritto di voto di milioni di cittadini e non gli è importato nulla né dell'arroganza di Berlusconi né della contrarietà della sinistra.
Il Pd non può quindi trincerarsi, per distinguersi dalla reazione di Di Pietro contro Napolitano, dietro il fatto che firmando il presidente si limita a un primo controllo di costituzionalità e non è politicamente responsabile nel merito del decreto. Ciò è senz'altro vero, ma indubbiamente Napolitano ci ha messo la faccia, e con la sua spiegazione lo rivendica con un coraggio e una trasparenza di cui gli va dato merito. Davvero si è dimostrato presidente di tutti. O il decreto è incostituzionale, un "golpe", e allora di una gravità inaudita che coinvolge anche Napolitano, come sostiene Di Pietro, oppure non lo è. In ogni caso emerge tutta la contraddittorietà della posizione del Pd, che da una parte fa ricorso alla piazza e alza le barricate, pronuncia parole e mette in atto iniziative da allarme democratico, come si farebbe per contrastare l'instaurazione di un regime; dall'altra pretende di lasciar fuori da tutto questo Napolitano.
Ancor più insostenibile, se possibile, la posizione dei radicali. Da una parte pretendono di denunciare l'illegalità generalizzata, sistematica e strutturale, di queste elezioni, fino a chiederne il totale annullamento, dall'altra scendono in piazza e si candidano con chi è convinto che il caos liste è tutta colpa dell'incapacità del Pdl a raccogliere le firme. Insomma, di questo "regime" partitocratico sono corresponsabili e coautori centrodestra e centrosinistra, come hanno sempre sostenuto loro, oppure il problema è il "dittatore" Berlusconi, come sostiene Di Pietro? La candidatura della Bonino soffre di questa contraddizione. Da candidata ha il dovere di contrapporsi a Berlusconi e al centrodestra, di gioire ed avvantaggiarsi dell'esclusione delle liste avversarie, ma come radicale non può che denunciare un'illegalità che riguarda tutti. Ha mai chiesto a Bersani se fosse d'accordo con l'annullamento delle elezioni per poter sanare le illegalità e cambiare le regole? Bersani avrebbe chiamato il premier per proporgli questa soluzione? Un rinvio, nella versione proposta da Berlusconi a Napolitano, o l'annullamento versione radicale, sarebbero stati ancor più contrastati dalla sinistra, e forse a questo punto quelli sì incostituzionali. Non prendiamoci in giro. I radicali hanno piegato la loro battaglia di legalità agli interessi di una parte; al di là delle intenzioni l'hanno resa uno strumento di lotta politica a danno di uno solo dei due schieramenti, e in tutto questo la loro lettura della realtà italiana va a farsi friggere.
E veniamo al centrodestra. Che pagherà un prezzo politico pesante per il disgusto suscitato, anche nei suoi elettori, prima dalla sciatteria e dall'inefficienza dimostrata dal Pdl, poi dalla sensazione che per rimediare ai suoi errori sia stato determinante un "aiutino" calato dall'alto e in corsa. Anche se l'"aiutino" non è stato necessario per la riammissione del "listino" Formigoni. Il Tar della Lombardia infatti ha deciso a prescindere dal decreto, gettando un'ombra sinistra sull'operato della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano, che una volta ammessa la lista non doveva più pronunciarsi su di essa, non aveva più alcun potere di intervento, e quindi non doveva neanche accogliere le pretese accampate contro le liste ammesse nel ricorso dei radicali, titolati a ricorrere solo contro la loro esclusione. Tecnicamente non si tratta neanche di una riammissione. Per il Tar Formigoni è sempre stato in corsa, dato che l'autorità che l'ha escluso non poteva farlo. Perché allora il governo ha voluto fare il decreto interpretativo prima della pronuncia del Tar lombardo? Salvare il Pdl a Roma, la cui riammissione è molto più difficile, era questo il vero scopo. Una volta riammesso Formigoni e la coalizione in Lombardia, infatti, la Lega non avrebbe più sostenuto la necessità di un intervento, e riguardando l'esclusione di una sola lista - sia pure maggioritaria - e non un intero schieramento e un candidato presidente, non sarebbe apparsa tale neanche a Napolitano.
Il prezzo per salvare il Pdl romano, sempre che il decreto basti, sarà alto. Di quanto potrà essere attenuato dipenderà dalla decisione del Tar laziale lunedì e dalla capacità di Berlusconi di spiegare ai cittadini cosa è successo. Accanto alla dabbenaggine dei dirigenti del Pdl locale, infatti, è anche vero che c'è stato un abuso di potere. Doveva essere consentita infatti la presentazione della lista anche fuori dai termini. La mancata presentazione ha impedito al Pdl di esercitare un diritto: quello di far valere nelle sedi competenti i motivi del suo ritardo. Mentre più emergono particolari sul caso Formigoni (fin dall'inizio avevo scritto che mi "puzzava"), più viene fuori non solo l'illegittimità dell'esclusione, come sancito dal Tar, ma anche la parzialità ai suoi danni della condotta della commissione elettorale della Corte d'Appello di Milano. Altro che inefficienza, nel caso Formigoni!
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