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Wednesday, December 23, 2009

Arrivederci al 2010

Auguro a tutti i lettori buone feste e un felice anno nuovo. Pausa, e arrivederci al 2010. E che sia più... di questo.

Ortisei, Piazza S. Antonio

Tuesday, December 22, 2009

Disinformatija all'opera su Napolitano

Ieri tutti i siti, le agenzie, e oggi sui giornali quirinalisti e notisti politici, a sbandierare il «pessimismo» del presidente Napolitano riguardo le riforme costituzionali, perché non ravvisa il giusto «clima» tra le forze politiche. Ebbene, oggi Napolitano è intervenuto smentendoli tutti: non avete capito un acca. Quando il presidente ha parlato di «clima non propizio» non si riferiva alle riforme, come ha chiarito oggi egli stesso, ma «mi riferivo in particolare alla situazione di deficit pubblico, perché è più difficile condividere le scelte per contenerlo che trovare intese sulle riforme». Quindi, ci ha pensato lo stesso Napolitano, stamattina, a definire il suo stato d'animo riguardo la possibilità che possa riprendere un percorso di riforme condivise in grado di dare risultati già nell'attuale legislatura. Smentendo le letture del suo discorso di ieri diffuse dalle principali agenzie e siti internet, e propagandate oggi dai giornali, il capo dello Stato si è detto «né ottimista né pessimista, ma ragionevolmente fiducioso». E ha chiarito anche lo stato dei suoi rapporti personali con Berlusconi: «Sono sempre stati buoni». In particolare, «mi ha fatto piacere che oggi mi abbia chiamato e che abbia apprezzato le linee generali del mio discorso», rivela riferendosi al colloquio telefonico avuto stamattina con il premier, nel corso del quale i due si sono scambiati, oltre che gli auguri natalizi, dei pareri sul discorso pronunciato ieri.

I giornali hanno come al solito tentato di "spingere" le loro interpretazioni interessate e frutto di pregiudizio. Ma evidentemente questa volta Napolitano ha ritenuto di dover intervenire per correggere le incaute analisi di chi ha parlato di «pessimismo» del Colle (Massimo Giannini, su la Repubblica), o di un «ultimo appello al premier» (Federico Geremicca, su La Stampa). Alla luce delle precisazioni di oggi, invece, più vicini al reale stato d'animo del presidente sono andati Stefano Folli sul Sole 24 Ore, che nel discorso di Napolitano di ieri ha visto «un messaggio di moderato ottimismo»; Massimo Franco, che sul Corriere della Sera ha parlato di un «realismo necessario» del Colle; e Paolo Cacace, che su Il Messaggero ha osservato come quello del capo dello Stato non sia certo «un facile e gratuito ottimismo», cogliendo nelle sue parole «un segnale di pace al Cavaliere».

Un caso esemplare di come da parte delle principali agenzie e siti internet, e di certi grandi giornali, si tenti ogni volta di dare in pasto all'opinione pubblica le loro letture deviate, persino delle parole del capo dello Stato, influenzando lo stesso dibattito politico.

Il "generale Inverno" ridicolizza Copenhagen

Non butterei la croce addosso a Moretti, l'ad delle Ferrovie, in queste ore, quanto piuttosto ai fanatici del surriscaldamento globale. Certo, si dirà, un'ondata eccezionale di freddo e maltempo non smentisce sofisticate analisi statistiche e climatologiche. Fatto sta che il Centro e il Nord Europa sono stati spazzati da un gelo e da tanta neve come non se ne vedevano da anni, proprio nel mese in cui a Copenhagen si sono riuniti i "grandi della Terra" per agire contro il presunto surriscaldamento globale.

Non sono mai tenero nei confronti delle Ferrovie, che anche in situazioni normali si distinguono per ritardi e disservizi di ogni genere, ma questa volta, fatta eccezione per quel po' di arroganza da boiardo di stato, nel merito non si può dar torto all'ad Moretti. Né sull'eccezionalità della situazione meteo, né sul fatto che il sistema dopo tutto ha retto. I disagi hanno davvero colpito tutte le reti ferroviarie del centroeuropa, e persino la battuta controversa del maglione e del panino in più da portare con sé in viaggio l'ho trovata un suggerimento dovuto in una situazione così limite. Certo, c'è da dire che i convogli rimangono senza corrente anche in situazioni normali - purtroppo capita! - ma questa volta è obiettivamente diverso ed è sciocco prendersela con Ferrovie. Il paragone con la Finlandia mi è parso ingeneroso. E' ovvio che lì la rete ferroviaria sia preparata a far fronte a tali condizioni climatiche, essendo la normalità e non l'eccezione.

Piuttosto, dobbiamo ancora credere ai fanatici del surriscaldamento terrestre, che rischia di rivelarsi il più grande imbroglio planetario di tutti i tempi? A giudicare dalle loro azioni, i leader mondiali non sono poi così preoccupati come dicono di essere. Il sospetto è che strumentalizzino il tema dei cambiamenti climatici, verso cui le opinioni pubbliche sembrano molto sensibili, cercando di raccogliere consensi attraverso altisonanti dichiarazioni, ma che al dunque non abbiano la volontà politica di assumersi impegni concreti e verificabili. Diventa quindi inevitabile che alle grandi aspettative della vigilia di ogni vertice segua il rimpallo delle responsabilità.

Di chi è davvero la colpa del fallimento di Copenhagen? L'impressione è che in definitiva le potenze più inquinanti, Stati Uniti e Cina, non siano disposte – anche se per motivi diversi – ad accettare vincoli al loro sviluppo e alle loro economie. Gli Stati Uniti confidano più nella tecnologia che in tetti prefissati di emissioni, mentre la Cina vede dietro accordi vincolanti il tentativo da parte dell'Occidente di rallentare il suo sviluppo e frenare la sua ascesa al ruolo di superpotenza globale in competizione con gli Usa. Il clima è uno dei temi che meglio si presta alle speculazioni sul cosiddetto G2 e i leader di entrambe le potenze sono sembrati muoversi all'unisono, facendo annunciare il loro arrivo al vertice da dichiarazioni promettenti, per poi accordarsi su un minimo sindacale, che probabilmente già sapevano essere inevitabile, e farlo accettare agli altri. Ma dietro Usa e Cina, altri Paesi sono stati ben contenti del nulla di fatto e di poterne scaricare la responsabilità sui due Grandi.

L'accusa di aver fatto fallire il vertice è stata indirizzata soprattutto alla Cina, che ha posto il veto sulla riduzione del 50% delle emissioni globali collegata alla riduzione dell'80% da parte dei Paesi sviluppati. Ma soprattutto, bisognerebbe prestare attenzione alla rappresentazione che Pechino ha propagandato dei negoziati: se da parte sua la Cina ancora una volta - come in occasione della visita di Obama - ha tentato di esercitare una sapiente regia comunicativa, cercando sul tema dei cambiamenti climatici di indossare i panni della paladina dei Paesi in via di sviluppo contro l'egoismo dei "ricchi" occidentali, qualcosa non deve aver funzionato, se gli stessi Paesi in via di sviluppo l'hanno accusata di aver sottoscritto e difeso un accordo al ribasso.

Friday, December 18, 2009

Stasi assolto, ma che disastro questi pm!

Adesso che il processo Stasi si è concluso con un'assoluzione, si dirà che non poteva andare altrimenti. In effetti sarebbe così, se non fosse che siamo in Italia, dove è vero che «senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio» nessuno può essere condannato, ma è anche vero che molte volte, troppe, questo principio rimane sulla carta e accade esattamente il contrario. A causa per lo più della sudditanza dei giudici nei confronti della pubblica accusa. La sola separazione delle funzioni, e non anche delle carriere, tra giudicante e requirente non è sufficiente a garantire la terzietà del giudice.

L'aspetto paradossale nel processo Stasi, per esempio rispetto alla sentenza di condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è che un giudice monocratico, di giovane età, si sia dimostrato più indipendente e meno influenzabile di una giuria. Forse ciò si deve anche al fatto che nel caso Garlasco la pm è stata praticamente abbandonata dal suo procuratore capo (ma se nutriva dei dubbi sulle indagini, non avrebbe fatto meglio a toglierle il caso, per esempio dopo la scarcerazione di Alberto decisa dal gip?), mentre a Perugia il procuratore capo Mignini ha fatto sentire tutto il suo peso. Il gup Vitelli, scrive Feltri su il Giornale, «restituisce a tutti noi un po' di fiducia nella magistratura. Ci sono toghe che sanno fare il loro mestiere. Sarebbe meglio valorizzarle». E le sue parole valgono ancor di più perché notoriamente il direttore non nutre una particolare stima nei confronti della magistratura.

Un'altra grave anomalia italiana è il processo mediatico. Sono pochi i giornalisti e i commentatori televisivi che si documentano e riescono a farsi un'idea equilibrata sulle prove in possesso dell'accusa. Una di questi pochi, occorre dirlo, è Cristiana Lodi, di Libero, che ha fatto un lavoro egregio. Gli altri - potrei fare i nomi, ma tutti conosciamo i volti più noti dei salotti televisivi, tra psicologi e sostitute procuratoresse - si fanno imbeccare dall'accusa, si lasciano suggestionare da particolari fatti trapelare ad arte e in modo da scatenare le ipotesi più pruriginose e "piccanti".

Pochi sanno, per esempio, che le famigerate foto pedo-pornografiche erano state cancellate dal pc di Alberto mesi prima il delitto, mentre ore e ore di trasmissioni televisive hanno fatto credere che la loro scoperta da parte di Chiara potesse aver indotto Alberto ad ucciderla. E' stata fatta una campagna martellante sull'archivio di immagini pornografiche sul pc di Alberto, ma non è stata portata la minima prova che Chiara le avesse viste e in ogni caso difficilmente avrebbe avuto una reazione così scandalizzata da costituire un movente per ucciderla, visto che tutte le conversazioni (e non solo) agli atti - per chat, mail ed sms - tra i due ragazzi sembrano molto disinibite sull'argomento sesso. Eppure, queste trasmissioni televisive hanno avvalorato insistentemente una ricostruzione (Chiara che scopre Alberto "maniaco" e lui che la uccide) fondate solo su deboli supposizioni. Questa è un'altra costante della pubblica accusa in Italia: l'ossessione per il sesso, che deriva da una cultura sessuofobica. Il sesso visto come qualcosa in ultima analisi di "sporco", il posto migliore - se non l'unico - dove andare a cercare un movente.

Anche elementi che comunemente rendono stimabile una persona, nei processi mediatici vengono rivolti a sfavore dell'imputato. Così lo studio diventa prova di freddezza, una relazione amorosa a detta di tutti seria e stabile deve per forza esserlo solo apparentemente e nascondere, invece, qualcosa di torbido e inconfessabile. Non è stato certo il miglior modo di onorare la memoria di Chiara, anche se non c'è più, infangare quello che probabilmente è stato l'amore della sua vita.

La migliore e più efficace strategia dell'accusa in Italia è la character assassination, anche se per fortuna a volte ha le gambe corte. Che fa il paio con un modo di raccogliere e interpretare le prove che ha sconvolto le più comuni e consolidate nozioni. Eravamo infatti abituati a credere che si è nei pasticci quando si trovano tracce di sangue sotto le suole delle scarpe o sugli indumenti, non quando invece mancano. La mancanza di tracce di sangue sulle scarpe di Alberto poteva in effetti insospettire, essendo stato lui a scoprire il cadavere, ma ci si è ostinatamente rifiutati di prendere in considerazione spiegazioni più logiche e verosimili, che alla fine sono emerse: le suole avevano un certo grado di idrorepellenza, le macchie di sangue erano probabilmente secche quando Alberto le ha calpestate, e comunque ha continuato a camminare con quelle scarpe per ore, anche sull'erba bagnata. Stesso discorso per l'irrilevante impronta sul portasapone, che prova solo il fatto che Aberto frequentava il bagno di casa della sua ragazza.

Ma laddove la ricostruzione dell'accusa è definitivamente crollata è sulla perizia informatica e sull'orario della morte. E' gravissimo che l'alibi di Alberto sia stato "cancellato" dagli investigatori per imperizia - nel migliore dei casi, per non pensare alla malafede. E non si può sostenere per tutto il processo una determinata ora del decesso della vittima e all'ultimo momento, solo perché si scopre che l'imputato per quell'ora ha un'alibi solido, spostarla. Non si fa. E' scorretto. E' disonesto. Dovrebbe essere oltraggio alla Corte.

Fondamentalmente, il problema è che in Italia non si parte dagli indizi per individuare il colpevole. Si presume di aver individuato il colpevole e poi si va a caccia delle prove. Si piegano tutte le evidenze e le perizie in funzione di un teorema accusatorio elaborato troppo presto, e di cui ci si innamora quasi per orgoglio. Per non parlare della solita, imbarazzante e pasticciata gestione della scena del crimine. Adesso, ci risparmino per lo meno lo spettacolo indecoroso di un ricorso in appello e si vadano piuttosto a nascondere dalla vergogna. Definitivo, speriamo, sull'intera vicenda il commento di Carlo Federico Grosso, su La Stampa:
«A questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull'efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell'imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l'imputato possa essersi trattenuto al computer l'intera mattinata in cui si è consumato l'omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9.36 alle 12.20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati della accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati».
Chi dovrebbe intervenire?

Thursday, December 17, 2009

Il nodo resta Di Pietro, il Corriere chiede al Pd di rompere

Mentre il Pdl offre a Pd e Udc un «patto democratico» che «segni chiaramente i confini della normale dialettica politica», apra una stagione di «legittimazione reciproca», conducendo all'«abbandono di ogni scorciatoia giudiziaria», e di riforme costituzionali, e il Pd risponde positivamente, seppur ribadendo i «confini» del «no alle leggi ad personam e sì a un confronto in Parlamento sulle riforme», di tutta evidenza il nodo resta l'alleanza con Di Pietro. L'ex pm continua a ripetere, ieri a L'Unità, che «in Italia c'è il fascismo». Si appunta la medaglia di «resistenza», anche se dalle sue parole si potrebbe intendere che «resistenza» sia anche quella di Tartaglia, l'aggressore di Berlusconi in Piazza Duomo. A suo avviso infatti «si scambia la vittima per l'aggressore», ma «quando c'è un governo fascista e piduista per fortuna c'è qualcuno che inizia a fare resistenza».

Se la Repubblica non dà segnali di tregua, dal Corriere della Sera, tramite l'editoriale di Angelo Panebianco in prima pagina, giunge all'indirizzo del Pd - credo per la prima volta in modo esplicito - la richiesta di rompere l'alleanza con Di Pietro. L'editorialista del Corriere non si nasconde che per il Pd rompere con Di Pietro richiede una forte leadership ma soprattutto una «complessa operazione politica»:
«Un'operazione che implica sia la resa dei conti con il "dipietrismo interno" al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica. Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l'antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra».
Secondo Panebianco, Bersani «ambirebbe a portare il Pd fuori dall'orbita del massimalismo antiberlusconiano» e a dare al partito «un chiaro profilo riformista», ma si preoccupa anche di «non perdere consensi».
«Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell'elettorato e fra i militanti del Pd un'operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa».
Non potrebbe essere spiegato meglio. Ma è qui, conclude Panebianco, che «entra in gioco la questione della leadership». O per lo meno dovrebbe.
«Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra».
Sono queste le parole che Panebianco vorrebbe sentir pronunciare da Bersani, ma confesso di nutrire ben poche speranze in proposito. Ha ragione Gianni De Michelis, quando al Corriere dice che «l'unico modo per salvare questo Paese è isolare Di Pietro», suggerendo che se «l'hanno fatto in Francia con Le Pen, che aveva molti più voti, devono farlo anche con lui che non è un soggetto compatibile con lo stato di diritto». Intanto, stiamo per entrare nella campagna per le regionali, quindi dubito che il rasserenamento reggerà dopo la fine delle festività natalizie. Il vero banco di prova sarà dopo le elezioni regionali. A quel punto, se dovesse trovarsi di fronte all'ennesima debàcle, il Pd potrebbe trovare la forza per dialogare sulle riforme e/o per rompere con Di Pietro, ma non c'è da illudersi troppo.

E se D'Alema promuove Bersani confermando disponibilità (sulle riforme) e paletti, pur mettendo sullo stesso piano quelli che chiama gli «opposti populismi», quello di Berlusconi e quello di Di Pietro, «speculari» e che «si alimentano a vicenda», Casini sgomita e sente che la possibile ripresa del dialogo tra Pd e Pdl potrebbe marginalizzare l'Udc: «Questo - spiega a la Repubblica - è il momento di chiudere i falchi in gabbia e far volare le colombe. Noi vogliamo sederci al tavolo con Pd e Pdl per trovare una via d'uscita all'eterna transizione italiana». Ma torna anche a rilanciare l'idea di «un fronte legalista» Pd-Udc se il Pdl tentasse di «strumentalizzare l'aggressione a Berlusconi per far ingoiare il processo breve al Parlamento». L'ipotesi "frontista" di Casini non è poi così lontana da Di Pietro che definisce «fascista» questo governo, eppure sembra conservare la patente di "moderato".

Wednesday, December 16, 2009

Caro Maroni, su Internet ti sbagli

La Rete è innocente, nel senso che il flusso d'odio che vi scorre non è la causa, ma il sintomo del clima che ha portato all'aggressione a Berlusconi e i cui artefici e promotori sono altrove, come ho provato a spiegare. Quel flusso e questo clima sono i frutti avvelenati di anni di indottrinamento da parte di Repubblica e dei Santoro. Calunniare via Internet non mette al riparo dalle querele, così come usare Internet per incitare alla violenza è già perseguibile con le leggi attuali, non ne servono altre. Occorre applicare il codice che c'è. E' impensabile quindi una corsa all'oscuramento di siti e pagine. Ne chiudi uno, ne nascono dieci. Prima che sbagliato sarebbe inutile, uno spreco di forze e risorse. E oltre che inutile, persino dannoso. Internet infatti, e soprattutto proprio i social network come Facebook, o forum come Indymedia, offrono alle forze dell'ordine uno straordinario strumento di controllo e di indagine, una finestra aperta su ambienti, umori e persone che altrimenti si muoverebbero protetti da una totale oscurità.

Importante, caro ministro Maroni, non è la possibilità di oscurare i siti (per questo basta segnalare agli amministratori, si tratti di Facebook o di Yahoo, e questi si renderanno più che disponibili a cancellare, come già fanno), ma la tracciabilità, in modo che sia sempre eventualmente possibile agli amministratori risalire alla postazione da cui è stato aperto quel sito o quella pagina, o inviato quel commento, che istigano alla violenza. Negli Stati Uniti non c'è la minima censura di Internet, ma se sul tuo sito scrivi "uccidete il presidente", è probabile che ti veda arrivare l'FBI a casa il giorno dopo. Il problema è il numero? Non si riescono a perseguire tutti quelli che attraverso Facebook fanno apologia di delitto o istigazione a delinquere? Per lo più si tratta di vigliacchi che si sentono protetti dal senso di impunità che si percepisce oggi. Basterebbe perseguirne seriamente uno, con nome e cognome, dimostrare che si va in galera o si passano guai anche a commettere reati via web, e la voglia passerebbe a molti.

Detto questo, l'odio per Berlusconi nasce prima di Internet, e trova le sue radici nella scarsa cultura democratica e liberale di questo Paese, nella presunzione di molti di essere moralmente e antropologicamente superiori e per ciò stesso gli unici destinati e legittimati, a priori, a governare e, di conseguenza, nella frustrazione che nutrono per qualsiasi "usurpatore". La caduta del Muro, quindi la fine della "conventio ad excludendum", e la personalità di Berlusconi, i valori che rappresentano lui e le sue tv, non hanno fatto altro che elevare all'ennesima potenza pulsioni che già esistevano, sarebbero comunque state presenti, e che esisteranno in futuro, anche con leader diversi.

UPDATE ore 14,44: forse Maroni ha compreso.

Tuesday, December 15, 2009

Teheran-Caracas, nuove prove della relazione "radioattiva"

Su il Velino

La cooperazione nel campo nucleare tra Iran e Venezuela non è un mistero, tanto da essere stata rivendicata dai due Paesi nei recenti incontri ufficiali. Ma il puzzle di questa cooperazione si arricchisce di un nuovo tassello con il memorandum d'intesa di cui è entrato in possesso - da una «credibile fonte di intelligence straniera» - l'editorialista del Wall Street Journal Bret Stephens. Le basi ufficiali della cooperazione nucleare tra Teheran e Caracas sembrano gettate in un «memorandum d'intesa» datato 14 novembre 2008 e firmato dai ministri della Scienza e della Tecnologia dei due Paesi. «Le due parti concordano di cooperare nel campo della tecnologia nucleare», si legge nella versione in lingua spagnola del documento, in cui si menziona anche «l'uso pacifico delle energie alternative». Alcuni giorni dopo, il governo venezuelano ha consegnato all'Agenzia internazionale per l'energia atomica un documento riguardante l'"Introduzione di un Programma per l'Energia nucleare"...

Nel suo articolo l'editorialista del WSJ ricorda gli altri "indizi" della cooperazione nucleare tra Iran e Venezuela. I 22 container etichettati come "parti di trattori" scoperti dalle autorità turche...
(...)
L'Iran, inoltre, secondo quanto riporta oggi il Washington Post, è ormai virtualmente in grado di costruire una testata nucleare. Nonostante le sanzioni e l'isolamento, Teheran avrebbe infatti da tempo intrapreso con successo uno sforzo per sostituire le capacità e i materiali acquisiti dall'estero con "know how" proprio. E' la conclusione cui sarebbero giunti analisti dell'intelligence Usa e di altri Paesi occidentali, così come di quelli dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica. «L'Iran ha informazioni sufficienti per essere in grado di progettare e produrre un ordigno nucleare in grado di funzionare», si legge nel memorandum firmato dagli esperti dell'Aiea citato dal quotidiano Usa. I progressi tecnici iraniani riguarderebbero la metallurgia dell'uranio, la produzione di acqua pesante e gli esplosivi di alta precisione necessari per innescare un'esplosione nucleare. I timori sullo stato di avanzamento del programma nucleare iraniano sono avvalorati dalla recente scoperta, da parte degli ispettori dell'Aiea, di 600 barili di acqua pesante nel sito di Khonab, vicino a Isfahan, una quantità incompatibile con le capacità dell'impianto denunciato dagli iraniani.
(...)
«Piano piano stanno emancipandosi dalla dipendenza dalle importazioni di tecnologie critiche che invece stanno riuscendo a produrre da soli», ha spiegato Rolf Mowatt-Larssen, un ex funzionario della Cia ed ex direttore dell'intelligence del dipartimento dell'Energia, sentito dal Washington Post. «Stanno eliminando i colli di bottiglia del processo di costruzione di un ordigno nucleare. Non ho prove di una decisione iraniana di costruirli, ma d'altra parte, svolgere attività come quelle descritte nel memorandum è ben lungi dall'idea che l'Iran abbia completamente cessato il suo impegno nello sviluppo di testate nucleari nel 2003 e non l'abbia più ripreso», spiega David Albright, ex ispettore Aiea e ora analista dell'Isis.
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Monday, December 14, 2009

Le radici dell'odio

L'aggressione di ieri a Berlusconi è l'ulteriore dimostrazione - ma chi se ne è già accorto non aveva bisogno di conferme e chi si ostina a non riconoscerlo non c'è speranza che lo faccia ora - che in Italia l'unica istituzione "a rischio", cui spesso le altre istituzioni e i partiti di opposizione mancano di «rispetto» (lo stesso che Fini invoca ad ogni occasione per bacchettare il premier), è quella del governo nella figura e nella persona del presidente del Consiglio. Se infatti l'aggressore è risultato uno squilibrato che ha agito presumibilmente in solitudine, tuttavia per sua stessa ammissione è stato mosso da un'ostilità politica e non si può certo ritenere una casualità il fatto che abbia deciso di agire ieri sera, al termine cioè di due settimane in cui il clima di demonizzazione - per mezzo stampa, tv e procure - nei confronti di Berlusconi ha raggiunto forse i livelli più alti di questi ultimi quindici anni.

I "cattivi maestri" che avvelenano il clima e negli anni intere generazioni, armando esaltati e squilibrati, o gruppi di facinorosi, fornendo loro coperture politiche e intellettuali, sono da sempre numerosi in Italia. L'anomalia italiana - non ci stancheremo di ripeterlo - non è Berlusconi, ma un'offensiva mediatico-giudiziaria antidemocratica, che trova in Parlamento la sponda di Di Pietro e il tacito e vile assenso del Pd-Pds, volta a delegittimare con ogni mezzo il premier dipingendolo come dittatore e mafioso. Gli artefici di questo clima li conosciamo tutti. Da la Repubblica alle procure di Milano e Palermo; da Il Fatto quotidiano ad Annozero.

Mentre Berlusconi non fa altro che denunciare questo stato di cose, constatare che tre presidenti di sinistra hanno determinato uno squilibrio a sinistra nella Consulta, nei suoi confronti si scatena una delegittimazione e una demonizzazione costante a cui lavorano da anni pezzi di un ordine - non di un potere - dello Stato, sottraendo il loro impegno alla vera lotta alla criminalità organizzata. Il meccanismo è fin troppo evidente: magistrati politicizzati forniscono elementi che si riveleranno falsi o senza alcun riscontro, ma che vengono "lavorati" dal Partito Repubblica, dai Travaglio, dai Santoro, dai Di Pietro, e dati in pasto ad ampi settori, seppur minoritari, di opinione pubblica disposti a crederci. Se in linea teorica è ammissibile, per esempio, cioè può capitare, che un pentito di mafia accusi il premier, è tuttavia inammissibile che un'accusa di questa gravità sia portata in un'aula di tribunale priva di qualsiasi riscontro. Ed è inammissibile che rimanga sospesa per giorni, settimane e mesi senza alcun riscontro, senza che il procuratore che ha deciso di concederle quella tribuna sia chiamato a risponderne.

Su quanti, e perché, sono disposti a crederci, si potrebbe aprire un'indagine psico-sociologica, ma in grandi linee a me pare che si tratti di drogati in cerca di dosi sempre più massicce d'odio per alleviare le loro frustrazioni esistenziali. Per molti di loro l'ossessione per Berlusconi deriva dalla frustrazione di aver visto l'ideologia a cui hanno consacrato tutta la vita crollare come un castello di carte, sostituita solo da vaghe pulsioni anticapitalistiche e moralistiche. Imbevuti di varie dottrine antidemocratiche non riescono ad afferrare e ad accettare il senso più profondo della democrazia. Sono convinti che il governo del Paese spetti di diritto ai moralmente e antropologicamente superiori, cui naturalmente ritengono di far parte. Non riescono quindi a risolvere l'inevitabile contraddizione che si apre, e sempre più si allarga, tra la loro malsana idea di democrazia e la democrazia reale, che conduce sistematicamente a esiti opposti, per loro inconcepibili prim'ancora che inaccettabili. Da qui frustrazione, ossessione e violenza.

Era prevedibile che Di Pietro sostenesse che il premier se l'è cercata. Meno prevedibile, ma non sorprendente, che alle sue parole si associasse in pratica la presidente del Pd, Rosy Bindi. Inutili le prese di distanza dei leader del Pd dall'ex pm, che solo pochi giorni fa evocava la possibilità di un'azione violenta contro Berlusconi. Il problema politico rimane, dal momento che il Pd si ripresenterà dinanzi agli elettori alleato con Di Pietro. Prima il problema era Bertinotti, che costringeva l'Ulivo in una coalizione troppo vicina all'antagonismo no global, dalla politica economica contraddittoria e, quindi, incapace di governare. Veltroni ha sì liberato il Pd da Bertinotti, ma sostituendolo con Di Pietro. Di fatto quindi il Pd continua ad essere schiavo di un alleato incompatibile con il governo del Paese, a cui per altro ha regalato le chiavi dell'opposizione.

Quanti anni passeranno ora prima che il Pd riesca a liberarsi anche di Di Pietro? Non importano i distinguo dei suoi leader. Finché rimarranno alleati di Di Pietro e succubi del Partito Repubblica, finché si consoleranno della loro irrilevanza con i guai giudiziari di Berlusconi, perché tutto sommato servono a tenerlo sotto scacco, rimarranno schiavi del dipietrismo e, ciò che è più grave, dell'antiberlusconismo della loro base e dei loro quadri intermedi.

Inconsapevolmente o meno anche Fini e Casini si sono prestati a questo tipo di operazioni. Il presidente della Camera non perdendo occasione per richiamare il presidente del Consiglio al «rispetto» delle altre istituzioni, anche quando era evidente che da quelle partivano attacchi illegittimi contro il governo; Casini recentemente ha addirittura lanciato la proposta di un fronte democratico contro Berlusconi, sottintendendo l'idea pericolosissima, e falsa, che sia un dittatore da cui liberare l'Italia. C'è da chiedersi se il vero fronte, o piuttosto argine democratico, non sia invece dalla parte di Berlusconi. Qui l'unica dittatura che rischiamo è quella di certe procure che cercano di delegittimare, e quindi far cadere, governi scelti democraticamente. Siamo costantemente sull'orlo del golpe giudiziario, come nel 1994, e ieri sera siamo andati vicini all'eliminazione fisica del presidente del Consiglio voluto dalla maggioranza degli italiani. E' ora di riconoscere dove sono i nemici della democrazia.

Riguardo la falla nel sistema di sicurezza che dovrebbe proteggere il premier mi sembra dica tutto Fiorenza Sarzanini, sul Corriere della Sera. E d'altra parte, già dalle immagini di ieri in televisione mi era sembrato incredibile che subito dopo l'aggressione l'auto con dentro il premier ferito non sfrecciasse via a sirene spiegate ma rimanesse lì in mezzo alla folla, anzi bloccata dalla folla, con chiunque che poteva tranquillamente sbirciare all'interno. Rivedendo le immagini dell'aggressione si vede distintamente Tartaglia mimare due o tre volte il lancio della statuetta per prendere la mira e darsi lo slancio, ma nessuna delle guardie del corpo lo ha notato, perché tutte erano rivolte verso il premier e non verso la folla, come il buon senso richiederebbe in tali circostanze. Per non parlare del precedente del tiro del treppiedi nel 2004 e del gruppo di violenti contestatori cui ieri era stato permesso di avvicinarsi al premier. Se qualche giornale volesse fare della dietrologia si dovrebbe chiedere come mai ieri sera Berlusconi appariva solo e indifeso in piazza Duomo, e se si sia trattato di semplice dilettantismo o di qualcos'altro di più preoccupante. Se invece di una statuina l'aggressore avesse avuto una pistola, lo avrebbe quasi certamente ucciso. Avrebbe retto la nostra fragile democrazia?

Friday, December 11, 2009

Caro Fini, noi vogliamo la moviola in campo

Proprio la metafora calcistica utilizzata dal presidente della Camera per bacchettare di nuovo Berlusconi ci insegna che fidarsi è bene, ma che non fidarsi è meglio, che non sempre, nel calcio come in politica, l'arbitro è imparziale. D'altra parte, non mi pare proprio che gli arbitri di calcio siano immuni da polemiche e qui siamo da sempre favorevoli alla moviola in campo. In ogni caso, non mi pare che Berlusconi da Bonn abbia attaccato il capo dello Stato, il quale per altro si sta comportando nel complesso con equilibrio. Ha semplicemente constatato che è un uomo di sinistra, è difficilmente negabile, e che come tale tende a nominare uomini di sinistra alla Corte costituzionale, come i suoi predecessori. Che la Consulta sia da sempre organo politico più che di garanzia l'abbiamo sperimentato sulla pelle di decine di referendum, ma dal presidente Scalfaro in poi l'equilibrio partitocratico che c'era nella Corte durante la Prima Repubblica è andato in frantumi. E' un organo che non regge in un sistema bipolare e va ripensato.

Proprio nella giornata di oggi, in cui le accuse del sedicente pentito Spatuzza a Berlusconi e Dell'Utri hanno trovato clamorose smentite, il premier ha tutte le ragioni del mondo a sottolineare che il rammarico e la preoccupazione di Napolitano «ci dovrebbero essere per l'uso politico della giustizia». E' inaudito che si sia permesso ad un aspirante pentito di accusare il premier in un'aula di tribunale senza prima possedere alcun riscontro oggettivo. Adesso che quelle accuse vengono smontate, chi paga per il danno d'immagine recato, non dico a Berlusconi, ma al Paese?

L'anomalia italiana è tutta qui: non è Berlusconi che denuncia il partito dei giudici e gli organi di garanzia che non sono tali, ma l'esistenza di un partito dei giudici completamente fuori controllo, absolutos da qualsiasi catena di responsabilità, che si muove senza rispondere a nessuno delle proprie azioni. Io penso che se sei un procuratore e pensi che ci siano elementi contro un capo di governo vai avanti, ma a tuo rischio e pericolo. Se dimostri le accuse, diventi un eroe; ma se ti va male e fai una figuraccia in aula come quella fatta oggi a Palermo, allora il minuto dopo devi essere sbattuto nella più insignificante delle procure, se non licenziato in tronco. Se per dieci anni hai accusato di mafia un pluri-presidente del Consiglio come Andreotti, e poi viene assolto, non dovresti diventare un santone e pontificare dalle tribune televisive.

Thursday, December 10, 2009

Se la guerra serve al Nobel per la Pace

Il presidente Obama ha disinnescato nel migliore dei modi la possibile contraddizione tra un premio Nobel per la Pace e un presidente che ha appena deciso un'escalation militare di 30 mila uomini. Bando ai buoni sentimenti e alla retorica pacifista a buon mercato, dunque. E a Oslo con sincerità ha ammesso di non avere nulla da obiettare a chi ritiene che vi fossero «uomini e donne, noti o sconosciuti» più meritevoli di lui a ricevere questo premio. Non si è nascosto dietro un dito, affrontando di petto il fatto di essere «il comandante in capo dell'esercito di una nazione impegnata in due guerre».
«Dobbiamo iniziare col riconoscere la dura verità: non estirperemo la piaga dei conflitti nell'arco della nostra vita. Ci saranno momenti in cui le nazioni, agendo individualmente o di concerto, riterranno che l'utilizzo della forza non è solo necessario, ma anche moralmente giustificato... So che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di naive, nel credo e nella vita di Gandhi e di King. Ma come capo di stato, avendo giurato di proteggere e difendere la mia nazione, non posso farmi guidare solo dal loro esempio. Devo affrontare il mondo così com'è, e non posso stare immobile davanti a tutto quanto minaccia il popolo americano. Perché non dobbiamo illuderci: il male nel mondo esiste. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare le armi di Hitler. I negoziati non possono convincere i capi di al Qaida a deporre le armi. Dire che la forza a volte può essere necessaria non significa essere cinici; significa comprendere la storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione...»
Forse per la prima volta, così esplicitamente, Obama si è detto «fiero dell'eredità» ideale e morale del suo Paese e delle sue scelte, anche delle guerre che ha combattuto, e ha rigettato il «sospetto» che grava sull'America:
«Il mondo deve ricordare che non sono stati le sole istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Nonostante tutti gli errori commessi, i fatti, puri e semplici, sono questi: gli Stati Uniti d'America da oltre sessant'anni contribuiscono a sostenere la sicurezza mondiale con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Lo spirito di servizio e di sacrificio dei nostri uomini e delle nostre donne in uniforme ha promosso la pace e la prosperità dalla Germania alla Corea e ha permesso che la democrazia prendesse piede in luoghi come i Balcani. Ci siamo accollati quest'onere non perché vogliamo imporre la nostra volontà. L'abbiamo fatto in nome di un nostro interesse illuminato, perché desideriamo un futuro migliore per i nostri figli e nipoti, e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri potranno vivere in libertà e prosperità. E allora sì, gli strumenti della guerra hanno un loro ruolo nel mantenere la pace.
(...)
Parte della nostra sfida quindi è conciliare queste due verità apparentemente inconciliabili: che la guerra è talvolta necessaria e che la guerra è, a un qualche livello, espressione della follia umana. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi a compiere quanto ci chiese tempo fa il presidente Kennedy. "Concentriamoci su di una pace più pratica, più raggiungibile, fondata non su un'improvvisa rivoluzione della natura umana, ma su un'evoluzione graduale delle istituzioni umane".
(...)
Capisco che la guerra non è popolare, ma so anche questo; la convinzione che la pace è desiderabile raramente basta a raggiungerla. La pace richiede responsabilità. La pace chiede sacrifici. Ecco perché la Nato continua a essere indispensabile.
(...)
La pace non è solo l'assenza di un conflitto visibile. Solo una pace giusta, basata sui diritti innati e la dignità per ogni individuo, può essere veramente duratura».
Nel tentativo di superare l'antitesi realisti vs. idealisti, Obama sembra da una parte tendere verso l'idealismo...
«Ritengo che la pace sia instabile ovunque sia negato ai cittadini il diritto di esprimersi liberamente o pregare come credono, di scegliere i propri leader o di riunirsi senza timore... L'America non ha mai combattuto una guerra contro una democrazia, e i nostri alleati più vicini sono quei governi che tutelano i diritti dei loro cittadini».
... ma poi arriva il colpo alla botte:
«Lasciatemi anche dire che la promozione dei diritti umani non si può limitare alle sole esortazioni. A volte deve procedere a fianco di una diplomazia laboriosa. So che dialogare con regimi repressivi equivale a fare a meno della purezza appagante dell'indignazione. Ma so anche che le sanzioni senza l'offerta di dialogo - la condanna senza la discussione - possono riportare soltanto a un rovinoso status quo. Nessun regime repressivo può imboccare una strada differente a meno che non abbia la possibilità di scegliere una porta che gli si apre davanti».

Contro Amanda Knox una character assassination

Chissà se tra qualche anno il caso di Amanda Knox ce lo ritroveremo sul grande schermo in uno di quei film angoscianti in cui cittadini americani innocenti vengono perseguitati da sistemi giudiziari kafkiani, nella migliore delle ipotesi, in Paesi come la Malaysia o l'Iran. Ebbene, non mi stupirei se un giorno Amanda Knox fosse la protagonista di un film del genere ambientato in Italia. Neanche uno sceneggiatore dei più geniali infatti avrebbe potuto concentrare in un unico processo, come quello di Perugia, e in una così vivida rappresentazione, tutti - ma proprio tutti - i vizi e i difetti del sistema giudiziario italiano: approssimazione e dilettantismo nella raccolta delle prove; fughe di notizie alla stampa; character assassination dell'imputato; sessuofobia; giudici succubi della pubblica accusa a causa di carriere non separate. Un processo che mi ha fatto vergognare di essere italiano. Qui non c'entra essere convinti o meno dell'innocenza degli imputati, ma ribellarsi di fronte a una condanna di chicchessia senza prove.

Le pesanti critiche che la stampa e le tv Usa hanno rivolto al sistema giudiziario italiano per il modo in cui è stato condotto il processo di Perugia sono state frettolosamente - e in modo stranamente bipartisan - liquidate come «nazionalismo giudiziario». Siccome Amanda è americana, la difendono a prescindere. No, troppo facile. Non riconoscere in quegli articoli o trasmissioni critiche più che fondate e puntuali significa o non averli letti e viste, o essere disonesti intellettualmente. Dagli Usa infatti non hanno fatto altro che contestarci tutti i difetti, già tristemente noti e di cui dibattiamo da anni noi stessi, della nostra giustizia.

Si può forse negare che siano stati commessi errori irrimediabili nelle indagini e nella raccolta delle prove? Si può forse negare che non c'è alcuna prova fisica che colleghi Amanda alla scena del delitto? Si può forse negare che il Dna che incastrerebbe Sollecito è stato individuato solo dopo 46 giorni di sopralluoghi ed esami che hanno presumibilmente alterato la scena del crimine? Si può forse negare che non è stata individuata l'arma e che il movente è debole, visto che la conoscenza fra i tre ragazzi non è stata provata? Si può forse negare che alla studentessa americana sia stata negata la facoltà di non rispondere quando, in assenza di un avvocato e di un interprete, è stata interrogata in Questura? E i video mostrati dalle tv americane con i poliziotti che sfondano una porta a vetri per entrare nella villetta e maneggiano i reperti senza mascherina e scuotendoli? Si può forse negare che i pregiudizi sul sesso e sul satanismo si siano fin da subito impadroniti delle menti dei pm, tra cui quel Mignini che non è nuovo a queste fantasiose ricostruzioni?

E nella rappresentazione che è stata data di Amanda non è forse riscontrabile un pregiudizio antiamericano, certo non del tipo più banale, ma più sofisticato e subdolo, della ragazza viziata e arrogante, com'è nello stereotipo l'odiato yankee? Senza alcuna prova fisica che collegasse Amanda alla scena del delitto, tutto il processo è stato condotto dall'accusa sulla personalità di Amanda, fornendo della ragazza caratterizzazioni misogine e sessuofobiche, solo perché sì, è una ragazza disinibita e sessualmente attiva, cose per cui in Italia una ragazza può essere ancora bollata come puttana. La sola colpa di Amanda è di non aver saputo scrollarsi di dosso quest'immagine.

Non è neanche vero che solo la stampa e la tv a stelle e strisce si siano schierate dalla parte di Amanda perché connazionale. Anche il britannico The Times ha duramente criticato la sentenza di Perugia, denunciando puntualmente le storture, tristemente note, del sistema giudiziario italiano. Il caso di Amanda, «se portato in Gran Bretagna, non avrebbe mai raggiunto un'aula di tribunale», scrive Alex Wade. «E se per qualche crudele miracolo un giudice britannico si fosse trovato a presiedere i 12 onorevoli giurati, il cui compito fosse stato quello di decidere se la Knox fosse o meno innocente dell'assassinio della Kerchner, è impensabile che non avrebbe preso con forza e convinzione la strada dell'assoluzione». Qualsiasi sia la verità sui tragici eventi della notte del 2 novembre 2007, osserva l'editorialista del Times, «le prove contro la Knox sono nel migliore dei casi deboli, nel peggiore confuse».

Molti di noi sono ormai assuefatti, ma all'estero suscita ancora indignazione il fatto che in Italia i procuratori «divulgano abitualmente a media fin troppo ansiosi quelle che dovrebbero essere informazioni riservate prima del processo». Nel Regno Unito «le leggi sull'oltraggio alla Corte impediscono la pubblicazione di informazioni, dal momento dell'arresto o della messa in stato d'accusa, che possano rischiare di recare un serio pregiudizio al processo».

«Il trapelare un poco alla volta di piccanti informazioni sulla Knox è stato una vergogna che non sarebbe mai stata permessa dall'ordinamento britannico». Amanda Knox, conclude Wade, «è stata sottoposta a un'incessante e corrosiva character assassination», da cui non si è mai potuta difendere. «Ma la vergogna più grande di tutte, la ragione per cui non ci piace il verdetto Knox», è il fatto che «in un processo in cui le prove hanno faticato persino a raggiungere il livello dell'indiziario, la Knox sia stata demonizzata per il solo fatto di essere una donna sessualmente attiva. Niente nei fatti - niente, visto che neanche la testimonianza di Guede ha fatto luce su cosa sia davvero successo a Meredith Kercher - sostiene la tesi dell'accusa secondo cui un malvagio gioco sessuale sia andato storto. E' una congettura, pura e semplice».

Friday, December 04, 2009

Pulpiti inattendibili

Fa una certa rabbia leggere una lettera come quella che il direttore della Luiss, Pier Luigi Celli, ha scritto al figlio laureando, suggerendogli di fuggire dall'Italia: «Figlio mio, lascia questo Paese». «Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio... Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi». Fa rabbia perché nel complesso non si può dargli torto, se l'avesse scritta un padre qualsiasi, ma il pulpito da cui viene la predica non è di quelli più credibili, essendo corresponsabile del male che denuncia, e il destinatario - con tutto il rispetto per un ragazzo che magari ha tutte le carte in regola e non gli occorrono raccomandazioni - non credo tuttavia sia tra coloro che più possa soffrire della situazione denunciata dal padre.

Non ho seguito il dibattito che ne è scaturito e non so chi si sia espresso a favore o contro. Dico solo che accanto ad alcuni argomenti fondati, nella lettera si leggono tante sparate demagogiche, e nessuna indicazione sulla via da intraprendere per uscire da questo stato di cose. «Senso di giustizia», «voglia di arrivare ai risultati», «l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro», tutto questo, dice il padre al figlio, «ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica». Celli continua additando i compensi dei portaborse, di veline e tronisti, di quel manager che ha alle spalle «fallimenti che non pagherà mai». Un Paese, continua Celli nella sua lettera, «in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico». Per questo, conclude, «il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati».

La mancanza di meritocrazia, il "familismo", le raccomandazioni, certo, come dargli torto. Ma Celli se la prende anche con l'individualismo e il capitalismo, cita il caso Alitalia - e come non vedere che in qualche modo, così pare trapelare dal testo, c'è l'"era berlusconiana" sul banco degli imputati - ma neanche una parola su uno degli ambienti meno meritocratici e più familisti del Paese, quell'università e quell'accademia da cui Celli proviene. Intollerabile, ma a conferma dei nostri dubbi sul pulpito, il fatto che Celli assolva il sistema educativo italiano, le università, in cui ha avuto e ha egli stesso un ruolo di primissimo piano. Ospite di Rainews24 per parlare della sua lettera, infatti, ha l'ardire di sostenere che «l'università italiana, e in particolare la Luiss dove lavoro, che è l'Ateneo di Confindustria, ritengo che assicuri un buon livello di preparazione dei nostri giovani». Il problema sarebbe dopo, nel «precariato». Peccato che nelle più autorevoli graduatorie internazionali nessuna università italiana compaia tra le prime cento.

Chiunque lamenti la mancanza di meritocrazia, il "familismo" e la politicizzazione esasperata per spiegare il declino italiano, l'inefficienza dei servizi e la chiusura ai giovani, è poi chiamato anche a indicare la ricetta giusta: meno Stato, più mercato; meno assistenzialismo, più competizione. A cominciare dalle università, proseguendo con il mercato del lavoro e la sanità. Riforma dell'assetto proprietario degli atenei e del fondo ordinario statale; professori che non producono, a casa. Celli è d'accordo? Altrimenti non si capisce di cosa parliamo.

Thursday, December 03, 2009

Obama fa a malincuore la scelta giusta - l'unica sensata

Alla fine, dopo tre mesi di seminari e tentennamenti, Obama ha preso la decisione giusta. Non è stato un discorso esaltante, ma quel che conta, come ha osservato Peter Wehner, è che ha dato a McChrystal i soldati (30 mila americani, più 5 mila dagli alleati) e la strategia (di contro-insurrezione) di cui ha bisogno per vincere. Tre quarti di quelli richiesti ad agosto dal generale, di conseguenza il discorso non poteva che essere buono per tre quarti, fa notare Max Boot. Ma l'importante, oltre ai numeri, è che sia stata respinta l'opzione Biden di un impegno limitato a combattere al Qaeda, disinteressandosi dei talebani e dell'assetto dell'Afghanistan. Al contrario, la strategia scelta si pone l'obiettivo più ambizioso: sconfiggere al Qaeda, fermare l'avanzata talebana, addestrare le forze di sicurezza afghane, rendere sicuri i centri abitati ed evitare che i talebani tornino al potere. Inoltre, contrariamente alle voci della vigilia, le nuove truppe verranno dispiegate rapidamente, nell'arco di sei mesi.

Al di là della retorica usata da Obama, quindi, nella sostanza il piano è identico a quello adottato con successo dal generale Petraeus in Iraq, come ha chiarito il segretario alla Difesa, Robert Gates: «L'essenza del nostro piano civile-militare è ripulire, rimanere, costruire e trasferire. Iniziare a trasferire la responsabilità della sicurezza agli afghani nell'estate del 2011 è vitale - e a mio avviso fattibile». Ma, ha precisato Gates, «avverrà distretto per distretto, provincia per provincia, a seconda delle condizioni sul campo». Il processo sarà «simile» a quello sperimentato in Iraq. Anche dopo l'inizio del trasferimento delle responsabilità e del ritiro della forze da combattimento, gli Stati Uniti «continueranno a sostenere il loro sviluppo come partner di lungo termine». Ancora più esplicito e rassicurante il riferimento di Gates agli «errori» commessi dopo la ritirata sovietica dall'Afghanistan: «Non ripeteremo gli errori del 1989, quando abbandonammo il Paese per poi vederlo cadere nella guerra civile e, infine, nelle mani dei talebani».

Per questo anche i commentatori conservatori hanno giudicato positivamente la nuova strategia, l'unica sensata, annunciata - pazienza se a malincuore - da Obama. Il suo discorso è piaciuto anche a Bill Kristol, ma per lo stesso motivo per cui è stato duramente criticato da Michael Moore: «Ha parlato da "war president", ed è una buona cosa, perché quando siamo in guerra abbiamo bisogno di un presidente di guerra». Criticabile, invece, per Kristol la «pseudo-scadenza al luglio 2011». D'altra parte, tempi e modalità del ritiro sono sottoposti a condizioni, osserva, quindi la «quasi-deadline» non dovrebbe essere troppo dannosa. Ma la cosa importante è che «per la metà del 2010 Obama avrà più che raddoppiato il numero delle truppe in Afghanistan e avrà dato al suo generale Stanley McChrystal i mezzi per combattere la guerra nel modo che ritiene necessario per vincerla». Inoltre, con questa decisione, conclude Kristol, Obama «ha anche riconosciuto che lui e il suo partito si sbagliavano sul "surge" in Iraq nel 2007: dopotutto, la logica del suo surge è identica a quella di Bush».

John Podhoretz definisce il discorso di Obama un «momento di svolta» («dopo aver passato mesi a cercare disperatamente un'altra scelta, una terza via, una bella opzione, Obama alla fine si è arreso alla logica della presidenza») e riconosce il suo «coraggio». Obama, infatti, «sta chiaramente agendo contro i suoi istinti e la sua ideologia», e se la qualità del suo discorso ha lasciato a desiderare è perché «stava cercando di usare un linguaggio con il quale spiegare la sua decisione a persone come lui». Ecco perché non poteva funzionare dal punto di vista della retorica e della persuasione. «Un'occasione persa», conclude Podhoretz: «Ma non importa, è la politica che conta». E anche la scadenza dei 18 mesi «indica la serietà del suo impegno, dal momento che ha solo indicato l'inizio del ritiro, condizionandolo alla situazione sul campo in quel momento».

Su questo è d'accordo anche Wehner: la scadenza dei 18 mesi, «almeno per ora, è meno preoccupante di quanto possa sembrare». Nel suo discorso Obama ha detto che «cominceremo il ritiro delle nostro forze nel luglio del 2011, ma come abbiamo fatto in Iraq, eseguiremo la transizione responsabilmente, prendendo in considerazione le condizioni sul terreno». Un «caveat chiave», secondo Wehner: «Se le condizioni sul campo cambiano, Obama si è lasciato ampio spazio di manovra per rivedere la sua decisione, nulla è scolpito nella roccia». Anche se, avverte Max Boot, questa «deadline», al solo scopo di «placare la base liberal del Partito democratico», rischia di far arrivare ai talebani il messaggio che non devono far altro che aspettare 18 mesi e «gli infedeli saranno fuori dalla porta». Può non essere precisamente così, ma «è ciò che i nostri nemici intenderanno».

L'aspetto negativo del discorso di Obama, osserva Wehner, è che «non sembra vedere questa guerra nel contesto di una grande causa», ma la considera piuttosto come «una sgradita distrazione dalla sua agenda interna». Cosa che alla lunga, tra le polemiche e le vittime Usa in aumento, potrebbe minare la sua determinazione. Di questo si è lamentato anche Peter Beinart, che scrive ancora per The New Republic ma ora è al Council on Foreign Relations. Il "surge" annunciato da Obama è una «buona politica», ma il discorso «mi ha lasciato freddo», lamenta: «Militarmente, ci stiamo coinvolgendo più in profondità in Afghanistan, ma emotivamente ne stiamo uscendo. Non c'è stato nulla nel discorso sul nostro obbligo morale nei confronti del popolo afghano, al quale l'America ha promesso molto e ha consegnato scandalosamente poco».

Se tra i grandi quotidiani Usa c'è chi, come il Washington Post, sostiene che Obama abbia definitivamente fatto sua la guerra in Aghanistan, il Wall Street Journal, pur sostenendo la sua decisione, pensa che questa non sia ancora la guerra di Obama: «Da presidente di guerra Obama dovrà impiegare una quantità maggiore del suo capitale politico per persuadere l'opinione pubblica americana che la campagna afghana vale la pena». Non dovrà, come ha fatto in passato, «pronunciare un solo discorso e poi lasciar cadere l'argomento». Il presidente ha bisogno di un suo "surge" politico.

Processo Knox ultimo atto. L'accusa del New York Times

Su il Velino

Mentre a Perugia vanno in scena gli ultimi atti del processo alla studentessa americana Amanda Knox e a Raffaele Sollecito, accusati dell'omicidio di Meredith Kercher - oggi le repliche di accusa e difese e le dichiarazioni spontanee dei due imputati, prima che la Corte si riunisca in camera di consiglio per esprimere il suo verdetto - da Timothy Egan, che segue il caso per il New York Times, arriva un nuovo duro atto d'accusa al modo di procedere dei magistrati italiani. Le sue critiche meriterebbero l'attenzione anche del mondo politico - sebbene almeno a Perugia non sia implicato Berlusconi - nel momento in cui il Parlamento si appresta a discutere di riforme. Un processo che secondo Egan «ha poco a che fare con prove concrete e molto con l'abitudine italiana a salvare la faccia».
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«Zero prove fisiche» che Amanda fosse sulla scena del delitto, solo speculazioni sulla sua personalità stravagante e disibinita. Il giornalista americano contesta i metodi usati dall'accusa accostandoli all'Inquisizione; mostra di aver compreso alla perfezione il meccanismo che si è innescato, e che noi italiani conosciamo molto bene, dei pm intestarditi sul loro teorema a tal punto che ormai è «in gioco il loro onore»; denuncia l'abitudine dei pm italiani di lasciar trapelare le loro teorie ai giornali, dando in pasto ai media e all'opinione pubblica i presunti "colpevoli"; e infine ricorda che il verdetto non dovrebbe avere nulla a che fare con «superstizioni medioevali, proiezioni sessuali, fantasie sataniche, o l'onore del team di procuratori».

Wednesday, December 02, 2009

I paletti che Fini ignora

Ci risiamo. Come in reazione alla svolta del "predellino" nel novembre 2007, che lo portò per diversi mesi a disconoscere la necessità del Pdl, per poi tornare sui suoi passi, solo due anni dopo Gianfranco Fini incappa nell'ennesimo errore che ne dimostra la mediocrità politica. La questione a mio avviso è molto semplice: va bene mantenere le proprie idee, le proprie posizioni su alcuni temi; va bene pretendere che nel Pdl ci sia un dibattito aperto e democratico; va bene cercare di definire un'identità propria, riconoscibile rispetto a quella del Cav.; va bene ambire a succedere a Berlusconi nella leadership. Va bene tutto questo, ma ci sono confini politici e istituzionali che Fini non dovrebbe travalicare.

Quello istituzionale innanzitutto. Perché l'uso che Fini sta facendo della carica che ricopre non è tollerabile. Non può usare il ruolo che ricopre, e l'autorevolezza che ne deriva, per contraddire puntualmente iniziative e dichiarazioni del governo e del presidente del Consiglio in particolare; non può ad ogni spinta in avanti del Pdl esercitarne una uguale ma contraria; non può, e se non se ne accorge è persino più grave, associarsi all'iniziativa mediatico-giudiziaria del giorno per delegittimare Berlusconi. E anche inserirsi nel dibattito interno al partito o alla maggioranza, deve farlo con cautela e moderazione consoni alla terza carica dello Stato. La sua imparzialità istituzionale non può e non deve trasformarsi in "terzismo" furbetto. Non può e non deve cercare di accreditarsi come super partes facendo da controcanto al governo.

Il confine politico lo ricordava Giuliano Ferrara qualche giorno fa. La lettura, l'analisi di fondo condivisa nel centrodestra, e direi quasi fondante il Pdl, non è che l'anomalia degli ultimi sedici anni della politica italiana è rappresentata da Berlusconi, che confonde il consenso popolare con l'immunità, la leadership con la monarchia assoluta. Questa è l'analisi di fondo di certa sinistra, neanche tutta, e sicuramente di Di Pietro, Travaglio e dei giustizialisti al seguito. L'analisi del centrodestra è un'altra. Dietro le tensioni di questi giorni, mesi e anni, «c'è un solo vero dilemma in azione: della guida di questo Paese decide il popolo o decide l'ordine giudiziario?».

In Italia la divisione equilibrata dei poteri è saltata e frange di giudici politicizzati pensano di approfittarne per «ribaltare il corso degli eventi», mettendo sotto tutela la democrazia, per gloria personale, o per punire chiunque voglia metter mano alla riforma dell'ordine giudiziario. Se Fini non lo capisce, o finge di non capirlo, o non condivide questa analisi, allora sì, ciò sarebbe incompatibile con la sua permanenza nel Pdl. Per questo, in un editoriale-lettera aperta, Giuliano Ferrara concludeva: «Gentile Fini, delle due l'una: o lei accetta solidalmente gli escamotage che il circolo del presidente del Consiglio troverà per evitare una condanna a oggi sicura nel solito processo milanese anti-Cav, oppure deve prendere l'iniziativa e trovare lei una soluzione accettabile, mediando e rifinendo gli strumenti legislativi opportuni... Io penso che a lei non convenga ergersi, posto che lo si possa fare, su un campo di macerie. Penso che l'elettorato di destra e di centro non capirebbe mai un defilamento dalla linea di resistenza democratica all'assalto militante di certa magistratura».

E' qui che Fini si tradisce, dimostrando tra l'altro di possedere ben poche nozioni di democrazia liberale. Perché dalle sue uscite, in o fuori onda che siano, sembra che consideri Berlusconi la vera anomalia della politica italiana, e non certa magistratura che da ordine vuol farsi potere. Non può prestarsi, come purtroppo sta facendo in queste settimane, ad operazioni destabilizzanti. Non può permettersi di fingere che le accuse del pentito Spatuzza, o il ridicolo processo Mills, o il risarcimento di 750 milioni di euro che Fininvest è stata condannata a pagare alla Cir di De Benedetti - solo per citare gli ultimi esempi in ordine di tempo - facciano parte di una giustizia normale, alla quale basta solo chiedere che faccia il suo corso e che trovi dei «riscontri» alle dichiarazioni dei pentiti.

I riscontri non ci sono, non ci sono mai stati e non ci saranno neanche stavolta, ma Fini finge di credere che sia normale aspettarli, anche se nel frattempo si dà lo spunto per ogni tipo di delegittimazione del governo democraticamente eletto. Non può rimproverare a Berlusconi di mancare di rispetto agli altri poteri dello Stato quando questi (e addirittura un ordine, quello giudiziario) mancano di rispetto al governo - peggio, cercano di delegittimarlo e farlo cadere. Su tutto può distinguersi, ma tra analisi contrapposte riguardo la vera anomalia della politica italiana degli ultimi sedici anni Fini non può pretendere di mantenersi equidistante.

Friday, November 27, 2009

Napolitano argina la magistratura

Inutile girarci attorno. Per quanto i siti di Corriere e Repubblica (e domani vedremo anche sui giornali) cerchino di addolcire la pillola, evidenziando la parte generica dell'appello di Napolitano, laddove parla di fermare le tensioni tra istituzioni, il cuore politico del suo intervento è il fermo richiamo rivolto ai magistrati ad attenersi «rigorosamente» allo svolgimento delle loro funzioni. Evidente l'imbarazzo del segretario del Pd e della capogruppo al Senato, leader di un partito (lo stesso cui, per la sua storia personale, fa riferimento il presidente) che ieri, ancora una volta, ha aggredito il premier per le sue dichiarazioni offrendo una sponda politica agli sconfinamenti dei magistrati.

Bersani ha letto nelle dichiarazioni del capo dello Stato un richiamo alla «centralità del Parlamento», «sede nella quale deve condursi un confronto trasparente e leggibile dai cittadini tra le diverse posizioni politiche sia in termini di riforme sia per quel che riguarda le grandi scelte economiche e sociali», mentre la Finocchiaro alla «responsabilità della politica». Entrambi nei loro commenti hanno volutamente evitato di prendere atto del richiamo ai magistrati. Ma il senso politico del messaggio del presidente è chiaro e inequivocabile. Non ha richiamato il governo, o la politica, a rispettare il lavoro dei magistrati. Al contrario, chiedendo a «tutte le parti», com'è naturale, uno «sforzo di autocontrollo», si è rivolto direttamente a «quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione», perché «si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione».

E non a caso il termine che ha usato è «funzione», a sottolineare che quella esercitata dalla magistratura è per la nostra Costituzione una «funzione» e non un potere. Ha difeso con forza dagli sconfinamenti di certi magistrati il governo che gode della fiducia della maggioranza del Parlamento («nulla può abbatterlo») e le prerogative delle Camere in una democrazia parlamentare (a loro spetta «definire i corretti equilibri tra politica e giustizia»). E il fatto che abbia citato non solo la fiducia del Parlamento al governo, ma anche la «coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare», può significare che in caso di crisi il capo dello Stato intende tenere in massima considerazione il legame tra il governo e la coalizione uscita vincitrice dalle urne, in funzione anti-ribaltone.

Non si può ignorare che il tutto rappresenti un argine forte nei confronti della pretesa, da parte di alcuni settori della magistratura, di farsi "potere" anziché ordine dello Stato. L'ultima palese dimostrazione di tale tentazione si è avuta ieri sera, quando a caldo, dopo che le agenzie avevano da poco battuto alcune parti dell'intervento di Berlusconi alla direzione del Pdl, un consigliere togato del Consiglio superiore della magistratura in quota ad una corrente di sinistra, Mario Fresa, ha annunciato che avrebbe chiesto alla prima commissione del Csm di «acquisire» le ultime dichiarazioni del premier, «anche riportate attraverso gli organi di stampa», nell'ambito di una «pratica a tutela» dei pm di Milano e di Palermo già aperta. Dev'essere stata l'ultima goccia che ha indotto il presidente Napolitano a intervenire così energicamente.

Come ha spiegato Michele Saponara, infatti, consigliere laico del Csm, «minacciare a nome del Csm di "acquisire" le dichiarazioni, vere o presunte, fatte da un politico, da uno qualsiasi (e ancora peggio se fatte dal presidente del Consiglio e capo di una forza politica), in una sede di partito, significa far saltare ogni regola democratica. Significa mettere sotto "tutela giudiziaria" il bene più sacro di una nazione che è quello del dibattito politico, anche del più acceso». Le parole di Fresa sono «la plastica conferma che alcuni settori della magistratura sono fuori da ogni regola costituzionale» e che da ordine quale sono tentano invece di «farsi "potere" e contestare ogni giorno il potere assegnato dalla Costituzione alla politica».

Thursday, November 26, 2009

Se il tremontismo seppellisce il berlusconismo

Quelli che non si bevono la balla di una spesa pubblica "incomprimibile". Risulta letteralmente incredibile che non si possa ridurre una spesa di 830 miliardi l'anno e che corrisponde a circa il 50% del Pil. Tremonti è uscito vincitore su tutta la linea dalla riunione della consulta del Pdl sulla Finanziaria, sprezzante nei confronti di chi aveva avanzato proposte concrete, e ben coperte, di tagli sia alle tasse che alle spese. E' vero che il partito della spesa è vasto e multiforme e sempre in agguato, e che Tremonti durante la crisi ci ha risparmiato grandi manovre in stile prodiano, i soldi «veri e freschi» di cui ha ancora fame Bersani, ma il ministro oppone strumentalmente l'esigenza del rigore anche a chiunque per finanziare tagli alle tasse proponga tagli alla spesa, sostenendo che sia "incomprimibile". Un falso ideologico.

Niente tagli a Irap o Irpef nel 2010, dunque, solo il rinvio a giugno prossimo, che era stato già deciso due settimane fa dal governo con un decreto ad hoc, di una parte dell'acconto Irpef di novembre. Per quanto riguarda i soldi "una tantum" dello scudo, circa 4 miliardi, andranno via in Cig, 5 per mille, nuove carceri, libri di testo, ospedali e altre spese sociali. Non proprio una scelta di rigore. E un rigore che non riesca ad agire sul denominatore del rapporto deficit/pil è un rigore destinato a fallire.
Il nostro ministro dell'Economia ci ha risparmiato un ulteriore saccheggio della finanza pubblica stringendo i cordoni della borsa. Questo perché le nostre banche hanno retto meglio alla crisi finanziaria; e lo Stato - malgrado l'elevata pressione fiscale - non può permettersi spese ulteriori. Ma restano i problemi, strutturali, che risalgono a prima della crisi, agli inizi degli anni Duemila: bassa crescita della produttività, poca internazionalizzazione. I costi che le aziende devono sostenere - di produzione, nelle reciproche transazioni e burocratici - sono elevati e non più compensati dal basso costo del lavoro (per la concorrenza dei Paesi emergenti) e dalle svalutazioni competitive (per i vincoli europei).
Così Piero Ostellino, oggi sul Corriere della Sera, che si appella direttamente a Berlusconi esortandolo a contraddire il suo ministro dell'Economia per alcune riforme "a costo zero": semplificazione amministrativa e normativa, maggiore produttività della giustizia civile, il modello danese per il welfare, «una Maastricht previdenziale». Poi ci sarebbero gli sprechi, che «non si contano» nella sanità, nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella giustizia, e soprattutto al Sud. Per non parlare dell'insopportabile pressione fiscale.

Come ricorda oggi Maurizio Belpietro, su Libero, «la riduzione del peso del Fisco nelle tasche degli italiani è da sempre il pilastro centrale della proposta di centrodestra», così come lo è «l'idea di uno Stato snello, il quale non grava sulle nostre spalle, elimina gli sprechi e le incrostazioni degli apparati». Non c'è solo questo, nel programma e nell'identità del centrodestra, ma è questo che «ha scaldato gli animi». In questi primi due anni di governo, nel mezzo della crisi, «nessuno ha reclamato il rispetto del patto stipulato il giorno del voto», ma «ora che qualche segnale di ripresa si intravede, non mantenere la promessa è un errore grave», sottolinea Belpietro.

Un errore grave perché non solo la politica economica immobilista di Tremonti, dove sembra che spesa pubblica e pressione fiscale elevate siano variabili indipendenti, rischia di non assicurarci una ripresa sostenuta e durevole, ma anche perché rischia di ridefinire l'identità politica del centrodestra, demolendo quelli che erano i pilastri del berlusconismo. Ma gli elettori hanno votato il berlusconismo, non il tremontismo. Se ne dovrebbe ricordare primo tra tutti il premier. A tempo debito gli elettori se ne ricorderanno senz'altro.

Tuesday, November 24, 2009

Cosa c'entrano i diritti umani con il valore dello yuan

Wei Jingsheng cerca di spiegare al presidente Obama che questioni di primaria importanza per gli Stati Uniti nelle loro relazioni con la Cina, come la politica commerciale e la svalutazione dello yuan, sono intimamente legate al problema dei diritti umani. E' grazie al non rispetto di questi ultimi, infatti, che il Partito comunista cinese può continuare a perseguire indisturbato quelle politiche. «Usando il potere del governo - spiega Wei Jingsheng in un articolo tradotto da Asianews.it - i comunisti cinesi hanno tenuto in maniera forzata lo yuan svalutato, producendo così prezzi iper-competitivi per i beni di produzione cinese, che non rispondono ai canoni classici dell'economia di mercato». Tuttavia, osserva, «la riduzione forzata del tasso di cambio operata dal governo cinese è proprio il tipo di condotta che non porta vantaggi neanche a chi se ne rende autore».

Non ci guadagna affatto la popolazione cinese. La svalutazione forzata dello yuan mantiene bassi i salari della maggioranza dei cinesi, accresce le disparità, già «enormi», fra i ricchi e i poveri, sta provocando «una crisi sociale di larga scala». Una delle conseguenze della disparità è che «il mercato interno cinese è molto piccolo» e, di conseguenza, «la sopravvivenza dell'industria manifatturiera dipende per la maggior parte dal mercato internazionale: è, dunque, sotto il controllo degli altri». Il che significa che «ogni segnale di disturbo del mercato internazionale provoca danni all'intera industria». Inoltre, osserva Wei Jingsheng, «i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati costretti ad adottare una sorta di protezionismo commerciale per reagire» alla politica monetaria voluta da Pechino, la quale quindi ha finito per colpire «l'intera economia» e «un enorme numero di persone ha perso il proprio lavoro».

Dal «produrre problemi per gli altri», dalla svalutazione forzata dello yuan «per poter poi invadere il mercato con prezzi ridotti», deriva anche la «scarsa qualità» dei prodotti cinesi che hanno invaso il mondo, rendendo noto il marchio "made in China" appunto per la sua bassa qualità: «Il furto e il plagio costano molto meno dell'innovazione, così come la bassa qualità non costa quasi nulla». Un'economia interamente orientata sulle esportazioni e la politica monetaria conseguente hanno «danneggiato non soltanto la reputazione del "made in China", ma anche il potenziale, ulteriore sviluppo dell'economia interna... Tutte le risorse ereditate dai nostri avi vengono vendute a scapito delle generazioni future, e non soltanto dell'inquinamento ambientale».

Ma il «prerequisito» in forza del quale il partito riesce a esercitare questo «monopolio economico e politico», conclude Wei Jingsheng, è «la disastrosa situazione dei diritti umani in Cina. Per mantenere il potere assoluto, infatti, Pechino ha bisogno di schiacciare i diritti della propria popolazione». Diritti umani, libertà di espressione e di stampa «sono direttamente collegati al commercio, sono fra le questioni relative all'economia». «Senza di loro, infatti, non si possono avere le condizioni per un commercio libero e per una politica democratica». Affrontando il tema di diritti umani, è il messaggio del dissidente cinese al presidente Obama, si affrontano anche le questioni di politica commerciale e monetaria.

Monday, November 23, 2009

Spericolato Brunetta

Rasenta la perfezione l'analisi di Luca Ricolfi, su La Stampa di oggi. Le uniche proposte alternative alla politica, diciamo attendista, di Tremonti, «se messe in atto, sarebbero risultate più dannose della linea di contenimento praticata dal Tesoro». Vanno dal tassa-e-spendi del nuovo segretario del Pd Bersani, che coerentemente con la sua breve esperienza di governo con Prodi rimpiange i bei tempi delle "grandi manovre" da 40 miliardi, al cosiddetto multiforme "partito della spesa", di cui il partito del Sud è solo uno dei volti più visibili e minacciosi. Non si vede all'orizzonte, invece, un "partito delle riforme" che abbia la stessa consistenza, e delle gambe su cui far camminare le sue proposte.

Forse si candida il ministro Brunetta a dargli voce? Di certo l'uscita di Brunetta è stata coraggiosa, perché spericolata. Non poteva infatti non mettere in conto l'isolamento che avrebbe patito. Forse non con questa nettezza, ma era prevedibile che Berlusconi rivendicasse come sue e di tutto il governo le scelte del suo ministro dell'Economia, soprattutto dopo le recenti polemiche.

Il ragionamento di Brunetta è semplice: la politica di Tremonti è andata bene per affrontare la crisi, ma ora ne serve un'altra: «Tutti i comparti della nave sono in sicurezza. La politica economica e finanziaria fatta nell'attraversamento della crisi è stata efficace. Il "rigore conservatore" di Tremonti ha funzionato. Del resto, bastava dire no: non fare, non spendere, bloccare tutto; chiudere i boccaporti. Ora però bisogna cambiare passo. Passare da un metodo all'altro. Sciogliere le vele, far ripartire i motori». Passare, quindi, «dal rigore conservatore al rigore selettivo, modernizzante, intelligente, capace di decidere», mentre quello di Tremonti è «un blocco cieco, cupo, conservatore, indistinto... un egemonismo leonino, opaco, autoreferenziale». E «incapace di distinguere» tra sprechi e spese produttive.

Brunetta «in teoria ha ragione», riconosce Ricolfi, ma «se uno schieramento politico riformista diverso dal partito della spesa, al momento, non esiste ancora», è da una parte perché la politica non ha il coraggio di scelte che importanti pezzi di opinione pubblica farebbero pagare a prezzi elevati, dall'altra perché il confronto, sia per gli uni che per gli altri, è bloccato sul nodo Berlusconi, come da sedici anni a questa parte.

Diciamo subito che quella in cui sembra muoversi Brunetta è un'ottica riformista, non liberista. Non ha sfiducia nella macchina, non vuole ridurla, ma vuole farla funzionare. E' un proposito nobile, quello delle riforme e del «rigore selettivo» (leggi spesa selettiva), e in ultima analisi di una politica che vuole far funzionare al meglio ciò che c'è. Bisogna stare attenti però a non iscriversi ad un altro affluente del torrente, già parecchio ingrossato, del "partito della spesa". Il rischio che mi pare corra Brunetta, se non ne prenderà esplicitamente le distanze, è proprio quello di venire arruolato in quel partito nella rappresentazione mediatica del tremontismo e dei suoi critici.

La strada di governi sia di centrodestra che di centrosinistra è lastricata di "fasi due", ma nessuna ha prodotto i risultati sperati. Una condizione che potrebbe/dovrebbe aiutare Berlusconi a farsi coraggio è, come ha ricordato Ricolfi, che «dal 22 marzo prossimo fino alla fine della legislatura (3 anni dopo) non ci saranno più test elettorali importanti». L'occasione sarebbe ghiotta per dedicarsi alle riforme: costituzionali ed economiche. Se non ora, quando?

Thursday, November 19, 2009

Volti anonimi per un'Europa senz'anima

Scelte di bassissimo profilo da parte dei capi di Stato e di governo dell'Ue per le cariche, introdotte con il Trattato di Lisbona, di presidente permanente del Consiglio europeo e rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue: il premier belga Herman Van Rompuy, che non rischierà certo di oscurare con la sua personalità e il suo carisma gli altri leader europei, che potranno continuare indisturbati a offrire l'immagine di un'Europa vuota e divisa, senz'anima; e la semi-sconosciuta Cathrine Ashton, che non ha alcuna esperienza di politica estera (si è occupata di welfare), e pochissima di politica tout court, essendo stata solo sottosegretario all'Istruzione, per un anno leader dei laburisti alla Camera dei Lord, prima di essere catapultata a Bruxelles, poco più di un anno fa, come commissaria al commercio.

E' evidentemente prevalsa la logica "euroburocratica" (con in mano il manuale Cencelli e un occhio alle "quote rosa") di non attribuire peso politico alle due nuove cariche. Oggi a Bruxelles non sono stati nominati un presidente e un ministro degli Esteri, quanto piuttosto un segretario e una portavoce. Peccato che i leader europei non abbiano compreso quanto potesse contare essere rappresentanti nel mondo da una figura riconoscibile e di una certa statura politica. Possiamo sempre consolarci per aver evitato D'Alema. Quella sì sarebbe stata una beffa, oltre al danno di non vedere Blair presidente.

Wednesday, November 18, 2009

Obama si fa ingabbiare dai cinesi

Tanta "cooperazione" e toni adulatori, ma sui temi caldi (Iran e politica monetaria) il presidente Obama torna a mani vuote, mentre la buona retorica su diritti umani, Internet e Tibet non arriva a chi dovrebbe arrivare. Il Wall Street Journal vede il rischio che la politica monetaria e di bilancio americana provochi bolle finanziarie in Asia che avrebbero pesanti ripercussioni in tutto il mondo, alimentando svalutazioni e protezionismi, fino a rappresaglie politiche, mentre Martin Wolf, sul Financial Times, punta l'indice sul «protezionismo valutario cinese» e rimprovera semmai a Obama di non aver parlato al presidente Hu Jintao «in termini tanto crudi» quanto avrebbe dovuto.

Su il Velino

Nella visita in Cina del presidente americano, Barack Obama, il Washington Post vede un «forte contrasto con il passato». Un «contrasto», rispetto alle visite dei suoi predecessori, che tuttavia a giudizio del quotidiano Usa non riflette tanto un cambiamento di approccio da parte di una nuova amministrazione, quanto «un incredibile, e molto più grande cambiamento» negli equilibri di potere, soprattutto in economia, durante l'ultimo decennio. Un cambiamento che ha fatto da «sottofondo» all'intera visita. Nella sua analisi il WashPost sottolinea che «non ci sono stati grandi passi avanti su temi importanti quali il programma nucleare iraniano o la moneta cinese. Eppure, dopo due giorni di colloqui con il più grande creditore degli Stati Uniti, l'amministrazione ha affermato che le relazioni tra i due Paesi sono importanti come non mai». Sebbene un piccolo progresso sia emerso in vista della conferenza del prossimo mese a Copenhagen sui cambiamenti climatici, è «relativamente poco per un nuovo presidente che in campagna elettorale ha promesso che avrebbe realizzato cambiamenti di vasta portata nelle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti».

«Se c'è stato un cambiamento significativo durante questo viaggio - osserva il WashPost - è stato il tono conciliante e a volte persino elogiativo» nei confronti del governo Pechino. «Con gli Stati Uniti indebitati con la Cina per oltre mille miliardi di dollari e inondati da merci cinesi», quella tra Obama e il presidente Hu Jintao è stata una conferenza stampa in «stile cinese». «Ciascuno ha letto il suo discorso preparato, guardando l'altro in silenzio. E nessuna domanda». Stati Uniti e Cina «non sono mai stati così vicini», ma «con la forma e anche la sostanza dei rapporti sempre più alle condizioni cinesi», sebbene i consiglieri di Obama suggeriscano che «il loro approccio e il tono cortese fossero finalizzati a risultati di lungo termine».

Anche l'incontro stile "town-hall" di Obama con 500 studenti a Shanghai - dove il presidente ha toccato il tema dei diritti umani, definiti «valori universali», e della libertà d'espressione, dicendosi contrario alla censura di Internet - che la Casa Bianca aveva sperato potesse permettere al presidente di raggiungere i cinesi comuni, «è stato privato di spontaneità dalla coreografia scritta dalle autorità di Pechino». Un'analisi simile quella di ieri del Wall Street Journal, secondo cui allo scopo di non far esprimere il potenziale del carisma di Obama, i leader cinesi lo hanno ingabbiato «in una visita tra le più strettamente controllate che si ricordino, senza concedergli alcuna opportunità, data invece ai suoi predecessori, di arrivare direttamente al grande pubblico cinese». Totale assenza di contatto diretto con il pubblico, come dimostra l'incontro di Shanghai con 500 studenti, accuratamente selezionati - e persino «addestrati» - dal regime tra i quadri giovanili del partito, e non trasmesso in televisione.

Anche l'itinerario della visita, secondo fonti sia cinesi che americane, riferisce il WSJ, «è stato aspramente conteso da ambo le parti». La Casa Bianca avrebbe voluto un'occasione «per far brillare la personalità telegenica di Obama» e ha chiesto maggiori libertà, ma le autorità cinesi hanno resistito, temendo il paragone con la classe politica cinese. Durante la visita in Cina del 1998, il presidente Clinton, ricorda il WSJ, ebbe quattro occasioni per parlare direttamente ai cinesi, tra cui un'intervista in diretta tv senza censure e discorsi agli studenti. Anche George W. Bush, nel 2002, parlò di libertà politica e religiosa agli studenti cinesi, ma al contrario di questa volta l'incontro fu trasmesso sulla televisione nazionale.
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Tuesday, November 17, 2009

Commissariare la democrazia? Si può, secondo Ingroia e Scarpinato

Su il Velino

«Quella di Palermo è una procura normale, o una sorta di tribunale supremo della rivoluzione giudiziaria permanente?». Se lo chiede oggi Maurizio Crippa su Il Foglio. Purtroppo non è un interrogativo retorico o capzioso, considerando certe tesi, recenti e passate, di alcuni suoi procuratori e i processi che hanno condotto o stanno conducendo. In un recente convegno organizzato dall'Italia dei Valori, il procuratore aggiunto di Palermo Antono Ingroia ha attaccato le annunciate riforme del governo in materia di giustizia, sostenendo che nel nostro Paese c'è «un'emergenza democratica», che da decenni l'Italia sarebbe governata da chi fa affari con la mafia, da chi ha gli stessi obiettivi della mafia, cerca l'impunità come la mafia e vuole abbattere lo stato di diritto, depotenziando i pm con leggi come quella sulle intercettazioni, e che contro tutto questo occorra «ribaltare il corso degli eventi». Una frase estrapolata dal suo contesto, si è difeso il pm.

Ma è lo stesso Ingroia che insieme ad un altro procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato (il pm del processo a Giulio Andreotti), firmava un articolo dal titolo "Un programma per la lotta alla mafia", pubblicato sulla rivista MicroMega n. 1/2003 (numero che raccoglieva in tutti gli ambiti programmi di governo alternativi al governo Berlusconi), in cui sosteneva la necessità di «un'istanza politica superiore» che in determinate circostanze - di «collegamenti» con la mafia, o «condizionamento» da parte di essa, di elementi di un governo eletto - avesse il compito «di sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza».
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P.S. Significative - e inquietanti - anche le tesi espresse più di recente in questo convegno organizzato da Magistratura Democratica.

Monday, November 16, 2009

Dalla Fao un vero schiaffo alla miseria

Roma deve sopportare per tre giorni questo circo di ipocrisia e vanità messo su da una delle più screditate organizzazioni internazionali che si siano mai viste: la Fao. Invece di chiedersi dove siano finiti, e cosa ne sia stato fatto, tutti i miliardi di dollari che la Fao ha preso e gestito in ben 64 anni di vita, visto che il problema della fame nel mondo non solo non accenna ad attenuarsi, ma si aggrava, assistiamo ai soliti appelli sdegnati, alla solita questua (44 miliardi di dollari per cancellare istantaneamente - vogliono farci credere - l'incubo della fame dalla faccia del pianeta), le solite tirate demagogiche sugli aiuti alle banche e sui consumi nei Paesi ricchi. Si calcola fino all'ultimo centesimo quanta spesa alimentare le famiglie nei Paesi ricchi gettano nella spazzatura, come se quella mozzarella rimasta in frigo per troppi giorni, o quel mezzo piatto di pasta in più potessero essere impacchettati e immediatamente spediti dall'altra parte del mondo (sarebbe bello - e facile!). Ma nessuno che metta sul banco degli imputati la stessa Fao e innanzitutto i governi di quei Paesi in cui si muore di fame nonostante tutti gli aiuti.

L'atto d'accusa nei confronti dell'avidità e del modello capitalistico del mondo ricco serve a nascondere le terribili responsabilità di regimi corrotti e criminali, di capi di Stato che affamano i loro popoli e vengono accolti con tutti gli onori a Roma, ai vertici Fao, per l'ennesima predica. Il vertice di quest'anno sarà ricordato per la passerella delle "lady dittatura": riempiono le prime pagine dei giornali, tra le altre, la signora Ahmadinejad, la signora Mugabe, la signora Ben Alì e la signora Mubarak. Tutta la demagogia e l'ipocrisia possibile e immaginabile, purché non si discutano né l'evidente fallimento di un modello di aiuto ai Paesi poveri, né i privilegi di cui godono i funzionari Fao. Primo tra tutti lo stesso Jacques Diouf, alla guida dell'organizzazione dal 1993, che avrà pure qualche responsabilità nei fallimenti e nelle comprovate inefficienze di questi ultimi sedici anni. In questi vertici la Fao dovrebbe innanzitutto riflettere su se stessa e rendere conto ai suoi contribuenti di quanto e come spende.

UPDATE: Ecco quanto, e come, spende la Fao (da il Velino)

Wednesday, November 11, 2009

Quanto ci costa l'"ingiustizia" italiana

I nostri pm ci costano il doppio che ai francesi. E le sentenze? Un miraggio

Su il Velino

Mentre la maggioranza si appresta a presentare in Senato il disegno di legge per il processo breve, che dovrebbe prevedere una durata massima dei processi di sei anni fino al terzo grado di giudizio, la giustizia sembra essere al centro delle cronache e del dibattito politico come problema personale del premier, e non per la crisi in cui versa nel nostro Paese. Crisi i cui emblemi sono lo spropositato numero, quasi 9 milioni, di procedimenti pendenti (5.425.000 civili e 3.262.000 penali) e la loro durata media (960 giorni per il primo grado e 1509 giorni per il giudizio di appello nel civile; 426 giorni per il primo grado e 730 per il grado di appello nel penale). Sono questi alcuni dei dati più impressionanti forniti dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nell'ultima relazione al Parlamento sullo stato della giustizia.

Eppure, come vedremo, le lievi differenze nell'entità della spesa pubblica destinata alla giustizia, nel numero dei tribunali, dei giudici, dei procuratori, e del personale non togato e tecnico-amministrativo, rispetto agli altri grandi Paesi europei paragonabili all'Italia per ricchezza, popolazione e cultura giuridica, non giustificano un divario così abissale nel numero dei procedimenti pendenti e nella loro durata. Anzi, per molti aspetti impieghiamo anche molte più risorse degli altri, ma la "produttività" del sistema è lontana anni luce.
(...)
Da molte parti si lamenta la scarsità di risorse, ma come dimostrano i dati, relativi all'anno 2006, del secondo rapporto CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice) sul funzionamento e la valutazione comparata dei sistemi giudiziari europei, l'Italia non si discosta dagli altri grandi Paesi membri dell'Ue per il numero di risorse umane e materiali impiegate dallo Stato per l'amministrazione della giustizia. Anzi, per la pubblica accusa spende di più... Secondo la stima del rapporto CEPEJ, spendiamo per il nostro sistema giudiziario 4,08 miliardi di euro, contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna. Spendono più di noi, in valore assoluto, Germania (8,73 miliardi) e Gran Bretagna (6,07 miliardi). In queste spese però sono inclusi i fondi per il patricinio legale gratuito, per il quale spendiamo meno di tutti. Solo 86,5 milioni l'anno. La Germania spende oltre 6 volte di più, la Francia quasi quattro volte di più e la Spagna il doppio di noi. Per non parlare della Gran Bretagna, che dedica all'assistenza legale oltre la metà del suo budget per la giustizia (3,35 miliardi su 6,07).

Tolta la spesa per il patrocinio gratuito, emerge quindi che l'Italia spende meno solo della Germania. Ma scorporando le varie destinazioni della spesa tra corti, pubblica accusa e patrocinio gratuito, emerge anche che ai procuratori italiani va una spesa di 1,33 miliardi di euro, il doppio rispetto ai 670 milioni che spende la Francia per i suoi pm.
LEGGI TUTTO (articolo molto lungo)

Tuesday, November 10, 2009

Obama come un disco rotto con l'Iran

Come un disco rotto la Casa Bianca continua a chiedere a Teheran una risposta in tempi brevi (nel frattempo sono passate quasi due settimane) alla bozza di accordo preparata dall'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero. L'aspetto surreale, e un po' patetico, della vicenda è che una risposta, anche se negativa, gli iraniani l'hanno già data, a tutti i livelli, ma da quest'altra parte fanno finta di non aver sentito/capito. Può non piacere, ma la risposta è un "no". Più precisamente, l'Iran offre controproposte che nella sostanza rifiutano di concedere ciò che l'Occidente sperava di ottenere con la proposta dell'arricchimento all'estero: privare Teheran della quantità di uranio a basso arricchimento necessaria per, se ulteriormente arricchito, fabbricare una bomba atomica. Si trattava di prendersi un anno di tempo per cercare, poi, un accordo complessivo. Questo retroscena del New York Times descrive piuttosto lo stato di negazione che impedisce all'amministrazione Obama di prendere la risposta iraniana per quella che è.

Il "no" iraniano ha sorpreso anche me. L'accordo non mi sembrava molto sconveniente per Teheran, visto che in un anno si sarebbero visti riconsegnare uranio arricchito gratis al 19,75%, che fa sempre comodo, potendo tranquillamente riprodurre le stesse quantità spedite all'estero per tornare al livello di scorte pre-accordo e per di più scongiurando ulteriori sanzioni. Evidentemente, ci devono essere ragioni di opportunità politica interne al regime che suggeriscono a Khamenei e Ahmadinejad di declinare comunque l'offerta. Forse il regime per sopravvivere non può permettersi di dialogare, neanche per finta, con il "Grande Satana", la cui minaccia è ingrediente fondamentale del collante ideologico che tiene insieme il sistema.

Alcuni autorevoli giornali ancora incantati dal fascino di Obama, come il New York Times e il Washington Post, hanno provato a sostenere, in realtà in modo poco convincente, che per lo meno l'apertura Usa e l'offerta dell'Aiea hanno creato un dibattito e persino delle divisioni all'interno della leadership iraniana. Un'ipotesi che un attento osservatore come Meir Javedanfar smentisce agilmente.

Di certo l'Iran sta dimostrando di non essere affatto disponibile a dialogare seriamente sul nucleare, come molti - soprattutto tra i cosiddetti "realisti" - pensavano. Si è perso un anno per soddisfare la curiosità di Obama, il quale adesso però può ancora volgere a suo vantaggio questa perdita di tempo, dimostrando alla comunità internazionale di aver dato una chance concreta alla diplomazia ma che ora è giunto il momento di agire. Certo, dovrà riconoscere che i suoi poteri da ammaliatore non hanno funzionato, ma speriamo che non pecchi d'orgoglio e che sia così pragmatico da cambiare strategia. In fretta, possibilmente.

Purtroppo, le sue ultime dichiarazioni inquietano, perché sembra che ritenga di poter aspettare ancora chissà quanto tempo: «Ci vorrà tempo, e parte dei problemi che dobbiamo affrontare consiste nel fatto che né Corea del Nord, né Iran sembrano politicamente pronti ad assumere decisioni rapide» sui rispettivi programmi nucleari. Il presidente francese Sarkozy e quello russo Medvedev sono sembrati più fermi, ricordando a Teheran che «la pazienza della comunità internazionale non è infinita». E i due leader, anche quello russo, «non hanno escluso» la possibilità di ulteriori sanzioni.