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Thursday, December 03, 2009

Obama fa a malincuore la scelta giusta - l'unica sensata

Alla fine, dopo tre mesi di seminari e tentennamenti, Obama ha preso la decisione giusta. Non è stato un discorso esaltante, ma quel che conta, come ha osservato Peter Wehner, è che ha dato a McChrystal i soldati (30 mila americani, più 5 mila dagli alleati) e la strategia (di contro-insurrezione) di cui ha bisogno per vincere. Tre quarti di quelli richiesti ad agosto dal generale, di conseguenza il discorso non poteva che essere buono per tre quarti, fa notare Max Boot. Ma l'importante, oltre ai numeri, è che sia stata respinta l'opzione Biden di un impegno limitato a combattere al Qaeda, disinteressandosi dei talebani e dell'assetto dell'Afghanistan. Al contrario, la strategia scelta si pone l'obiettivo più ambizioso: sconfiggere al Qaeda, fermare l'avanzata talebana, addestrare le forze di sicurezza afghane, rendere sicuri i centri abitati ed evitare che i talebani tornino al potere. Inoltre, contrariamente alle voci della vigilia, le nuove truppe verranno dispiegate rapidamente, nell'arco di sei mesi.

Al di là della retorica usata da Obama, quindi, nella sostanza il piano è identico a quello adottato con successo dal generale Petraeus in Iraq, come ha chiarito il segretario alla Difesa, Robert Gates: «L'essenza del nostro piano civile-militare è ripulire, rimanere, costruire e trasferire. Iniziare a trasferire la responsabilità della sicurezza agli afghani nell'estate del 2011 è vitale - e a mio avviso fattibile». Ma, ha precisato Gates, «avverrà distretto per distretto, provincia per provincia, a seconda delle condizioni sul campo». Il processo sarà «simile» a quello sperimentato in Iraq. Anche dopo l'inizio del trasferimento delle responsabilità e del ritiro della forze da combattimento, gli Stati Uniti «continueranno a sostenere il loro sviluppo come partner di lungo termine». Ancora più esplicito e rassicurante il riferimento di Gates agli «errori» commessi dopo la ritirata sovietica dall'Afghanistan: «Non ripeteremo gli errori del 1989, quando abbandonammo il Paese per poi vederlo cadere nella guerra civile e, infine, nelle mani dei talebani».

Per questo anche i commentatori conservatori hanno giudicato positivamente la nuova strategia, l'unica sensata, annunciata - pazienza se a malincuore - da Obama. Il suo discorso è piaciuto anche a Bill Kristol, ma per lo stesso motivo per cui è stato duramente criticato da Michael Moore: «Ha parlato da "war president", ed è una buona cosa, perché quando siamo in guerra abbiamo bisogno di un presidente di guerra». Criticabile, invece, per Kristol la «pseudo-scadenza al luglio 2011». D'altra parte, tempi e modalità del ritiro sono sottoposti a condizioni, osserva, quindi la «quasi-deadline» non dovrebbe essere troppo dannosa. Ma la cosa importante è che «per la metà del 2010 Obama avrà più che raddoppiato il numero delle truppe in Afghanistan e avrà dato al suo generale Stanley McChrystal i mezzi per combattere la guerra nel modo che ritiene necessario per vincerla». Inoltre, con questa decisione, conclude Kristol, Obama «ha anche riconosciuto che lui e il suo partito si sbagliavano sul "surge" in Iraq nel 2007: dopotutto, la logica del suo surge è identica a quella di Bush».

John Podhoretz definisce il discorso di Obama un «momento di svolta» («dopo aver passato mesi a cercare disperatamente un'altra scelta, una terza via, una bella opzione, Obama alla fine si è arreso alla logica della presidenza») e riconosce il suo «coraggio». Obama, infatti, «sta chiaramente agendo contro i suoi istinti e la sua ideologia», e se la qualità del suo discorso ha lasciato a desiderare è perché «stava cercando di usare un linguaggio con il quale spiegare la sua decisione a persone come lui». Ecco perché non poteva funzionare dal punto di vista della retorica e della persuasione. «Un'occasione persa», conclude Podhoretz: «Ma non importa, è la politica che conta». E anche la scadenza dei 18 mesi «indica la serietà del suo impegno, dal momento che ha solo indicato l'inizio del ritiro, condizionandolo alla situazione sul campo in quel momento».

Su questo è d'accordo anche Wehner: la scadenza dei 18 mesi, «almeno per ora, è meno preoccupante di quanto possa sembrare». Nel suo discorso Obama ha detto che «cominceremo il ritiro delle nostro forze nel luglio del 2011, ma come abbiamo fatto in Iraq, eseguiremo la transizione responsabilmente, prendendo in considerazione le condizioni sul terreno». Un «caveat chiave», secondo Wehner: «Se le condizioni sul campo cambiano, Obama si è lasciato ampio spazio di manovra per rivedere la sua decisione, nulla è scolpito nella roccia». Anche se, avverte Max Boot, questa «deadline», al solo scopo di «placare la base liberal del Partito democratico», rischia di far arrivare ai talebani il messaggio che non devono far altro che aspettare 18 mesi e «gli infedeli saranno fuori dalla porta». Può non essere precisamente così, ma «è ciò che i nostri nemici intenderanno».

L'aspetto negativo del discorso di Obama, osserva Wehner, è che «non sembra vedere questa guerra nel contesto di una grande causa», ma la considera piuttosto come «una sgradita distrazione dalla sua agenda interna». Cosa che alla lunga, tra le polemiche e le vittime Usa in aumento, potrebbe minare la sua determinazione. Di questo si è lamentato anche Peter Beinart, che scrive ancora per The New Republic ma ora è al Council on Foreign Relations. Il "surge" annunciato da Obama è una «buona politica», ma il discorso «mi ha lasciato freddo», lamenta: «Militarmente, ci stiamo coinvolgendo più in profondità in Afghanistan, ma emotivamente ne stiamo uscendo. Non c'è stato nulla nel discorso sul nostro obbligo morale nei confronti del popolo afghano, al quale l'America ha promesso molto e ha consegnato scandalosamente poco».

Se tra i grandi quotidiani Usa c'è chi, come il Washington Post, sostiene che Obama abbia definitivamente fatto sua la guerra in Aghanistan, il Wall Street Journal, pur sostenendo la sua decisione, pensa che questa non sia ancora la guerra di Obama: «Da presidente di guerra Obama dovrà impiegare una quantità maggiore del suo capitale politico per persuadere l'opinione pubblica americana che la campagna afghana vale la pena». Non dovrà, come ha fatto in passato, «pronunciare un solo discorso e poi lasciar cadere l'argomento». Il presidente ha bisogno di un suo "surge" politico.

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