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Wednesday, September 30, 2009

Se 30 anni di tentativi di dialogo hanno fallito... regime change

Su il Velino

Contrariamente a quanto si crede, tutte le amministrazioni americane che si sono succedute dalla rivoluzione islamica in avanti hanno parlato, e tentato di instaurare un dialogo, con l'Iran degli ayatollah. Lo sostiene, nel suo editoriale di oggi sul Wall Street Journal, Michael Ledeen, tentando di smentire la convinzione, «quasi universalmente accettata», che accompagna i colloqui dell'amministrazione Obama con l'Iran che avranno luogo domani a Ginevra. Non è vero che le precedenti amministrazioni Usa si siano rifiutate di negoziare con i leader iraniani. La verità, scrive Ledeen, come ha spiegato nell'ottobre scorso il segretario alla Difesa, Robert Gates, alla National Defense University, è che «ogni amministrazione dal 1979 ha teso la mano agli iraniani in un modo o nell'altro, ma tutte hanno fallito».

L'amministrazione Carter ha tentato di stabilire buoni rapporti con la Repubblica islamica offrendo «aiuti, armi e comprensione», ma i colloqui sono finiti con la presa dell'ambasciata americana a Teheran. Anche l'amministrazione Reagan, ricorda Ledeen, ha cercato un «modus vivendi» con l'Iran nel mezzo della guerra con l'Iraq a metà degli anni '80. Funzionari americani di alto livello come Robert McFarlane si sono incontrati segretamente con rappresentanti del governo iraniano, ma questo sforzo è finito con lo scandalo Iran-Contra alla fine del 1986. L'amministrazione Clinton ha abolito le sanzioni imposte dai presidenti Carter e Reagan. Inoltre, sia il presidente Clinton che il segretario di Stato Albright si sono pubblicamente scusati con l'Iran per le colpe del passato, incluso il rovesciamento del governo Mossadegh da parte della Cia e dei servizi britannici nell'agosto del 1953. Un mea culpa ribadito dal presidente Obama nelle sue molteplici aperture di quest'anno.

Persino l'amministrazione Bush jr, «invariabilmente e falsamente accusata di rifiutarsi di parlare ai mullah, ha invece negoziato ampiamente con Teheran». Si sono tenuti, ricorda Ledeen, «dozzine di incontri di cui è stato riferito in pubblico, e almeno una serie molto segreta di negoziati», di cui raramente però la stampa ha parlato. Nel settembre del 2006, sembrava che un accordo fosse stato raggiunto. Il segretario di Stato, Condoleezza Rice, e Nicholas Burns, il suo massimo consigliere per il Medio Oriente, racconta Ledeen, «volarono a New York ad aspettare l'arrivo annunciato di un'ampia delegazione iraniana, per la quale erano stati appositamente concessi circa 300 visti». Il capo negoziatore sul nucleare, Larijani, «avrebbe dovuto annunciare la sospensione dell'arricchimento dell'uranio in cambio della revoca delle sanzioni» da parte Usa. Ma «Larijani e la sua delegazione non sono mai arrivati».

Tutti i presidenti da Carter in poi, oltre ai tentativi di dialogo, andati a vuoto, hanno imposto sanzioni all'Iran di svariati tipi. In questi trent'anni, osserva Ledeen, «i nostri alleati» hanno sempre insistito per continuare negli sforzi diplomatici e non con le sanzioni, finché, nel 2006, anche il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha cominciato ad adottare sanzioni nei confronti di Teheran. «Trent'anni di negoziati e sanzioni non sono riusciti a porre fine al programma nucleare iraniano e alla sua guerra contro l'Occidente. Perché si dovrebbe pensare che funzionino adesso? Un cambiamento in Iran richiede un cambiamento nel governo...».

Anche secondo Robert Kagan, gli Stati Uniti, gli europei e i media dovrebbero lasciare da parte la loro «ossessione» per l'atomica, gli impianti segreti e i missili iraniani, perché «l'obiettivo più fruttuoso è l'indebolimento del regime». Eppure, la grave crisi politica che Teheran attraversa non è nei pensieri occidentali. Le democrazie occidentali tendono a sottovalutare ciò che può accadere quando un regime è spaventato e insicuro. «In tali situazioni - spiega Kagan nel suo editoriale mensile sul Washington Post - la paura più grande di un regime autocratico, storicamente, è che gli oppositori interni possano raccogliere il sostegno delle potenze straniere. La caduta dei dittatori - Marcos nelle Filippine, Somoza in Nicaragua, i comunisti polacchi - è stata di frequente agevolata, in qualche caso in modo decisivo, dall'intervento esterno, attraverso l'appoggio alle forze di opposizioni o le sanzioni contro il governo». E' questa oggi anche la principale «fissazione» del regime iraniano.

Il primo obiettivo del regime dopo le elezioni è stato quello di riprendere il controllo ed evitare interferenze dall'esterno. E Teheran ci è riuscita in «modo egregio», osserva Kagan, «anche con l'aiuto» dell'amministrazione Obama, che si è rivelata, «forse involontariamente, un partner collaborativo», rifiutandosi di «rendere la questione della sopravvivenza del regime parte della sua strategia». Obama ha trattato la crisi come una «distrazione» dal dialogo sul nucleare, «esattamente ciò che i governanti a Teheran vogliono che faccia: concentrarsi sulle atomiche e ignorare l'instabilità del regime». Al contrario, secondo Kagan, «sarebbe meglio che si concentrasse sull'instabilità del regime piuttosto che sul nucleare».

Ahmadinejad e Khamenei vedono il programma nucleare e la loro sopravvivenza al potere «intimamente collegati». Per questo, ciò di cui c'è bisogno è «un tipo di sanzioni capace di aiutare l'opposizione iraniana a far cadere questi governanti ancora vulnerabili», suggerisce Kagan. L'argomento secondo cui le sanzioni rafforzerebbero il sostegno popolare al governo non regge più dopo la crisi innescata dalle elezioni del 12 giugno, che «ha aperto una breccia irreparabile tra il regime e ampia parte della società iraniana, persino del clero». Quando le sanzioni cominceranno ad avere effetto, prevede Kagan, l'opposizione sosterrà che il regime sta portanto l'Iran alla rovina.

Non necessariamente le sanzioni porteranno alla caduta del regime, «ma le probabilità che possa cadere sotto il giusto mix di opposizione interna e pressione esterna sono maggiori delle probabilità che abbandoni volontariamente il suo programma nucleare - forse molto maggiori», conclude Kagan. Se l'amministrazione Obama rivendica il suo «realismo pragmatico», dovrebbe perseguire la politica che «ha maggiori possibilità di successo».

Tuesday, September 29, 2009

Processo Stasi, nel totale sprezzo del ridicolo

«Due anni di indagini, venti faldoni di carte, 180 testimoni, undicimila euro spesi per le sole fotocopie degli atti. E più di venti fra periti e consulenti. Che cosa resta di tutto questo oggi?»
Si apre con questa domanda oggi il pezzo del Corriere sul processo Stasi. La risposta è piuttosto semplice: nulla. Cercheranno di arrampicarsi sugli specchi per rimettere in piedi i cocci della tesi accusatoria, ma è lecito chiedersi persino se sia legittima un'operazione del genere. E' giusto nei confronti di un imputato che la pubblica accusa alla fine del processo, a ridosso della sentenza, cambi del tutto strategia quando si vede totalmente sconfessata la ricostruzione in base alla quale fino a quel momento ha sostenuto l'accusa di omicidio?

Con evidente sprezzo del senso del ridicolo, il pubblico ministero Rosa Muscio andrà in aula sostenendo che l'omicidio sia avvenuto fra le 9.10 e le 9.36, l'unica finestra temporale rimasta disponibile dopo che tutte le ultime perizie ordinate dal giudice hanno smontato la sua stessa ricostruzione. Per venire incontro alla perizia dei Ris - rivelatasi poi sbagliata - sul pc di Alberto, la Muscio infatti ha sempre insistito nel collocare l'ora del decesso tra le 10.30 e le 12, con «maggior centratura» tra le 11 e le 11.30. Ma una pubblica accusa può spostare a piacimento l'orario della morte della vittima finché non riesce ad aggirare l'alibi dell'unico accusato? E' deontologicamente corretto?

Quanto alle immagini pedopornografiche sul pc di Alberto, sarebbero un movente se ci fosse una prova certa che Chiara le avesse scoperte. Ma che le abbia scoperte, e che volesse denunciarlo, sono mere supposizioni dell'accusa. Crolla finalmente anche una delle più surreali contestazioni probabilmente mai sentite in un'aula di tribunale. Credo sia un unicum, infatti, nella storia processuale italiana, e non solo, sentire contestare a un sospettato di omicidio la mancanza di tracce di sangue della vittima sulle suole delle sue scarpe. Possibile che tra giornali e popolari trasmissioni tv, a nessuno siano venute in mente le banali osservazioni dell'ultima perizia?

In un Paese in cui la pubblica accusa fosse in qualche modo chiamata a rispondere delle proprie azioni, la pm Muscio sarebbe immediatamente rimossa dal caso e quasi certamente congedata dal servizio con una pacca sulla spalla.

Monday, September 28, 2009

Vento liberale in Germania, speriamo negli spifferi

Viviamo in tempi davvero ricchi di paradossi. Nel pieno di una grave crisi economica, di cui praticamente all'unisono politica e media hanno attribuito le colpe al libero mercato, nelle elezioni politiche in Germania, dove vigono un livello di tassazione e un livello di spesa pubblica tra i più alti in Europa, il partito liberale consegue un successo storico.

Certo, la Merkel ha vinto, ma è un altro strano paradosso elettorale quello per cui in due tornate elettorali consecutive la cancelliera ha fatto solo perdere voti al suo partito, eppure può affermare di aver "vinto", sia pure aggiungendo subito un sonoro «Grazie Guido». Con lei alla guida la CDU-CSU aveva già perso il 3,3% alle precedenti politiche (dal 38,5 al 35,2), se non andiamo errati, e oggi perde un altro 1,4% (dal 35,2 al 33,8). La Merkel ha vinto perché quello dei socialdemocratici è stato un tracollo senza precedenti, e perché nel contempo l'FDP di Westerwelle, con cui aveva annunciato di volersi alleare per governare, ha raggiunto il suo massimo storico (il 14,6%).

Il vincitore numero 1, dunque, mi pare essere proprio il liberale Guido Westerwelle, che in tempi di dura crisi economica, di accuse e attacchi al libero mercato, di ritorno in forze degli stati, ha saputo portare il suo partito ai massimi, pur levigando alcune asperità liberiste della piattaforma del suo partito. Com'è tradizione in Germania, il leader del secondo partito nella coalizione di governo dovrebbe andare agli Esteri, ma dalla coalizione giallo-nera possiamo aspettarci una politica economica più liberale, e in particolare un consistente taglio alle aliquote fiscali, che oltre a far bene alla Germania potrebbe far bene all'Europa intera (e anche - speriamo - all'Italia).

Un successo ancor più fragoroso e politicamente significativo, quello dei liberali tedeschi, se si pensa che il leader dell'SPD Steinmeier aveva fatto ricorso allo spauracchio del "pericolo neoliberista" rappresentato dall'FDP di Westerwelle. Gli elettori hanno risposto che non lo considerano un pericolo ma, al contrario, un'opportunità. Speriamo che la Merkel la colga, e che qualche spiffero liberale giunga anche qui in Italia.

Riguardo la debacle annunciata dell'SPD, che dire? E' evidente che le sinistre in Francia, Germania e Italia soffrono della stessa malattia: hanno idee e mentalità da rottamare, residui del secolo scorso. Il treno blariano è passato e l'hanno voluto perdere. Auguri...

Friday, September 25, 2009

Sarkozy il più duro con l'Iran

Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno presentato alle autorità internazionali le prove che l'Iran ha nascosto per anni la costruzione di un sito per l'arricchimento dell'uranio a scopi militari nei pressi della località di Qum, vicino la capitale. Da anni in realtà i servizi di intelligence americani, inglesi e francesi, l'avevano scoperto. L'impianto nucleare segreto iraniano avrebbe dimensioni per uso militare e potrebbe entrare in funzione nel giro di pochi mesi, con una capacità produttiva di uno o due ordigni l'anno, fa sapere un funzionario della Casa Bianca. Teheran ha preferito ammetterne l'esistenza con una lettera all'Aiea, ma solo quando ha scoperto, nelle ultime settimane, che non si trattava più di un segreto per l'Occidente.

La reazione di Obama è stata ferma, ma piuttosto cauta politicamente e tiepida. Dal G20 di Pittsburgh il presidente americano ha accusato l'Iran di «continuare a non rispettare i suoi obblighi internazionali» e ha chiesto all'Aiea di avviare immediatamente un'indagine sull'impianto costruito segretamente. L'Iran ha diritto a perseguire il nucleare civile, ha ribadito Obama, ma la costruzione segreta di questi impianti costituisce una «violazione delle norme internazionali». Obama ha dunque intimato al governo iraniano di consentire immediate ispezioni: «Per l'Iran è arrivato il momento di agire, la notizia di oggi sottolinea la continua mancanza di volontà di mantenere i propri impegni. Ha diritto ad avere un programma nucleare pacifico, ma il programma attuale eccede tali esigenze».

Gli Stati Uniti rimangono disponibili e aperti al dialogo con l'Iran, ha assicurato il presidente Usa, ma «ora il governo iraniano deve dimostrare le sue intenzioni pacifiche con i fatti, o sarà tenuto a rispondere agli standard e alla legge internazionali». E' questa la frase più minacciosa che è riuscito a pronunciare Obama.

Molto più duro è stato il presidente francese Sarkozy, che ha dato all'Iran tempo «fino a dicembre» per conformarsi alle richieste. Altrimenti, dovranno essere assunte nuove e più dure sanzioni contro Teheran. «Non dobbiamo permettere all'Iran di prendere tempo», ha aggiunto il capo dell'Eliseo. «Il livello di inganno del governo iraniano irriterà l'intera comunità internazionale e rafforzerà la nostra determinazione», ha detto il premier britannico Brown - anche lui più duro di Obama, ma meno del presidente francese - aggiungendo che è arrivato il momento di «tracciare una linea sulla sabbia». Nessuno dei leader ha menzionato la possibilità dell'uso della forza, ma Sarkozy ci è andato molto vicino, quando ha detto che «tutto... tutto, dev'essere messo sul tavolo ora».

Secondo fonti militari, la conferma dell'esistenza del secondo impianto per l'arricchimento dell'uranio manda all'aria tutte le attuali stime delle intelligence occidentali e israeliana sulle quantità di uranio arricchito ad uso militare che l'Iran può aver accumulato per dotarsi di una bomba atomica. La stima secondo cui l'Iran potrebbe avere sufficiente combustibile per due bombe a partire dalla fine dell'anno potrebbe essere raddoppiata o addirittura triplicata.

Aung San Suu Kyi, giallo sulla sua posizione riguardo le sanzioni

Su il Velino

La leader democratica birmana, Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari dopo la condanna subita lo scorso agosto, sarebbe pronta a collaborare con i leader della Giunta militare birmana perché siano alleggerite le sanzioni economiche contro il Paese. A sostenerlo è il suo portavoce e avvocato, Nyan Win, citato dalla Cnn. Ma sulla reale posizione del Premio Nobel per la Pace riguardo le sanzioni contro il regime sta montando un giallo. In precedenza, infatti, Suu Kyi si era fermamente opposta a qualsiasi alleggerimento delle sanzioni. E d'altra parte, anche il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, per ora ha negato di voler revocare le sanzioni, nonostante il nuovo approccio di apertura al dialogo con il regime.

Adesso, invece, in una lettera indirizzata al generale Than Shwe, Suu Kyi sosterrebbe di essere pronta a cooperare in questo senso, secondo quanto afferma oggi il suo portavoce e avvocato, rivelando di aver lavorato con lei alla stesura della lettera, anche se sarà inviata alla giunta solo tra qualche giorno. La leader dell'opposizione birmana vorrebbe prima informarsi su quante e quali sanzioni gravano sul Paese e su quali stanno avendo un impatto negativo sulla popolazione. Aung San Suu Kyi non ha mai parlato di «alleggerimento» delle sanzioni contro la giunta militare birmana, perché «non è nella posizione per decidere» in materia, affermava solo una settimana fa lo stesso Nyan Win, avvocato della Nobel per la pace ed esponente di primo piano del suo partito, rettificando a The Irrawaddy quanto rivelato il giorno prima dal senatore Usa Jim Webb.
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UPDATE (28 settembre): E' proprio così. Aung San Suu Kyi ha ceduto alle pressioni e ha inviato una lettera al capo della Giunta militare, il generale Than Shwe, chiedendo il permesso di incontrare gli ambasciatori occidentali in Birmania per discutere la possibilità della fine delle sanzioni occidentali contro il regime. Nella lettera spiega di voler cooperare con la Giunta birmana per ottenere la revoca delle sanzioni da parte degli Usa e delle altri Paesi occidentali e di voler a questo scopo ascoltare i pareri degli ambasciatori di queste nazioni in Birmania.

Il Pdl, la modernità, la persona. Nuove sfide strategiche

Tutti ad aspettare un programma da Fini. E invece il programma che raccoglie «le sfide della stagione politica che si apre» arriva da Brunetta e Capezzone:
Da una parte, c'è l'Italia - ultramaggioritaria - che rischia tutti i giorni; che è legata al merito, alla competitività, alla trasparenza; che sta sul mercato; che è esposta al vento della concorrenza; che mette in gioco se stessa, la propria famiglia, i propri beni. E' l'Italia che lavora e produce; è l'Italia dei lavoratori dipendenti che rischiano il posto; è l'Italia delle piccole e piccolissime imprese dell'industria, del commercio, dell'artigianato, dei servizi; è l'Italia dei professionisti; è l'Italia dei disoccupati e dei sottoccupati non tutelati; è l'Italia di quanti, oggi anziani, hanno già dato il loro contributo alla propria famiglia e al Paese. Dall'altra parte, c'è l'Italia - più piccola e minoritaria - che non vive con queste regole: è l'Italia della rendita, delle corporazioni, dei furbi, dei fannulloni, dei garantiti. Naturalmente, non si può e non si deve fare di ogni erba un fascio, ma questo aggregato è composto dall'Italia dei cattivi dipendenti pubblici, della cattiva politica, della cattiva magistratura, delle cattive banche e della cattiva finanza, della cattiva editoria, dei cattivi sindacati (arricchiti economicamente ma impoveriti politicamente e civilmente dalla trattenuta automatica praticata su lavoratori e pensionati spesso ignari); in altre parole, siamo dinanzi all'Italia che vive in modo parassitario e improduttivo sulle spalle della prima Italia.
Questa la diagnosi dalla quale prende avvio il ragionamento di Brunetta e Capezzone, che passando per un giudizio positivo e ottimistico dell'attuale esperienza di governo, indicano sette campi d'azione, le «nuove sfide strategiche», l'embrione di un programma. Ok, il giudizio sull'azione di governo è forse fin troppo benevolo, ma è comprensibile che sia così per chi non mira al logoramento della leadership attuale e della "casa" di cui ha scelto di far parte, per chi non si candida a raccoglierne i cocci ed è consapevole che dal fallimento del governo e dalla rissa continua non potranno nascere i successi del domani.

Ma nel contempo, nonostante quando si è al potere è sempre più difficile farlo, Brunetta e Capezzone provano ad arricchire il dibattito interno al Pdl con un approccio e delle proposte che ad un esame più attento vanno oltre e si differenziano non poco dall'attuale corso governativo, pur riconoscendone lealmente i meriti. Non a caso Brunetta e Capezzone fanno più volte riferimento alle «sfide strategiche» per la «fase politica che si apre», hanno in mente «i prossimi lustri della politica italiana». Forse sul tema tasse potevano osare di più, facendone un punto autonomo, ma Fini con la sua «geniale» intuizione della «lotta al mercatismo» non pensi che "dopo Berlusconi il nulla".

Mentre Obama si fa propaganda all'Onu, l'Iran...

Obama sta diventando sfiancante. La risoluzione sul disarmo nucleare che ha fatto passare ieri al Consiglio di Sicurezza dell'Onu è pura propaganda personale. Che sia davvero così naif come lo accusano di essere, o cosa ha in mente di farsene di quella risoluzione? Mica crederà che possa servire da cornice diplomatica per agire nei confronti di Teheran...

Intanto, l'Iran sfida la comunità internazionale ufficializzando l'esistenza di un secondo impianto per l'arricchimento dell'uranio, incurante ormai di ammettere pubblicamente le sue continue violazioni delle risoluzioni Onu e non temendo affatto di subire sanzioni più severe. Il New York Times stamattina anticipava che il presidente Obama, il premier britannico Brown e il presidente francese Sarkozy, dal G20 di Pittsburgh avrebbero accusato l'Iran di aver costruito un impianto sotterraneo segreto per la produzione di combustibile nucleare, tenendolo nascosto per anni agli ispettori internazionali. Obama, Sarkozy e Brown, sono effettivamente intervenuti, chiedendo a Teheran di aprire immediatamente l'impianto di cui è stata ufficializzata l'esistenza agli ispettori dell'Aiea.

Da anni i servizi di intelligence Usa stavano cercando di localizzare l'impianto sotterraneo segreto, che dovrebbe trovarsi a 150 chilometri dalla capitale, e il presidente Obama ha deciso di denunciarne pubblicamente l'esistenza ora, dopo che Teheran si sarebbe accorta, nelle ultime settimane, che non si trattava più di un segreto. La lettera di Teheran all'Aiea potrebbe quindi essere in qualche modo legata alla decisione di Obama. Gli iraniani potrebbero aver voluto anticipare le accuse Usa e, sebbene sostengano che sia a scopi civili, l'impianto di cui hanno ammesso l'esistenza potrebbe in realtà è essere lo stesso scoperto dalle intelligence occidentali. L'impianto avrebbe dimensioni per uso militare e potrebbe entrare in funzione nel giro di pochi mesi, con una capacità produttiva di uno o due ordigni l'anno, fa sapere un funzionario della Casa Bianca.

Nel frattempo, la seconda apertura del presidente Medvedev, l'altro ieri, alla possibilità di nuove sanzioni contro Teheran avvalora l'ipotesi di scambio con la rinuncia americana allo scudo di Bush. Nell'incontro di mercoledì pomeriggio a New York tra Obama e Medvedev sarebbe infatti emersa una maggiore disponibilità russa a discutere di nuove sanzioni nel caso in cui l'incontro previsto per il primo di ottobre con gli iraniani dia un esito non soddisfacente. Il presidente Medvedev avrebbe nuovamente osservato, come alcuni giorni prima, che «le sanzioni raramente portano a risultati produttivi», ma che «in alcuni casi sono inevitabili». Per Michael McFaul, funzionario della delegazione Usa, un «importante mutamento di posizione».

La Russia, ha poi spiegato una fonte anonima della delegazione russa, «non esclude di partecipare alla messa a punto di nuove decisioni del Consiglio di sicurezza sulla questione delle sanzioni. Se ci sono basi sufficienti per farlo, non lo escludiamo. Non deve esserci alcun dubbio in merito al nostro approccio aperto e dettagliato».

Thursday, September 24, 2009

Giavazzi più berlusconiano di Berlusconi

Il problema non è se ci sarà o meno la ripresa. Ci sarà, ma la vera domanda è «con quale passo, a quale velocità?» Secondo le stime del Fmi la ripresa italiana sarà la più lenta e «tenendo conto che veniamo già da un decennio di crescita bassa», la sfida è capire come «accelerare». Francesco Giavazzi propone una «riduzione fiscale ampia, permanente, significativa, tale da indurre uno choc positivo», perché «per modificare i comportamenti della gente servono cose visibili, a forte impatto», non qualche sgravio qui e là, o la defiscalizzazione del salario di secondo livello, degli straordinari o della tredicesima, come chiedono i sindacati e sembra pronto a concedere il governo.

Un po' provocatoriamente Giavazzi sul Corriere della Sera, e poi su Il Foglio, ha rilanciato la proposta originaria che Berlusconi presentò nel 1994. Tre aliquote soltanto: zero, 23 e 33 per cento. «Le altre - concordiamo con Giavazzi - sono misure tutto sommato marginali. Che rischiano di ridurre ulteriormente il gettito senza cambiare i comportamenti di fondo». Per mutarli invece bisogna dare certezza che non si tratti di una-tantum, ma di un'operazione strutturale dalla quale non si tornerà indietro. Qui si è d'accordo, dove si firma?

Non mi piace invece che Giavazzi per finanziare il taglio delle aliquote invochi «il coraggio di scommettere sul futuro e accettare un deficit più alto per qualche anno». E' vero che considerando le aliquote così elevate di oggi, un taglio come quello proposto da Berlusconi nel '94 e nel 2001, e da Giavazzi oggi, tenderebbe nel tempo ad autofinanziarsi, perché produrrebbe una crescita più veloce e maggiori entrate fiscali, ma con il debito che ha l'Italia, e soprattutto con l'incidenza della spesa pubblica sul Pil che ha l'Italia, non possiamo permetterci di «accettare un deficit più alto per qualche anno», dobbiamo approfittarne per "affamare la bestia" e diminuire le dimensioni dello Stato nell'economia.

Non sorprende in ogni caso che i «commenti favorevoli» alla proposta di Giavazzi siano giunti «soprattutto dall'interno della maggioranza di governo». Significherà qualcosa?

Nel frattempo, citiamo ad esempio di vero senso civico l'imprenditore di Pordenone Giorgio Fidenato, il cui caso ci è stato segnalato oggi da Piero Ostellino sul Corriere.
«Dal primo gennaio di quest'anno versa ai propri dipendenti lo stipendio 'lordo' senza le trattenute di legge (contributi Inps, Irpef ordinaria, addizionale regionale, addizionale comunale), avendo opportunamente avvisato l'Agenzia preposta - che insiste nel chiedergli di adempiere ai suoi obblighi - del rifiuto di esercitare la funzione di "sostituto di imposta". A fondamento della propria scelta cita in giudizio l'Inps, la Società di cartolarizzazione dei crediti Inps, Equitalia Friuli Venezia Giulia, adducendo ragioni di economicità, di diritto, di giustizia e equità sociale».
L'articolo è da leggere tutto, perché le ragioni giuridiche dell'imprenditore non appaiono così peregrine, anche all'interno del nostro ordinamento. Che dire? Fidenato, sei un eroe!

C'è speculazione e speculazione

Ieri, dal podio dell'Assemblea generale dell'Onu, Berlusconi ha farneticato di combattere la speculazione sulle materie prime con una gigantesca operazione speculativa globale... da attuare magari insieme all'"amico" Putin. Bah. Qui si è d'accordo con Carlo Stagnaro... e non siamo comunisti...

Wednesday, September 23, 2009

Dopo il menù, le candidature

«Dopo il menù, il programma», chiede Phastidio.net, suggerendo «alla "parte" che si riconosce nel presidente della Camera di lavorare anche sui temi economici». D'accordo con lui, è ciò che servirebbe al Pdl, ma non m'illudo. La sensazione è che dopo il menù, le candidature. L'occasione per delineare una bozza di programma, o per lo meno per affrontare approfonditamente un paio di temi, Fini l'ha avuta - e sciupata - a Gubbio. Per quanto riguarda gli otto punti sollevati da Boldrin, tranne l'ottavo penso che su ciascuno - al di là di ripensamenti sempre possibili - Fini abbia dimostrato di volersi muovere in senso opposto, e anche più decisamente di quanto faccia il governo Berlusconi.

A Gubbio è passato per lo più inosservato, ma Fini ha definito «geniale» l'intuizione della «lotta al mercatismo». E passi, fin qui siamo al ministro Tremonti, ma poi è andato oltre, accusandolo di non fare abbastanza: «Bisogna tradurla» la lotta al mercatismo e «non credo che l'ultima Finanziaria sia stata un esempio di lotta alle degenerazioni del mercato», ha aggiunto. E sembrava proprio Bersani quando ha accusato il governo di negare la crisi, o quando ha lamentato che «nell'ultima Finanziaria c'è ben poco di politiche autenticamente di solidarietà sociale».

Per Hosni un pasticcio diplomatico

Alla fine l'egiziano Farouk Hosni non ce l'ha fatta. Il direttore generale dell'Unesco è la bulgara Irina Bokova, ex ministro degli Esteri e attuale ambasciatrice. Se già strideva che alla guida dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura, potesse andare un censuratore di professione, per di più antisemita, che da ministro della Cultura manifestò l'intenzione di voler «bruciare personalmente i libri israeliani e sionisti», ad aggravare la posizione del candidato egiziano, nelle ore precedenti l'ultima votazione, si è aggiunta una rivelazione fornita dal diretto interessato riguardo il suo ruolo nella fuga dall’Italia di tre terroristi palestinesi coinvolti nel sequestro dell'Achille Lauro.

Nell'ottobre del 1985 Hosni era direttore dell'Accademia d'Egitto a Roma e accettò di partecipare a una manovra diversiva dei servizi segreti egiziani. L'aereo diretto a Tunisi su cui viaggiavano tre dei dirottatori, tra cui il leader Abu Abbas, fu intercettato da caccia americani e costretto ad atterrare. «I servizi segreti – racconta Hosni – mi dissero di voler ospitare i passeggeri in Accademia e io detti ordine di preparare 17 stanze, ma giunsero solo 14 persone. Mi fu chiesto di prender tempo fino a fine giornata con il procuratore italiano, che chiedeva che gli consegnassi i passaporti dei passeggeri non egiziani». Facendo credere alle autorità italiane che i terroristi fossero ancora all'interno dell'Accademia, «l'aereo ridecollò indisturbato» dall'aeroporto di Roma. Solo allora «consegnai i passaporti al procuratore, che però non trovò nulla». Negli anni '70, inoltre, Hosni era all'ambasciata egiziana in Francia dove, per sua ammissione, collaborò con i servizi del Cairo per «spiare e denunciare» gli studenti egiziani che «deviavano».

Ma neanche queste ultime rivelazioni (possibile non ne fossimo a conoscenza?) hanno convinto la Farnesina a cambiare idea. Pochi minuti prima del voto il ministro degli Esteri Frattini dichiarava alle agenzie che l'Italia avrebbe mantenuto la promessa fatta due anni fa «personalmente da Berlusconi al presidente egiziano Mubarak». Valuteremo fino all'ultimo, ma «quando si è preso un impegno, va rispettato». Il testa-a-testa (29 voti a 29) tra i due candidati si è risolto solo alla quinta e ultima votazione in favore della Bokova (31 a 27), ma sembra che l'Italia abbia mantenuto il suo impegno. Fonti della Farnesina interpellate dall'agenzia il Velino hanno smentito che l'Italia sia stata tra i Paesi che hanno fatto mancare l'appoggio promesso a Hosni, come ipotizzato invece dal New York Times, cui una fonte anonima vicina alle operazioni di voto ha confidato che sarebbero state Spagna e Italia a cambiare idea all'ultimo momento, come pure sarebbe stato comprensibile alla luce delle ultime rivelazioni su Hosni che riguardano il nostro Paese. Subito dopo la votazione Frattini si è comunque complimentato con la Bokova, dicendosi convinto che «sarà un ottimo direttore dell'Unesco».

Anche la Francia avrebbe sostenuto Hosni, e persino gli Stati Uniti di Obama (almeno pubblicamente), come gesto di apertura nei confronti del mondo arabo, ma non sappiamo se fino all'ultimo abbiano votato in suo favore. Resta il fatto deprecabile che il governo italiano ha sostenuto alla guida dell'organizzazione per la tutela della cultura di tutte le nazioni del mondo un uomo che nella vita non ha fatto altro che disprezzare la cultura altrui. Non solo da ministro e da agente dei servizi segreti ha censurato e represso studenti e intellettuali nel suo Paese, ma approfittando della sua immunità diplomatica ha intralciato le autorità italiane per favorire dei terroristi. Il governo non ha voluto sentire neanche la voce di molti parlamentari del Pdl, da Fiamma Nirenstein a Benedetto Della Vedova, da Edmondo Cirielli a Luigi Compagna.

E alla già pessima figura si è aggiunta la beffa: Hosni non è stato eletto. Sostenere un candidato poco presentabile in nome della realpolitik e dei buoni rapporti con i nostri vicini egiziani può anche avere un senso, ma affondare insieme alla sua candidatura, quando diventa evidente che non riscuote il consenso necessario, somiglia troppo a un pasticcio diplomatico. Qualcuno avverta Fini: forse anche la politica estera dovrebbe rientrare tra i temi di cui discutere all'interno del partito.

Tuesday, September 22, 2009

Il presidente degli appelli tentenna sull'Afghanistan

Sogni di realpolitik

Appelli, appelli, appelli. Appelli per il clima; per la pace in Medio Oriente; per il dialogo con l'Iran. Barack Obama è il presidente degli appelli, ma anche se non si può certo trarre un bilancio, nemmeno parziale, della sua politica estera, non si può non notare come fino ad oggi abbia raccolto pochissimo, direi quasi nulla, dalle aperture che ha disseminato per il mondo, al prezzo di qualche incrinatura nei rapporti con gli storici alleati dell'America, dall'Estremo Oriente all'Europa dell'Est, passando per Israele.

Ma è in particolare sull'Afghanistan che la sua credibilità come comandante in capo è messa a dura prova in questi giorni, soprattutto dopo la rivelazione del rapporto del generale McChrystal. Un rapporto pronto dal 30 agosto, ma che l'amministrazione - qualcuno pensa per motivi di politica interna - ha deciso di non prendere in esame fino a pochi giorni fa. Un rapporto nel quale si avverte senza mezzi termini che senza ulteriori rinforzi in Afghanistan si va incontro al fallimento. Obama dice che prima di mandare altri uomini vuole avere chiara la strategia; certo, la strategia conta, ma le truppe combattenti ad oggi impegnate sono talmente esigue che a mio avviso si può iniziare a parlare di strategia solo dopo aver riconsiderato i numeri.

Oggi il Washington Post (a Woodward si deve lo scoop - l'ennesimo - del rapporto McChrystal) è uscito allo scoperto accusando esplicitamente il presidente di essere troppo «esitante» e «dubbioso» sull'Afghanistan in un «momento cruciale» per la campagna. Un editoriale lo rimprovera di «aver dimenticato le sue stesse parole a favore di una campagna contro l'insurrezione», come «se avesse un ripensamento» rispetto a quanto affermava soltanto cinque mesi fa: «Che cosa è cambiato dallo scorso marzo?», si chiede il WP. E le innumerevoli apparizioni tv di Obama in questi giorni rischiano di trasformarsi in un boomerang, perché le sue risposte rafforzano l'impressione della sua indecisione su un fondamentale tema di sicurezza nazionale come l'Afghanistan.

Tra l'altro, ad aggravare la situazione c'è anche la denuncia nient'affatto sorprendente del generale McChrystal, che nel suo rapporto, rivela oggi il Los Angeles Times, accusa i servizi segreti pakistani e iraniani di sostenere i talebani. Un'accusa molto verosimile. «L'insorgenza afghana è chiaramente sostenuta dal Pakistan», scrive il generale. I leader talebani «sono assistiti da alcuni elementi dell'Isi», mentre per quanto riguarda l'Iran, «le forze al Quds stanno addestrando combattenti per alcuni gruppi talebani e fornendo altre forme di assistenza militare agli insorti».

Della rinuncia allo scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca ho già scritto - e c'è davvero da sperare che Obama abbia ricevuto almeno qualcosa in cambio dai russi, almeno un "sì" a nuove e più dure sanzioni nei confronti di Teheran - ma anche quella decisione, almeno nel modo in cui è stata gestita, questa settimana viene criticata su Newsweek da Fareed Zakaria, proprio per il significato politico che ormai lo scudo aveva assunto per russi, polacchi e cechi. «Di questi tempi - ha commentato il Wall Street Journal - meglio essere avversari dell'America che suoi amici». Il presidente Obama aveva promesso che avrebbe conquistato l'amicizia di Paesi che, sotto Bush, erano avversarsi. Ma «la realtà è che l'America sta lavorando sodo per creare avversari laddove in precedenza aveva amici».

E così non posso che condividere l'analisi di Christian Rocca, qualche giorno fa su Il Foglio, secondo cui in questo momento «l'approccio» di Obama sembra «costellato da una serie di mosse azzardate senza la certezza di contropartite valide e da un'assenza di visione strategica globale che denota la difficoltà di formulare un'alternativa multilaterale seria ed efficace, dotata di un linguaggio chiaro e coerente, da contrapporre alla chiarezza morale dell'unilateralismo di George W. Bush». Cosa farà Obama se iraniani, russi e nordcoreani respingeranno le sue aperture? C'è da cominciare a temere che esiterà sul da farsi come sull'Afghanistan, invece di riconoscere che l'atteggiamento ostile dei nemici degli Stati Uniti non era provocato dall'"unilateralismo" di Bush, ma da deliberate scelte politiche di quei regimi che nessuna mano tesa e realpolitik può ammorbidire. E se a un certo punto bisognerà riconoscere che non era Bush il "cattivo", e che l'"Asse del Male" esiste per davvero? Verrà il tempo di smettere di sognare a occhi aperti e mani tese?

Monday, September 21, 2009

Via i burqa dall'Italia

Ci vuole una legge specifica che vieti burqa e niqab (e anche il velo nelle scuole, nelle università e in tutti gli edifici pubblici). La legge cui si è appellata ieri a Milano Daniela Santanchè, quella che vieta di girare in strada con il volto coperto, è inapplicabile al velo islamico, in quanto riconosciuto come «pratica devozionale» da sentenze sia della Cassazione che dei Tar, e da una circolare del Ministero degli Interni. Motivai il mio deciso "no" al burqa, e anche al niqab, quasi tre anni fa in questo articolo.

Che il burqa, o il niqab, sia davvero un simbolo religioso, è discutibile. Ed è ancor più discutibile che esistano donne che volontariamente li indossano. Quelle presunte volontà sono figlie di plagio, condizionamenti culturali, nel migliore dei casi, su persone che neanche sanno cosa significhi esprimere una propria volontà autonoma. A prescindere dalla presunta volontà di chi lo indossa, è un simbolo di segregazione, un modello antropologico di sottomissione della donna e, per questo, un'offesa alla sua dignità. E' incompatibile con i diritti fondamentali e l'uguaglianza dei sessi garantiti dalle costituzioni democratiche. Dietro di esso c'è tutto il sistema antropologico, giuridico, culturale e politico dell'islam integralista. Seppure in clandestinità o nel privato, verrebbe de facto legittimato l'impianto della sharia, e non saremmo in grado di tutelare i diritti delle donne islamiche che il velo invece non volessero indossarlo e che volessero liberarsi dalla condizione di sottomissione che vivono in famiglia.

Friday, September 18, 2009

Le guerre o si combattono o si subiscono

Ogni volta che uno dei nostri valorosi soldati muore o si ferisce in Afghanistan o altrove, qui in Italia si comincia a voler ridiscutere tutta la missione. Le chiacchiere, le ipocrisie e le dotte analisi militari e geopolitiche stanno a zero. La verità potrebbe essere molto più semplice. Sarò ingenuo, ma a me pare che la durata di una guerra sia inversamente proporzionale al numero di forze impiegate e all'intensità dei combattimenti (e, purtroppo, al numero di perdite). Minori sono i rischi che si accettano di correre e le risorse che si decidono di impiegare, maggiore sarà il tempo necessario per avere ragione del nemico. Ma al di sotto di una certa soglia di impegno, e oltre un certo numero di anni, il rischio è che senza neanche accorgersene non solo i tempi si dilatano e l'obiettivo si vede sfumare all'orizzonte, ma che non si riesca neanche più a contenere il nemico che prende coraggio dalla propria capacità di resistenza. Mi pare sia ciò che sta accadendo in Afghanistan.

Tanto che negli stessi Stati Uniti da tempo si dubita dei reali obiettivi della missione. Non è sufficientemente chiaro, rimproverano molti, se lo scopo ultimo sia la sconfitta totale e definitiva dei talebani e di al Qaeda, e il successo dell'operazione di nation building, cioè di rafforzamento delle nuove istituzioni afghane, o se la missione possa considerarsi conclusa anche in presenza di una certa attività di insorgenza da parte talebana, accontentandosi di avere a Kabul un governo "amico", seppure non in grado di controllare tutto il territorio. Senza la necessaria chiarezza sullo scopo ultimo della missione è difficile valutare i progressi e prendere decisioni sui mezzi da impiegare per raggiungerlo.

La sensazione è che finora gli Stati Uniti e gli altri Paesi Nato si siano accontentati di tenere impegnati i talebani e di braccare al Qaeda per impedirgli di organizzare attacchi in Occidente, ma non abbiano davvero cercato di distruggerli. Nei giorni scorsi l'amministrazione Obama ha mostrato ad alcuni senatori un documento in cui si chiariscono obiettivi e parametri per valutare i progressi della missione. Sembrano quelli più ambiziosi (e quindi potrebbero preludere all'invio di nuove truppe), anche se rimangono ancora un po' troppo generici.

Tra uno sforzo più concentrato nel tempo e di maggiore intensità ma più traumatico (in termini di vite umane) per le opinioni pubbliche, e uno più dilatato ma meno sanguinoso, la politica sembra aver scelto il secondo, ma le è davvero convenuto? Se da un lato una guerra ad alta intensità sarebbe risultata meno digeribile per il fronte interno, dall'altro le motivazioni sarebbero apparse più fresche e attuali di quanto lo siano oggi, mentre ora affiora una certa stanchezza, il successo è lontano e l'opinione pubblica si è scordata perché siamo in Afghanistan. Adesso ci troviamo in un vicolo cieco: lasciare è impossibile, perché tornerebbero al potere i talebani e ben presto al Qaeda ricomincerebbe a progettare attacchi contro l'Occidente; ma continuando così rischiamo un nuovo Vietnam.

Dunque, l'unica strada praticabile sembra quella di intensificare lo sforzo militare, ma se l'avessimo fatto dall'inizio ci saremmo almeno risparmiati questi 8 anni e le opinioni pubbliche sarebbero state meno stanche. Insomma, ciò che abbiamo voluto evitare all'inizio non possiamo più evitarlo: combattere sul serio. Tra l'altro, si tratta di una guerra asimmetrica, del tutto diversa da quelle classiche. Non ci troviamo di fronte un esercito appartenente ad un'entità statuale, quindi non c'è alcuna possibilità che il nostro nemico dichiari la sua capitolazione. I talebani e al Qaeda si batteranno finché non morirà l'ultimo di loro. In pratica, dovremo ucciderli tutti e non sottovalutare il fatto che dispongono di una lunghissima retrovia lungo i confini con il Pakistan.

P.S. Sarebbe bene anche abbandonare un'altra ipocrisia: finché l'uso della forza rimarrà "proporzionato" è difficile che l'equilibrio cambi a nostro favore; è con l'uso "sproporzionato" della forza che si vincono le guerre.

Grande baratto o scellerato appeasement?

C'è davvero solo da sperare, come scrive Max Boot, «che Obama abbia ricevuto qualche segreta concessione dai russi sul programma nucleare iraniano o su qualche altra pressante questione», perché se invece «spera semplicemente di suscitare la buona volontà nel Cremlino», allora siamo al «culmine dell'ingenuità». Quella dello scambio rinuncia allo scudo-sì russo alle sanzioni contro Teheran è un'ipotesi che neanche il Wall Street Journal, molto critico con la decisione di Obama, esclude del tutto.

Il nuovo piano, hanno spiegato Obama e il segretario alla Difesa Gates, è volto a contrastare le capacità militari iraniane in modo più immediato e più vicino geograficamente. Non c'era necessità di dispiegare uno scudo per missili balistici a lunga gittata, se su questo fronte, secondo quanto risulta all'intelligence, Teheran sta progredendo più lentamente di quanto si temeva. La priorità, in questo momento, è affrontare una minaccia più imminente: quella dei missili a corto e medio raggio che l'Iran sta sviluppando molto più velocemente. Come il missile Shahab III, che può raggiungere Israele e parte del Sud Europa e che nelle speranze iraniane potrebbe essere armato con testate nucleari.

Ma il WSJ e diversi commentatori non credono a questo argomento e ironizzano sul fatto che guarda caso le ultime informazioni di intelligence sui progressi del programma iraniano si prestano perfettamente alle intenzioni già manifestate mesi fa dall'amministrazione di accantonare il progetto di scudo dell'ex presidente Bush jr. Il «motivo più probabile», invece, scrive il WSJ è che l'amministrazione «spera di ottenere il sì della Russia in Consiglio di Sicurezza dell'Onu per sanzioni più dure nei confronti dell'Iran. Forse - ipotizza il quotidiano Usa - i russi hanno segretamente accordato questo 'do ut des', sebbene l'abbiano subito negato». La Russia, fa notare il WSJ, è solita scambiare «un pizzico di aiuto diplomatico alle Nazioni Unite per concessioni materiali da parte dell'Occidente». Questa volta la concessione è stata lo scudo antimissile, «ma la prossima volta - avverte il quotidiano - l'Occidente potrebbe essere indotto a barattare i governi filo-occidentali in Georgia e Ucraina».

E' la stessa preoccupazione del senatore repubblicano John McCain, ex avversario di Obama nella corsa alla Casa Bianca, che osserva come l'abbandono dello scudo veicoli un messaggio sbagliato, «proprio in un momento in cui le nazioni dell'Europa dell'Est temono sempre più il rinnovato avventurismo russo». D'altra parte, è sempre stato il «tragico fato dei Paesi dell'Europa centrale e orientale essere trattati come monete di scambio con la Russia», ricorda il WSJ. «Di questi tempi - conclude - meglio essere avversari dell'America che suoi amici». Il presidente Obama aveva promesso che avrebbe conquistato l'amicizia di Paesi che, sotto Bush, erano avversarsi. Ma «la realtà è che sta lavorando duramente per creare avversari laddove in precedenza aveva amici». Il quotidiano cita una lunga lista di esempi. A fronte delle aperture nei confronti dell'Iran, della Birmania, della Corea del Nord, della Russia e anche del Venezuela, registra i dissidi con Canada e Messico, Colombia e Corea del Sud, Israele, Giappone e Honduras.

Ma alcuni analisti pensano che invece di dare via libera alle sanzioni contro Teheran, Mosca potrebbe divenire ancora più intransigente, sostenendo che Washington stessa non ritiene più l'Iran una minaccia così grave, e che cinicamente potrebbe avere interesse a spingere Israele ad attaccare, così da mandare i prezzi del petrolio alle stelle e riempire in questo modo le casse del Cremlino svuotate a causa della crisi economica.

Per il New York Times, invece, il significato politico del nuovo sistema antimissile è un altro: «Piuttosto che concentrarsi in primo luogo nel proteggere gli Stati Uniti continentali, il nuovo piano sposta lo sforzo immediato sulla difesa dell'Europa e del Medio Oriente». Dai tempi delle "guerre stellari" di Reagan, ricorda il quotidiano Usa nell'analisi pubblicata oggi, la difesa antimissile è sempre stata una questione «più di politica estera che di tecnologia militare». Oggi, secondo il NYT, nelle intenzioni dell'amministrazione Obama ha una «nuova missione» politica: «convincere Israele e il mondo arabo che Washington si sta muovendo rapidamente per contrastare l'influenza dell'Iran, anche mentre apre a negoziati diretti con Teheran per la prima volta in trent'anni». Obama ora «può sostenere che lo scudo antimissile americano difenderà sia Israele che gli stati arabi, in particolare l'Arabia Saudita e l'Egitto».

Il segretario Gates ha spiegato che oltre agli incrociatori Aegis, per il nuovo scudo verranno dispiegati intercettori SM-3 con i relativi radar in Israele e nel Caucaso, senza però precisare esattamente dove. Secondo fonti militari israeliane, le sedi individuate sarebbero una base militare russa in Azerbaijan e una israeliana nel Negev. Proprio oggi, infatti, il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha evocato la possibilità di un unico sistema di difesa tra Stati Uniti, Nato e Russia, mentre il premier russo Putin ha accolto la decisione di Obama definendola «giusta e coraggiosa».

Ma al di là delle ragioni tecniche e militari, che possono anche essere fondate, concede Max Boot, il danno più grave provocato dalla decisione di Obama è politico. Aver dimostrato a Putin che l'intransigenza paga, poiché Stati Uniti ed Europa non hanno la pazienza e la determinazione per affrontare Mosca. «L'amministrazione ha indubbiamente ragione quando dice che la minaccia immediata posta dall'Iran riguarda più i missili a corto raggio, e che ci vorrà tempo prima che abbia missili capaci di colpire l'Europa». Quindi, «ha senso concentrarsi su una difesa antimissile a corto raggio, e anche per quelli a lungo raggio, non necessariamente per la massima efficacia le basi devono essere collocate in Europa orientale». «Tutto questo è vero - ammette Boot - ma anche irrilevante». Ciò che conta è il significato politico che la questione dello scudo aveva assunto per i russi.

Il motivo reale della loro contrarietà è che «pensano di avere un diritto divino a minacciare l'Europa» con le loro capacità nucleari e ritengono «destabilizzante» qualsiasi cosa interferisca. Lo scudo, spiega Boot, «non costituiva alcuna minaccia per il vasto arsenale russo e Putin lo sapeva bene». La sua insistenza sul tema era dettata dall'esigenza di convincere i russi dell'esistenza di una minaccia della Nato da cui solo un «uomo forte» poteva difenderli. La decisione di Obama manda «un pericoloso segnale di irrisolutezza e debolezza, simile a quello mandato da un altro giovane presidente Usa quando incontrò i leader sovietici a Vienna nel 1961». Allora Nikita Khrushchev, ricorda Boot, uscì da quell'incontro con Kennedy convinto che fosse «molto inesperto e persino immaturo». Il risultato fu la crisi dei missili a Cuba. «C'è il rischio che Obama stia mandando un simile segnale di debolezza».

Critico anche David J. Kramer, sul Washington Post, secondo il quale l'appeasement con la Russia «non funzionerà»:
Winning Russian help in dealing with Iran as a quid pro quo is also very unlikely. Yet Obama's efforts to placate the Russians come at the expense of U.S. relations with Eastern and Central European governments that are already uneasy about the U.S. commitment to their region. Worse, rewarding bad Russian behavior is likely only to produce more Russian demands on this and other issues.
Per Thomas Donnelly, direttore del Center for Defense Studies dell'American Enterprise Institute, è «un brutto giorno per la libertà», perché la decisione di Obama non riguarda «l'utilità di una difesa antimissile, né le relazioni con la Russia o l'Iran», ma prim'ancora «il ruolo degli Stati Uniti come garanti della sicurezza internazionale»:
The Obama Administration is proving to be not a collection of foxy tacticians, but a collective hedgehog that knows one big thing: political capital spent exercising American power abroad is capital lost in reshaping American society at home. But the United States cannot preserve the liberal international order if it adopts an economy-of-force approach. Nor will that order - or the general peace, prosperity and growth of liberty that are its distinguishing features - long survive.
(...)
To be sure, we have a larger and more immediate agenda with Moscow. But each item has become a measure of our weakness and weariness: the response to the invasion of Georgia, fear of further NATO expansion, access to Afghanistan, reneging on missile defenses and desperation to sign a new nuclear arms control treaty. As Russia declines, we’re trying to console it for its losses; China wonders how to feast on the remains. This is not good news for free states, or for the larger cause of freedom and independence.

Thursday, September 17, 2009

Grazie ragazzi! Non ci arrenderemo

Tenente Andrea Fortunato, 35 anni (Potenza); sergente maggiore Roberto Valente, 37 anni (Napoli); caporal maggiore Matteo Mureddu, 26 anni (Oristano); primo caporal maggiore Davide Ricchiuto, 26 anni (Santa Maria di Leuca); primo caporal maggiore Gian Domenico Pistonami, 28 anni (Orvieto); primo caporal maggiore Massimiliano Randino, 32 anni (Salerno).

Scambio Usa-Russia? La rinuncia allo scudo per il sì di Mosca alle sanzioni contro l'Iran?

Su il Velino

Una «buona notizia» questa mattina per Mosca. Il presidente americano Barack Obama ha deciso di ritirare il progetto di scudo antimissile le cui basi avrebbero dovuto essere installate in Polonia e Repubblica Ceca. Questa mattina a Varsavia una delegazione americana è arrivata al Ministero degli Esteri per informare ufficialmente il governo polacco della decisione, mentre il presidente Obama ha chiamato al telefono il premier ceco, Jan Fischer, per annunciargli il rinvio «a tempo indeterminato» del programma.

Ideato e sviluppato dalla precedente amministrazione Bush jr per difendere l'Occidente dai missili a lunga gittata iraniani, lo "scudo" è stato sempre avversato dalla Russia, che vi vedeva una provocazione inaccettabile ai suoi confini e all'interno di quella che una volta era la sua sfera d'influenza, ma che a Mosca è ancora percepita come tale. Nel 2008 Washington si era accordata con Varsavia per il dispiegamento su territorio polacco, entro il 2013, di dieci intercettori di missili balistici a lunga gittata, e con Praga per l'installazione di un potente radar in Repubblica ceca.
(...)
Non è da escludere però che l'accantonamento dello scudo da parte americana faccia parte di uno scambio più ampio: gli Usa abbandonano il programma dello scudo antimissile in Europa dell'Est; i russi aiutano gli Usa a fermare gli sforzi dell'Iran per dotarsi di testate nucleari e missili balistici. Solo due giorni fa il presidente russo Medvedev aveva per la prima volta aperto alla possibilità di nuove sanzioni nei confronti di Teheran, spiegando che «le sanzioni sono poco efficaci ma a volte inevitabili» e assicurando che la Russia «opererà responsabilmente» sul dossier nucleare iraniano. D'altra parte, l'ipotesi di uno scambio simile (rinuncia allo scudo per un "sì" di Mosca alle sanzioni contro Teheran), era già stata al centro di rivelazioni giornalistiche alcuni mesi fa. L'aprile scorso, infatti, il New York Times riportava di una lettera di Obama consegnata a mano direttamente al presidente russo Medvedev, nella quale il nuovo presidente americano avrebbe evocato l'idea dello scambio.

Lo scoop del quotidiano Usa fu prontamente smentito da fonti di entrambi i governi: la lettera esisteva, ma non vi sarebbe stata alcuna proposta di "scambio", solo indicazioni su come fare progressi nel dialogo tra le due superpotenze, e tra le altre anche sulle questioni dello scudo antimissile e del programma nucleare iraniano. Ma che nella lettera i due argomenti fossero collegati, oppure trattati separatamente, non sarebbe comunque la prima volta che la Casa Bianca si affida ad autorevoli organi stampa Usa (New York Times o Washington Post) come canali non ufficiali di comunicazione con Mosca. E' possibile quindi che dietro l'articolo del NYT ci fosse l'intenzione di sondare il terreno. E quanto meno la decisione di Obama annunciata oggi avvalora l'ipotesi di uno scambio.
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Wednesday, September 16, 2009

Afghanistan, finalmente Obama chiarisce gli obiettivi

Che sembrano quelli più ambiziosi (e quindi potrebbero preludere all'invio di nuove truppe), anche se rimangono un po' generici.

Su il Velino

L'amministrazione Obama ha mostrato oggi ad alcuni senatori, in un briefing a porte chiuse che si è svolto al Campidoglio, una bozza di tre pagine contenente la sua strategia per l'Afghanistan e il Pakistan. Il documento, marcato come "bozza" ma non secretato, contiene gli obiettivi e le priorità della missione e i parametri attraverso i quali l'amministrazione Usa intende valutare i progressi nella regione, dettagli di cui il Congresso aveva da tempo chiesto di venire a conoscenza. Elementi essenziali per assumere qualsiasi decisione sull'impiego o meno di ulteriori mezzi e truppe. Tra oggi e domani il Congresso acquisirà le valutazioni del generale Stanley McChrystal, comandante delle forze americane in Afghanistan, che rimaranno riservate, e qualsiasi richiesta di nuove truppe arriverà nelle prossime una o due settimane, ipotizza il presidente della Commissione Forze armate del Senato Usa, Carl Levin, uno dei senatori presenti all'incontro.

Oggi, incontrando alla Casa Bianca il premier canadese Stephen Harper, il presidente Barack Obama ha spiegato che non ci sarà alcuna «decisione immediata» sull'invio di nuove truppe in Afghanistan. Ribadendo la sua «determinazione a prendere la decisione giusta», Obama ha detto che deciderà dopo un «processo molto ponderato». Una delle critiche che molti analisti e commentatori hanno sempre mosso alle amministrazioni Usa - sia quella di Bush jr sia quella Obama - nella loro conduzione della guerra in Afghanistan, riguarda la mancanza di chiarezza sugli obiettivi della missione. Non è ancora sufficientemente chiaro se l'obiettivo finale sia la sconfitta totale e definitiva dei talebani, e il successo dell'operazione di nation building, cioè di rafforzamento delle nuove istituzioni statali afghane, o se la missione possa considerarsi conclusa anche in presenza di una certa attività di insorgenza da parte talebana, accontentandosi di avere a Kabul un governo "amico", seppure non in grado di controllare tutto il territorio.

Senza la necessaria chiarezza sullo scopo ultimo della missione, è difficile valutare i progressi e prendere decisioni sui mezzi da impiegare per raggiungerlo. Ma nella bozza che alcuni funzionari di alto livello dell'amministrazione hanno presentato oggi ai senatori, e che Foreign Policy ha ottenuto, vengono finalmente indicati tre obiettivi: «distruggere, smantellare e sconfiggere al Qaeda tra Afghanistan e Pakistan, e impedire il suo ritorno in quei Paesi in futuro»; lavorare per stabilizzare il Pakistan e per raggiungere «una molteplicità di obiettivi politici e civici» in Afghanistan. Ciascun obiettivo è corredato di parametri per valutare i progressi compiuti.
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Tuesday, September 15, 2009

Ci penserà Israele

Come molti hanno in questi mesi pronosticato, alla fine a togliere le castagne dal fuoco del nucleare iraniano potrebbe essere Israele. Così la pensa anche Bret Stephens, il cui editoriale di oggi sul Wall Street Journal s'intitola: «Obama sta spingendo Israele verso la guerra».

La strategia iraniana riguardo la risposta da dare all'offerta di dialogo rinnovata dal presidente Obama e dal gruppo 5+1 sul programma nucleare si sta delineando: deciso no in pubblico, dalle più alte cariche; ni più sottovoce, presentando funzionari di medio livello a qualche incontro, elargendo qualche concessione all'Aiea. Quanto basta per illudere l'Occidente ancora per qualche mese che una porta possa aprirsi. Un andazzo che sembra avvalorare l'ipotesi di Amir Taheri, secondo cui Teheran sa che tutto sommato le conviene una qualche forma di dialogo, sia pure strumentale, solo per prendere ulteriore tempo. Un anno o due di negoziati con Obama - è il ragionamento di Taheri - sarebbero utili all'Iran per acquisire tutti i mezzi tecnologici e industriali per dotarsi di un arsenale nucleare e per migliorare - con l'aiuto di Cina, India, Russia, Austria e Brasile - la sua industria di raffinazione, in modo da poter sopportare un eventuale embargo.

E infatti, a fronte di dichiarazioni pubbliche di estrema chiusura sul nucleare da parte dei leader supremi della Repubblica islamica - il presidente Ahmadinejad e l'ayatollah Khamenei - ad un livello più basso qualcosa si sta muovendo. Il capo negoziatore Jalili ha accettato di incontrare il primo ottobre prossimo i rappresentanti del gruppo 5+1, i quali per preparare l'incontro si riuniranno a New York in occasione dell'apertura dell'Assemblea generale dell'Onu, quando tra l'altro è atteso l'intervento di Ahmadinejad. Tra squilli di tromba i mainstream media già annunciano l'inizio dei negoziati, ma le cose stanno molto diversamente e anche l'amministrazione Obama sembra cauta. L'Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e di sicurezza, Javier Solana, aveva chiesto a Jalili un incontro probabilmente per comprendere meglio il significato del «deludente» pacchetto di proposte inviato da Teheran, in cui non si menziona il programma nucleare. Per capire, insomma, se va intepretato come un "no".

L'incontro del primo ottobre, probabilmente in Turchia, non rappresenta quindi un inizio formale dei negoziati sul dossier nucleare iraniano. «Pensiamo di affrontare di petto la questione del mancato rispetto dei loro obblighi», ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato Ian Kelly. Ma «non abbiamo intenzione di iniziare un intero nuovo processo; andremo a sederci e avremo l'occasione di spiegare loro direttamente qual è loro scelta». Per gli Stati Uniti a capo della delegazione ci sarà il sottosegretario agli Esteri William Burns.

Ma già si intravede il copione dei prossimi mesi: dopo qualche settimana di annusamenti per capire se davvero Teheran ha scelto il dialogo, con l'Occidente abilmente impantanato nel sondare ogni minimo spiraglio, Usa e Ue adotteranno nuove sanzioni (forse, ma è improbabile, anche sui prodotti petroliferi raffinati, come benzina e gasolio, di cui Teheran è bisognosa). Russia e Cina si opporranno e quindi l'Iran potrà tranquillamente aggirarle. Intanto, il tempo trascorrerà velocemente e arriverà il momento in cui Israele non potrà più permettersi di aspettare e attaccherà gli impianti nucleari iraniani. Forse la prossima primavera. D'altronde, il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, aveva chiesto al premier Netanyahu di aspettare l'esito della "mano tesa" di Obama e di far condurre i giochi agli Usa senza intromettersi, ma non ha negato in linea di principio il diritto di Israele a difendersi preventivamente, né il via libera dell'America.

«Più gli Usa ritarderanno ad agire duramente nei confronti di Teheran, più è probabile che Israele attacchi quanto prima», osserva Stephens. Forse Obama pensa di lasciare che sia Israele a risolvere il problema, per poi unirsi al coro di condanne internazionali per non dare l'impressione di aver avallato l'attacco? Probabile, ma secondo Stephens non è nell'interesse degli Stati Uniti che Israele sia «lo strumento del disarmo dell'Iran». Il fatto è che presumibilmente un attacco di Israele potrà solo ritardare il nucleare iraniano, non azzerarlo come forse può riuscire a fare la potenza di fuoco americana. E gli effetti sul prezzo del petrolio sarebbero imprevedibili, così come la rappresaglia iraniana, che potrebbe coinvolgere obiettivi americani, o interessi strategici americani in Iraq e nel Golfo persico. Ma soprattutto, conclude Stephens, «sarebbe come abdicare alle responsabilità di superpotenza appaltare a un altro stato, anche se stretto alleato, le questioni di guerra e di pace».

Monday, September 14, 2009

Campi, la toppa peggiore del buco

Lanciato il sasso, a riparare le vetrate infrante da Fini è il direttore di Fare futuro, Alessandro Campi, con questo editoriale sul web magazine della fondazione, dal titolo "Fare politica, oltre il presentismo", in cui assicura che Fini «non abbandonerà mai Berlusconi» e che «il Popolo della libertà è e rimane il suo partito», e in cui si dedica ad un'analisi della strategia politica del presidente della Camera. Fini sarebbe consapevole di non avere alcuna convenienza «ad apparire come colui che colpisce alle spalle il suo antico alleato», l'elettorato «non apprezzerebbe quello che a tutti gli effetti sarebbe un tradimento».

Fini vorrebbe il Pdl «diverso da come è attualmente». Non si può dar torto a Fini quando avverte il problema del passaggio da una situazione in cui la gente vota solo e soltanto Berlusconi, ad una nella quale impari a votare il Pdl. Un partito capace di «dare continuità storica al berlusconismo, farlo diventare una famiglia politica stabile» è - o dovrebbe essere - nell'interesse di tutti. A questo punto però sorgono due questioni. Una riguarda la forma-partito. C'è da chiedersi, cioè, se il «partito vero» come lo intendono Fini e Campi sia davvero la soluzione più idonea nella politica di oggi; l'altra, riguarda il modo scelto da Fini per dare, come dice Campi, un futuro al berlusconismo, su cui ho già espresso i miei dubbi qui e qui.

Scendendo su un terreno appena un po' più concreto, Campi si produce in un elenco di soggetti con i quali a suo avviso il Pdl sbaglia a polemizzare:
«Si sospetta degli industriali perché dialogano con la Cigl. Si polemizza con la Chiesa. Si inveisce contro il culturame come ai tempi di Scelba. Si considerano i giornali un covo di sovversivi. Si mortifica il pubblico impiego con le campagne contro i fannulloni. Si inveisce contro il sistema bancario. Si vede nella magistratura una minaccia all'ordine costituito. Si impreca contro i 'poteri forti'. Si trascurano le forze dell'ordine per fare posto alle ronde. Si trattano gli immigrati come ospiti indesiderati. Si tolgono risorse alla scuola nella convinzione che tanto i professori votino tutti a sinistra».
Un elenco indicativo: industriali, sindacati, Chiesa, intelligentsia, giornali, pubblico impiego, banche, magistratura, scuola. Qui proprio non ci siamo. Si tratta di istituzioni/soggetti sociali iperprotetti, in alcuni casi vere e proprie caste, che rendono inefficiente la nostra economia (e il nostro welfare) e la nostra pubblica amministrazione, non di rado esercitando un indebito potere di ricatto sulla politica. Per lo più, la grande industria e i sindacati, il pubblico impiego, il "culturame", sono per la conservazione economico-sociale in modo da perpetuare i propri privilegi a scapito dei ceti produttivi del Paese.

Su questo Campi ha torto marcio e se «dare continuità storica al berlusconismo» significa allearsi con questi "poteri", allora meglio il «diluvio». Proprio perché ha scelto di allearsi ad essi, ciò che ha ottenuto il centrosinistra nelle sue varie formule è esattamente «isolamento politico ed elettorale». Sarebbe il tradimento del berlusconismo, che pur non avendo mantenuto le sue promesse, è stato ed è una spinta al cambiamento.

Le prossime mosse di Rutelli fuori dal Pd

Su il Velino OreSedici
Francesco Rutelli smentisce l'indiscrezione di questa mattina, sul Corriere, secondo cui nel pamphlet che sta per dare alle stampe ci sarebbe il suo «addio al Pd». Il libro, per il quotidiano di via Solferino, si concluderebbe con l'annuncio della «svolta» di Rutelli verso il «centro»: l'Udc. «Posso semplicemente dire che questa informazione-supposizione non è vera», replica l'ex sindaco di Roma. Il mistero sul contenuto del suo libro, e sulle sue reali intenzioni, si infittisce. Si avvicina per leader "incompiuti" come Casini, Fini e lo stesso Rutelli, l'ora di decidere cosa fare da grandi, ma lo scenario che li vede tutti insieme appassionatamente in un "Grande Centro" post-berlusconiano, alternativo sia al Pdl+Lega che al Pd, è un po' fantasioso. Fini si è già smarcato. E Rutelli, con la smentita di oggi, avverte che si sta correndo un po' troppo. Fini e Rutelli, ciascuno nel proprio campo, sono i grandi scontenti dell'attuale equilibrio di potere nei due "poli", ma con i loro movimenti cercano di riguadagnare peso politico, piuttosto che scardinare il bipolarismo, come vorrebbe Casini.

Quale, dunque, il piano di Rutelli? Non andrà al Congresso del Pd solo per uno «scioccante saluto». Aspetterà la conclusione e se Pierluigi Bersani, come sembra, dovesse uscire vincitore, solo allora, il giorno dopo, annuncerà la sua fuoriuscita dal Pd (sotto i suoi occhi diventato qualcos'altro), lancerà un soggetto suo, una "nuova Margherita", e si metterà alla finestra con uno sguardo lungo: le prossime politiche. Nella speranza che si creino le condizioni per uno spazio di centro in cui assumere, insieme a Casini, il ruolo di protagonista che nel Pd non può più recitare. In questo caso, secondo i suoi esegeti, Rutelli potrebbe persino rendersi funzionale al progetto di Bersani (e D'Alema): rifare indisturbati i Ds e allearsi con una "gamba" centrista. Al momento giusto, in Rutelli troverebbero un prezioso "pontiere".
Se questo fosse l'esito - Pd = Ds, alleato a una "nuova Margherita" - sarebbe un palese ritorno al passato e sancirebbe il definitivo fallimento del progetto originario del Pd.

Friday, September 11, 2009

Teheran non risponde, Usa e Ue pensano a sanzioni unilaterali

Il giudizio di Stati Uniti e Unione europea sul pacchetto di proposte presentato mercoledì dall'Iran al gruppo 5+1 è «negativo» e prende quota, quindi, l'ipotesi di sanzioni unilaterali Usa-Ue, non in ambito Onu, perché Russia e Cina rimangono contrarie. Il documento presentato da Teheran, infatti, sia per Washington che per Bruxelles «non risponde alle questioni chiave». L'Iran si offre di discutere di tutto, tranne di ciò che all'amministrazione Obama, e alla comunità internazionale, sta veramente a cuore: il suo programma nucleare.

Gli iraniani propongono addirittura un piano globale per il disarmo nucleare e la nonproliferazione, forme di cooperazione sull'Afghanistan, sull'energia e sul commercio, sulla lotta al terrorismo, al traffico di droghe, all'immigrazione illegale e al crimine organizzato. Su tutto, insomma, sono pronti a «negoziati onnicomprensivi e costruttivi». Ma il documento, intitolato "Cooperazione per la pace, la giustizia e il progresso", di cui il sito web ProPublica ha diffuso una copia, non contiene alcuna novità rispetto alle argomentazioni con le quali Teheran risponde da anni alle preoccupazioni della comunità internazionale circa il suo programma nucleare.

D'altra parte, non si può certo dire che i leader iraniani non l'avessero già fatto capire in precedenza. Il documento sembra rispecchiare alla perfezione la posizione ribadita solo pochi giorni fa dal presidente Ahmadinejad, che dichiarava «chiusa» la questione del nucleare iraniano e che rilanciava, invece, il dialogo su tutte le principali «sfide globali che sono di fronte all'umanità». Un evidente tentativo da parte di Teheran di essere accettata nel consesso delle grandi potenze, per vedersi a sua volta legittimata come grande potenza. E oggi è intervenuta anche la Guida Suprema, l'ayatollah Khamenei, facendo del "no" a qualsiasi cedimento sul nucleare una questione di sopravvivenza stessa del regime. «Bisogna restare fermi sulle posizioni per difendere il diritto al nucleare. Qualsiasi compromesso sui diritti della nazione, che riguardi il nucleare o altro, equivarrebbe al declino politico».

Eppure, Amir Taheri, sul New York Post, ancora non esclude la possibilità di una risposta positiva - sia pure strumentale, solo per prendere ulteriore tempo - da parte di Teheran alla mano tesa di Obama. In fondo, è il suo ragionamento, un anno o due di negoziati con Obama sarebbero utili all'Iran per acquisire tutti i mezzi tecnologici e industriali per dotarsi di un arsenale nucleare e per migliorare - con l'aiuto di Cina, India, Russia, Austria e Brasile - la sua industria di raffinazione, in modo da poter sopportare un eventuale embargo.

Per adesso, in attesa del discorso di Ahmadinejad all'apertura della nuova sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, c'è il documento fatto pervenire da Teheran alle potenze del 5+1. Ed è «inadeguato» secondo la Casa Bianca, perché «non risponde veramente alla nostra preoccupazione centrale, che riguarda le ambizioni nucleari iraniane», spiegava ieri un portavoce del Dipartimento di Stato Usa. Ma anche quello giunto oggi dall'Europa è un «giudizio molto negativo». Il documento «non contiene nulla di nuovo», mentre «l'Iran sta intensamente progredendo con il suo programma nucleare», osservano fonti diplomatiche europee.

A questo punto, rivelano le stesse fonti, l'Ue dovrà considerare come sostenere l'azione degli Usa, tenendo conto che Russia e Cina non sembrano propense ad adottare nuove sanzioni. Tradotto, vuol dire che l'Europa sarebbe pronta ad adottare nuove e più dure sanzioni nei confronti di Teheran, anche se in accordo solo con gli Stati Uniti e non in ambito Onu, dove permane il "no" di Russia e Cina, membri del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto. Sembra improbabile, comunque, visti gli enormi interessi energetici ed economici coinvolti, che tra i 27 emerga un consenso per un embargo sulle esportazioni in Iran di prodotti raffinati come benzina e gasolio, come invece si ipotizza a Washington.

Il documento iraniano dev'essere ritenuto debole anche da Mosca, se oggi il presidente russo Putin è intervenuto - oltre che per ribadire il "no" della Russia a nuove sanzioni e l'inaccettabilità di un eventuale attacco militare contro l'Iran - per esortare gli iraniani a collaborare. L'Iran, ha spiegato Putin, ha diritto al nucleare civile, ma «deve capire in quale regione del mondo» si trova, e quindi «deve dimostrarsi responsabile e tenere conto delle preoccupazioni di Israele. Intendo dire - ha precisato Putin - che sul programma nucleare deve dare prova di contenimento».

Lotta al mercatismo e mafia, così Fini va a sbattere

E' stato molto deludente il discorso di Fini ieri a Gubbio. Un Fini interessato davvero ad un fertile dibattito interno, avrebbe lanciato un paio di temi su cui a suo avviso è carente la riflessione all'interno del partito e del governo (che so, l'immigrazione o la bioetica, le riforme istituzionali o la vita interna al partito), avrebbe approfondito per bene quelli, anche scontrandosi con le visioni a lui contrapposte. E invece no. Ha toccato un'infinità di argomenti, ma superficialmente, senza approfondirli davvero, inanellando una serie di slogan provocatori e avvalorando così il sospetto che voglia solo concorrere con altri a demolire la leadership di Berlusconi, in un modo che ricorda fin troppo da vicino l'azione di logoramento portata avanti nella legislatura 2001-2006 dall'Udc di Casini e Follini (e per la verità, almeno in parte anche da lui stesso).

C'è un'espressione usata ieri da Fini che più di tutte richiama il lavorio di chi, all'interno di una coalizione, si sente insoddisfatto degli equilibri di potere e strattona per cambiarli: «Cambio di marcia». Quante volte l'abbiamo sentito invocare da un Casini o da un Follini, ma anche all'interno di quell'armata brancaleone che fu l'Unione prodiana?

Va bene tutto. Invocare più democrazia interna, più dibattito. Sono in molti a ritenere a ragione che nel Pdl ci sia bisogno di più democrazia e dibattito interno. Sull'immigrazione e il biotestamento, come ho già detto, sono contento dei ripensamenti di Fini. Ma neanche la politica economica del governo, stando a quello che ha detto ieri a Gubbio, gli sta bene. Però non la vorrebbe più liberale. Altro che leader di una destra aperta e moderna! La vorrebbe più "sociale", avrebbe voluto nelle finanziarie più spesa pubblica, proprio come Bersani, che rimprovera al governo di non aver fatto abbastanza perché non ha distribuito «soldi veri».

Fini - mi auguro che se ne siano accorti i miei amici liberali che in lui credono di aver trovato una voce che li rappresenti - ha definito «geniale» l'intuizione della «lotta al mercatismo», ma poi ha accusato Tremonti di non fare abbastanza: «Bisogna tradurla» e «non credo che l'ultima Finanziaria sia stata un esempio di lotta alle degenerazioni del mercato», ha aggiunto. E sembrava proprio Bersani quando ha in pratica accusato il governo di negare la crisi, e quando ha lamentato che «nell'ultima Finanziaria c'è ben poco di politiche autenticamente di solidarietà sociale».

Ma dove Fini è scivolato di brutto è in quel passaggio sulle stragi di mafia. O è un ingenuo irresponsabile, o davvero ha deciso di partecipare all'ennesima campagna giornalistico-giudiziaria che si sta preparando contro il premier. Ma quali «elementi nuovi»? Rimproverando al Pdl di dare l'impressione di temere l'accertamento della «verità», Fini finge di non sapere che si tratta dei soliti magistrati militanti, come Ingroia e Scarpinato, che cercano di rimestare tra i rifiuti dei pentiti per riesumare vecchi teoremi politici contro Berlusconi. Ed è grave sia che non lo abbia capito, sia che finga. Si leggesse piuttosto il commento di oggi di Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera. Forse si è reso conto di averla sparata grossa e con le dichiarazioni di stamattina Fini è sembrato voler correggere il tiro.

Un altro anno ancora

Un altro anno è passato e si rafforzano in me le sensazioni che l'anno scorso mi indussero a scrivere questo post. Vi ripropongo la domanda: si può parlare, secondo voi, di una "generazione 11 settembre"? Almeno in Rete, ha qualche significato?

Thursday, September 10, 2009

Se Fini è affetto da "casinismo"

No, non condivido l'entusiamo di certi miei amici liberali per Fini, e di conseguenza le loro difese dall'attacco che ha ricevuto da Feltri. Ho letto in questi giorni molti post, commenti, l'intervista a Della Vedova. Certo, su alcuni temi mi fa piacere che Fini rappresenti posizioni che ad oggi nel Pdl sono decisamente sottorappresentate - ma che non mi sentirei di definire minoritarie (forse tra i militanti e i dirigenti, ma non certo tra gli elettori). Ma da qui a descrivere Fini come leader di una destra moderna e liberale ce ne passa. Il problema, per farla breve, è che a me pare che Fini per esistere politicamente cerchi di sfruttare ogni minima occasione per differenziarsi da Berlusconi. Se Berlusconi e il governo dicono "A", lui subito dice "B", e viceversa, a prescindere dal merito e dalle convinzioni. Mi pare insomma che stia usando il suo ruolo di presidente della Camera come fecero prima di lui - con scarsissimi risultati - sia Casini che Bertinotti.

La conflittualità tra Fini e Berlusconi si sviluppa su tre piani, che per essere obiettivi occorre tenere distinti. E' comprensibile che da presidente della Camera Fini si trovi molte volte a dover difendere le prerogative del Parlamento nei confronti di certe iniziative del governo e di certe lamentele del premier sulla pletoricità dei lavori parlamentari. Su questo piano, a prescindere dal merito (l'effettiva inadeguatezza e arretratezza dell'impianto costituzionale), una certa dialettica tra governo e presidenza della Camera è fisiologica.

Riguardo alcuni temi, Fini sta cercando di rappresentare posizioni di una destra più aperta e moderna, non ho mancato di sottolinearlo in occasione del Congresso del Pdl. Sull'immigrazione, a fronte di fermezza e rigore con i clandestini e i criminali, si preoccupa giustamente dei temi dell'integrazione e della moderna cittadinanza. E lo fa correttamente, cioè non cedendo al relativismo culturale e al politically correct della sinistra salottiera, ma da destra, prendendo i valori, le leggi e la cultura nazionali come fattori unificanti (alla Sarkozy, si potrebbe dire) per chi vive, lavora, paga le tasse in Italia, a prescindere dalla religione e dal colore della pelle.

Posizioni più aperte e moderne Fini le ha espresse anche sull'omosessualità e la bioetica, ed è più volte intervenuto in difesa della laicità dello stato. Nei giorni in cui il governo decideva di varare un decreto per impedire che a Eluana Englaro venisse "staccata la spina" - decreto che però il presidente Napolitano non firmò ritenendolo non conforme alla Costituzione - Fini si espresse per il rispetto della decisione del padre di Eluana. Una posizione non solo certamente legittima, ma che interpretava i sentimenti di larga parte degli italiani e dello stesso popolo del Pdl, come indicano i sondaggi. Sui temi della bioetica c'è nel partito piena libertà di coscienza, ha ricordato lo stesso Berlusconi parlando ieri sera alla Festa Atreju, dei giovani ex di An. La sensibilità laico-liberale di Fini non è isolata all'interno del Pdl e non è estranea, anzi ha «piena cittadinanza», come ha osservato Il Foglio, nella cultura politica di «un centrodestra moderno».

Eppure, non si può non notare come non molto tempo fa su tutti questi temi Fini esprimeva posizioni diametralmente opposte. Non si tratta di mettere in discussione la svolta di Fiuggi e inchiodare Fini al suo passato post-fascista ed ex-missino. Parliamo di un'era politica molto più vicina a noi. Quando sull'immigrazione la sua posizione era sovrapponibile a quella di Bossi, tanto da firmare insieme la famosa legge Bossi-Fini ancora in vigore; quando sollevava dubbi circa l'idoneità degli omosessuali a insegnare nelle scuole; quando, soprattutto, neanche due anni fa sosteneva che Piergiorgio Welby, essendo cosciente, non poteva chiedere di morire, e che chi lo «assecondasse» doveva essere considerato «un omicida», perché «la vita non è nella disponibilità di un uomo».

Cambiare idea è legittimo, ci mancherebbe altro, anche nell'arco di soli due anni, ma quando si cambia idea dopo aver assunto posizioni così nette ed estreme, si dovrebbe in qualche modo renderne conto, spiegare cioè i motivi del ripensamento, non fare finta di non aver mai detto certe cose. Se a ciò si aggiunge che all'epoca Fini non era presidente della Camera ma era all'opposizione insieme a Berlusconi e che al governo c'era il centrosinistra di Romano Prodi, allora sulla genuinità di certi improvvisi ripensamenti è lecito nutrire qualche dubbio.

Vorrei far notare inoltre ai miei amici liberali che in economia Fini non ha avuto alcun ripensamento da "destra aperta e moderna", liberale, bensì pare perfettamente a suo agio con la politica socialdemocratica della coppia Tremonti-Sacconi.

Ma c'è anche un terzo piano, nella conflittualità tra Fini e Berlusconi, ed è quello che Feltri ha rimproverato a Fini. Il direttore de il Giornale infatti non ha contestato al presidente della Camera le sue prese di posizione in difesa delle prerogative parlamentari, o le sue idee sul caso Englaro (che per altro Feltri condivide), ma il suo assordante silenzio per tutti i mesi in cui il premier ha ricevuto attacchi sulla sua vita privata. Il fatto che Fini abbia deciso di spendere le sue preziose parole solo sul caso Boffo, parlando di "killeraggio", ha fatto giustamente "incacchiare" Feltri. Ecco, questo è l'unico atteggiamento di Fini - di fregarsi le mani dinanzi ai tentativi di demolizione dell'immagine del premier - controproducente.

Intendiamoci, nel Pdl manca un dibattito di idee libero da pregiudizi e condizionamenti. Ciò si deve in parte alla forte leadership di Berlusconi, ma anche all'esperienza di governo in corso e alla campagna di attacchi - sulla vita privata e come al solito sulle vicende giudiziarie (adesso si apre addirittura il fronte sulle stragi di mafia) - da parte della stampa di sinistra e di un'opposizione dedita solo all'antiberlusconismo, che costringono per riflesso il Pdl a "fare quadrato" su tutte le decisioni, anche su quelle che richiederebbero maggiore riflessione e dibattito interno. Ben venga, dunque, un sano confronto tra idee anche molto diverse tra di loro - magari anche sulla politica economica! - che non solo arricchiscano il partito ma tolgano spazi politici all'opposizione, come a volte sembra che avvenga grazie alla disputa Lega-Fini.

Fini fa benissimo a cercare di costruirsi un profilo e un'identità politica che vada oltre i confini di An, e se possibile finanche oltre i confini attuali del Pdl, che da partito maggioritario, che ambisce a superare il 40% dei consensi, deve mirare a rappresentare tutte o quasi le istanze della società. Tuttavia, Fini dovrebbe tenere conto di alcuni fatti: che 1) la leadership di Berlusconi è incontendibile, lo è de facto prima ancora che per volontà del Cav., nel senso che gli elettori del centrodestra con approverebbero una leadership costruita in contrapposizione e in ostilità a Berlusconi, tanto più se significa impegnarsi in un'opera di estenuante logoramento dell'efficacia dell'azione di governo; e che 2) il successo del governo conviene allo stesso Fini, dal momento che in caso di fallimento, forse riuscirebbe a succedere a Berlusconi nella leadeship del Pdl, ma non alla guida del Paese. Un successo pieno di questa esperienza di governo conviene a chiunque voglia succedere a Berlusconi nel centrodestra. Solo in quel caso infatti un leader inevitabilmente più fragile del Cav. potrebbe realisticamente ambire al governo del Paese oltre che al vertice del partito.

Wednesday, September 09, 2009

Se i missili iraniani finiscono in Venezuela

Su il Velino

Nei recenti colloqui a Teheran tra il presidente venezuelano Hugo Chavez e quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad si sarebbe discussa - come riportato lunedì scorso da il Velino - anche l'ipotesi di un "backup" del programma nucleare iraniano, cioè di trasferire o replicare in Venezuela gli impianti e le strutture chiave del programma, per salvaguardarlo da eventuali attacchi americani o israeliani. Una sorta di copia di "backup", appunto. La prospettiva di missili iraniani installati in Sud America non dovrebbe essere esclusa a cuor leggero. Lo scrive oggi il Wall Street Journal, ospitando nelle sue pagine ampi stralci di un intervento sull'"asse" Iran-Venezuela pronunciato dal procuratore distrettuale della contea di New York (Manhattan), Robert M. Morgenthau, alla Brookings Institution, think tank progressista vicino ai Democratici. Il procuratore Morgenthau è un profondo conoscitore delle attività iraniane all'estero.

Sotto le lenti attente del suo ufficio passano infatti i movimenti finanziari sospettati di riciclaggio di denaro iraniano e di violazione delle sanzioni finanziarie americane e internazionali nei confronti di Teheran. Nel maggio scorso è stato ascoltato sulla minaccia iraniana dalla Commissione Affari esteri del Senato Usa, alla quale ha riferito che il suo ufficio ha scoperto un «diffuso sistema di pratiche illegali e fraudolente impiegate da enti iraniani per muovere denaro in tutto il mondo senza essere scoperti, anche attraverso banche che operano nella mia giurisdizione - Manhattan». Quella tra Iran e Venezuela, ha spiegato Morgenthau alla Brookings, è una «cordiale partnership finanziaria, politica e militare», che si basa su di un «comune sentimento antiamericano». «E' giunto il momento di elaborare politiche per assicurare che questa partnership non produca frutti avvelenati». Le prove raccolte dal suo ufficio sui movimenti iraniani in America Latina lo inducono a lanciare l'allarme.
(...)
A preoccupare Morgenthau sono le notizie giunte al suo ufficio secondo cui «negli ultimi tre anni un certo numero di fabbriche di proprietà e controllo iraniani sono spuntate in zone remote e non sviluppate del Venezuela, ideali per ubicarvi una produzione illecita di armi». Ancora non si hanno prove precise dell'attività effettivamente condotta in queste fabbriche, ma c'è di che esserne allarmati se nel dicembre del 2008, ha aggiunto ancora Morgenthau, «autorità turche hanno trattenuto una nave iraniana diretta in Venezuela dopo aver scoperto attrezzatura da laboratorio per la produzione di esplosivi in 22 container contrassegnati come parti di trattori».
(...)
Sulla base delle informazioni in possesso del suo ufficio, il procuratore Morgenthau ritiene che gli iraniani, con l'aiuto del governo di Chavez e attraverso il sistema finanziario venezuelano, possano riuscire ad aggirare le sanzioni economiche... Secondo Morgenthau, Stati Uniti e comunità internazionale "devono considerare molto attentamente i modi per monitorare e sanzionare il sistema bancario del Venezuela", attraverso il quale l'Iran riuscirebbe a effettuare i pagamenti necessari per il suo "shopping" nucleare.
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Monday, September 07, 2009

Chavez-Ahmadinejad, spunta l'ipotesi di un "backup" del programma nucleare

Su il Velino

Molto si è parlato, in occasione del vertice dello scorso weekend tra il presidente venezuelano Hugo Chavez e quello iraniano Mahmoud Ahmadinejad, del "patto d'acciaio" che lega i due leader in funzione antiamericana. Particolarmente significativo, tra gli accordi firmati il 5 e il 6 settembre a Teheran, quello che impegna il Venezuela a fornire all'Iran 20mila barili di benzina al giorno. Anche se l'Iran è un paese ricco di petrolio e gas, la sua industria della raffinazione è molto debole, ma l'accordo è significativo soprattutto perché tra le nuove sanzioni che l'amministrazione Usa potrebbe prendere in considerazione se Teheran non dovesse rispondere, o dovesse rispondere negativamente, all'offerta di dialogo sul nucleare, c'è anche un possibile embargo sull'esportazione in Iran di prodotti petroliferi raffinati, inclusi carburanti come benzina e gasolio. In quel caso i 20 mila barili di Chavez tornerebbero davvero molto utili a Teheran. Ma oltre agli investimenti reciproci per lo sviluppo dei propri giacimenti di gas e petrolio, per un volume d'affari di oltre 1,5 miliardi di dollari, Iran e Venezuela starebbero rafforzando anche la loro collaborazione sul nucleare.
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Una Fox News per il centrodestra

«Al centrodestra servirebbe una Fox news italiana». Da leggere il Taccuino di questa settimana di Daniele Capezzone, su il Velino:
Contrariamente a chi pensa che le tv berlusconiane siano un fucile perfettamente oliato e carico in funzione politico-elettorale... io credo che al centrodestra italiano manchi drammaticamente uno strumento televisivo (e/o radiofonico) da battaglia. Servirebbe una Fox News italiana, e forse è un triplo scandalo parlarne: perché apparirà oltraggioso, per qualcuno, il solo pensare ad un irrobustimento mediatico del centrodestra; perché i fautori del politically correct ci spiegherebbero che Fox News è più a destra di Gengis Khan; e perché - vi dirà qualche berlusconiano ortodosso - la Fox appartiene a Rupert Murdoch, il cui gruppo appare oggi globalmente orientato in modo ostile rispetto alla maggioranza politica affermatasi in Italia. Eppure il caso Fox andrebbe studiato e vivisezionato, e invece non sorprende che, con l'unica consueta eccezione rappresentata da un'attenta analisi di Christian Rocca, gli osservatori italiani sembrino così distratti rispetto a quel "paradigma".
Nonostante infatti non si possa certo dire che a Berlusconi manchino tv e tg "amici", questi "amici" non fanno quasi mai informazione, e il più delle volte annoiano il pubblico, mentre Fox News sta sulla notizia, parte dai fatti e offre inchieste e approfondimenti informatissimi, fa parlare esperti, incalza i Democratici senza sconti.

Ahmadinejad non apre, chiude. La cantonata dei media italiani

Teheran "apre" a un dialogo che la legittimi come grande potenza (nucleare)

Altro che apertura, la solita mossa ambigua, la solita provocazione. Contrariamente da quanto sbandierato dai maggiori siti di informazione italiani, dal presidente iraniano Ahmadinejad non è giunta alcuna "apertura", né alcunché di nuovo. Quelle espresse oggi sono posizioni già più volte ribadite in passato, compreso quell'invito a un dibattito televisivo rivolto al presidente americano Obama, così come all'allora presidente Bush: «Once again, I announce that I'm ready for debate and dialogue in front of global media on global issues».

Non una richiesta di incontro, come suggerito da molti titoli, ma una patente provocazione. Chiedere un incontro non è la stessa cosa che sfidare in un dibattito televisivo, ma le nostre agenzie e i nostri giornali online sembrano non comprendere la differenza. Titoli praticamente identici su Corriere.it (Ahmadinejad apre: «Sono pronto a incontrare Obama») e Repubblica.it (Ahmadinejad apre al dialogo: «Pronto a incontrare Obama»). Non molto diversamente le nostre agenzie di stampa. Ma la stessa notizia veniva lanciata in modo molto diverso da Reuters (Iran rules out [esclude] talks on its nuclear "rights"), AP (Ahmadinejad: Iran won't halt nuclear work) e AFP (Ahmadinejad bars talks on Iran's nuclear rights).

Piuttosto che mettere in evidenza la proposta-provocazione di Ahmadinejad, che i nostri media interpretano erroneamente come un'apertura, le più autorevoli agenzie di stampa internazionali sottolineano la chiusura: «From our view point our nuclear issue is finished». Più chiaro di così: «Dal nostro punto di vista, la questione del nucleare iraniano è chiusa. Continuiamo il nostro lavoro nella cornice dei regolamenti internazionali e in stretta cooperazione con l'Aiea», ma «non negozieremo mai sugli ovvii diritti della nazione iraniana».

La sostanza di quanto ha detto Ahmadinejad stamattina è che l'Iran non fermerà l'arricchimento dell'uranio né negozierà sui suoi "diritti" nucleari, ma è pronto - è qui l'ambiguità del messaggio - a sedere con le potenze mondiali e a discutere con esse delle «sfide globali che sono di fronte all'umanità», anzi addirittura con l'obiettivo di «riformare le relazioni globali». Un po' come dire che l'Iran si sente grande potenza e ambisce a sedere nel consesso delle grandi potenze, per modificare l'ordine internazionale. Insomma, il dialogo cui il presidente Ahmadinejad ha "aperto" è quello sui grandi «temi globali», per vedere il suo Iran legittimato come grande potenza, non il dialogo sul programma nucleare iraniano, questione che invece l'Iran ritiene «chiusa».