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Friday, October 31, 2008

L'indice dei libri occultati

Vi racconto come l'acquisto di un libro può diventare una micro analisi socio-politica. L'altro ieri ho acquistato il libro di Roberto Perotti, "L'università truccata".

Mi sono recato in una delle tante librerie Feltrinelli, quella in Via Vittorio Emanuele Orlando, a Roma.

Entro, e come sempre le "novità" sono esposte sui banchi e gli scaffali nei pressi dell'ingresso. E' qui che dovrei riuscire a trovare il libro che sto cercando, così comincio a scrutare in giro. Storia, Presidenziali Usa, eccetera... Mi volto a destra e scorgo "La fabbrica degli ignoranti", altro libro sulla scuola e l'università di Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò.
"Oh, bene, l'argomento è questo, Perotti dovrebbe essere qui vicino", penso. Guardo e riguardo, ma niente.

Così mi arrendo e mi rivolgo al (barbuto e occhialuto) commesso: "Mi scusi, stavo cercando L'università truccata, di Roberto Perotti".
"Aspetti, guardo sul computer".
Dopo un attimo: "Sì, ce l'abbiamo. Deve scendere al piano inferiore".

Recentissima uscita, tema di estrema attualità, autore qualificato... piano inferiore?! Vabbe'...
Scendo le scale. Di fronte vedo subito un altro settore "Novità". Cerco bene ma tra un libro di Krugman e uno di Tremonti non c'è nemmeno l'ombra di quello di Perotti. Così mi aggiro per tutto il piano inferiore in cerca di un'intuizione: "Economia"? "Scienze"? No, neanche lì. In che settore l'avranno messo?

Sono restìo a rivolgermi ai commessi nelle librerie o nei negozi di cd/dvd. Primo perché cercando da soli qualche altra cosa interessante può "trovarvi". Secondo perché penso sempre che abbiano cose più importanti da fare.

Sia pure controvoglia (e già contrariato), decido di recarmi dal secondo (barbuto e occhialuto) commesso, quello del piano inferiore, che questa volta senza bisogno del pc mi fa: "Sì, ce l'abbiamo, mi segua". Lo seguo fiducioso e mi porta in una nicchia quasi sotto le scale, dove finalmente prende il mio libro e me lo porge.

In che settore siamo? "Concorsi". Sì, avete capito bene. In mezzo a tutti quegli anonimi libri colorati che aiutano a prepararsi ai più svariati concorsi. Avete presente? Era "nascosto" lì il libro denuncia/proposta di Perotti sull'università. Spero davvero che lo abbiano voluto nascondere laggiù, perché se fosse stata una scelta spontanea ci sarebbe di che preoccuparsi per il livello di dogmatismo e conformismo ideologico con il quale vengono gestite queste librerie.

Thursday, October 30, 2008

Con quelle facce lì

Riemerge «l'incubo dell'Unione», osserva in una nota Daniele Capezzone. E' esattamente ciò che mi è venuto in mente sfogliando questa mattina su larepubblica.it il "fotoracconto" del corteo di oggi contro le legge Gelmini. Una sequenza di facce che una dopo l'altra sussurrano una parola fantasma: "U n i o n e". Sono tutti di nuovo insieme appassionatamente. Nell'ordine: Boselli, Bindi, Mussi, Di Pietro, Vendola, Finocchiaro, Ferrero, Diliberto, Pezzotta, Bertinotti, Giordano, Damiano e, naturalmente, Veltroni. Mi chiedo: siete sicuri che vada tutto bene, se a un anno dalla grande svolta veltroniana, quella che avrebbe dovuto sancire la chiusura della «vecchia stagione» e il passaggio alla «vocazione maggioritaria» di un partito riformista di massa, Veltroni si ritrova a sfilare con i vecchi compagni dell'Unione? No, c'è qualcosa che non torna.

Fu dettata dal narcisismo la decisione di andare da solo alle elezioni? Che ne è di quel progetto politico, se all'opposizione ci si ritrova appiattiti sulle posizioni degli ex compagni di viaggio, con i quali governare si è dimostrato impossibile? E' solo nei toni la differenza tra il Pd e "gli altri" massimalisti? Qual è la specificità politica del nuovo partito rispetto al vecchio Ulivo? Mi pare che Veltroni aderendo alle proteste di questi giorni abbia definitivamente sepolto il suo discorso del Lingotto e sia tornato a frequentare "amicizie" ideologicamente più rassicuranti. Oggi in piazza si è rivista, in tutte le sue componenti, la stessa identica opposizione degli anni 2001-2006, il cui prodotto di governo è stata l'Unione di Prodi.

Non ricordo se chi c'era,
aveva quelle facce lì,
non mi dire che è proprio così...

Un presidente perfetto

Il mondo sarà un posto più buono con Obama. A parte gli scherzi, se avete una mezz'ora non perdetevi il suo lungo spot elettorale andato in onda ieri in prime time su tutte le principali reti televisive americane. E' praticamente perfetto. Non voglio soffermarmi su come abbia potuto permettersi di comprare spazi così costosi, ne parlo perché l'ho trovato stilisticamente e politicamente perfetto.

La logica conclusione di una campagna condotta con pochissime smagliature. Anzi, è il riassunto in mezz'ora di tutta la campagna e aiuta a capire perché con ogni probabilità sarà lui il prossimo presidente degli Stati Uniti. Tutto è curato nei minimi particolari. La sua immagine, la voce, le scene di "american way of life". Mi sembra che non indulga in stucchevoli sentimentalismi, che si rivolga alla classe media affrontando i temi che le stanno più a cuore, puntuale e preciso sulle proposte, con toni rassicuranti ma al tempo stesso stimolanti.

Fate caso alla colonna sonora. Bisogna sforzarsi per farci caso, perché è molto discreta. Non so se anche a voi suscita le stesse sensazioni, ma trovo che comunichi il senso di una grande opportunità a portata di mano, qualcosa che sta per accadere, un evento a cui non mancare. Dal punto di vista psicologico la voglia di non mancare ad un appuntamento che con grande maestria Obama e il suo staff sono riusciti ad ammantare di un che di storico potrebbe essere un fattore d'attrazione decisivo. E in fondo, tutto sommato, il messaggio dello spot è proprio questo: chiede a chi guarda di voler essere artefice e partecipe di un cambiamento presentato come storico.

Wednesday, October 29, 2008

McCain in rimonta?

Più che affidarsi ai sondaggi, sono fondamentali fattori politici, e il contesto in cui si svolge la campagna, a suggerire Obama come prossimo presidente degli Stati Uniti (e l'apparizione di Bill Clinton con Obama in Florida è uno di questi segnali più eloquenti dei sondaggi). E ciò a prescindere dal fatto che alcuni istituti negli ultimi giorni stiano registrando un lieve recupero di McCain su base nazionale.

Per l'ultimo sondaggio Gallup (26-28 ott.), il distacco si sarebbe ridotto a soli 2 punti percentuali (Obama 49%, McCain 47%). Il progressivo assottigliamento del margine veniva misurato soprattutto da Reuters/Zogby nei giorni scorsi. Ieri il vantaggio di Obama era sceso fino a +4, oggi è a +5. Terzo istituto, Rasmussen, il cui sondaggio di oggi registra tra i due candidati un distacco di soli 3 punti (Obama 50%, McCain 47%). Significativo perché, si legge nel rapporto, «è la prima volta che McCain riduce la distanza al 3% in più d'un mese e la prima volta dal 24 settembre che i suoi consensi superano il 46%».

La media dei sondaggi calcolata quotidianamente da RealClearPolitics torna dopo molto tempo a segnare un +6% per Obama.

Illusione o lenta rimonta di McCain? In ogni caso, Obama farebbe bene a non darsi per vincitore e a temere sorprese. Se non altro, servirà a mantenere alta la tensione tra i suoi supporters.

E li chiamano studenti...

Possibile che nell'Italia del 2008 una delle piazze più belle di Roma debba essere sequestrata e deturpata da scontri tra fascisti e comunisti (video)? Sedicenti studenti. Intanto, a Milano, veniva bloccata la stazione di Lambrate.

Dov'è la mano del governo, che perde il controllo di una manifestazione in una piazza centrale di Roma, adiacente al Senato, e tollera il blocco di una stazione ferroviaria ad opera di un manipolo di teppisti? Come temevo, peggio di un governo che tollera l'illegalità, c'è solo un governo che non dà seguito alla promessa di non tollerare l'illegalità.

Dopo aver cavalcato la protesta, il povero Veltroni si ritrova invischiato negli eccessi provocati dalle solite frange estremiste ed è costretto a schierarsi:
«I disordini di oggi sono stati solo l'aggressione di una parte politica sull'altra».
Una dichiarazione sintomatica della linea suicida intrapresa da Veltroni. Da leader del principale partito di opposizione, che vuole dimostrarsi credibile come partito di governo, e per di più da "premier ombra", non avrebbe dovuto neanche lontanamente interessarsi agli scontri, che nulla hanno di "politico", tra qualche decina di teppistelli.

Purtroppo, invece, avendo abbracciato la protesta della piazza, ora si trova costretto a fare di tutto perché il movimento resti "pacifico", o perché appaia tale, cosa su cui nessuno si sentirebbe di scommettere un euro. E' stato un azzardo da parte di Veltroni legare l'immagine del Pd ai comportamenti di manifestanti su cui non ha il minimo controllo, visto che, com'è dimostrato, bastano gli eccessi di pochi per rovinare quel clima composto e civile che anche nella protesta ci si aspetta da un partito di governo.

Peccato che Veltroni sia intervenuto nel modo peggiore: non condannando i violenti "senza se e senza ma", ma prendendo le difese di alcuni di loro, come ci saremmo potuti aspettare da un Bertinotti o da un Diliberto. La triste verità che sta emergendo è che con Veltroni il Pd non sta assumendo la fisionomia di un partito riformista di massa, ma sta occupando lo spazio politico lasciato vuoto in Parlamento dalla sinistra radicale, immobilista e conservatrice.

Tuesday, October 28, 2008

Volantini sul gulag nordcoreano

Gli Stati Uniti hanno da poco cancellato la Corea del Nord dalla lista degli stati sponsor del terrorismo, ottenendo in cambio da Pyongyang vaghe promesse sulla possibilità di verificare l'effettivo disarmo nucleare, in base a un accordo che in questi ultimi giorni di mandato per l'amministrazione Bush passa per un successo diplomatico, ma che altro non è che un cedimento gravido di conseguenze negli sforzi contro la proliferazione nucleare.

Ieri la Corea del Nord ha minacciato «di ridurre in macerie» la Corea del Sud. «Le autorità fantoccio farebbero bene a tenere a mente che un nostro attacco preventivo ridurrà ogni cosa in macerie», hanno tuonato le forze armate nordcoreane. «E sarà una guerra giusta... per edificare su di esse uno stato indipendente e riunificato». Le minacce di Pyongyang giungono in reazione a un nuovo lancio, nei giorni scorsi, da parte di attivisti sudcoreani di oltre 100 mila volantini anti-regime trasportati oltre confine legati a dei palloncini. Una pratica che va avanti da anni. Evidentemente questi volantini, di plastica, che recano scritte con inchiostro resistente all'acqua, arrivano a destinazione, toccando i nervi scoperti del regime. Informano i nordcoreani della cattiva salute del loro "caro leader", incitandoli a rivoltarsi. Alcuni contengono anche riso e un biglietto da un dollaro, o da 10 yuan, che corrispondono allo stipendio medio di un mese in Corea del Nord.

Pyongyang ha intimato al governo di Seul di smettere di «disseminare volantini e diffondere menzogne». Ma l'attuale presidente sudcoreano, il conservatore Lee Myung-Bak, ha risposto con fermezza che i volantini non hanno nulla a che fare con il governo, e annunciando l'intenzione di legare i regolari aiuti diretti al Nord ai progressi nel disarmo nucleare.

Il precario stato di salute del dittatore nordcoreano Kim Jong-Il continua a tenere impegnate le intelligence di mezzo mondo. Colpito da un ictus in agosto, sarebbe ricoverato in ospedale ma ancora in grado di prendere decisioni. «Penso che l'intelligence di varie nazioni sia d'accordo nel ritenere che mentre le sue condizioni non sono molto buone, è improbabile che non sia in grado di prendere alcuna decisione, e quindi che non ci saranno altre mosse», ha riferito il premier giapponese, Taro Aso, in Parlamento, citando informazioni dei servizi segreti. Anche secondo il presidente sudcoreano, il "caro leader" detiene ancora il potere e non si intravedono cambiamenti da attribuire alle sue condizioni di salute.

Ma in un paese totalitario il momento della successione al potere è delicato e imperscrutabile dall'esterno. A Washington, così come a Seul, cresce la preoccupazione per una imminente crisi del regime. «Il mondo non dovrebbe temere il crollo della Corea del Nord», sostengono invece Nicholas Eberstadt e John R. Bolton: «La stabilità di una dittatura criminale e crudele, dotata di armi nucleari, è davvero qualcosa cui dobbiamo tenere al di sopra di ogni possibile alternativa?» Certo, la crisi del regime pone grandi sfide, soprattutto alla Corea del Sud e agli Usa. Innanzitutto, «l'incubo» che le armi atomiche finiscano nelle mani sbagliate e che l'esercito nordcoreano sia fuori controllo. Ma anche le conseguenze umanitarie ed economiche di un ipotetico collasso, uno «tsunami» di milioni di rifugiati e l'impatto socio-economico della riunificazione nel medio-lungo termine. Ma rimarrebbe una «preziosa opportunità per riunificare la penisola coreana sotto un unico governo democratico, o almeno per avvicinarsi a questo obiettivo», ricordano Eberstadt e Bolton.

Monday, October 27, 2008

Domande scomode

Quelle poste, oggi sul Corriere, da Pierluigi Battista:
«Ma se una frazione cospicua della classe dirigente, pur predicando l'intangibilità della scuola pubblica così com'è, spedisce i propri figli nelle scuole private, è solo un deplorevole pettegolezzo sottolinearne la plateale incoerenza?
(...)
non è ingiusta questa sottile, non detta, mai confessata deriva classista mentre si finge di non vedere che una scuola pubblica dove il merito non conta niente è una scuola che conserva sì la sua titolarità pubblica ma ha smarrito il significato della sua natura democratica?
(...)
Rinserrati nelle loro auree nicchie d'eccellenza, i genitori che bocciano con furore ogni parvenza di riforma della scuola pubblica ma proteggono i loro figli dalla sorte di frustrazione e di insignificanza cui sono condannati tutti gli altri, pensano davvero che prima o poi nessuno chiederà il conto di un così cinico doppio standard?
(...)
E se loro se ne vanno nelle isole beate dell'"eccellenza", che titolo hanno più per parlare, e per difendere l'indifendibile, senza nemmeno un po' di convinzione?»
Il punto non è fidarsi ad occhi chiusi dei provvedimenti della Gelmini, ma eventualmente saper criticare per il verso giusto, chiedendo cioè più tagli, riforme più coraggiose nel senso del merito e della concorrenza.

Prendiamo, ad esempio, il blocco del turn over. E' una misura criticabile, non perché gli organici non debbano essere ridotti, ma perché tende ad aumentare l'età media del corpo docenti, ponendo una iniqua barriera all'ingresso nella professione di migliaia di insegnanti più giovani e preparati e peggiorando quindi il servizio offerto agli studenti. Sarebbe preferibile che lo stato si comporti da stato, e che riducesse gli organici in eccesso prendendosi la responsabilità di licenziare gli insegnanti meno produttivi.

Leggo i rapporti dell'Ocse da anni, e a leggerli bene, con onestà intellettuale, non si può che concludere che la ricetta per risolvere i mali della scuola e dell'università italiane è quella del mercato e della concorrenza. Basta con i soldi a pioggia dallo stato; assegnare i fondi a seconda dei risultati, scientifici e didattici, e della capacità degli istituti di attrarre capitale privato; meno insegnanti ma pagati meglio; meno iscritti all'università ma più laureati.

Tutti vorremmo che lo stato investisse di più nell'istruzione a tutti i livelli e nella ricerca, ma con il sistema e gli incentivi attuali vorrebbe dire gettare i soldi dalla finestra. Se una domestica torna dalla spesa con pacchi di patatine e caramelle, e si giustifica dicendo che non le sono bastati i soldi per comprare anche pasta, carne e verdure, la volta successiva non le dai più soldi, la licenzi!

In piazza i numeri non sono tutto

Sinistra, destra, sindacati, dovrebbero tutti finirla con questa insopportabile gara a chi le spara più grosse. Che i mainstream media per troppo tempo hanno tollerato, fingendo di credere a cifre gonfiate senza pudore, dandole a bere ai loro lettori e telespettatori, invece di prendere carta e penna e calcolare la capienza reale delle piazze. Altro che 2 milioni e mezzo. Sabato i partecipanti alla manifestazione del Pd occupavano 2/3 del Circo Massimo. Confrontando le foto aeree, non c'è paragone con l'adunata cofferatiana del 2002 in difesa dell'articolo 18 o con la festa per lo scudetto della Roma nel 2001.

Certo, 200 mila persone in piazza (ma secondo me non più di 150 mila) rimangono comunque tante. Tuttavia, l'ampia partecipazione è condizione necessaria, ma di per sé non sufficiente, per il successo di una manifestazione. Ciò che conta è anche l'efficacia del messaggio politico e quello uscito sabato dal Circo Massimo è un messaggio di debolezza, confusione e disperazione.

Una manifestazione convocata da mesi senza uno straccio di proposta, contro un governo da poche settimane in carica, solo come generico "rosicamento" per la batosta elettorale. La vignetta quotidiana di Giannelli, sul Corriere, è emblematica: in piena crisi strategica e di leadership, per Veltroni "cavalcare la protesta è sempre il numero di maggior successo". Il bagnetto di folla può essere servito a scaldare gli animi dei propri sostenitori, ma gli italiani vedono un Pd senza proposte, capace solo di sbraitare contro tagli alla spesa che sa bene essere necessari e fiancheggiare quelle poche e insignificanti occupazioni, e interruzioni di pubblico servizio, di cui si rendono responsabili un pugno di studenti e docenti ideologizzati.

E pensare che durante la campagna elettorale, per non parlare del discorso del Lingotto, lo stesso Veltroni aveva parlato con un linguaggio del tutto diverso, avvertendo responsabilmente la necessità di tagliare la spesa pubblica e di garantire il rispetto della legalità anche nelle situazioni minori. Dopo averla tanto demonizzata in campagna elettorale, Veltroni è tornato ad abbracciare l'"Italia dei no". «Giù le mani dalla scuola», si limita a gridare in aula Anna Finocchiaro. Un abbraccio che forse potrà tornargli utile per vivacchiare nella lotta che si è scatenata all'interno del partito, ma che si rivelerà politicamente mortale. Ormai Veltroni è un Di Pietro dallo spirito meno bollente e più bollito. Scomparsa la sinistra radicale, anziché approfittarne per imprimere al Pd una reale svolta riformista e moderna, Veltroni sta occupando lo spazio politico di Bertinotti, alla faccia del riformismo.

Da sottoscrivere quanto dice la Gelmini nell'intervista al Corriere di oggi:

«Quando Veltroni è diventato leader del Pd, ci ho creduto anche io: ho sperato che questo Paese potesse cambiare veramente con un progetto bipartisan. Che potesse essere riformato, abbandonando le vecchie posizioni ideologiche e sindacali responsabili del declino dell'Italia. Speravo che Veltroni si ispirasse alla lezione di Tony Blair. Purtroppo, oggi parla come un rappresentante dei Cobas».
Come già accaduto nel periodo 2001-2006, quando si trova all'opposizione la sinistra sedicente "riformista" dimostra l'insopprimibile tendenza a consolarsi con gli istinti peggiori della propria base, ad alimentare le pulsioni più retrograde, ma ciò non le servirà per apparire finalmente credibile come forza di governo agli occhi degli italiani.

Fantasie da berlusconiani? Pare di no. Qualcuno a sinistra la vede come me. Per esempio, Peppino Caldarola, ospitato da il Giornale, non da Il "nuovo" Riformista (che era più nuovo da "vecchio"):
«Il discorso del capo del Pd è stato un tuffo nel passato... La chiave del suo ragionamento è stata fondata sulla estraneità della destra rispetto al Paese. La diversità comunista era un dato ideologico e morale. La diversità veltroniana diventa oggi un connotato antropologico... Veltroni ha scelto la strada impervia della genetica superiorità morale della sinistra sulla destra. Non siamo tornati indietro. Siamo tornati alle palafitte e alla politica con la clava. L'ultimo Veltroni seppellisce il Veltroni blairiano e dialogante dell'esordio... Al Circo Massimo si concluse, nel momento del bagno di folla, la carriera politica di Cofferati e forse al Circo Massimo è morto ieri il Veltroni riformista. È nato il capo di un partito radicale di massa, che resterà a lungo all'opposizione. Veltroni ha detto in buon italiano quello che Di Pietro avrebbe detto violentando sintassi e grammatica».

Friday, October 24, 2008

Controcorrente

E' arrivato l'atteso e previsto endorsement del New York Times per Obama. Un lungo articolo per argomentare punto per punto la scelta. Tutte opinioni rispettabili, ma sostenere che McCain abbia sostituito la sua proverbiale indipendenza con «a zealous embrace of those same win-at-all-costs tactics and tacticians» suona un tantino azzardato.

In quanto a tatticismo e cinismo la campagna di Obama non è stata seconda a nessuna negli ultimi tempi. Con questo non voglio togliere meriti a Obama. Le campagne elettorali sono roba tosta e saper giocare duro con astuzia è uno dei meriti. Chi invece tende a condannare moralisticamente certe condotte, non dovrebbe poi usare un doppio standard nei suoi giudizi, chiudendo entrambi gli occhi sulle spregiudicatezze del proprio favorito. Obama è stato un candidato estremamente tattico nella calibratura delle sue posizioni a seconda del tipo di uditorio che si trovava ad affrontare e non ha risparmiato negative ads contro McCain, pur riuscendo a far credere che ne subisse di più.

Orgogliosamente controcorrente va Charles Krauthammer. Controcorrente, ci tiene a precisare, soprattutto rispetto ai tanti illustri conservatori saltati sul carro di Obama «before they're left out in the cold without a single state dinner for the next four years». «Affonderò con McCain. Perderò un'elezione, piuttosto che le mie convinzioni».

Anche Krauthammer osserva, citando un paio di esempi, come sia stato usato un doppio standard di giudizio da parte dei media nel bollare quella di McCain come una "campagna sporca".

Ma l'argomento centrale per Krauthammer è la famosa telefonata delle 3 del mattino. A questo proposito il candidato vice di Obama, Joe Biden, giorni fa ha fatto una gaffe colossale, lasciando intendere che la giovane età e l'inesperienza di Obama susciterebbero una crisi internazionale, generata proprio con l'intenzione di metterlo alla prova. Vale la pena far fare esperienza a Obama sulla pelle degli Stati Uniti?

Da quando è in Senato Obama ha dovuto affrontare solo due test significativi in politica estera. Sul "surge" iracheno «ha fallito in modo spettacolare. Non solo opponendosi, ma provando a denigrarlo, fermarlo e, alla fine, negando i suoi successi». Nel secondo test, la crisi tra Russia e Georgia, è stato equidistante, mentre «McCain non ha dovuto consultare i suoi consiglieri per individuare subito l'aggressore».

«Obama sembra un vincitore, ma non è ancora finita», ammonisce Peggy Noonan. A prescindere dall'esito del voto del 4 novembre, è innegabile che Obama sia ancora una incognita dal punto di vista politico. Troppo breve il suo record senatoriale, e finora nella sua carriera non ha dato particolari prove di approccio bipartisan. Se sarà eletto presidente, si rivelerà il più radicale dei liberal o il più moderato dei democrat, un po' come Clinton? Questo ancora non è dato saperlo, ma non c'è dubbio che molti che oggi in Italia lo sostengono in modo fanatico troveranno qualche motivo per contestarlo.

Thursday, October 23, 2008

Le occupazioni "pacifiche"

L'irruzione in un'aula di Scienze Politiche, a Milano;

Tra soprusi e totali mistificazioni, la resistenza vera, quella degli studenti che vogliono proseguire le lezioni;

I blocchi del traffico, la gente imprigionata.

Fonte: YouReporter.it

Peggio di un governo che tollera l'illegalità, c'è solo un governo che non dà seguito alla promessa di non tollerare l'illegalità.

Wednesday, October 22, 2008

Veltroni la butta in caciara

Niente da fare. Non ci arrivano. Non possono arrivarci. E' sempre la solita storia. Il Pd sta ripetendo tali e quali gli errori commessi dall'Ulivo negli anni passati all'opposizone tra il 2001 e il 2006. Si oppone alle riforme del governo dal lato sbagliato, cioè non chiedendo più coraggio, più tagli alla spesa, ma schierandosi per la difesa dello status quo. Non solo difende l'indifendibile, la scuola pubblica devastata dalle logiche sindacal-burocratiche come da anni dimostrano gli studi dell'Ocse, ma non riesce ancora ad afferrare il concetto di legalità.

«Giù le mani dalla scuola», grida in aula Anna Finocchiaro, quando a tenere «giù le mani dalla scuola» non dovrebbe essere il governo democraticamente eletto, cui spetta il dovere di affrontare i problemi della scuola, ma dovrebbero essere i gruppi di facinorosi che stanno occupando scuole e facoltà.

E non esiste un'occupazione «pacifica». Manifestazioni e scioperi sì, fanno parte della libertà d'espressione, ma le occupazioni no, perché chi non è d'accordo con le proteste e vuole continuare ad andare a lezione, a studiare e a dare esami, ha tutto il diritto di continuare a farlo. Mi sembra di un'evidenza cristallina. E i blocchi stradali e ferroviari? Quelli in nome di cosa si giustificano?

E' grave, piuttosto, che un partito di livello nazionale, che pretende di dirsi "di governo", fiancheggi interruzioni di servizio pubblico e atti illegali. Le illegalità non vanno tollerate in alcun caso. In campagna elettorale Veltroni aveva promesso che il suo Pd avrebbe assunto un atteggiamento di fermezza anche nei confronti delle "piccole" illegalità, ma evidentemente ci stava prendendo in giro, si trattava di bassa propaganda.

«E' ancora possibile dimostrare in questo Paese? Organizzare manifestazioni? Indire manifestazioni come quella che faremo il 25? E' possibile o no?». Con la spudoratezza di cui solo lui è capace, Veltroni tenta di mistificare le parole di Berlusconi. Certo che manifestare è «il sale e l'essenza della democrazia», ma Berlusconi non ha mai detto di voler mandare le forze dell'ordine contro i manifestanti, ha solo avvertito che impedirà l'interruzione dei servizi pubblici da parte di chicchessia, che è sempre una violenza: «Non permetteremo l'occupazione di università e di scuole, perché non è una dimostrazione di libertà, non è un fatto di democrazia ma è pura violenza nei confronti degli altri studenti, delle famiglie, delle istituzioni e nei confronti dello Stato».

A «soffiare sul fuoco», e a diffondere disinformazione, è stato Veltroni, aiutato dagli organi di stampa amici, nel tentativo di riempire la piazza del 25 ottobre. Serviva un po' di "fuoco" e l'ha attizzato, ma in questo modo la sinistra sedicente "riformista" non verrà mai a capo del suo atavico problema di credibilità. Coltivando i suoi istinti peggiori, le pulsioni più retrograde, per riempire le piazze nei momenti di maggiore depressione, il Pd non acquisirà mai la cultura di governo necessaria per divenire maggioranza nel Paese e governare.

Tuesday, October 21, 2008

Il filmato della vergogna



Sì, direte voi, si sono mobilitati gli "amici di Amanda". E' vero, ma anche il filmato mandato in onda dalla Nbc, fino a prova contraria, è vero ed è una bomba sul processo in corso. Proprio ieri si parlava dei troppi sopralluoghi che potrebbero aver inquinato le prove sulla scena del crimine. Qualcuno dovrebbe essere chiamato a dare delle spiegazioni.

E' triste constatare che agli occhi degli americani il nostro sistema giudiziario ha la stessa credibilità che ci sentiremmo di concedere noi al sistema giudiziario turco o a quello egiziano se un nostro concittadino fosse sotto processo in quegli stati. Facciamo sempre queste figure da Terzo Mondo.

Una cosa è certa: su quel filmato occorre fare estrema chiarezza e il Ministero della Giustizia dovrebbe subito aprire un'indagine per accertare (e sanzionare) eventuali responsabilità. In via cautelativa il caso Knox dovrebbe essere subito tolto ai pm che se ne stanno occupando.

UPDATE: l'articolo di Fiorenza Sarzanini, sul Corriere della Sera di oggi, è profondamente biased; appare ansiosa di prendere le difese degli inquirenti da cui prende le informazioni per i suoi articoli. La scelta di tirare in ballo i casi Cermis e Calipari - che non c'entrano nulla perché riguardavano responsabilità del governo Usa e non di una semplice cittadina - e il tono usato nei confronti di quella che viene definita una «lobby» che «assolda» rivela un pregiudizio negativo. Viene vissuto con insofferenza il fatto che le famiglie degli accusati si «muovano» per difendere i propri cari. Cosa che è nel loro pieno diritto, mentre nell'articolo lo si fa apparire alla stregua di un favoreggiamento e come una sorta di oscuro complotto "amerikano" contro l'Italia.

Gli esperti della difesa dei tre imputati «non hanno mai avuto nulla da eccepire», scrive la Sarzanini, anche se a me risulta che tutti gli avvocati contestino i rapporti della scientifica. La questione è semplice: è corretto infrangere i vetri di uno degli ingressi alla villetta? E' corretto prelevare tracce di sangue sul pavimento strofinando con una specie di fazzoletto, con il rischio di cancellare un'impronta? E' corretto prelevare tracce a capo e bocca scoperti? Non ho una risposta, ma qualcuno dovrebbe averla.

Monday, October 20, 2008

Quando il profilo psicologico è l'unica prova

Credo di aver imparato qualcosa dai peggiori casi giudiziari italiani. Quando l'accusa si concentra troppo nell'inquadrare la personalità degli accusati, di solito vuol dire che contro di loro ha per le mani una debole impalcatura probaboria.

Il movente dell'omicidio di Meredith, a Perugia, sarebbe un «perverso gioco sessuale di gruppo», al quale la ragazza si sarebbe opposta.

Ma è sulla personalità degli accusati che i pm si concentrano: la loro abitudine «a consumare stupefacenti»; l'attrazione di Rudy per Amanda; la passione di Raffaele per i manga giapponesi, per i coltelli, e per il cantante Marilyn Manson; il racconto scritto da Amanda «sullo stupro e l'omicidio di una studentessa con un coltello da cucina» (non molto originale, per la verità, come plot). La conclusione? «Soggetti morbosamente attratti dalla commistione di sesso e di violenza». Un bel film.

Nonostante non vi siano prove nelle carte processuali che Amanda, Raffaele e Rudy si fossero dati appuntamento nella villetta - non ci sono né telefonate né sms o mail - nella ricostruzione della Procura l'omicidio fu premeditato e avrebbe dovuto essere addirittura un «rito» da celebrare in occasione della notte di Halloween. Già, la notte di Halloween, che però è il 31 ottobre, mentre Meredith è stata uccisa il 1° novembre. Il pm non si scompone: nelle intenzioni degli «organizzatori» sarebbe dovuto avvenire 24 ore prima, ma quel giorno nella casa c'era una cena delle coinquiline di Meredith e Amanda, e quindi il rito è slittato al giorno dopo. Un rito legato ad Halloween, ma non all'esoterismo né al satanismo, perché di elementi in tal senso nelle biografie degli accusati non se ne sono trovati.

Il pm può risentirsi quanto vuole, ma la sua ricostruzione ci dice più del suo profilo psicologico che di quello degli accusati. Un pm che ritiene un comportamento deviante per un ventenne fumarsi qualche canna, essere appassionato di fumetti giapponesi e di Marilyn Manson, scrivere racconti estremi e in generale essere «desideroso di sensazioni forti», dimostra di avere poco contatto con la realtà che lo circonda. Ha dei figli? A cosa giocano alla playstation? Io chiederei una perizia.

Non dico che tutti i ventenni abbiano passioni e condotte simili, ma un buon numero sì. Qui non basta dimostrare che Amanda è una ragazza «disinvolta», diciamo pure di facili costumi e un po' ribelle, non basta provare che lei e il suo ragazzo si sono fatti una scopata o una doccia nella villetta, bisogna collegarla all'uccisione di Meredith. L'accusa deve almeno spiegare, se non provare, perché e come si passa dai fumetti giapponesi e dal desiderare emozioni forti all'omicidio. Ma non sarebbe stata più credibile per l'accusa una ricostruzione che puntasse sui futili motivi, data anche l'inimicizia che pare ci fosse tra le due ragazze? No, il pm deve propinarci il quadretto che scaturisce dalla sua psiche da curato di campagna nutrita a secchiate di banalissime fiction.

Ammettendo che siano stati loro, siccome è impensabile che siano riusciti nel delitto perfetto, c'è da chiedersi piuttosto come mai la Procura non abbia in mano delle prove tangibili. La verità è che i numerosi sopralluoghi della "scientifica" hanno probabilmente alterato per sempre la scena del crimine.

Obama Powell

E' un fatto che dopo l'endorsement dell'ex segretario di stato Colin Powell a favore di Obama il piccolo recupero di McCain nei sondaggi (risalito nel weekend a -3%), credo dovuto all'onda lunga della sua buona prova televisiva nell'ultimo dibattito, sia stato completamente annullato.

Dopo tre giorni consecutivi in cui il vantaggio di Obama si era sensibilmente assottigliato, oggi un sondaggio Reuters-Zogby registra di nuovo 5,4 punti di vantaggio di Obama su McCain (49,8 contro 44,4). Effetto Powell? Così tendono a interpretarlo i media, ma non è scontato.

Certamente l'appoggio di Powell segna un punto pesante a favore di Obama, un altro prezioso mattoncino nella meticolosa opera di costruzione di un'immagine che lo faccia apparire pronto per l'incarico di presidente, nonostante la sua scarsa esperienza e la sua giovane età. Apparire "presidenziale" è stato giustamente il leitmotiv della sua campagna ed è ancora uno dei pochi elementi su cui può perdere la Casa Bianca. Che Obama offra «occhi freschi e nuove idee» lo vedono tutti, ma Powell, durante un'intervista nel programma di punta della Nbc, "Meet the Press", ha lodato di Obama esattamente le caratteristiche che gli elettori ancora dubitano che abbia: la «prontezza» e la «competenza».

Detto da un ex segretario di stato, per di più repubblicano, non mancherà di avere un certo peso. Ovviamente la gente non voterà Obama solo perché l'ha detto Powell, ma con l'approssimarsi del 4 novembre è probabile che endorsement come questo contribuiscano ad attenuare, a sbiadire i dubbi sulla preparazione di Obama.

Certo, Powell ha anche tessuto l'elogio delle tasse, con ciò ammettendo implicitamente che sì, Obama le alzerà. E in questo forse non ha fatto un grande favore ad Obama. Curioso come i media liberal si siano improvvisamente scordati che fino a ieri per loro Powell era l'uomo delle "menzogne" sulle armi di distruzione di massa irachene.

Altri due eventi potrebbero aver contribuito ad ampliare il vantaggio di Obama sull'avversario nei sondaggi. L'oceanica manifestazione a Sant Louis può aver dato l'impressione che sia caduta nelle mani di Obama persino una roccaforte repubblicana come il Missouri.

Ma in definitiva, a deprimere la sua percentuale di consensi nei sondaggi può aver contribuito lo stesso McCain, quando l'altra sera a Fox News ha fatto capire che in caso di sconfitta se ne tornerebbe allegramente a "fare il nonno". Pensa alla sconfitta? «Certamente. Ma non mi crogiolo in questo pensiero. E comunque ho avuto una vita meravigliosa. Posso tornare a vivere in Arizona, a rappresentare il mio paese in Senato, con una famiglia meravigliosa, e una vita piena di benedizioni». Non certo un'iniezione di entusiasmo.

Friday, October 17, 2008

E l'idraulico Mario?

Da Il Foglio di oggi:

Al direttore - C'è un elemento ricorrente nei tre dibattiti tra Obama e McCain molto istruttivo non tanto sulla corsa alla Casa Bianca, ma per comprendere meglio l'America... e anche l'Italia. In tutti i dibattiti McCain ha assicurato di voler abbassare le tasse a tutti gli americani. Obama ha giurato che non aumenterà le tasse a chi guadagna fino a 250 mila dollari e che le vuole abbassare a chi ne guadagna fino a 200 mila. Da ciò si evince che Obama considera ancora ceto medio chi guadagna tra i 200 e i 250 mila dollari. Ebbene, qui da noi quando si parla di sgravi fiscali, le fasce interessate sono di solito quelle sotto i 35 mila euro. Mentre il candidato di centrosinistra in America promette di voler abbassare le tasse a chi guadagna fino a 200 mila dollari, qui da noi un governo di centrodestra è riuscito a detassare gli straordinari di chi guadagna non ricordo se fino a 30 o a 35 mila euro. E per non parlare del centrosinistra... Ciò la dice lunga sulla propensione dei nostri politici a non favorire l'accumulo di ricchezza e a corteggiare, invece, le ricchezze già accumulate. Chi qui in Italia guadagna tra i 70 e i 100 mila euro, anche solo per un anno, viene considerato ricco alla stregua di un milionario. Così come è concepito il sistema fiscale italiano è strutturalmente nemico della formazione del capitale, pietra angolare del capitalismo. E, ciò che è peggio, ostacola soprattutto la sua formazione dal basso, cioè da parte di chi dal nulla, o dal poco che ha, crea un proprio business. Tale è la mentalità prevalente, che nessuno solleva il caso dell'idraulico Mario.

Thursday, October 16, 2008

Tolte le catene agli "state spirits"

Via con la «social card» (basta il nome a gettarci nell'inquietudine); dopo le banche ora gli aiuti di stato - addirittura un «imperativo categorico» - anche al settore delle auto (che poi in Italia si tratta della solita pluri-assistita Fiat). Possibile che dopo anni di crescita il mercato dell'auto non possa subire uno stop senza che la politica accorra in aiuto?

La sensazione generale è che dopo anni di sofferto - e poco convinto - rigore la politica europea non abbia retto all'urto di questa crisi e abbia dato sfogo alle sue ansie, abbandonandosi a un'irrazionale fiducia nel dirigismo eurocentrico. In Italia ciò equivale a togliere le catene agli "state spirits", i peggiori istinti statalisti che non speravano in un momento così propizio. Se ormai imperversano nel governo di centrodestra, figurarsi se gli statalisti non si sentiranno legittimati a riprendersi il centrosinistra.

«Non esistono più vie nazionali per le misure di sviluppo ma solo vie europee», si compiace Tremonti, che pensa a un piano rooseveltiano di grandi infrastrutture europee. Eppure, l'ho ripetuto più volte, a me pare di un'evidenza imbarazzante che in Italia lo sviluppo è frenato da fattori specifici, come il debito pubblico, la spesa pubblica incontrollata, l'alto livello di tassazione e il basso livello di concorrenza e mobilità sociale, il mercato del lavoro ingessato e l'istruzione scadente. Se solo il governo mettesse mano con decisione a questi problemi, esisterebbe eccome una «via nazionale» allo sviluppo, prettamente italiana ma di esempio anche per gli altri.

Infine, se il mercato azionario perde valore, e c'è il rischio che qualcuno ne approfitti per rilevare degli asset a prezzi particolarmente vantaggiosi lanciando Opa «ostili», ecco che contro questa ipotesi accorre il governo. Esiste eccome il problema dei fondi sovrani, di governi autoritari che approfittano dell'apertura dei mercati per mettere a segno operazioni geopolitiche, ed è vero che in Italia gli strumenti in mano alle società per difendersi sono stati ridotti per favorire una certa mobilità societaria. Ma bisogna fare attenzione a non eccedere in senso opposto, perché una volta reso quasi impossibile esercitare un'Opa, potremo dire "arrivederci e grazie" al libero mercato.

L'Opa ha in un libero mercato la funzione insostituibile di sanzionare con il benservito la proprietà e il management che non creano profitti per gli azionisti, ripulendo quindi i mercati dalle imprese più decotte a favore di quelle più innovative e realizzando un'allocazione delle risorse più razionale e orientata allo sviluppo. Siamo vicini al collasso, sì, ma la medicina rischia di essere fatale al paziente più del virus.

P.S.: sull'argomento Mario Seminerio su noiseFromAmeriKa:
«L'unica pericolosità di questo esecutivo (o meglio del suo mainstream di politica economica) non è certo la presunta involuzione autoritaria e l'approccio law&order, bensì l'irresistibile pulsione all'autarchia economica e finanziaria, che finirà col mettere un bel sacchetto di plastica in testa al paese».

McCain lottava o si dimenava?

Ieri notte John McCain ha lottato, ma non ha molto senso parlare di vittoria in questo ultimo duello tv, se la guerra sembra persa. Favorito dal format (i candidati questa volta erano seduti) e dalle domande (quella sugli attacchi personali tra i due gli ha dato modo di portare a conoscenza del grande pubblico alcune vecchie "amicizie" scomode di Obama), quella di ieri è stata forse la sua più vigorosa performance. Determinato, sempre all'offensiva, grintoso, semplice e preciso. Per scelta o necessità, McCain non ha mutato la sua strategia di fondo, ma per lo meno ieri ha saputo lanciare il suo messaggio in modo più chiaro, più netto, e più deciso che in passato.

Mi pare che McCain stia puntando principalmente a riprodurre tra lui e Obama le tradizionali divisioni della politica americana (che in economia si riassumono in small government, rappresentato dai Rep., vs. big government, rapppresentato dai Dem.). Una strategia che si regge sul presupposto non scontato che i conservatori siano ancora maggioranza nel paese e sulla speranza che a lungo andare questa distinzione si sedimenti negli elettori e prevalga sulla distinzione lungo l'asse cambiamento/vecchio, che lo vede perdente.

I momenti a lui più favorevoli sono stati due. Nel lungo scambio che ha visto come protagonista "Joe the plumber", in cui è riuscito a dipingere Obama come il tipico liberal "tassa-e-spendi"; e quando finalmente - come mai era riuscito con tale spontaneità e nettezza - ha preso le distanze da Bush: «Senator Obama, I am not President Bush. If you wanted to run against President Bush, you should have run four years ago». Forse troppo poco e troppo tardi, perché la colpa di McCain in questa campagna è quella di essere un esponente - sia pure spesso scomodo per la sua indipendenza di giudizio - dello stesso partito del presidente in carica, che agli occhi degli americani ha portato il paese sull'orlo della catastrofe economica.

Solo il tempo ci dirà se ieri notte quello di McCain era un lottare oppure un dimenarsi contro un destino cinico e baro.

Wednesday, October 15, 2008

Obama non è Kerry, e McCain non è Reagan

Potrebbe sembrare ovvio, ma pare che a qualcuno non lo sia. Questa notte l'ultimo debate tra Obama e McCain, ma ormai mi sembra che questa sfida si giochi pochissimo sui duelli tv. A McCain tocca l'impresa, come a quelle squadre costrette a vincere fuori casa per superare il turno di "Champions League". Certo, dalle urne per definizione può sempre uscire fuori la sorpresa, ma Obama non è Kerry.

Come ci segnala l'incoraggiante Creez Dogg in tha Houze, sia l'esperto in sondaggi Michael Barone che il politologo Victor Davis Hanson, di National Review, sostengono che sia ancora troppo presto per dare per sconfitto il ticket repubblicano. Motivo? Se c'è un uomo politico che, negli anni, ha dimostrato in più di un'occasione di saper ribaltare situazioni di svantaggio a proprio favore, smentendo ogni previsione, quello è proprio McCain. E' vero, McCain ha alle spalle entusiasmanti "rinascite", ma anche molte sconfitte. E ad oggi lui e i suoi adviser mi sembrano in un empasse strategico. Detto con parole povere: non sanno che pesci pigliare.

Le presidenziali del 1980, sentiamo ripetere, furono decise soltanto nell'ultima domenica prima del voto. Gli elettori indecisi decisero per Reagan contro Carter. Il problema è che McCain non sembra avere la freschezza di Reagan, né le capacità comunicative, né una visione politica innovativa, né la disastrosa presidenza di un Carter alle spalle. McCain è l'affidabilità, i piedi per terra, in un tempo in cui gli americani sentono di aver bisogno di "sognare".

E se proprio si vuole chiamare in causa Reagan, ricordo che nell'84 si comportò in maniera opposta a McCain per ribaltare a suo vantaggio il fattore età:
«I will not make age an issue of this campaign. I am not going to exploit, for political purposes, my opponent's youth and inexperience».
A questo punto, il giudizio non potrà che essere ex post. Se dovesse riuscirgli la rimonta, si dirà che motivi razziali hanno impedito a Obama di arrivare alla Casa Bianca; se tutto andrà secondo le previsioni, il giorno dopo sembrerà a tutti ovvio che il "bollito" McCain non avrebbe mai potuto farcela. La parola fine non è ancora scritta, ma diciamocelo chiaramente: il rischio che McCain-Palin ripetano la figura di Mondale-Ferraro nell'84 è piuttosto elevato.

Ci sarebbe voluto un Giuliani, se non si fosse politicamente "suicidato" ancor prima di iniziare la campagna.

Tuesday, October 14, 2008

Non è ancora il tramonto del secolo americano

Molto si è parlato e si è scritto sulle cause della crisi finanziaria e sui possibili rimedi. A tentare di allungare lo sguardo, cercando di scorgere le possibili conseguenze geopolitiche della crisi, è stato Angelo Panebianco, sul Corriere della Sera di venerdì scorso. E' in atto una «ridistribuzione del potere internazionale», il «definitivo passaggio» dall'odiato «unipolarismo» yankee al più saggio e politically correct «multipolarismo»? La crisi economica e di modello culturale ridimensioneranno l'influenza degli Stati Uniti nel mondo? Assisteremo al tramonto definitivo del cosiddetto «secolo americano»? La globalizzazione reggerà all'urto delle spinte protezioniste e del ritorno all'interventismo statale?

In America il dibattito è più che mai aperto. «Quando la marea lambisce alla vita Gulliver, di solito significa che i Lillipuziani sono già dieci piedi sott'acqua», scrive oggi Bret Stephens sul Wall Street Journal. Sul blog del Council on Foreign Relations è stata avviata una discussione alla quale sono intervenuti con i loro commenti autorevoli studiosi e analisti dello stesso CFR e di altri think tank. Molti ritengono che l'«era americana» sia lungi dall'essersi conclusa.

Ciò che più preoccupa Adam Posen è che gli Stati Uniti abbiano perso la leadership del «model setting», cioè la capacità di proporre al resto del mondo modelli di riferimento. Tuttavia, le nazioni che «intraprendessero vie alternative al mercato, o politiche eccessivamente illiberali, finirebbero con il danneggiare le proprie economie più di quanto abbia fatto l'eccesso del nostro laissez-faire». Se gli altri paesi trarranno una lezione anti-mercato da questa crisi, intende dire Posen, sarà a loro danno, mentre il potere Usa ne verrebbe paradossalmente consolidato.

Nicholas Eberstadt, dell'American Enterprise Institute, sottolinea come il potere economico e l'influenza geopolitica siano misure «relative». «Concentrarsi sulle vulnerabilità dell'America senza cimentarsi nello stesso esercizio per le altre potenze esistenti o emergenti ci lascerà con un'analisi incompleta, per non dire distorta». Anche Russia, Cina e India hanno «enormi vulnerabilità economiche, che potrebbero rallentare in modo significativo o persino far fallire i loro attuali ambiziosi obiettivi di crescita». Insomma, si chiede sarcasticamente Eberstadt: «Scambierei le nostre vulnerabilità economiche per le loro (o per quelle dell'Europa o del Giappone)? Mai in questa vita».

Nel dibattito sul blog del CFR è intervenuto anche Joseph Nye, docente di relazioni internazionali ad Harvard e teorico del "soft power". «Quando scrissi "Bound to Lead", nel 1989, l'opinione comune era che gli Stati Uniti (e la loro economia) fossero in declino. Non ci ho creduto allora, e non ci credo oggi», «ma pagheremo un prezzo per la recente debacle nel nostro "soft power". L'apparente efficienza del nostro mercato ha rappresentato un'importante fonte di attrazione verso gli Stati Uniti». La domanda da porsi è «se recupereremo il nostro "soft power", o se una volta scottati tutti si terranno ben alla larga».

Sebastian Mallaby osserva che «dopo tutto il sistema politico americano ha dato una risposta politica forte in tempi brevi», mentre «in Europa, al contrario, le autorità sono in difficoltà nel dare una risposta coordinata». Insomma, «almeno relativamente all'Ue», gli Usa non se la passano così male. «Non molto tempo fa gli europei si compiacevano del fatto che la super-finanza americana stesse avendo ciò che si meritava; ora le banche europee sembrano deboli almeno quanto quelle americane». Nemmeno l'Asia è immune a una stretta creditizia globale e il modello asiatico basato sulle esportazioni è «vulnerabile» ad una stagnazione della domanda globale.

Ancor più che il potere americano, a rischiare è la globalizzazione nella sua forma attuale, secondo Mallaby. E' da sempre un fenomeno controverso, ma finché rimane un progetto «liberale», è «accettabile l'idea che degli stranieri possiedano compagnie o asset americani», cercando di massimizzare i loro profitti. Tuttavia, più gli stati accresceranno il loro ruolo nell'economia globale, più aumenterà la diffidenza e sarà difficile aprirsi alla concorrenza e agli investimenti stranieri, presupposti della globalizzazione. Due esempi: «L'Europa avrebbe tranquillamente potuto fare affidamento sul gas russo, se il governo di Mosca non si fosse intromesso. Invece si è intromesso, e molto, così che il gas è divenuto una questione di politica estera. Gli Stati Uniti avrebbero tranquillamente potuto contare sui risparmiatori esteri per finanziare il loro debito, se i governi stranieri non si fossero inseriti. Banche centrali ed enti governativi sono divenuti fornitori chiave di capitali degli Stati Uniti, e così i finanziamenti esteri sono divenuti una sorta di cavallo di troia» in mano a potenze rivali.

Monday, October 13, 2008

Meno tasse, non meno tassi

Le borse europee "rimbalzano" dopo il piano Ue, ma non credo che la tempesta sia già alle nostre spalle. Anzi, è probabile che dopo l'"euforia" di oggi domani i mercati ricomincino a perdere.

A bloccare i prestiti interbancari, e a determinare la stretta creditizia che rischia di abbattersi anche sull'economia reale aggravando la recessione, è la mancanza di fiducia. «Nessuno sembra in grado di capire quali carte gli altri hanno in mano, e quindi quale solidità abbiano gli attori del mercato creditizio», spiega Carlo Lottieri. Ritornare sulle vere cause della crisi non sarà mai tempo sprecato. Così ci torna Lottieri:
«L'affermarsi di quegli strumenti che oggi creano tanta opacità nel sistema credizio internazionale, però, non è stato soltanto il prodotto di innovazioni finanziarie. Questa marea di contratti che "smaterializzano" progressivamente il rapporto tra i beni reali e i titoli scambiati non esisterebbe, almeno non in tali dimensioni, se nei quasi vent'anni del regno di Alan Greenspan non si fosse conosciuta una mostruosa espansione monetaria. Adottando tassi di interesse artificiosamente bassi, la Fed ha causato quella crescita abnorme della quantità di moneta che è la vera causa della tragedia che stiamo vivendo... In poche parole, moltiplicando la massa dei dollari in circolazione gli americani sono vissuti al di sopra dei loro mezzi. In presenza di prestiti ad interessi reali negativi (ciò succede quando il tasso di prestito è inferiore all'inflazione), è fatale che vi sia una corsa ad indebitarsi... se gli americani sono pieni di debiti non è solo e in primo luogo per effetto di una cultura o di un costume (come spesso si dice), ma è invece pure il prodotto previsto e prevedibile di una politica monetaria sciagurata...»
Autorità pubbliche - le banche centrali - fissano il costo del denaro e possono commettere degli errori "politici", perché il prezzo di un bene così centrale nel sistema, come il denaro, ha una funzione importantissima:
«È il keynesismo finanziario di Greenspan che ha fissato un costo troppo basso del denaro e in tal modo ha favorito comportamenti irrazionali. In un'economia di mercato il prezzo, infatti, ha la funzione di selezionare i comportamenti, ma se è tenuto basso da una decisione politica questo filtro smette di operare. A prezzo zero la domanda tende all'infinito e le conseguenze poi non tardano a vedersi. Nel credito, un costo del denaro ragionevole fa sì che chieda denaro e l'ottenga soltanto chi ha un progetto in grado di remunerare l'investimento (o dispone di solide garanzie), e questo fa sì che il denaro si orienti dove può essere utilizzato al meglio».
Questo meccanismo virtuoso è del tutto saltato a causa la politica espansiva della Fed.

La crisi ci restituirà almeno il Berlusconi del 1994, come ipotizza Carlo Stagnaro? Difficile da dire. Per ora il premier non ha annunciato, ma ha solo accennato, seguendo il suo intuito, alla possibilità di ridurre le tasse. Ma non c'è nulla di concreto. Eppure, per tentare di evitare la recessione piuttosto che moltiplicare le garanzie pubbliche o inondare le economie di liquidità, rischiando di far pagare il conto della crisi ai cittadini sotto forma di inflazione, i governi potrebbero agire usando la leva fiscale per lasciare più risorse alle attività produttive, stimolando così la crescita.

Antonio Martino esorta Berlusconi a non ascoltare «i benpensanti, i prudenti, gli indecisi» e a dare «quella scossa fiscale di cui il nostro sistema produttivo da troppo tempo ha inderogabile bisogno».
«Dobbiamo andare in quella direzione con una profonda riforma fiscale e l'adozione di un'unica aliquota d'imposta sul reddito. Solo se faremo dell'Italia un ambiente favorevole agli investimenti ed alle attività produttive potremo sperare di contrastare la crisi produttiva che inevitabilmente seguirà l'attuale crisi finanziaria. Questo va fatto subito, prima che i problemi divengano gravi ed intrattabili. L'economia italiana ha bisogno di uno shock che la stimoli e la svegli, che faccia ripartire lo sviluppo prima dell'arrivo della recessione».
Carlo Stagnaro fissa i paletti entro i quali i tagli fiscali sarebbero efficaci: non dovranno avere fini redistributivi, dovranno essere semplici, generalizzati, consistenti.
«Tagliare le tasse non vuol dire limare qualche zero virgola per cento, ma, letteralmente, abbatterle. Una buona idea sarebbe ripartire dal "ganzissimo" progetto tremontiano delle due aliquote, 23 e 33 per cento. Ma qualunque schema può andar bene, purché, appunto, punti allo choc positivo sull'economia».

Thursday, October 09, 2008

Una proposta: fuori i conti

«In Europa, dove ci vantiamo di avere una governance migliore di quella americana, le banche non sono al riparo dalla crisi», fa notare Francesco Giavazzi, oggi sul Corriere, in un editoriale che smonta il mito delle "regole". «La favoletta è ormai morta e sepolta», incalza Alberto Mingardi, su il Riformista. Quella «favoletta» secondo cui le regole europee sarebbero state «un efficace paracadute contro una crisi causata da un (preteso) eccesso di deregulation negli Stati Uniti»; la «favoletta» della «diversità europea (il conservatorismo europeo) contro il greed di Wall Street».

Ma «lo spirito d'emergenza trascinerà con sé tutto» e «nulla garantisce che decisioni prese per esorcizzare la paura producano gli effetti desiderati», avverte Mingardi, perché «la frenesia dei governi rallenta il "processo di scoperta" dei prezzi. Gli acquirenti privati si allontanano e hanno la tentazione di entrare in gioco soltanto con una (remunerativa) benedizione statale». I fondi di garanzia come calamita di "speculatori".

Vi è nota la mia avversione per l'intervento statale. Ma se statalismo dev'essere, che sia serio. Ieri sera il governo italiano ha annunciato un fondo di 20 miliardi di euro che il Tesoro potrà utilizzare per ricapitalizzare quelle banche a rischio di fallimento che non riuscissero a trovare sul mercato i capitali necessari. Ma lo Stato entrerebbe nella proprietà di queste banche sottoscrivendo «azioni privilegiate prive di diritto di voto». Ciò significa che proprietà, e probabilmente management, di quelle banche rimarrebbero invariati. I denari dei contribuenti non verrebbero "regalati" ma investiti - ed è già qualcosa - ma si derogherebbe pericolosamente a una delle regole fondamentali per il buon funzionamento del mercato: chi sbaglia, paga. Se vuole giocare, lo Stato giochi sul serio.

Riguardo il taglio dei tassi da parte della Fed e della Bce, osserva Mingardi, «se l'indebitamento di aziende e privati negli ultimi anni ha raggiunto livelli insostenibili a causa del tasso d'interesse troppo basso, qui stiamo dando metadone all'economia mondiale. Non cercando di disintossicarla».

Intanto, Alberto Bisin, Lakeside Capital e Phastidio.net propongono tutti la stessa soluzione: obbligare le banche ad aprire i libri contabili, in modo che si sappia chi ha commesso errori e di quale gravità, e l'erogazione di crediti possa riprendere tra chi non li ha commessi, o ne ha commessi meno. Perché di una soluzione apparentemente così semplice neanche si sente parlare? Phastidio.net individua un primo ostacolo:
«Da questa operazione-trasparenza i regolatori uscirebbero con le ossa rotte, e si avrebbe la definitiva conferma della loro cattura da parte dei regolati».
«Vi è una forte reticenza a rendere pubbliche tali informazioni e ad agire in base ad esse», osserva anche Michele Boldrin, su noiseFromAmeriKa:
«La ragione mi sembra chiara, anche se triste: rendere le informazioni pubbliche forzerebbe ad agire su di esse, portando al fallimento di alcune banche (non tutte, alcune). Le potenziali vittime non gradiscono, sperano di salvarsi ed il regolatore (parzialmente o totalmente catturato da un'industria che protegge se stessa) si adatta cercando di salvare tutte le banche. Pessima idea: solo alcune banche possono essere salvate, qualsiasi ipotesi sia vera. Tentare di salvare tutte le banche potrebbe portare alla distruzione del sistema nel suo complesso. Questo mi sembra il rischio, serio, che stiamo correndo. È necessario accettare che vi siano dei morti per evitare la strage...»
Con una efficace metafora Boldrin spiega come la crisi di fiducia tra gli istituti di credito, che potrebbe portare a una stretta creditizia anche per le imprese, e quindi causare una recessione, richieda un'operazione trasparenza:
«Il cavallo non intende bere perché teme che l'acqua sia avvelenata. L'unica soluzione, quindi, è convincere il cavallo, provandoglielo, che l'acqua avvelenata non è. Semplice no? Occorre far esaminare l'acqua e, mano a mano che arrivano i risultati, farli vedere ed intendere al cavallo, facendogli capire sia quale parte del ruscello non è avvelenata sia quale lo sia e come si intenda bonificarla».
Ciò che sta accadendo, conclude Boldrin, è che «un fatto reale relativamente piccolo (-500 miliardi in equities) ed una serie di segnali credibili e pessimisti da parte delle autorità politiche e monetarie, hanno convinto tutti di gettare al vento le aspettative ottimistiche e di assumere quelle super pessimistiche, portando l'economia su un nuovo sentiero di equilibrio, un sentiero da depressione».

La partita non è ancora chiusa

«Gli elettori non hanno ancora deciso». Parola di Karl Rove, l'ex stratega elettorale di Bush: «Probabilmente ci sono più elettori indicisi e aperti a cambiare le proprie scelte che in qualsiasi altra elezione dal 1968».

Ciascuno dei candidati «ha di fronte una grande sfida». Per vincere, McCain deve dimostrare di sostenere un «cambiamento conservatore responsabile», dipingendo Obama come un liberal "fuori corso" non ancora pronto per essere presidente.

Il problema di Obama è che «gli elettori non si sono ancora liberati delle profonde preoccupazioni circa la sua mancanza di competenza. Non avendo portato a termine praticamente nulla nei suoi tre anni in Senato, eccetto aver vinto la nomination democratica, Obama deve dimostrare di essere all'altezza. Piace agli elettori, le condizioni lo favoriscono, ma non ha ancora chiuso la partita. Potrebbe avvicinarsi al traguardo con quel mix di svogliatezza e disattenzione mostrate in primavera contro la Clinton». Deve fare attenzione, perché «dei recenti candidati, solo Michael Dukakis nel 1988 ha avuto una percentuale più ampia di elettori che dichiaravano ai sondaggisti di non ritenere che avesse le necessarie competenze per essere presidente».

Legnata sui denti

Com'era ampiamente prevedibile e previsto, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i conflitti di attribuzione sollevati da Camera e Senato a seguito delle sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Milano sul caso Englaro.

Una decisione ovvia per chiunque fosse provvisto di qualche fondamento di diritto pubblico o anche solo di una buona dose di senno. Evidentemente i parlamentari che hanno spinto il Parlamento a sollevare questo inesitente conflitto di attribuzione non ne sono provvisti e si sono presi una bella legnata sui denti. Nessun calcio di rigore decretato, il punteggio rimane 2 a 0 per la libertà del paziente.

Ribadendo che il conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici» (tradotto: non si può sollevare solo perché le sentenze sono politicamente sgradite), la Consulta spiega che le pronunce delle corti in questione «non hanno rappresentato alcun limite per le funzioni del legislatore», perché «hanno efficacia solo per il caso di specie» e non possono essere considerate come «meri schermi formali per esercitare, invece, funzioni di produzione normativa o per menomare l'esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento, che ne è sempre e comunque il titolare». Il Parlamento, chiarisce la Corte, «può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».

E qui sta il punto, nei «beni costituzionali coinvolti». Nella sentenza la Corte non fa esplicito riferimento a quei «beni costituzionali coinvolti». Tuttavia, è sulla base di principi costituzionali che sono state emesse le sentenze sul caso Englaro. Un'eventuale nuova legge dovrà tenerne conto, pena il rischio di incosituzionalità.

Wednesday, October 08, 2008

A McCain serve una ricetta anti-crisi

Se, come da pronostici, McCain perderà, non sarà stato per i dibattiti televisivi, nei quali per ora a mio avviso si è ben comportato, facendo il possibile. Certo, vi diranno che anche ieri notte ha vinto Obama, ma a questo punto tutti hanno negli occhi le sue percentuali di vantaggio nei sondaggi (soprattutto quelli negli stati in bilico) e si lasciano volentieri condizionare. Anche se fosse andato meglio McCain, chi si azzarderebbe a sussurrarlo quando la partita sembra ormai chiusa a favore di Obama? Se vogliamo dire che McCain ha perso perché non ha vinto, questo sì, si può dire.

Ma ieri notte l'unico errore che si può davvero imputare a McCain è non aver tirato in ballo Clinton quando Obama ha indicato nella deregulation la causa della crisi finanziaria: fu Clinton, d'accordo con i repubblicani, tra cui McCain, a volere la deregulation. McCain avrebbe dovuto ricordarlo non per dare le colpe a Clinton, ma per difendere quella decisione e mostrare al pubblico quanto Obama sia più a sinistra di Clinton. Un'occasione sprecata.

Per il resto, McCain è apparso sciolto e a suo agio, anche se il format del "town hall" non lo ha aiutato quanto probabilmente egli stesso si aspettava. In parte, perché Obama è stato bravo, confindenziale; in parte, perché il dibattito è risultato nel complesso noioso, le domande erano troppo "aperte", lasciando ai candidati (soprattutto Obama) la possibilità di divagare propinando più o meno sempre lo stesso minestrone preconfezionato.

McCain era nella posizione più scomoda: azzoppato dai fallimenti della presidenza in carica, avrebbe bisogno di discostarsene senza però sconfessare la sua parte politica. Doveva attaccare e l'ha fatto, si è spinto fino al limite, senza oltrepassarlo, dell'aggressività ammissibile nei confronti del suo avversario. Attaccandolo di più, e sul personale, sarebbe apparso ripetitivo e avrebbe messo troppo a nudo la sua già evidente debolezza, dando l'impressione di essere disperato. Quello che è riuscito a fare, in un dibattito molto simile (anche se il format era diverso) al precedente rispetto ai temi trattati (moral issues assenti, faccio notare tra parentesi), è far emergere bene le differenze tra i due: su health care, public spending, tasse e politica estera, sono vistose.

Questa volta sia Obama sia McCain sono stati meno vaghi sulla crisi economica. McCain ha addirittura tirato fuori una proposta a sorpresa, l'ipotesi di una rinegoziazione dei mutui, ma soprattutto non si sono risparmiati colpi sulle cause: la deregulation, secondo Obama; Fannie Mae e Freddie Mac, il Congresso e i controllori pubblici, secondo McCain. Su questo posso dire che McCain si è mosso nella direzione che auspicavo, ma ancora troppo poco.

Manca un mese e bisogna vedere se in quest'arco di tempo McCain riuscirà a sollecitare gli istinti più profondi degli americani, se riuscirà a convincerli a temere il tassa-e-spendi del troppo liberal e inesperto Obama più della crisi. Difficile, ma per farlo deve parlare con più competenza di economia. A Obama basta l'inerzia, lui deve tirare fuori, e saper spiegare bene, una ricetta anti-crisi.

Mi spaventano più i politici che i mercati

Sarò un pazzo, un illuso, ma continuo a temere molto più la politica che i mercati. Se intervento statale dev'essere, che non sia un intervento imbecille. I governi dovrebbero intervenire studiando caso per caso per aiutare fusioni e processi di ristutturazione dei punti di maggiore criticità, e non con fondi a pioggia che rischiano di calamitare l'ingordigia degli speculatori, di alimentare una corsa all'aiuto di stato nella quale chi primo "fallisce" meglio alloggia. Tremo al pensiero del Consiglio dei ministri in corso oggi.

Ho l'impressione che i continui annunci e le dichiarazioni in ordine sparso dei capi di governo dei maggiori paesi europei non abbiano fatto altro che alimentare panico e confusione sui mercati. Per fortuna non è passata l'idea di Berlusconi e Sarkozy di un fondo comune europeo per il salvataggio delle banche, su cui sarebbe dovuto confluire addirittura il 3% del Pil, una follia a cui Germania e Gran Bretagna si sono opposte.

Se manca la fiducia, qualsiasi somma stanziata preventivamente rischia di venire bruciata in un giorno; così come il taglio dei tassi deciso dalla Fed e dalla Bce in questo momento potrebbe rivelarsi inutile, visto che le banche non hanno liquidità e non si fidano l'una dell'altra.

Un blogger che in tempi non sospetti aveva messo in guardia sul fatto che l'Europa non fosse affatto al riparo dalla crisi è Phastidio.net, bisogna dargliene atto. Se il Pil non è l'unica grandezza macroeconomica da considerare, qualcosa però ci dice sulla salute dell'economia reale. Il Pil Usa nel secondo trimestre ha rallentato rispetto alle previsioni, ma si mantiene positivo, a +2,8%. E se ciò fosse dovuto essenzialmente alle esportazioni, di questi tempi non bisognerebbe comunque disprezzarlo, visto che negli anni '30 fu il protezionismo di Hoover ad aggravare la crisi. Mi sembra, invece, che l'Europa sia messa peggio (zona euro e i 27 poco al di sopra dell'1%, l'Italia ferma a 0 - zero), che pesino fattori strutturali, oltre alla stretta creditizia causata dalla crisi finanziaria, che potrebbero prolungare la crisi e portare alla recessione.

Un altro piccolo aspetto che Phastidio.net ha colto - e a cui né la stampa né l'opposizione hanno fatto caso - è che «Tremonti cinque anni fa proponeva [nella bozza di Dpef 2003]... di imitare quella finanza "perfida" e figlia della globalizzazione che oggi tanto ama esecrare». In Italia siamo senza dubbio messi male, se pensiamo che l'alternativa è Bersani, l'uomo delle coop.

Fallimento del libero mercato? Nient'affatto, non mi stanco di ripeterlo, stavolta usando le parole di Liberty Soldier... è la «crisi del Keynesianesimo. L'idea delle politiche a debito per favorire investimenti e consumi. L'idea della banca centrale come regolatore dell'indebitamento pubblico e privato. Più specificatamente, la crisi del denaro inventato. Della stampante federale».

... e di Lorenzo Infantino, su Avvenire:
«Un tasso d'interesse spropositatamente basso, per un periodo di tempo spropositatamente esteso, alimenta sempre fenomeni speculativi: perché alimenta una patologica corsa all'indebitamento e la conseguente creazione di piramidi di carta... sono state le pubbliche autorità a fornire alle istituzioni finanziarie i mezzi per realizzare il loro avventurismo... il tasso d'interesse è un prezzo. Tenerlo spropositatamente basso significa privarlo della funzione selettiva nei confronti dei progetti produttivi. E le iniziative meno economiche sottraggono risorse a quelle più competitive».

Stati Uniti in crisi, la Cina mostra i muscoli

Una notizia che avrebbe avuto senz'altro l'attenzione che merita, se in questi giorni la crisi finanziaria non avesse monopolizzato le prime pagine: la Cina ha annullato o sospeso numerosi contatti militari con gli Stati Uniti in reazione a una fornitura militare statunitense a Taiwan del valore di circa 6,5 miliardi di dollari. Cancellate o rinviate visite ad alto livello e scambi commerciali legati agli aiuti umanitari, fissati per la fine di novembre. La fornitura militare a Taiwan butta al vento anni di lavoro per costruire un rapporto di fiducia tra Cina e Stati Uniti sul piano militare, minaccia la sicurezza della Cina e ignora il diritto internazionale, ha protestato il ministro degli Esteri cinese.

Bisogna considerare che la Cina tiene puntati su Taiwan i suoi missili e che in realtà, diversamente da altre volte, le armi del pacchetto sono volte a migliorare le capacità di difesa dell'isola senza alterare gli equilibri strategici nella regione. Inoltre, il nuovo presidente di Taiwan, Ma Ying-Jeou, ha mostrato di voler perseguire una politica di progressivo riavvicinamento a Pechino, a cominciare dai rapporti economici e commerciali.

Eppure, la Cina questa volta eccepisce. Segno che i rapporti di forza tra Pechino e Washington nella regione stanno progressivamente mutando a favore dei cinesi, che sentono di avere sufficiente peso politico per poter esercitare pressioni su Washington.

L'amministrazione Bush ha proseguito negli sforzi delle amministrazioni precenti per integrare la Cina nel sistema internazionale, ma si è anche mossa per preparare l'America a fronteggiare quella che appare una potenza rivale, se non ancora nemica: rafforzando la cooperazione economica e militare con alcuni importanti stati asiatici, tra cui Giappone, India e Vietnam (ultimo atto la recente ratifica da parte del Congresso di un accordo di cooperazione nucleare con l'India); diminuendo la sua presenza militare in Europa per rafforzarla nelle basi del Pacifico e dell'Asia centrale.

Eppure, gli Stati Uniti hanno una comprensione ancora limitata delle intenzioni cinesi. E' una delle osservazioni contenute nel rapporto di un board indipendente, l'International Security Advisory Board, sulla modernizzazione delle forze armate cinesi, destinato al segretario di Stato Usa. Il problema è capire come la Cina intende usare le sue forze armate, se può essere inclusa tra le potenze che lavorano alla stabilità o invece al mutamento degli equilibri internazionali, se si sta preparando a un eventuale confronto armato con gli Stati Uniti. In ogni caso, conclude il rapporto, «la modernizzazione militare cinese sta procedendo a ritmi che destano preoccupazione anche assumendo la più benevola interpretazione delle motivazioni». L'ISAB suggerisce quindi di prendere delle contromisure: difendere Taiwan (non ripetendo l'errore commesso con la Georgia); rassicurare gli alleati della regione; contrastare lo spionaggio; migliorare le difese anti-missile.

I cinesi «hanno ampiamente chiarito le loro intenzioni», osserva Gordon G. Chang su Frontpage Magazine, e gli Stati Uniti dovrebbero «comprendere le ambizioni geopolitiche di Pechino». Purtroppo, la Cina è una nazione «potenzialmente ostile», spiega l'analista: «E' stata l'unica superpotenza mondiale per secoli, e oggi si sta preparando a riconquistare quel ruolo». Ma non può riuscirci senza una forza militare superiore a quella americana, soprattutto sui mari, nei cieli e nello spazio.

Eppure, molti a Washington sono ancora convinti che Pechino si accontenti dello status quo, di far parte del sistema internazionale per la prima volta nei suoi sei decenni di vita. Pechino però non ha nascosto le sue ambizioni nell'ultimo decennio, osserva Chang. L'aumento esponenziale della spesa militare, l'iniziativa diplomatica denominata Shanghai Cooperation Organization, le provocazioni militari e spaziali, e in ultimo la reazione di questi giorni alla fornitura di armi a Taiwan, lo dimostrano: «La Cina, di nuovo sicura di sé e sempre più assertiva, sta lavorando per mutare il sistema globale e adattarlo ai suoi obiettivi».

Tuesday, October 07, 2008

Troppe leggi, come i rifiuti. Lezione dell'IBL ai legislatori

Questa mattina i valorosi dell'Istituto Bruno Leoni sono stati ascoltati dalla Commissione parlamentare per la semplificazione legislativa, il cui contraltare a livello governativo è il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli. Gli studiosi del Bruno Leoni (il direttore Alberto Mingardi, Silvio Boccalatte, responsabile questioni giuridiche dell'Istituto, l'avvocato Serena Sileoni, e Piercamillo Falasca, responsabile fisco e finanza pubblica) hanno ovviamente sottolineato la necessità di una semplificazione normativa agendo sia sullo «stock», cioè sulle leggi esistenti, sia sul «flusso», adottando cioè misure che semplifichino le leggi in fieri.

Uno degli studiosi, in particolare, ha proposto un paragone significativo, e malizioso, tra produzione di leggi e produzione di rifiuti: come i treni che partivano verso la Germania durante l'emergenza rifiuti, lo strumento "taglia-leggi" avanzato dal ministro Calderoli può essere una misura emergenziale, che andrebbe comunque accompagnata da uno strumento per lo «smaltimento strutturale» delle leggi e da una produzione delle leggi più saggia e misurata: deregulation, insomma, senza lasciarsi fuorviare dalle letture prevalenti sulla crisi finanziaria Usa. Questa sera, a partire dalle 22 circa, l'audizione sarà ascoltabile su Radio Radicale, all'interno dello Speciale Commissioni.

Il fantastico mondo di Biden

«Sarah Palin può non conoscere il mondo quanto lo conosce Biden, ma almeno la maggior parte di ciò che sa è vero». Così il Wall Street Journal, in un editoriale di ieri in cui elenca le gaffe del candidato vicepresidente di Obama, quello che tra i due dovrebbe essere l'esperto, quello che ha guidato la Commissione Esteri del Senato.

La Rai si vergogna di "Luther"

Forse non si sarà trattato di un capolavoro, ma "Luther" (2003) era un film che meritava una prima serata nella scialba e triste programmazione analogica delle nostre tv nazionali. E invece la Rai, sabato scorso, ha pensato di sbatterlo neanche in seconda serata, ma in "terza", all'una di notte. Il film - ben fatto e avvincente, anche se confusionario nel riportare il contesto e le dinamiche "politiche" (effettivamente piuttosto complesse) in cui si inseriva la Riforma luterana - equivale più o meno ai "filmissimi" che Canale5 manda in onda di solito di lunedì. Perché nascondere in quel modo "Luther", quando non era affatto un film di cui vergognarsi rispetto a tanti programmi semplicemente raccapriccianti?

Monday, October 06, 2008

La crisi è grave, o i politici fanno terrorismo finanziario?

E' già defunto e sepolto il piano Paulson, sul quale l'intero establishment americano aveva riposto le sue speranze e profuso tante energie per una rapida approvazione da parte del Congresso? A giudicare dalla riapertura negativa di Wall Street (-5%) si direbbe di sì, ma forse è troppo presto per sotterrarlo.

Quella di oggi è comunque una giornata nerissima per tutte le borse: un'ecatombe epocale. Asiatiche, europee, non se ne salva nessuna. Milano ha chiuso perdendo oltre l'8%, Londra quasi il 7%, Parigi e Francoforte perdendo oltre il 7%. Mosca il 19%.

Da non addetto ai lavori mi viene però da pensare che o l'Europa, e l'Italia, hanno sistemi bancari tutt'altro che solidi, diversamente da come qualcuno in queste settimane ci ha voluto far credere, alludendo a una certa "superiorità" del modello europeo su quello americano; oppure, i nostri politici dovrebbero starsene più zitti. Se il sistema bancario e l'economia reale sono così solidi come viene ripetuto, è possibile - mi chiedo - che i continui annunci, prima la Merkel, poi Sarkozy e Berlusconi, di interventi da parte dei governi inducano gli investitori a temere che la situazione sia ben più grave di quella che è in realtà, e quindi li convincano a ritirare dai mercati i loro investimenti?

Insomma, non vorrei che i mercati si stiano avvitando in una specie di circolo vizioso, per cui ad ogni ribasso i politici corrono ad annunciare nuovi interventi statali, annunci che a loro volta ottengono soprattutto di convincere gli operatori che la situazione è grave ed è meglio vendere. Quando la Merkel e Sarkozy annunciano misure a garanzia addirittura dei semplici depositi, c'è da rimanere più allarmati che rassicurati (come se diagnosticando un tumore inesistente, il medico facesse venire un infarto al paziente): o la situazione è davvero così grave da dover temere persino per i propri depositi, oppure i leader europei sono degli irresponsabili incompetenti che diffondono ulteriore allarmismo.

La Corea del Nord ha riportato i "realisti" alla realtà

Ne ho parlato alcuni giorni fa, ma non perdetevi il preciso, inappuntabile, lucido punto della situazione di 1972.

Il Papa non vedeva l'ora...

«Benedetto Croce aveva torto: se vogliamo vivere liberi e felici, non possiamo dirci cristiani». Oggettivista ci regala un post perfetto che mi risparmia quel paio di paragrafi che avrei voluto scrivere per commentare lo sciacallaggio di Ratzinger sulla crisi finanziaria.

Raffreddamento globale

Brillante e spassoso questo articolo su il Giornale di sabato scorso. Certo, sarebbe paradossale, direi tragicomico, se dopo anni di martellamenti sulle imminenti catastrofi dovute al surriscaldamento globale, venisse fuori che ciò che davvero rischiamo è una nuova "piccola", qualche secolo, era glaciale.
La rivista Nature per esempio intorno a maggio ci ha spiegato che dal 2010 al 2020 vedremo una drastica riduzione della temperatura terrestre per colpa del raffreddamento dell'oceano Atlantico; il mese scorso uno studio norvegese ci ha rivelato che se è vero (o forse no) che al Polo nord i ghiacci si assottigliano, al Polo sud invece aumentano di spessore e che comunque è una cosa normale che succede nei secoli dei secoli; e l'ultima novità, che arriva dalla Nasa, non più tardi di ieri l'altro, spiega che il sole non è mai stato così povero di macchie solari, che il vento solare si è misteriosamente indebolito, e la sensazionale conclusione è che forse «sarebbe il caso di aspettarsi una piccola era glaciale», inverni che più gelidi non si può. Raccontano che l'ultima volta che il sole è stato così inerte, la «piccola era glaciale» durò più o meno cinque secoli, fino nel 1850... Nord America, Siberia e Cina per esempio lo scorso inverno, non hanno mai visto tanta neve così, il 2008, che non è ancora finito, è stato battezzato dagli astronomi l'anno più bianco dell'era spaziale.
A questo punto, non rimane che fare una puntata dai bookmakers. Io mi gioco l'era glaciale, e voi?

Friday, October 03, 2008

Il mercato può farcela, McCain deve riprendere l'iniziativa

Il Wall Street Journal, dalla sua pagina degli editoriali, continua ad appoggiare il piano Paulson ma non si arrende al fatto che le colpe della crisi finanziaria in atto vengano fatte ricadere sul libero mercato e sulla deregulation bancaria voluta da Clinton e dai repubblicani nel '99. «Prima di concludere che i mercati hanno fallito, abbiamo bisogno di un'attenta analisi sul ruolo giocato dalla politica». E da questa analisi emerge chiaramente che la bolla immobiliare da cui tutto è partito «non sarebbe cresciuta così tanto senza i molteplici errori di Washington». Nelle rappresentazioni dei media e dei politici, invece, sono assenti le responsabilità dei politici e delle autorità pubbliche «nell'aver creato artificialmente un aumento dei prezzi delle case, riducendo artificialmente i rischi connessi ad asset estremamente rischiosi».

Sotto accusa sempre Fannie Mae e Freddie Mac, il Congresso e la Federal Reserve. Sotto l'esplosione fragorosa della bolla immobiliare è rimasto anche il sogno della "ownership society" coltivato dal presidente Bush, ma le colpe sono rigorosamente bipartisan. Delle amministrazioni Bush e Clinton, così come del Congresso, sia a guida repubblicana che a guida democratica, per aver incoraggiato, o non aver impedito, la concessione facile dei mutui. E della Fed (sia sotto Greenspan che sotto Bernanke), per aver tenuto troppo basso il costo del denaro troppo a lungo, contribuento alla "credit mania". "Drogando" il mercato con "soldi facili" la Fed ha aiutato la crescita economica e l'occupazione, finché però è sopraggiunta la crisi da overdose.

E mentre il Congresso vara un piano da 850 miliardi, Wells Fargo acquista Wachovia, dimostrando che il mercato può ancora farcela da solo, come osserva Macromonitor: «... pagando con azioni proprie per un valore di 15 miliardi di dollari... un segnale importantissimo al mercato e al Congresso: lasciateci lavorare e possiamo farcela da soli. Wells Fargo non ha chiesto nulla alla Fed, all'ente di tutela dei depositi o al governo federale, al contrario di quanto aveva fatto Citigroup; ha offerto un prezzo minore, ma si è accollata ogni rischio».

Il rischio del piano Paulson è che potrebbe non funzionare e dopo l'euforia iniziale nel medio-lungo periodo «potrebbe addirittura ritardare la ristrutturazione del sistema, fornendo incentivi distorti e false speranze. I compratori esistono, ma sorge il sospetto che la tentazione di scroccare qualche soldo al governo sia, per molte banche, troppo forte», vista l'aria propizia che tira.

La visione economica e le proposte di McCain, orientate alla libertà di scelta, a lasciare che siano gli individui a valutare i rischi economici da prendersi, e al taglio della spesa pubblica (non solo delle tasse, come faceva Bush), sono le più adeguate a dare un taglio netto con il moral hazard introdotto nel sistema dai policy maker, mentre i programmi sociali di Obama cercano tutti di ridurre una serie di rischi economici caricandoli sulle spalle dei contribuenti.

Posizioni antitetiche, ma il paradosso è che Obama rappresenta la continuità del tipo di politiche che hanno per lo meno aggravato la crisi, eppure a rimetterci l'elezione sarà McCain, candidato del partito del presidente in carica. McCain sta sbagliando tutto. Si è fatto risucchiare dalla crisi, è rimasto invischiato nelle trattative a Washington per far passare il piano Paulson, invece di rappresentare lo scetticismo degli americani. Obama può permettersi di restare immobile e appiattirsi sul piano di salvataggio approvato stasera dal Congresso, ma McCain deve prendere iniziative forti, più indipendenti che bipartisan.

Non dico che avrebbe dovuto contrastare esplicitamente il piano, ma che dovrebbe indicare nelle cattive politiche di democratici e repubblicani - a cui tra l'altro lui si è opposto - le colpevoli della crisi; sottolineare che le ricette di Obama perseverano in quella direzione; rivendicare i suoi voti su Fannie e Freddie. Sta dimostrando qualità che gli americani già gli riconoscono - "senso di responsabilità" presidenziale e approccio bipartisan - mentre cercano una figura di forte rottura con il malgoverno e la corruzione a Washington.

McCain-Palin vincono in tv, ma perdono la campagna

Non ho visto il dibattito di ieri notte tra i due candidati alla vicepresidenza Usa, ma pare che l'abbia vinto Sarah Palin, stando ai post di Mario Sechi e Andrea Mancia. Se non altro perché i mainstream media hanno propagandato della Palin un ritratto troppo brutto per essere vero.

Ignorante, provinciale, impreparata. Animati da pesanti pregiudizi urban radical chic, i grandi giornali e i grandi network televisivi hanno di fatto aiutato la Palin, creando sulla sua performance televisiva aspettative così basse che alla candidata è bastato evitare tecnicismi e concentrarsi su messaggi semplici e concisi per rendersi credibile e presentabile. La Palin è apparsa diversa quanto basta rispetto a come i media la dipingevano, mentre Biden non è ancora chiaro se sia o no impagliato.

Maria Laura Rodotà, che oggi sul Corriere ha firmato un imbarazzante (per lei) articolo sul dibattito ("Svelato il segreto della cofana di Sarah Palin", il titolo), viene sistemata a dovere da Bazarov, senza null'altro da aggiungere.

Nonostante il ticket repubblicano si sia ben comportato nei due dibattiti televisivi tenuti fino ad oggi, la crisi finanziaria rischia di rendere inutile qualsiasi sforzo. Quasi impossibile che vinca il candidato del partito del presidente in carica mentre l'America è in pieno panico finanziario e sull'orlo della recessione. Obama può permettersi di restare immobile e appiattirsi sul piano di salvataggio approvato stasera dal Congresso, ma McCain deve prendere iniziative forti, indipendenti più che bipartisan. Forse s'illude che il piano possa portare ristoro al sistema finanziario a tal punto da far passare in secondo piano la crisi almeno in queste ultime settimane di campagna. Il rischio è che invece, dopo qualche giorno di calma, altri fallimenti siano inevitabili, accompagnati dalla recessione.

Thursday, October 02, 2008

Anche Clinton difende la deregulation

E la rivincita della Bce monetarista

Già, perché forse pochi sanno che c'è una deregulation firmata non da Reagan e dagli avidi liberisti repubblicani, ma da Bill Clinton, che la rivendica persino contro il mainstream dei media, dei Democratici di oggi e del candidato alla presidenza Obama, che stanno vendendo la balla della deregulation bancaria del '99 come colpevole della crisi. L'intervista è su Newsweek e Clinton si difende:
«Prima di tutto non fu una completa deregulation. Abbiamo ancora regole stringenti, garanzie sui depositi bancari e requisiti sul capitale delle banche... Pensai che potesse portarci investimenti più stabili e una minore pressione su Wall Street per produrre profitti trimestrali che fossero sempre maggiori di quelli del trimestre precedente. Ci ho pensato molto ma non credo che aver firmato quella legge abbia niente a che vedere con la crisi attuale. Una delle cose che ha contribuito a stabilizzare la situazione è stato l'acquisto di Merrill Lynch da parte di Bank of America, che è stato più facile di quanto lo sarebbe stato se non avessi firmato quella legge».
Sotto accusa anche uno degli estensori della legge, il repubblicano Phil Gramm, oggi consigliere di McCain, ma Clinton lo difende:
«Non posso incolpare i repubblicani. Non è stata una cosa su cui mi hanno forzato la mano, credevo davvero che... ci avrebbe dato una fonte più stabile di investimenti a lungo termine».
La Gramm-Leach-Bliley Act, ricorda il WSJ, passò al Senato con 90 voti contro 8 e i voti favorevoli di Democratici quali Chuck Schumer, John Kerry, Chris Dodd, John Edwards, Dick Durbin, Tom Daschle e Joe Biden (oggi candidato vice di Obama). Altri tempi, tutt'altro genere di Democratici. E il WSJ fa notare che le meno controllate istituzioni finanziarie - gli hedge funds - costituiscono nel panico di oggi i «minori rischi sistemici». Forse perché nessun gigante para-statale ne ha fatto ampio ricorso per riempire i suoi portafogli...

Come abbiamo già sottolineato, le amministrazioni Clinton e Bush, così come il Congresso, sia a guida repubblicana che a guida democratica, hanno gravi responsabilità, per aver incoraggiato, o non aver impedito, la concessione facile dei mutui e per non aver agito in tempo e in modo efficace per evitare la crisi finanziaria, ma la deregulation del mercato bancario è una delle poche politiche azzeccate il cui merito va riconosciuto sia a Clinton che ai repubblicani.

Ma tra i responsabili della crisi ci sono tutti i poteri pubblici, di regolazione o di intervento. Oltre alla politica in senso stretto, quindi, c'è la politica della Federal Reserve dal 2001 ad oggi. Se non il gold standard, come tornano a proporre i libertari sull'onda della crisi, ci vorrebbe almeno una sana politica monetarista e friedmaniana da parte della Fed. E' quanto osserva Benedetto Della Vedova, su Il Foglio di ieri, difendendo la Bce dalle critiche che - lo ammetto - a volte anch'io ho lanciato.

La Fed, con Greenspan e Bernanke, ha mantenuto eccessivamente basso il costo del denaro contribuento alla "credit mania". Ciò ha "drogato" il mercato di "soldi facili", aiutando la crescita economica e quindi l'occupazione, finché non è sopraggiunta la crisi da overdose. La Bce, al contrario, ha mantenuto il costo del denaro alto, suscitando l'ira dei governi che così non sono stati aiutati a far crescere il Pil. Ammetto che anch'io mi sono spesso lasciato convincere dalla prospettiva allettante per l'economia di un minore costo del denaro.

Come correttamente ricorda Della Vedova, «il rigore monetarista di Francoforte (priorità a inflazione e base monetaria) ha rappresentato per anni il capro espiatorio della scarsa crescita europea, della disoccupazione e della diffusione di sentimenti anti-europei nell'opinione pubblica del continente. "Guardate alla Fed!", si diceva. L'indipendenza della Bce è stata messa in discussione: ultimo, nell'ordine, l'attuale presidente di turno dell'Ue Sarkozy a guidare il malcontento...».

In realtà, fa notare, «i problemi europei (e, moltiplicati per due, quelli italiani) si chiamavano e continuano a chiamarsi scarsa produttività, bassa mobilità, alta tassazione, sistemi di welfare iniqui e onerosi. Contestando le colpe dell'Europa dei banchieri, si distoglieva l'attenzione dall'eccesso di dirigismo e dai freni corporativi delle economie europee, che richiedevano e richiederanno, come cura, massicce iniezioni di libertà economica. Anziché affrontare i costi politici di riforme in grado di offrire alle imprese un ambiente più favorevole, si è tentata la scorciatoia di un taumaturgico intervento "politico" sulle autorità monetarie di Francoforte. Oggi il clima è radicalmente mutato: le scelte di Trichet, all'improvviso, da ottuse sono apparse responsabili. Molti di coloro che per dieci anni hanno fatto pressioni affinché la Bce cambiasse drasticamente orientamento, oggi salutano la prudente solidità del modello europeo di politica monetaria contrapposto a quello più politicamente interventista della Fed».

Insomma, la Bce in questi dieci anni è stata il «maggior interprete di quell'ortodossia monetarista e friedmaniana che del liberismo – anzi, direi di una sana economia di mercato – è una componente essenziale».