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Friday, June 16, 2017

Perché il Qatar ha una sola via d’uscita e il Medio Oriente una chance di pace

Pubblicato su formiche

Uno degli effetti "collaterali" del riallineamento di Doha potrebbe essere un contesto favorevole a un accordo tra israeliani e palestinesi

L'esito più probabile della crisi che si è aperta tra i Paesi arabi del Golfo è quello di una ricomposizione, con il Qatar che prende atto che le sue politiche "eterodosse", non allineate a quelle dei suoi vicini sono ormai incompatibili con la nuova fase geopolitica che si è aperta con la visita del presidente americano Trump a Riad e le nuove (vecchie) alleanze che si stanno formando. Per la piccola penisola che si affaccia sul Golfo si tratta di capire come salvare la faccia e, magari, anche guadagnarci qualcosina a titolo di indennizzo. Non mancano tuttavia margini di incertezza.

Se era inimmaginabile che una tale rottura fosse avvenuta senza il via libera di Washington, il presidente Trump ha esplicitamente rivendicato il ruolo degli Stati Uniti: durante i colloqui al vertice di Riad, focalizzati sull'impegno a contrastare ogni tipo di sostegno all'estremismo e al terrorismo islamico, i leader dei paesi arabi e sunniti hanno puntato l'indice verso il Qatar quale finanziatore del terrorismo (pur essendo anche di natura economica e geopolitica i motivi dei loro contrasti con Doha), ricevendo da Washington un esplicito incoraggiamento ad agire. "Ho deciso - in accordo con il segretario di stato Tillerson, i nostri grandi generali e il personale militare - che fosse venuto il tempo di chiedere al Qatar di finire di finanziare il terrorismo".

Che dietro alla rottura ci sia il semaforo verde Usa da un certo punto di vista aumenta le possibilità di ricomposizione della crisi. Difficile, infatti, che a Washington non siano stati ben ponderati obiettivi e rischi di una mossa non solo approvata ma anche incoraggiata. Altrettanto difficile quindi che a Doha, con la quale gli Usa non vogliono rompere, verranno poste condizioni impossibili da soddisfare. Anzi, tutto sembra organizzato per far sì che Washington sia l'unica via d'uscita per l'emiro al-Thani. Il segretario di Stato Tillerson, e più dietro le quinte il capo del Pentagono Mattis (in Qatar ha sede una base militare americana centrale per le operazioni in Medio Oriente) si sono subito attivati per avviare una mediazione.

Ma non ci sono due linee nell'amministrazione Usa. In questo caso le parole di Trump non sono estrapolate da un tweet o frutto di un'uscita estemporanea, ma sono state lette da un testo preparato e fanno esplicito riferimento ad una linea condivisa con Dipartimento di Stato e Pentagono. Si badi infatti che il segretario di Stato Tillerson, durante la sua conferenza stampa sulla crisi, ha sì chiesto agli Stati arabi di "allentare" l'embargo contro il Qatar, ma ha usato le stesse ferme parole del presidente nei confronti di Doha, alla quale "chiediamo di rispondere alle preoccupazioni dei suoi vicini". Ha ricordato che il Qatar "ha una storia di sostegno" a gruppi estremisti e violenti. "L'emiro del Qatar - ha concluso Tillerson - ha fatto progressi nel fermare il sostegno finanziario e nell'espellere elementi terroristi dal suo paese, ma deve fare di più e deve farlo più rapidamente". Il che significa che Washington intende sì giocare il ruolo di mediatore, ma non neutrale, e che il ritorno allo status quo ante per Doha non è un'opzione sul tavolo. Non sarà un bis del 2014, quando il Qatar aveva promesso di cambiare i suoi comportamenti ma dopo un breve periodo di maggiore cautela era tornato al suo "business as usual" con i gruppi islamici radicali e nei suoi rapporti con Teheran. Il Qatar sa bene che non può uscirne senza soddisfare le richieste dei suoi vicini, almeno quelle su cui insistono anche gli Stati Uniti (basta finanziare l'estremismo e il terrorismo islamico, ridimensionare i rapporti con l'Iran), e che qui si esaurisce il suo margine di trattativa per limitare i danni e chiedere qualche "indennizzo".

Se la mediazione funziona, e il Qatar si riallinea, l'amministrazione Trump potrà rivendicare un importante successo diplomatico e strategico: non permettere a Iran, Russia e Turchia di dividere gli alleati arabi dell’America. D'altra parte, qualcosa può sempre andare storto, anche perché i veri obiettivi e le "linee rosse" degli altri attori non sono completamente noti. La mossa non è totalmente priva di rischi, dal momento che costringe le due potenze regionali amiche del Qatar, che ambiscono a ridefinire a loro favore i rapporti di forza in Medio Oriente, ad uscire allo scoperto e ad esporsi. E infatti subito dopo l'apertura della crisi il ministro degli esteri iraniano è volato ad Ankara e i due Paesi si sono impegnati a sostenere Doha. Dal punto di vista dell'emiro al-Thani il sostegno iraniano è più realistico e concreto, ma politicamente meno praticabile. Accettarlo, allineandosi apertamente a Teheran, significherebbe varcare il confine tra mondo sunnita e sciita, quindi la sospensione o l'espulsione del Qatar dal GCC (Gulf Cooperation Council), il probabile addio della base militare americana, e forse anche la destabilizzazione politica interna. Un conto è avere interessi economici comuni, tutt'altro stringere con Teheran un'alleanza strategica contro i "fratelli" sunniti. Il sostegno diplomatico e retorico da parte turca è stato persino più sbandierato di quello iraniano, spingendosi fino all'aiuto militare. Ma nel medio-lungo periodo è anche meno realistico e concreto. Data la distanza geografica, Ankara non ha (ancora?) una sufficiente proiezione di potere per diventare il "protettore" di Doha rispetto ai suoi vicini arabi e agli Stati Uniti. Inoltre, per l'economia qatarina sarebbe insostenibile a lungo, troppo costoso, dipendere da spedizioni via mare e via aerea per quanto riguarda i beni di prima necessità. Sia pure improbabile, se l'Iran e anche la Turchia, pur essendo membro della Nato, decidono di alzare la posta e indurre il Qatar a resistere, entriamo in un territorio sconosciuto e pericoloso.

Se per i Paesi arabi del Golfo e l'Egitto che hanno fatto scattare l'ultimatum nei confronti di Doha l'espansione e le ambizioni egemoniche iraniane rappresentano la minaccia più immediata, a preoccuparli è anche l'attivismo di Ankara, il disegno neo-ottomano del presidente turco Erdogan, che si proietta verso sud. Ricordano fin troppo bene che prima del colonialismo europeo, il Medio Oriente è stato di fatto suddiviso tra i persiani e gli ottomani, con gli arabi marginalizzati. Per evitare il ripetersi di questo scenario, hanno bisogno di contrapporre alle mire egemoniche di Iran e Turchia un fronte arabo-sunnita compatto, che non può sopportare defezioni e tuttavia non può fare a meno - dal punto di vista militare ed economico - di una stretta cooperazione con Israele.

A pagare il prezzo della futura, probabile ricomposizione potrebbe essere Hamas, dal momento che proprio il sostegno alla Fratellanza musulmana da parte qatarina è tra i motivi principali della rottura delle relazioni diplomatiche con Doha. Il Qatar ha già chiesto ufficialmente ad Hamas di non usare il suo territorio per dirigere attività contro Israele. Anzi, secondo fonti israeliane e palestinesi concordi, due alti dirigenti di Hamas sono già stati espulsi dal Paese. Se l'embargo nei confronti del Qatar ha di tutta evidenza lo scopo di riallineare la sua politica estera a quella dei suoi vicini in un fronte anti-iraniano, uno degli esiti collaterali ma gravido di conseguenze, osserva uno dei massimi studiosi di politica estera americana, Walter Russell Mead, potrebbe essere quello di scalzare Hamas dal potere nella Striscia di Gaza, unificando i palestinesi sotto la guida di una più flessibile Fatah, che sarebbe economicamente e politicamente dipendente da un fronte unito di Paesi del Golfo.

In questo contesto, continua Walter Russell Mead, non si può escludere che il corso degli eventi non finisca per favorire la prospettiva di un qualche accordo tra israeliani e palestinesi. Un accordo, per esempio, che riconosca una sovranità araba sui siti sacri islamici di Gerusalemme e al contempo assicuri un'entità statale palestinese depurata da Hamas, sotto il controllo degli Stati del Golfo e dell'Egitto. Un esito che potrebbe soddisfare le esigenze di tutti gli attori coinvolti. Israele potrebbe contare sulla garanzia dei suoi alleati arabi sul comportamento dei palestinesi; gli arabi potrebbero salvare la faccia mentre rafforzano la loro intesa strategica con Israele; e l'Autorità palestinese ottenere il riconoscimento cui mira da decenni, ricevendo cospiscui finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo e l'Egitto e una "legittimazione religiosa" dai sauditi. Naturalmente le variabili in campo sono innumerevoli e non consentono di fare previsioni, ma il corso degli eventi potrebbe andare in questa direzione. E sarebbe certo una di quelle ironie che a volte la storia ci riserva, se l'eredità della politica estera di Obama dovesse essere un'alleanza arabo-israeliana in funzione anti-iraniana e una storica stretta di mano tra Netanyahu e Abbas sotto lo sguardo compiaciuto del presidente Trump.

Friday, June 09, 2017

È MayDay nel Regno Unito

-Prima lezione: non fidarsi mai (MAI!) dei sondaggi quando le elezioni non sono ancora convocate.

-May ha perso il confronto personale con Corbyn. Commessi grossolani errori di comunicazione e grande confusione nelle proposte economico-sociali, ma soprattutto mancò il carisma. Carisma che Corbyn ha.

-Attenzione ai numeri: qualcosa di straordinario è accaduto. Sia May che Corbyn hanno eguagliato nelle percentuali vittorie storiche dei loro partiti. Dal 1979, il partito che ha superato il 40% ha sempre portato a casa maggioranze molto ampie, a volte sopra i 400 seggi (Blair 413 seggi nel 2001 con la percentuale di Corbyn). Nel 2015 Cameron ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi con il 37%, alla May non è bastato il 42. Il 42,4% è lo stesso risultato della Thatcher nel 1983 (396 seggi). Era dal 1970 però che non accadeva che entrambi i partiti superassero il 40%. Probabile quindi che entrambi abbiano fatto il pieno dei propri elettorati potenziali.

-Gli errori della May, più che farle perdere voti tory, hanno aiutato Corbyn a mobilitare l'elettorato più di sinistra. Dal 18 maggio, presentando il manifesto conservatore la May ha spostato la campagna dal tema più importante per gli elettori tory e libdem (la Brexit) ai temi che "scaldano" l'elettorato labour (stato sociale, sanità e assistenza). E poi, tre gravissimi attentati in pochi mesi non aiutano certo chi è al governo, meno che mai chi è stato ministro degli interni o premier negli ultimi sette anni.

-Grande capacità di mobilitazione dimostrata da Corbyn che ha praticamente prosciugato gli altri partiti di opposizione. Ma non è una buona notizia per il Labour: perché il "pieno a sinistra" ti porta (a volte) a percentuali da capogiro, ma non a conquistare il centro e, quindi, la maggioranza dei seggi. Chissà perché il termine "populismo" non viene accostato al Labour di Corbyn... Eppure, con le sue ricette tutto-gratis né è la quintessenza.

-I britannici non hanno cambiato idea sulla Brexit, che nell'ultimo mese (quando il 57% degli elettori che hanno votato Labour ha maturato la propria scelta) non è stata al centro della campagna. Partiti europeisti i grandi sconfitti: libdem e SNP (Ukip per l'esaurirsi della sua funzione storica). Ma certamente il risultato indebolisce il futuro governo nei negoziati con la Ue, per la miope goduria degli europei...

-Incredibile in Scozia: gli elettori puniscono la leader indipendentista Sturgeon e sono decisivi per la tenuta dei tory. Meglio il Regno Unito fuori della Ue che la Scozia fuori dal Regno Unito?

Due pareri opposti sulle conseguenze del voto sulle trattative per la Brexit:
William Hague sul Telegraph:
"Any threat to execute a 'no deal' strategy and take the UK in a lower-tax, lighter regulation direction has lost much of its credibility, so our negotiating position in Europe is weaker."
Daniel Hannan sul Daily Mail:
"This is the most pro-Brexit House of Commons ever elected. More than 90 per cent of MPs have just been returned for parties that are promising to leave the EU, namely the Conservatives, Labour and the Democratic Unionist Party.

That fact is worth remembering as you listen to the excited comments by British Europhiles about stopping Brexit, and the sneering by some in Brussels about the supposed hopelessness of our position now that Theresa May has lost her outright majority."

Thursday, June 08, 2017

Trump ha interferito... con la carriera di Comey...

L'unica cosa che è venuta fuori dall'audizione dell'ex direttore dell'FBI è che Trump ha interferito con la carriera di Comey e Comey non l'ha presa affatto bene...

Ecco i punti salienti della sua testimonianza al Senato. Poco o nulla di nuovo.

-Trump e nessuno dello staff della Casa Bianca gli ha mai chiesto di fermare l'inchiesta sulle interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali.

-Trump non gli ha ordinato di "lasciar correre" su Flynn ("I hope..."), ma lui ha interpretato le parole del presidente come una "direttiva": cosa voleva che facesse. Però non ha fatto presente né al presidente Trump né a qualche consigliere della Casa Bianca quanto fosse "inappropriata" la richiesta. Perché no? "Non lo so, non ho avuto la presenza di spirito". Se è ostruzione alla giustizia o no, non spetta a lui dirlo ma al procuratore speciale.

-Comey ha ammesso di aver passato lui stesso alla stampa, attraverso un amico (professore di legge alla Columbia) i suoi appunti sull'incontro con Trump, pensando che ciò avrebbe favorito la nomina di un procuratore speciale. Perché non lui direttamente? Stava per andare in vacanza... È in grado di recuperare il suo memo e consegnarlo al Congresso? "Potentially".

-Comey ha riferito di aver detto per tre volte al presidente Trump che non è sotto indagine ma di essersi rifiutato di dichiararlo pubblicamente - come gli aveva chiesto Trump - per "rispetto dei protocolli". Sarcastico il senatore Rubio: "L'unica cosa 'never leaked' è che il presidente non è personalmente sotto indagine".

-Comey ha rivelato che Loretta Lynch, il ministro della giustizia dell'amministrazione Obama, gli ha "ordinato" di parlare in pubblico dell'"emailgate" di Hillary Clinton come di una "questione" e non una "indagine". Stesso linguaggio della campagna Clinton.

-"Non ci sono dubbi" che la Russia abbia "interferito" nelle elezioni presidenziali, ma Comey ha confermato che "nessun voto è stato alterato".

-"In the main, it was not true", così Comey ha smentito (quattro mesi dopo, e c'è voluta una testimonianza in Senato...) l'articolo del NYT del 14 febbraio intitolato "Trump Campaign Aides Had Repeated Contacts With Russian Intelligence".

Il resto è veleno e risentimento di Comey verso Trump che l'ha licenziato, opinioni e interpretazioni personali sulla condotta del presidente. In generale, Comey ha dato l'impressione di essere mosso da risentimento e pregiudizio nei confronti di Trump, si è da solo "smascherato" come membro della "resistenza" anti-Trump. E dalle sue stesse parole è chiaramente emerso come si sia mosso, da direttore dell'FBI, con equilibrismo politico sia con Trump sia con la precedente amministrazione per restare al suo posto. Osserva Sean Davis su The Federalist, "Comey makes clear that he was playing a game with Donald Trump, and that Trump called his bluff".

A proposito, cosa troverete di tutto questo sui media italiani? Interviste a Dershowitz ne vedremo?
"I think it is important to put to rest the notion that there was anything criminal about the president exercising his constitutional power to fire Comey and to request - "hope" - that he let go the investigation of General Flynn. Just as the president would have had the constitutional power to pardon Flynn and thus end the criminal investigation of him, he certainly had the authority to request the director of the FBI to end his investigation of Flynn".
 "Can You Obstruct a Fraud?" si chiede McCarthy su National Review. L'unica cosa che Trump ha ostacolato è una falsa narrazione che Comey e le agenzie di intelligence, pur sapendo falsa, si sono rifiutati di correggere pubblicamente, al fine di danneggiare politicamente il presidente.

Tuesday, June 06, 2017

A Notre Dame la resa dell'Europa. Enough is enough

Per la serie "no panico", "non permetteremo che cambino il nostro stile di vita"... è già cambiato tutto.

Per la serie "non cambieranno le nostre vite"... Cristiani sotto assedio a Notre Dame nell'anniversario del DDay. Mani in alto: in un'immagine la resa dell'Europa...

Khuram Butt ennesimo terrorista "già noto" ai servizi di sicurezza. Un tema semplice, persino banale, ma pressoché "censurato". Nemmeno se ne parla... Perché gli estremisti, in termine tecnico li chiamano "radicalizzati" (molti persino di ritorno da zone di guerra, i cosiddetti foreign fighters), anziché tentare di tenerli sotto controllo, non vengono cacciati o rinchiusi? Drive them out. Lock them up. Ci si arriverà prima poi... Ma meglio prima, per evitare aberrazioni.

"Enough is enough", quando è troppo è troppo... La premier britannica Theresa May parla di "estremismo islamista", "le cose devono cambiare", "troppa tolleranza". L'alternativa in Occidente è tra "enough is enough" e "gli attacchi terroristici sono parte integrante della vita in una grande città", come dice il sindaco di Londra Sadiq Khan.

E comunque, scrive Theodore Dalrymple sul Wall Street Journal, i terroristi ci vedono come la società candele-e-orsacchiotti (Candle-and-Teddy-Bear Society): "Noi uccidiamo, voi accendete candele..."
"Another source of comfort for terrorists is that after every new atrocity, the police are able to arrest multiple suspected accomplices. That suggests the police knew the attackers' identities in advance but did nothing - in other words, that most of the time terrorists can act with impunity even if known. Here, then, is further evidence of a society that will not defend itself seriously. This is not just a British problem. The April murder of a policeman on the Champs Elysées in Paris was committed by a man who had already tried to kill three policemen, who was known to have become fanaticized, and who was found with vicious weapons in his home. The authorities waited patiently until he struck."

Sunday, June 04, 2017

Toh, gli europei che fanno i "trumpiani" in risposta al protezionismo cinese...

Pubblicato su formiche

E meno male che gli uni e gli altri dovevano essere i nuovi campioni del libero commercio... Europa e Cina non possono dare lezioni di libero commercio, al massimo di ipocrisia...

Le due notizie secondo cui la cancelliera tedesca Angela Merkel sarebbe la nuova leader del mondo libero e il presidente cinese Xi Jinping l'alfiere della globalizzazione e del libero commercio (com'è stato incoronato dopo l'ultimo World Economic Forum di Davos), nonché da qualche giorno anche del clima, sono nella migliore delle ipotesi "fortemente esagerate".

Basti pensare che mentre prendiamo lezioni di libero commercio da Xi Jinping, la Cina non è ancora riconosciuta come economia di mercato. E nell'Indice della libertà economica elaborato ogni anno da Wall Street Journal e Heritage Foundation risulta al 139esimo posto (tra i paesi "non liberi") su 178 paesi. Gli Stati Uniti sono all'undicesimo posto, la Germania è al sedicesimo, la Francia al 73esimo e l'Italia all'80esimo posto. Negli ultimi cinque anni, mentre gli Stati Uniti hanno ridotto le loro emissioni di CO2 di 270 milioni di tonnellate, la Cina le ha aumentate di oltre un miliardo di tonnellate, e anche se Pechino rispettasse gli impegni presi con l'accordo di Parigi sul clima non vedremmo progressi significativi fino al 2030.

La realtà è che la leadership cinese ha saputo capitalizzare al massimo dal punto di vista propagandistico l'impopolarità del nuovo presidente americano agli occhi dell'ovattato mondo di Davos e la grande stampa occidentale c'è cascata in pieno facendo da cassa di risonanza alla propaganda di Pechino. Non solo gli Stati Uniti, anche l'Europa rifiuta ancora di riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato. E a ragion veduta. La Cina sostiene a parole il libero commercio, ma nei fatti è lontanissima da ciò che predica.

Poi, nei giorni scorsi, il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima annunciato dal presidente Trump proprio mentre era in corso il vertice Ue-Cina ha offerto ai leader europei e cinesi l'occasione di rivendicare (a parole, come vedremo) una sorta di leadership "morale", politica e commerciale che colmerebbe il presunto vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Insomma, Trump avrebbe contribuito a rilanciare l'asse Ue-Cina e a farne i nuovi campioni del libero commercio e del clima.

Ma le cose stanno molto diversamente. Unione europea e Cina sono tra gli attori politici ed economici più protezionisti del pianeta e il loro vertice è stato un totale fallimento. Nessun accordo, né passi avanti tra Bruxelles e Pechino. Nessuna dichiarazione congiunta, nemmeno per esprimere la sbandierata sintonia sul clima, che infatti nella realtà non va oltre la condivisione della polemica nei confronti di Washington per la decisione di ritirarsi dall'accordo di Parigi ed è servita solo a mascherare il fallimento del vertice. Nessun passo avanti, per esempio, è stato compiuto su uno dei temi in cima all'agenda dei colloqui: l'accesso da parte europea al mercato cinese degli investimenti, oggi ostacolato dalle barriere protezionistiche di Pechino.

Il valore delle acquisizioni di compagnie europee da parte dei cinesi ha raggiunto nel 2016 il valore record di 48 miliardi di dollari (quasi il doppio rispetto al 2015) mentre, a causa delle restrizioni di Pechino nell'accesso ai suoi mercati, quelle europee in Cina sono crollate rispetto al 2013 e nel 2016 si sono fermate intorno al miliardo (dati Dealogic/Wall Street Journal). Secondo stime più caute, il rapporto sarebbe di 4 a 1 (35 miliardi di dollari il valore delle acquisizioni cinesi in Europa, +77% rispetto all'anno precedente, contro gli 8 miliardi da parte europea in Cina, in calo del 23%).

"Il commercio con la Cina dev'essere basato sulla reciprocità". Alle compagnie europee dev'essere garantito un "uguale trattamento". La "sovracapacità" cinese nella produzione di acciaio è un problema. Si tratta degli ultimi tweet del presidente americano Donald Trump? No, delle affermazioni, rispettivamente, del commissario europeo al commercio Cecilia Malmstrom, incalzata dal Parlamento europeo, della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente della Commissione europea Juncker, all'indirizzo dei leader cinesi.

Tuttavia, nonostante le promesse pubbliche, il regime di Pechino in questi anni ha fatto orecchie da mercante e non solo si rifiuta di garantire alle compagnie europee pieno accesso ai suoi mercati, ma di fatto elude anche ogni tentativo di iniziare una discussione vera in proposito. Anzi, secondo un recente studio, per le imprese europee il sistema economico cinese nel suo complesso è peggiorato nel corso degli ultimi anni. Invece di assistere ad una maggiore liberalizzazione, si aggravano le distorsioni provocate dall'intervento pubblico e le imprese europee si scontrano con una sorta di "età dell'oro" per i grandi gruppi cinesi a partecipazione statale. Gli stessi che riempiti di capitali pubblici vengono poi a fare shopping in Europa. Inoltre, con la scusa della cyber-security e del controllo della Rete, alle autorità governative è garantito accesso a dati industriali sensibili e ai progetti ad alta tecnologia delle imprese che operano in Cina.

Tutto questo sta alimentando una reazione protezionista nei governi e nei parlamenti europei, che stanno chiedendo alla Commissione europea nuovi strumenti di difesa commerciale, per esempio un meccanismo di controllo per vagliare gli investimenti stranieri in Europa. Le pressioni europee per proteggere industrie o settori di rilievo strategico e importanti per gli interessi di sicurezza nazionale si fanno sempre più incalzanti alla luce del vero e proprio shopping compulsivo soprattutto da parte cinese. I governi di Germania, Francia e Italia, cioè gli stessi in prima linea nel bacchettare Trump sul commercio, hanno chiesto alla Commissione europea di considerare un blocco generalizzato delle acquisizioni da parte di investitori non europei di compagnie ad alta innovazione tecnologica. "Siamo preoccupati della mancanza di reciprocità e della possibile svendita delle competenze europee", lamentano i governi di Berlino, Parigi e Roma in una dichiarazione congiunta indirizzata alla Commissione Ue. "Occorre una soluzione europea... una ulteriore protezione". La strategia di Pechino sembra funzionare infatti nell'aiutare le compagnie cinesi a ridurre il gap tecnologico con i concorrenti internazionali e secondo alcuni studi la Cina potrebbe essere in grado di colmare del tutto il gap di innovazione già dal 2020. Sta quindi guadagnando consensi in Europa la proposta di creare una versione europea del "Comitato sugli investimenti stranieri" statunitense, che ha il compito di indagare a fondo sugli investimenti stranieri in settori strategici e sensibili dell'economia.

Insomma, la "nuova via della Seta" annunciata in pompa magna da Pechino per espandere il commercio Europa-Cina, e celebrata dalla grande stampa europea come la definitiva adesione del regime al libero mercato in contrapposizione alle presunte chiusure americane, non è che un bluff che non incanta più nessuno.

Ed esattamente come il presidente Trump nei confronti dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, anche l'Unione europea sta agitando la minaccia di un mercato europeo più protetto, più chiuso, per convincere i leader cinesi ad aprire davvero il loro mercato. D'altra parte, se è vero come sostengono Stati Uniti ed Europa che la Cina non può ancora essere considerata un'economia di libero mercato (il che ne dovrebbe mettere in dubbio la stessa adesione al Wto), come può esserci un "fair trade", una competizione leale e corretta? Se si ammette questo, tutto il dibattito sulla globalizzazione e le sue distorsioni prende un'altra piega, facendo apparire un po' meno "liberale" chi la difende a spada tratta e un po' meno "illiberali" coloro che parlano di riequilibrio e reciprocità.