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Thursday, June 08, 2017

Trump ha interferito... con la carriera di Comey...

L'unica cosa che è venuta fuori dall'audizione dell'ex direttore dell'FBI è che Trump ha interferito con la carriera di Comey e Comey non l'ha presa affatto bene...

Ecco i punti salienti della sua testimonianza al Senato. Poco o nulla di nuovo.

-Trump e nessuno dello staff della Casa Bianca gli ha mai chiesto di fermare l'inchiesta sulle interferenze della Russia nelle elezioni presidenziali.

-Trump non gli ha ordinato di "lasciar correre" su Flynn ("I hope..."), ma lui ha interpretato le parole del presidente come una "direttiva": cosa voleva che facesse. Però non ha fatto presente né al presidente Trump né a qualche consigliere della Casa Bianca quanto fosse "inappropriata" la richiesta. Perché no? "Non lo so, non ho avuto la presenza di spirito". Se è ostruzione alla giustizia o no, non spetta a lui dirlo ma al procuratore speciale.

-Comey ha ammesso di aver passato lui stesso alla stampa, attraverso un amico (professore di legge alla Columbia) i suoi appunti sull'incontro con Trump, pensando che ciò avrebbe favorito la nomina di un procuratore speciale. Perché non lui direttamente? Stava per andare in vacanza... È in grado di recuperare il suo memo e consegnarlo al Congresso? "Potentially".

-Comey ha riferito di aver detto per tre volte al presidente Trump che non è sotto indagine ma di essersi rifiutato di dichiararlo pubblicamente - come gli aveva chiesto Trump - per "rispetto dei protocolli". Sarcastico il senatore Rubio: "L'unica cosa 'never leaked' è che il presidente non è personalmente sotto indagine".

-Comey ha rivelato che Loretta Lynch, il ministro della giustizia dell'amministrazione Obama, gli ha "ordinato" di parlare in pubblico dell'"emailgate" di Hillary Clinton come di una "questione" e non una "indagine". Stesso linguaggio della campagna Clinton.

-"Non ci sono dubbi" che la Russia abbia "interferito" nelle elezioni presidenziali, ma Comey ha confermato che "nessun voto è stato alterato".

-"In the main, it was not true", così Comey ha smentito (quattro mesi dopo, e c'è voluta una testimonianza in Senato...) l'articolo del NYT del 14 febbraio intitolato "Trump Campaign Aides Had Repeated Contacts With Russian Intelligence".

Il resto è veleno e risentimento di Comey verso Trump che l'ha licenziato, opinioni e interpretazioni personali sulla condotta del presidente. In generale, Comey ha dato l'impressione di essere mosso da risentimento e pregiudizio nei confronti di Trump, si è da solo "smascherato" come membro della "resistenza" anti-Trump. E dalle sue stesse parole è chiaramente emerso come si sia mosso, da direttore dell'FBI, con equilibrismo politico sia con Trump sia con la precedente amministrazione per restare al suo posto. Osserva Sean Davis su The Federalist, "Comey makes clear that he was playing a game with Donald Trump, and that Trump called his bluff".

A proposito, cosa troverete di tutto questo sui media italiani? Interviste a Dershowitz ne vedremo?
"I think it is important to put to rest the notion that there was anything criminal about the president exercising his constitutional power to fire Comey and to request - "hope" - that he let go the investigation of General Flynn. Just as the president would have had the constitutional power to pardon Flynn and thus end the criminal investigation of him, he certainly had the authority to request the director of the FBI to end his investigation of Flynn".
 "Can You Obstruct a Fraud?" si chiede McCarthy su National Review. L'unica cosa che Trump ha ostacolato è una falsa narrazione che Comey e le agenzie di intelligence, pur sapendo falsa, si sono rifiutati di correggere pubblicamente, al fine di danneggiare politicamente il presidente.

Monday, March 06, 2017

Tutte le impronte di Obama sulla campagna di sabotaggio (e spionaggio?) ai danni dell'amministrazione Trump

Versione ridotta pubblicata su L'Intraprendente

Un caso politico gigantesco le cui prove sono fornite da settimane non dai tweet di Trump, ma dagli stessi grandi media che cavalcano il Russia-gate

Una premessa di contesto è d'obbligo per i lettori italiani: di inaudito e senza precedenti nelle prime settimane di presidenza Trump non sono i tweet del tycoon, o i contatti di alcuni membri del suo team con l'ambasciatore russo a Washington (a cosa dovrebbe servire un ambasciatore accreditato se non a tenere contatti politici in una capitale straniera?), ma gli sforzi del sottogoverno di Obama, e probabilmente dell'ex presidente in persona, per minare il cammino della nuova amministrazione e tentare addirittura di precostituire le basi legali per un eventuale impeachment del neo presidente. L'ultimo caso, che ha coinvolto l'Attorney General appena nominato Jeff Sessions, dimostra che contro l'amministrazione Trump è in corso una pura caccia alle streghe pianificata da uomini del sottogoverno di Obama, di sponda con la stampa amica, con metodi che a parti invertite si sarebbero definiti maccartisti. Che poi, se uno deve organizzarsi con il governo russo per influenzare le elezioni americane, incontrare nel proprio ufficio al Senato l'ambasciatore non è proprio una gran furbata per non essere scoperti...

Ma sono sempre più evidenti le impronte lasciate da Obama nei tentativi di vero e proprio sabotaggio e, forse, anche di spionaggio, ai danni di Trump. Solo sette giorni prima di andarsene, come riportato da Usa Today, l'allora presidente ha modificato la linea di successione al Dipartimento di giustizia in modo che un suo uomo si trovasse a supervisionare l'indagine sui legami Trump-Russia nel caso l'Attorney General Sessions fosse stato costretto a ricusarsi (come poi è avvenuto). E come riportato dal New York Times, solo 14 giorni prima di lasciare, Obama ha esteso i poteri della NSA per consentirle di condividere le "comunicazioni personali intercettate" con altre 16 agenzie federali prima di applicare le restrizioni previste dalla tutela della privacy, in modo che funzionari a lui fedeli ovunque nell'amministrazione potessero più facilmente avere accesso e passare alla stampa amica passaggi attentamente selezionati. Lo stesso NYT ha riportato che negli ultimissimi giorni di presidenza Obama alcuni funzionari della Casa Bianca si sono fatti in quattro per assicurarsi che le informazioni di intelligence sui legami Trump-Russia fossero preservate e diffuse il più possibile tra le agenzie governative, ad uso e consumo di eventuali ulteriori indagini e della stampa.

Ed è sempre il NYT a riportare, il giorno prima dell'insediamento di Trump, che FBI, CIA, NSA e unità crimini finanziari del Dipartimento del Tesoro stavano esaminando "comunicazioni intercettate e transazioni finanziarie nell'ambito di un'ampia indagine sui possibili legami" tra il team Trump e la Russia, pur "non avendo trovato alcuna prova conclusiva di illeciti". E attenzione, aggiungendo: "Un funzionario riferisce che i report dell'intelligence basati su alcune delle comunicazioni intercettate sono stati forniti dalla Casa Bianca". Boom! E' il NYT a scriverlo, non Trump nei suoi tweet. Quindi, o giornali come New York Times, Washington Post e Guardian in queste settimane hanno inventato bufale al solo scopo di infangare l'amministrazione Trump, oppure l'amministrazione Obama ha effettivamente spiato un avversario politico (la campagna Trump, il transition team, alcuni suoi collaboratori, o anche Trump in persona?) durante la campagna presidenziale e la Casa Bianca ne era a conoscenza.

Questa sì, è una condotta senza precedenti. Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se nel 2009 l'uscente George W. Bush avesse cercato di mettere i bastoni tra le ruote a Barack Obama. E avrebbe avuto qualche pretesto, visto che con lo stesso metro di giudizio usato oggi nei confronti di Trump, allora Obama avrebbe potuto essere accusato di connivenze con Mosca e Teheran per le sue dichiarate politiche di appeasement. Trump ha cercato fino all'ultimo di non polemizzare con il suo predecessore a cui, nonostante tutti i siluri provenienti da funzionari obamiani, ha sempre riservato parole di apprezzamento. Fino alla serie di tweet di sabato mattina, in cui ha denunciato che l'amministrazione Obama ha fatto mettere sotto controllo i suoi telefoni nel pieno della campagna elettorale, evocando un nuovo maccartisimo e un nuovo Watergate ai suoi danni.

Un'accusa "semplicemente falsa", ha replicato in una nota il portavoce di Obama Kevin Lewis: "Una regola ferrea dell'amministrazione Obama era che nessun funzionario della Casa Bianca interferisse con alcuna indagine indipendente condotta dal Dipartimento di giustizia. Come conseguenza di tale prassi, né il presidente Obama né alcun funzionario della Casa Bianca hanno mai ordinato intercettazioni su alcun cittadino americano". Una smentita che non smentisce la questione centrale. Qui il tema non è se Obama ha "ordinato" le intercettazioni, dal momento che non ne avrebbe avuto il potere, ma se il Dipartimento di giustizia di Obama, nell'ambito di una sua indagine, ha chiesto e ottenuto di poter intercettare Trump e/o membri del suo team nel pieno della campagna presidenziale e se il presidente o qualcuno del suo staff alla Casa Bianca sapeva e approvava. Possibile che un'iniziativa di tale gravità, fondata sul sospetto che un candidato alla presidenza e i suoi collaboratori fossero agenti russi, sia stata presa senza una consultazione tra Dipartimento di giustizia e Casa Bianca?

Anche la smentita dell'ex direttore dell'intelligence nazionale James Clapper si riferisce solo alla lettera dei tweet del presidente Trump. Ma se, per esempio, le comunicazioni di tre suoi stretti collaboratori fossero state intercettate sulla base di un mandato FISA, sia l'accusa di Trump sia le smentite sarebbero "vere" - la prima nella sostanza, le seconde nella forma. Tecnicamente le utenze personali di Trump non sarebbero state messe sotto controllo, tuttavia ore e ore di sue conversazioni con i suoi principali collaboratori nel pieno della campagna, dunque politicamente rilevanti, sarebbero finite "accidentalmente" nella rete delle intercettazioni, quindi nella disponibilità del Dipartimento di giustizia del governo Obama guidato da Loretta Lynch, che a causa di un imprudente incontro con Bill Clinton è stata costretta a ricusarsi dall'inchiesta sull'emailgate che ha coinvolto Hillary durante tutto il 2016. Insomma, chiedendo e ottenendo un tale mandato il Dipartimento di giustizia di Obama avrebbe messo nel conto di intercettare massivamente anche il candidato alle presidenziali Trump (senza che il presidente fosse almeno avvertito?). Non sarebbe emerso nulla di illegale, ma sempre "accidentalmente", guarda caso, solo alcune settimane dopo queste intercettazioni hanno generato una gran quantità di fughe di notizie che stanno alimentando la campagna giornalistica contro il presidente Trump basata sul sospetto che sia una marionetta di Putin.

A questo punto, come è stato fatto per l'emailgate di Hillary Clinton prima del voto, l'FBI dovrebbe chiarire se queste intercettazioni esistono, chi le ha chieste e autorizzate, nei confronti di chi e se, e quando, il presidente Obama o qualcuno nello staff della Casa Bianca ne è venuto a conoscenza. Se l'esistenza di queste intercettazioni venisse confermata, resterebbe comunque improbabile che il presidente Obama abbia agito illegalmente, ma si aprirebbe un caso politico gigantesco. Un'amministrazione uscente che in piena campagna elettorale fa spiare un avversario politico in corsa per la presidenza e il suo team sulla base dell'azzardato sospetto dell'esistenza di un complotto per influenzare le elezioni con l'aiuto di una potenza straniera, la Russia, la cui azione più rilevante sarebbe stata l'hackeraggio delle e-mail del Comitato elettorale democratico. Una connivenza Trump-Mosca su cui tra l'altro mesi di indagine non hanno prodotto lo straccio di una prova (è lo stesso NYT a dover concludere: "No evidence of such cooperation"), se non qualche innocente, e forse inopportuno contatto con l'ambasciatore russo a Washington per instaurare migliori relazioni con la Russia in futuro.

Non è Trump, ma Obama, che prima della sua rielezione nel 2012 ha sussurrato all'orecchio dell'allora presidente russo Medvedev "tell Vladimir (Putin, ndr) that after the election I'll have more flexibility". E se il dimissionario consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Michael Flynn, ha avuto colloqui con l'ambasciatore russo Kislyak prima dell'insediamento, durante la campagna per le presidenziali del 2008 Obama ha addirittura spedito un ambasciatore, William G. Miller, a Teheran per discutere con i leader iraniani della sua prossima apertura diplomatica.

Trump non ha rivelato la fonte delle sue accuse o citato prove, ha chiesto alle commissioni intelligence del Congresso di indagare se ci sia stato un abuso dei poteri dell'esecutivo nel 2016, ma vediamo cosa sarebbe potuto accadere secondo la ricostruzione di alcuni siti e le fughe di notizie riportate dagli stessi grandi media che da mesi stanno alimentando la campagna anti-Trump. Prima di giugno 2016 il Dipartimento di giustizia di Obama e l'FBI stavano considerando un'indagine penale nei confronti di collaboratori di Trump, e forse dello stesso Trump, basata sul sospetto di collegamenti illeciti con due banche russe. Anche se nulla di illegale o sospetto sarebbe emerso rispetto alla violazione di norme finanziarie, il Dipartimento di giustizia e l'FBI potrebbero aver deciso di continuare comunque a indagare, e di chiedere il permesso a intercettare, per motivi di sicurezza nazionale, in base al Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA) del 1978, che consente al governo, se ottiene l'autorizzazione di una corte ad hoc, di mettere sotto sorveglianza le comunicazioni di quelli che ritiene essere "agenti di una potenza straniera" (un altro Paese o anche un'organizzazione terroristica). Come spiegato da Andrew C. McCarthy su National Review, un'intercettazione tradizionale in ambito penale richiede prove tali da ritenere fondata la commissione di un crimine, mentre in base al FISA solo la prova che l'oggetto dell'intercettazione sia un agente di una potenza straniera. Il procedimento per ottenere un mandato FISA è più complicato, passando per una catena di comando "più remota". In linea teorica, sarebbe più facile "fabbricare" la prova di un crimine per soddisfare il criterio del fondato motivo per una intercettazione tradizionale che la prova di una minaccia di sicurezza nazionale per ottenere un mandato FISA.

L'amministrazione Obama avrebbe quindi avanzato una prima richiesta, a giugno, di mandato FISA nella quale veniva fatto il nome di Trump, ma sarebbe stata respinta (evento molto raro). A ottobre il governo avrebbe presentato sempre alla corte FISA una nuova, più circoscritta richiesta, senza riferimenti a Trump ma ad alcuni suoi collaboratori, che stavolta sarebbe stata accolta, secondo quanto riportato anche dalla BBC. Se così fosse, il governo Obama avrebbe in modo pretestuoso usato i suoi poteri in materia di sicurezza nazionale per ottenere un mandato a monitorare le comunicazioni di Trump e dei suoi più stretti collaboratori dall'ultimo mese di campagna elettorale, traendo in qualche modo in inganno la corte FISA. L'esatto corso degli eventi ed eventuali responsabilità dovranno essere appurati da un'indagine, ma sarebbe uno scandalo politico enorme, tipo Watergate, se un'amministrazione uscente avesse cercato, e ottenuto, di mettere sotto sorveglianza per motivi di sicurezza nazionale un candidato alla presidenza del partito avversario (a meno che non fossero emerse prove evidenti che tale candidato fosse effettivamente al servizio di una potenza straniera). E per di più mentre il Dipartimento di giustizia della stessa amministrazione archiviava senza accuse il caso dell'emailgate a carico della candidata "amica" Hillary Clinton, nonostante prove significative di una condotta illecita che ha posto una seria minaccia proprio alla sicurezza nazionale.

Thursday, February 16, 2017

Chi ha ucciso il soldato Flynn

Pubblicato su L'Intraprendente

A Washington un gruppo di burocrati della sicurezza nazionale e di ex funzionari dell'amministrazione Obama sta passando alla stampa informazioni altamente sensibili per danneggiare il governo eletto. Non è una buona notizia per gli uomini liberi...

Tutto nasce dalla condotta senza precedenti dell'ex presidente Obama, che a pochissimi giorni dalla sua uscita dalla Casa Bianca e nell'indifferenza dei media plaudenti, piazza una serie di mine diplomatiche pronte a esplodere sul cammino della nuova amministrazione. E' tentando di disinnescare una di queste mine che il soldato Mike Flynn ha messo un piede in fallo ed è saltato in aria.

Con la scusa dell'hackeraggio del Comitato elettorale democratico durante la campagna elettorale, ad opera di hacker russi i cui collegamenti con il governo di Mosca somigliano tuttora a speculazioni, l'FBI e le agenzie di intelligence ancora controllate dal presidente Obama hanno cominciato ad indagare e a intercettare gli uomini della squadra di Trump a caccia delle prove di una presunta cospirazione per truccare le elezioni a suo vantaggio. Paranoia, o più probabilmente un'"arma di distrazione" dalle responsabilità, di Hillary Clinton e dello stesso Obama, nella bruciante sconfitta elettorale. Ma un'indagine ci poteva anche stare. Ancora oggi il New York Times, apprendendo dalle solite fonti di intelligence di "contatti" tra collaboratori di Trump e membri dell'intelligence russa, è costretto a riferire anche che in tutte le indagini non è emersa finora "alcuna prova di cooperazione" tra la campagna Trump e la Russia per influenzare le elezioni. Stop, dunque? No. Non trovando alcuna prova della combutta, si sono tenuti le trascrizioni per passarle selettivamente, e illegalmente, alla stampa ogni qual volta fosse possibile danneggiare l'amministrazione Trump, far fuori i suoi uomini e alimentare comunque il sospetto che la Russia lo abbia aiutato a "rubare" l'elezione alla Clinton.

Ed è quanto accaduto al consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn.

L'espulsione di 35 diplomatici russi decisa da Obama solo una ventina di giorni prima di lasciare la Casa Bianca, come ritorsione per l'hackeraggio del Comitato elettorale democratico, apre l'ennesimo fronte di tensione con Mosca che nei colloqui telefonici con l'ambasciatore russo a Washington Kislyak il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale tenta - con successo, pare - di raffreddare. La sua colpa infatti sarebbe di aver convinto Putin a non reagire, coprendo così di ridicolo le misure di Obama. Cos'altro avrebbe dovuto fare? Lasciare che la frustrazione del presidente uscente minasse i tentativi della nuova amministrazione di migliorare i rapporti con Mosca? Ed è credibile che nessun esponente di nessuna amministrazione entrante abbia mai parlato con funzionari stranieri prima dell'insediamento, prefigurando la politica del nuovo corso? Flynn non ha commesso nulla di illegale. Le stesse fonti citate dai giornaloni Usa ammettono che sarebbe arduo intentare una causa contro Flynn, dal momento che in oltre due secoli nessuno è stato perseguito per la violazione del "Logan Act", la legge che vieta ai normali cittadini di interferire nei rapporti diplomatici.

Avrebbe discusso delle sanzioni, ma i termini in cui ne avrebbe discusso con l'ambasciatore russo sono ancora oscuri.
Flynn potrebbe essersi limitato a far notare a Kislyak che l'amministrazione Trump si sarebbe insediata di lì a poche settimane e avrebbe riesaminato la politica nei confronti della Russia, sanzioni comprese. Il che non sarebbe nulla di illegale né improprio, e spiegherebbe perché, essendo un'affermazione così ovvia, non abbia ritenuto di parlarne al vicepresidente. Ma la sola presenza del termine "sanzioni" nella trascrizione della telefonata avrebbe fornito il pretesto per la fuga di notizie ai suoi danni.

Cosa sta succedendo quindi a Washington? Che "un gruppo di burocrati della sicurezza nazionale e di ex funzionari del governo Obama - riassume Eli Lake su Bloomberg News - sta selettivamente passando alla stampa informazioni altamente sensibili per danneggiare il governo eletto". E "divulgare selettivamente dettagli di conversazioni private intercettate da FBI o NSA dà il potere di distruggere reputazioni sotto la copertura dell'anonimato. E' ciò che fanno gli stati di polizia". Ma evidentemente uno stato di polizia sembra a molti perfettamente accettabile, se serve ad abbattere Trump.

Se si trattava di un caso di intelligence, osserva sul NYPost John Podhoretz (tutt'altro che un fan di Trump, tanto meno di Flynn), "la fuga di notizie ha rivelato qualcosa ai russi che non dovremmo voler rivelare - ovvero che li stavamo ascoltando e in modo efficace". Se invece si trattava di un'indagine dell'FBI, allora "un principio cardine dell'applicazione della legge - che le prove acquisite nel corso di un'indagine devono essere tenute segrete per tutelare i diritti dei cittadini sotto indagine - è stato passato al tritatutto". E, aggiunge Podhoretz, se queste fughe di notizie non sono motivate da questioni di principio, ma dall'intenzione dei funzionari di queste agenzie di "far fuori un potenziale avversario", si tratterebbe di "un enorme abuso di potere".

Dunque, a prescindere dalla sua imprudenza, Flynn è stato vittima di un vero e proprio assassinio politico orchestrato da anonimi burocrati della comunità di intelligence. Il che dovrebbe far tremare chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia americana. Che un'amministrazione sia oggetto di dossieraggio e fughe di notizie da parte delle sue stesse agenzie di intelligence è inquietante. Anche perché, per mero calcolo politico, non si esita a gettare benzina sul fuoco sui già difficili rapporti tra Stati Uniti (e loro alleati) e Russia.

"L'idea - osserva ancora Eli Lake - che funzionari Usa a cui sono affidati i nostri segreti più sensibili li rivelerebbero selettivamente pur di danneggiare la Casa Bianca dovrebbe allarmare tutti coloro che sono preoccupati per uno strisciante autoritarismo. Immaginate se intercettazioni di una chiamata tra il consigliere per la sicurezza nazionale entrante di Obama e il ministro degli affari esteri iraniano fossero trapelate alla stampa prima che avessero inizio i negoziati sul nucleare... Le grida di indignazione sarebbero assordanti".

Flynn ha pagato probabilmente anche le sue dure critiche alla comunità di intelligence, di cui sostiene una profonda riforma di sistema. Alla guida della Defense Intelligence Agency di Obama, rimosso perché sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico, ha prodotto un rapporto che avvertiva come il caos in Siria avrebbe favorito la nascita dell'Isis, e denunciato incompetenze e fallimenti dell'intelligence. Elementi più che sufficienti per un movente... Probabile anche che più di qualcuno a Washington temesse le sue posizioni intransigenti sull'Iran e la sua totale contrarietà all'accordo con Teheran sul nucleare (che nasconde ancora non pochi lati oscuri...).

Con la sua uscita viene a mancare una delle poche figure con una visione strategica chiara. Viene scambiata per vicinanza, o addirittura complicità con Mosca l'ipotesi, tutta da verificare, dei russi come preziosi alleati nella guerra contro quelle che ritiene essere le principali minacce agli Stati Uniti e all'Occidente: il radicalismo islamico e l'Iran. Ma per Flynn, e lo ha scritto nero su bianco, la Russia di Putin resta un avversario strategico, che vede nell'Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti bersagli da colpire o comunque da indebolire.

Tuesday, November 22, 2016

La "transizione" Trump: verso una presidenza pragmatica?

Pubblicato su Ofcs Report

I primi passi della "transizione" del presidente eletto suggeriscono determinazione e pragmatismo

La "transizione" del presidente eletto Donald Trump sarà anche nel caos, contraddistinta da scontri e tensioni, come è stato riportato anche in Italia, ma a due settimane dal voto cinque figure preminenti della nuova amministrazione sono già state scelte, mentre nel 2008, dopo lo stesso numero di giorni, Obama ne aveva annunciata una sola.

L'isteria dei media liberal americani (e non solo) per l'elezione di Trump si estende anche alla copertura della sua "transizione". E allora bastano dicerie e stereotipi per attribuire pesantissime etichette di razzismo e antisemitismo. Un anziano senatore bianco repubblicano dell'Alabama, Jeff Sessions, scelto come Attorney General (il ministro della giustizia), non può che essere razzista, anche se da procuratore ha portato avanti diversi casi per la "desegregazione" delle scuole, e ha chiesto e ottenuto la pena di morte per un leader del KKK. Da senatore Sessions ha votato per l'estensione del Civil Rights Act e per la conferma di Eric Holder come primo Attorney General di colore. E che dire delle foto che lo ritraggono mano nella mano con l'icona dei diritti civili John Lewis alla celebrazione del 50esimo anniversario della marcia di Selma?

Ma cerchiamo di capire quali indicazioni possiamo trarre sulle linee guida della presidenza Trump dai primi passi nella composizione della sua squadra di governo. Innanzitutto, la nomina a capo di gabinetto di Reince Priebus, presidente del Comitato nazionale repubblicano, quindi un uomo macchina del partito, e l'incontro con il candidato repubblicano alla Casa Bianca di quattro anni fa, Mitt Romney, nonostante prima e dopo le primarie avesse apertamente contrastato la sua candidatura, suggeriscono la volontà di Trump di lasciarsi alle spalle le vecchie ruggini, ricompattare il Partito repubblicano dopo le laceranti divisioni sul suo nome, nel superiore interesse di instaurare da subito se non un'amichevole almeno una leale collaborazione con i leader del partito che controlla entrambi i rami del Congresso. E' nell'interesse di tutti infatti che una tale "congiunzione astrale" (è molto raro negli Usa che la stessa parte politica abbia contemporaneamente il controllo di Casa Bianca, Camera e Senato) non venga sciupata. E Romney sarebbe addirittura tra i candidati in corsa per la poltrona di segretario di Stato, ovvero la più influente e prestigiosa, nonostante le sue posizioni sulla Russia non siano in sintonia con quelle di Trump. O forse proprio per questo, per avere con Putin un approccio "bastone e carota"?

Le scelte di Sessions, di cui abbiamo già parlato, come Attorney General, del deputato del Kansas Mike Pompeo come direttore della Cia e del generale Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale (l'unica nomina che non dovrà essere ratificata dal Senato) indicano la volontà di tirare dritto su due temi centrali in campagna elettorale: tolleranza zero verso l'immigrazione illegale e linea dura sulla sicurezza nazionale, in particolare sull'Islam radicale. In questi campi gli elettori avranno ciò per cui hanno votato. Non si tratta di tre outsider, di conigli estratti dal cilindro del tycoon newyorchese, ma di figure che vengono dal mondo della politica, che possono vantare eccellenti carriere professionali e politiche pre-Trump, e dal profilo ben preciso.

Pompeo è una figura di spicco della Commissione per l'intelligence della Camera dei deputati e protagonista della Commissione di inchiesta sulla gestione, da parte del Dipartimento di Stato allora guidato da Hillary Clinton, dell'attacco terroristico di Bengasi in cui perse la vita, tra gli altri, l'ambasciatore Stevens. Non vede l'ora di "smantellare" l'accordo sul nucleare iraniano e, come Flynn, è sostenitore della linea dura nei confronti dell'Islam radicale, dal quale chiede alla comunità musulmana americana di dissociarsi apertamente.

Il generale Flynn è stato il direttore della Defense Intelligence Agency di Obama, rimosso perché sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico. Le sue tesi sono esposte in un libro scritto a quattro mani con lo storico Michael Ledeen ("Field of Fight)" e sollevano questioni che, a maggior ragione alla luce del nuovo inquilino alla Casa Bianca, noi europei non possiamo più ignorare. Innanzitutto, le premesse: un network di gruppi terroristici islamici è in ascesa, anche presso le comunità musulmane in Occidente. E gli Stati che in un modo o nell'altro li sostengono, o non li combattono, in funzione anti-occidentale, non sono pochi. Ma finora non siamo stati in grado né di contrastarli né di colpire chi li sostiene. Anche se i nostri leader dicono che stiamo vincendo, la verità è che stiamo perdendo. Per prima cosa, sostengono Flynn e Ledeen, bisogna riconoscere che siamo in guerra, una nuova guerra mondiale, e non continuare a negarla, chiudendo gli occhi dinanzi alla natura del nemico. Secondo: non basta "contenere" il nemico, dobbiamo avere un piano per vincere. E la vittoria passa tanto dalla distruzione militare dei gruppi terroristici quanto dallo sfidare i regimi che li supportano e dal contrastare culturalmente la loro ideologia (la "guerra delle idee"), abbandonando politically correct e complessi di islamofobia. E accusano Obama di aver fatto il contrario, lasciando un vuoto (fisico-militare e politico-ideologico) in cui il terrorismo ha potuto trovare spazi per crescere e rafforzarsi.

Con Pompeo alla guida della Cia e Flynn alla sicurezza nazionale temi quali il centro di detenzione di Guantanamo e le tecniche di interrogatorio "rafforzate" sembrano destinati a tornare d'attualità. Discutere di come ottenere il massimo di informazioni dai nemici catturati non può essere un tabù, nemmeno in Europa dopo la recente serie di attacchi subiti. E' politicamente "scomodo" e non privo di rischi avvicinarsi al confine con ciò che riteniamo tortura, ma la tesi di fondo è che bisogna abbandonare l'illusione di poter sconfiggere il nemico islamista "in punta di diritto", cioè con mezzi legali ordinari, gestendo terroristi disciplinati, indottrinati e addestrati militarmente con i guanti bianchi, le procedure e i tempi dei normali sistemi giudiziari. Quali informazioni stiamo ottenendo da Salah Abdeslam, che si sarebbe chiuso nel "mutismo", e da Moez Fezzani?

Nonostante Flynn sia dipinto come filorusso, nel libro scritto con Ledeen Iran e Russia compaiono in cima ai Paesi di cui non fidarsi: il primo come sponsor del terrorismo, il secondo come avversario strategico che vede nell'Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti bersagli da colpire o comunque da indebolire.

E' ovviamente presto per parlare di una dottrina Trump in politica estera e per capire se i proclami della campagna elettorale si tradurranno in azioni conseguenti, ma forse possiamo almeno evitare di cadere nelle semplificazioni.

La posizione di Trump sulla Russia è stata banalizzata per attribuirgli un orientamento ideologicamente favorevole ai sistemi autoritari. In realtà, che si condivida o meno, una normalizzazione dei rapporti tra Washington e Mosca è auspicata da molti e autorevoli analisti americani e in molte capitali europee. Proposta persino da Barack Obama e Hillary Clinton all'inizio dei loro mandati (il pulsante di "reset"). Sulla base della considerazione che non c'è molto da guadagnare da uno scontro con Putin su fronti (come l'Ucraina) che i russi ritengono vitali e gli americani no. In Siria i danni provocati dalle incertezze e dal vuoto lasciato dall'amministrazione Obama, riempito dall'Isis e dalla Russia, sono ormai semplicemente irreparabili. Bisogna prenderne atto con pragmatismo e provare a trovare una soluzione riconoscendo il ruolo di Mosca.

Anche le etichette di isolazionista e protezionista attribuite a Trump potrebbero rivelarsi per lo meno esagerate. Giuste o sbagliate, Trump sembra indicare priorità di politica estera diverse e un cambio di approccio rispetto alla presidenza Obama. L'interesse americano in Medio Oriente non sta nelle primavere arabe e nel "nation-building", ma nel combattere l'Islam radicale. Aumentare la spesa militare, distruggere l'Isis, contenere l'Iran, contrastare la concorrenza sleale della Cina in campo commerciale e monetario, non sembrano propositi che implichino un disimpegno isolazionista, bensì un impegno e un "interventismo" su altri fronti e sulla base della realpolitik, quindi su presupposti molto lontani da quelli dell'interventismo liberal o della destra neocon.

Piuttosto che voler liquidare la Nato, sembra che dall'Alleanza atlantica Trump si aspetti una riconversione strategica sull'obiettivo di debellare la minaccia del terrorismo islamico. E le provocazioni sui contributi insufficienti in termini di spesa militare della maggior parte degli alleati riprende un tema reale (già sollevato tra l'altro anche dall'amministrazione Obama). La considerazione di Trump secondo cui per gli Stati Uniti sarebbe meglio se il Giappone potesse contare su propri armamenti nucleari anziché appaltare la sua sicurezza agli americani è stata letta come l'intenzione di abbandonare il principale alleato in Asia a se stesso di fronte a una Cina in ascesa, ma è lo stesso primo ministro giapponese Shinzo Abe (tra l'altro il primo leader straniero ad aver incontrato Trump) a voler rafforzare le capacità militari del suo Paese.

Piuttosto che mettere in discussione ideologicamente il libero commercio, Trump sembra convinto, a torto o a ragione lo vedremo, di poter negoziare accordi più vantaggiosi per gli americani, in termini di fabbriche e posti di lavoro. Riguardo il nuovo Nafta, i presidenti di Canada e Messico si sono già detti pronti a riaprire le trattative e potrebbe farne parte anche il Regno Unito post-Brexit, dando vita ad una grande area di libero scambio in quella che viene definita l'"Anglosfera". Si intravedono tra il neo presidente americano e la premier britannica Theresa May i presupposti e le circostanze "storiche" di un rapporto speciale, che nonostante le profonde differenze, non può non ricordare la sintonia ideale, strategica e umana tra Reagan e la Thatcher negli anni '80.