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Tuesday, November 22, 2016

La "transizione" Trump: verso una presidenza pragmatica?

Pubblicato su Ofcs Report

I primi passi della "transizione" del presidente eletto suggeriscono determinazione e pragmatismo

La "transizione" del presidente eletto Donald Trump sarà anche nel caos, contraddistinta da scontri e tensioni, come è stato riportato anche in Italia, ma a due settimane dal voto cinque figure preminenti della nuova amministrazione sono già state scelte, mentre nel 2008, dopo lo stesso numero di giorni, Obama ne aveva annunciata una sola.

L'isteria dei media liberal americani (e non solo) per l'elezione di Trump si estende anche alla copertura della sua "transizione". E allora bastano dicerie e stereotipi per attribuire pesantissime etichette di razzismo e antisemitismo. Un anziano senatore bianco repubblicano dell'Alabama, Jeff Sessions, scelto come Attorney General (il ministro della giustizia), non può che essere razzista, anche se da procuratore ha portato avanti diversi casi per la "desegregazione" delle scuole, e ha chiesto e ottenuto la pena di morte per un leader del KKK. Da senatore Sessions ha votato per l'estensione del Civil Rights Act e per la conferma di Eric Holder come primo Attorney General di colore. E che dire delle foto che lo ritraggono mano nella mano con l'icona dei diritti civili John Lewis alla celebrazione del 50esimo anniversario della marcia di Selma?

Ma cerchiamo di capire quali indicazioni possiamo trarre sulle linee guida della presidenza Trump dai primi passi nella composizione della sua squadra di governo. Innanzitutto, la nomina a capo di gabinetto di Reince Priebus, presidente del Comitato nazionale repubblicano, quindi un uomo macchina del partito, e l'incontro con il candidato repubblicano alla Casa Bianca di quattro anni fa, Mitt Romney, nonostante prima e dopo le primarie avesse apertamente contrastato la sua candidatura, suggeriscono la volontà di Trump di lasciarsi alle spalle le vecchie ruggini, ricompattare il Partito repubblicano dopo le laceranti divisioni sul suo nome, nel superiore interesse di instaurare da subito se non un'amichevole almeno una leale collaborazione con i leader del partito che controlla entrambi i rami del Congresso. E' nell'interesse di tutti infatti che una tale "congiunzione astrale" (è molto raro negli Usa che la stessa parte politica abbia contemporaneamente il controllo di Casa Bianca, Camera e Senato) non venga sciupata. E Romney sarebbe addirittura tra i candidati in corsa per la poltrona di segretario di Stato, ovvero la più influente e prestigiosa, nonostante le sue posizioni sulla Russia non siano in sintonia con quelle di Trump. O forse proprio per questo, per avere con Putin un approccio "bastone e carota"?

Le scelte di Sessions, di cui abbiamo già parlato, come Attorney General, del deputato del Kansas Mike Pompeo come direttore della Cia e del generale Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale (l'unica nomina che non dovrà essere ratificata dal Senato) indicano la volontà di tirare dritto su due temi centrali in campagna elettorale: tolleranza zero verso l'immigrazione illegale e linea dura sulla sicurezza nazionale, in particolare sull'Islam radicale. In questi campi gli elettori avranno ciò per cui hanno votato. Non si tratta di tre outsider, di conigli estratti dal cilindro del tycoon newyorchese, ma di figure che vengono dal mondo della politica, che possono vantare eccellenti carriere professionali e politiche pre-Trump, e dal profilo ben preciso.

Pompeo è una figura di spicco della Commissione per l'intelligence della Camera dei deputati e protagonista della Commissione di inchiesta sulla gestione, da parte del Dipartimento di Stato allora guidato da Hillary Clinton, dell'attacco terroristico di Bengasi in cui perse la vita, tra gli altri, l'ambasciatore Stevens. Non vede l'ora di "smantellare" l'accordo sul nucleare iraniano e, come Flynn, è sostenitore della linea dura nei confronti dell'Islam radicale, dal quale chiede alla comunità musulmana americana di dissociarsi apertamente.

Il generale Flynn è stato il direttore della Defense Intelligence Agency di Obama, rimosso perché sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico. Le sue tesi sono esposte in un libro scritto a quattro mani con lo storico Michael Ledeen ("Field of Fight)" e sollevano questioni che, a maggior ragione alla luce del nuovo inquilino alla Casa Bianca, noi europei non possiamo più ignorare. Innanzitutto, le premesse: un network di gruppi terroristici islamici è in ascesa, anche presso le comunità musulmane in Occidente. E gli Stati che in un modo o nell'altro li sostengono, o non li combattono, in funzione anti-occidentale, non sono pochi. Ma finora non siamo stati in grado né di contrastarli né di colpire chi li sostiene. Anche se i nostri leader dicono che stiamo vincendo, la verità è che stiamo perdendo. Per prima cosa, sostengono Flynn e Ledeen, bisogna riconoscere che siamo in guerra, una nuova guerra mondiale, e non continuare a negarla, chiudendo gli occhi dinanzi alla natura del nemico. Secondo: non basta "contenere" il nemico, dobbiamo avere un piano per vincere. E la vittoria passa tanto dalla distruzione militare dei gruppi terroristici quanto dallo sfidare i regimi che li supportano e dal contrastare culturalmente la loro ideologia (la "guerra delle idee"), abbandonando politically correct e complessi di islamofobia. E accusano Obama di aver fatto il contrario, lasciando un vuoto (fisico-militare e politico-ideologico) in cui il terrorismo ha potuto trovare spazi per crescere e rafforzarsi.

Con Pompeo alla guida della Cia e Flynn alla sicurezza nazionale temi quali il centro di detenzione di Guantanamo e le tecniche di interrogatorio "rafforzate" sembrano destinati a tornare d'attualità. Discutere di come ottenere il massimo di informazioni dai nemici catturati non può essere un tabù, nemmeno in Europa dopo la recente serie di attacchi subiti. E' politicamente "scomodo" e non privo di rischi avvicinarsi al confine con ciò che riteniamo tortura, ma la tesi di fondo è che bisogna abbandonare l'illusione di poter sconfiggere il nemico islamista "in punta di diritto", cioè con mezzi legali ordinari, gestendo terroristi disciplinati, indottrinati e addestrati militarmente con i guanti bianchi, le procedure e i tempi dei normali sistemi giudiziari. Quali informazioni stiamo ottenendo da Salah Abdeslam, che si sarebbe chiuso nel "mutismo", e da Moez Fezzani?

Nonostante Flynn sia dipinto come filorusso, nel libro scritto con Ledeen Iran e Russia compaiono in cima ai Paesi di cui non fidarsi: il primo come sponsor del terrorismo, il secondo come avversario strategico che vede nell'Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti bersagli da colpire o comunque da indebolire.

E' ovviamente presto per parlare di una dottrina Trump in politica estera e per capire se i proclami della campagna elettorale si tradurranno in azioni conseguenti, ma forse possiamo almeno evitare di cadere nelle semplificazioni.

La posizione di Trump sulla Russia è stata banalizzata per attribuirgli un orientamento ideologicamente favorevole ai sistemi autoritari. In realtà, che si condivida o meno, una normalizzazione dei rapporti tra Washington e Mosca è auspicata da molti e autorevoli analisti americani e in molte capitali europee. Proposta persino da Barack Obama e Hillary Clinton all'inizio dei loro mandati (il pulsante di "reset"). Sulla base della considerazione che non c'è molto da guadagnare da uno scontro con Putin su fronti (come l'Ucraina) che i russi ritengono vitali e gli americani no. In Siria i danni provocati dalle incertezze e dal vuoto lasciato dall'amministrazione Obama, riempito dall'Isis e dalla Russia, sono ormai semplicemente irreparabili. Bisogna prenderne atto con pragmatismo e provare a trovare una soluzione riconoscendo il ruolo di Mosca.

Anche le etichette di isolazionista e protezionista attribuite a Trump potrebbero rivelarsi per lo meno esagerate. Giuste o sbagliate, Trump sembra indicare priorità di politica estera diverse e un cambio di approccio rispetto alla presidenza Obama. L'interesse americano in Medio Oriente non sta nelle primavere arabe e nel "nation-building", ma nel combattere l'Islam radicale. Aumentare la spesa militare, distruggere l'Isis, contenere l'Iran, contrastare la concorrenza sleale della Cina in campo commerciale e monetario, non sembrano propositi che implichino un disimpegno isolazionista, bensì un impegno e un "interventismo" su altri fronti e sulla base della realpolitik, quindi su presupposti molto lontani da quelli dell'interventismo liberal o della destra neocon.

Piuttosto che voler liquidare la Nato, sembra che dall'Alleanza atlantica Trump si aspetti una riconversione strategica sull'obiettivo di debellare la minaccia del terrorismo islamico. E le provocazioni sui contributi insufficienti in termini di spesa militare della maggior parte degli alleati riprende un tema reale (già sollevato tra l'altro anche dall'amministrazione Obama). La considerazione di Trump secondo cui per gli Stati Uniti sarebbe meglio se il Giappone potesse contare su propri armamenti nucleari anziché appaltare la sua sicurezza agli americani è stata letta come l'intenzione di abbandonare il principale alleato in Asia a se stesso di fronte a una Cina in ascesa, ma è lo stesso primo ministro giapponese Shinzo Abe (tra l'altro il primo leader straniero ad aver incontrato Trump) a voler rafforzare le capacità militari del suo Paese.

Piuttosto che mettere in discussione ideologicamente il libero commercio, Trump sembra convinto, a torto o a ragione lo vedremo, di poter negoziare accordi più vantaggiosi per gli americani, in termini di fabbriche e posti di lavoro. Riguardo il nuovo Nafta, i presidenti di Canada e Messico si sono già detti pronti a riaprire le trattative e potrebbe farne parte anche il Regno Unito post-Brexit, dando vita ad una grande area di libero scambio in quella che viene definita l'"Anglosfera". Si intravedono tra il neo presidente americano e la premier britannica Theresa May i presupposti e le circostanze "storiche" di un rapporto speciale, che nonostante le profonde differenze, non può non ricordare la sintonia ideale, strategica e umana tra Reagan e la Thatcher negli anni '80.

Wednesday, March 16, 2011

Isteria e dilettantismo

Uno schifo autentico, permettetemi lo sfogo. L'isteria collettiva europea sul nucleare (non ci siamo fatti mancare neanche il solito euroburocrate irresponsabile che ha parlato di «apocalisse» ed è paradossale che il ministro degli Esteri giapponese debba esortare «i Paesi stranieri ad avere sangue freddo») e l'immobilismo di tutto l'Occidente nella crisi libica restituiscono un'immagine nitida dei mala tempora che stiamo vivendo.

Non voglio certo sottovalutare quanto sta accadendo alla centrale di Fukushima, dove purtroppo c'è ancora molto che può andare storto, ma siamo di fronte ad una catastrofe naturale di proporzioni epiche, che ha già ucciso migliaia, forse decine di migliaia di persone, mentre i vapori radioattivi fuoriusciti dai reattori non hanno ancora ucciso nessuno, l'esplosione delle strutture esterne undici operai e la contaminazione radioattiva sembra per ora non aver oltrepassato la zona circostante la centrale. Insomma, tutto può ancora succedere, ma c'è una probabilità che «l'apocalisse atomica» sia una bolla mediatica. Ed è uno schifo vedere gente in tv o sui giornali che ha tutta l'aria di auspicare il peggio solo per vedere avvalorata la propria ideologia antinuclearista.

I giornali e le tv sembrano non accontentarsi di raccontare il dramma che sta già vivendo il Giappone. L'enorme distesa di fango che ricopre le province nipponiche colpite dallo tsunami, così come la conta dei morti e delle distruzioni, è roba noiosa, deprimente, e soprattutto vista e rivista. C'è bisogno di dare il senso di un'escalation per mantenere il pubblico col fiato sospeso come in uno di quei thriller apocalittici che riempiono le sale. Con voracità inaudita divorano e risputano le notizie. E pazienza se spesso hanno ben poco a che fare con la realtà. Nell'incertezza, le sparano ad alzo zero. Ci raccontano dei giapponesi cinici impassibili di fronte alla tragedia, quegli stessi giapponesi che nell'articolo sulla pagina successiva vengono descritti così in preda al panico da dar vita ad esodi di massa e assalti ai generi alimentari.

E' una riflessione utile in queste ore quella del Wall Street Journal in un editoriale di qualche giorno fa: «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico è che più ci rende maggiormente sicuri, più sembriamo diventare avversi ai rischi, che sono l'unica strada verso progressi futuri». Senza tener conto che «il motivo per cui il Giappone è sopravvissuto ad un tale evento catastrofico è proprio il suo grande sviluppo e la sua ricchezza materiale». «La civiltà moderna è quotidianamente occupata a misurare e mitigare i rischi, ma il suo progredire richiede che continuiamo ad assumerci dei rischi... La vita moderna richiede di trarre delle lezioni dai disastri, non di fuggire da tutti i rischi. Dovremmo imparare dalla crisi nucleare giapponese, non lasciare che alimenti un panico politico sull'energia nucleare in generale».

Nella crisi nucleare di Fukushima, così come nella crisi libica, ha ragione Mario Sechi: «Siamo di fronte a un decadimento delle leadership e a una quanto mai improvvisata e dilettantesca gestione dell'agenda internazionale».

Gli ultimi sviluppi in Libia dimostrano che c'è una nuova ideologia da abbattere in Occidente: il multilateralismo. E che quando l'America esercita la sua leadership, gli altri Paesi si accodano. Quando invece rimane inerte, il mondo diventa un posto più pericoloso.

Nonostante l'inedito e preziosissimo via libera della Lega araba, nessuno farà nulla mentre Gheddafi schiaccerà i ribelli e potrà cantare vittoria - unico leader arabo ad aver umiliato l'Occidente. A Washington c'è un re-tentenna le cui parole altisonanti valgono ormai come un dollaro bucato. Si è capito che la Merkel decide in base alle scadenze elettorali, sulla sospensione delle centrali così come sulle ipotesi di intervento in Libia. Francia e Gran Bretagna sono più interventiste ma solo a parole, senza un mandato dell'Onu e soprattutto - si ha l'impressione - senza Washington, non muoverebbero mai un dito. La Russia a mio avviso dopo il voto della Lega araba sarebbe stata pronta a chiudere un occhio, ma trovata la sponda tedesca e le incertezze americane ne ha approfittato.

L'Italietta si barcamena, non vuole bruciarsi l'ultimo filo di rapporto con Gheddafi nel caso - ormai quasi certo - che il raìs riconquisti il Paese e che la comunità internazionale dopo tanti esercizi di multilateralismo non muova un dito. Non so se per un colpo di fortuna o per capacità d'analisi, ma alla fine tocca ammettere che il governo italiano ci ha visto lungo nel mantenere un atteggiamento prudente, forse prevedendo che non ci sarebbe stato alcun intervento internazionale e che Gheddafi sarebbe rimasto al potere, quindi meglio non esporsi. Diciamo che è stato il miglior modo di arrendersi agli eventi e ai non eventi, ma certo non il migliore per tutelare i nostri interessi in Libia.

Monday, March 14, 2011

Un po' di rispetto, please

Il Giappone si era preparato allo "jishin" per decenni. Nessuna società al mondo è più preparata: tecnologicamente ma anche e soprattutto culturalmente. Il rispetto e la disciplina hanno salvato la vita probabilmente a un milione di persone. Se è scritta nel nostro destino una catastrofe del genere, preghiamo di trovarci in Giappone in quel momento.

Purtroppo però, di fronte a una tragedia simile stiamo assistendo da una parte ad uno tsunami di vere e proprie banalità, luoghi comuni sui giapponesi, quasi "disumanizzati" proprio per quel rispetto e quella disciplina, scambiati per insensibilità; dall'altra a strumentalizzazioni senza ritegno sul nucleare civile nel nostro Paese. Solo di questi miserevoli dibattiti siamo ormai capaci evidentemente nella nostra Italietta.

Si sono dipinti come insensibili i giapponesi solo perché non abbiamo visto scene di disperazione né grandi mobilitazioni di volontari; insomma, solo perché i media nipponici hanno il pudore di non lucrare sul dolore altrui per alzare i propri ascolti, come invece accade nei nostri salotti televisivi. E comunque, passati i primi giorni, quando la zona più colpita era davvero irragiungibile, stanno arrivando fino a noi, a soddisfare la nostra morbosità, le prime immagini degli sguardi angosciati e persi nel vuoto dei sopravvissuti.

Guai a scambiare la compostezza dei giapponesi per insensibilità, indifferenza alla vita umana, cinismo ed egosimo. Quella compostezza è espressione di una specifica cultura del rapporto uomo-natura, che comprende sia l'accettazione piena delle sue forze, e della morte umana, come componenti insopprimibili del ciclo della vita, sia il dovere di reagire alle avversità senza perdersi d'animo. Ma è anche un'esigenza molto pratica: il panico e la disperazione non aiutano a salvare se stessi né gli altri. E talvolta, specie in presenza di tali immani catastrofi (con tutto il rispetto, non siamo di fronte all'alluvione di Firenze), anche le migliori intenzioni rischiano di ostacolare i soccorsi.

Il rischio che una catastrofe nucleare si sommi a quella naturale è alto, ma ciò non giustifica il vero e proprio sciacallaggio di quanti in queste ore cavalcano la comprensibile emotività dell'opinione pubblica per lanciare la propria campagna referendaria antinuclearista. Non commettiamo lo stesso errore del 1987, quando per la criminale negligenza sovietica a Chernobyl perdemmo qui da noi il treno del nucleare.

Numerose centrali nelle regioni colpite dal sisma e dallo tsunami hanno retto e l'unica che sta avendo problemi seri è stata progettata negli anni '60 ed è in funzione da quarant'anni. E' ovviamente lecito, anzi auspicabile, che quanto accaduto e sta accadendo serva da lezione per perfezionare ulteriormente gli standard di sicurezza, anche in situazioni limite, e che spinga a chiudere celermente le vecchie centrali, ma non ha alcun senso concludere dalla tragedia giapponese che il nucleare non fa per noi.

Thursday, August 06, 2009

Clinton a Pyongyang, Rassicurazioni Usa a Corea del Sud e Giappone

Come volevasi dimostrare, la visita di Clinton a Pyongyang deve aver allarmato non poco Corea del Sud e Giappone, che temono di essere marginalizzati se Washington dovesse concedere alla Corea del Nord negoziati diretti sul suo programma nucleare. Sia il portavoce del Ministero degli Esteri sudcoreano che il capo segreteria del governo giapponese hanno reso noto oggi che Washington ha assicurato ai loro governi che la visita di Clinton ha avuto come unico scopo la liberazione delle due giornaliste e che l'ex presidente non ha discusso della questione nucleare con Kim Jong Il. Che le rassicurazioni siano arrivate o meno, o che siano state richieste solo successivamente, resta il fatto che i governi di Seoul e Tokyo hanno avvertito l'esigenza politica di renderle note.

Inoltre, un certo imbarazzo deve aver creato anche il fatto che insieme alle due giornaliste americane non siano stati liberati anche i cittadini sudcoreani e giapponesi nelle mani di Pyongyang, ai quali non si è fatto neanche cenno. Così i due funzionari governativi di Seoul e Tokyo hanno fatto anche sapere che durante la sua visita l'ex presidente Clinton ha esortato direttamente il leader nordcoreano Kim Jong Il a rilasciare i sudcoreani arrestati e a «fare progressi» sulla questione dei giapponesi rapiti. Anche qui, come sopra: non possiamo saperlo, ma la precisazione è emblematica di un certo imbarazzo.

La Corea del Nord trattiene dallo scorso marzo un lavoratore sudcoreano, accusato di aver denunciato il regime comunista in un distretto industriale congiunto Nord-Sud, e dalla scorsa settimana anche quattro pescatori accusati di aver varcato le sue acque territoriali. Nel 2002 il regime nordcoreano ha ammesso di aver rapito 13 cittadini giapponesi tra gli anni '70 e '80 e di averli usati per addestrare le sue spie. Cinque di loro hanno fatto ritorno in Giappone. Il regime di Pyongyang sostiene che gli altri otto sono morti, ma Tokyo chiede ulteriori indagini. E Washington ha sempre detto che a Seoul e Tokyo che il problema dei loro ostaggi non avrebbe dovuto interferire con la questione del nucleare.

Wednesday, August 05, 2009

Clinton a Pyongyang allarma Corea del Sud e Giappone

Di solito i rapitori non ti lasciano andare via con gli ostaggi se prima non gli hai consegnato il riscatto. E il regime nordcoreano non è nuovo a rapimenti di cittadini stranieri. Può anzi essere definito un "rapitore seriale". Un centinaio i giapponesi e migliaia i sudcoreani che sono ancora detenuti da Pyongyang. E' evidente che prima della partenza di Bill Clinton alla volta della capitale nordcoreana un accordo di massima fosse stato già raggiunto tra i due Paesi per la liberazione delle due giornaliste americane riportate a casa oggi dall'ex presidente Usa, che non avrebbe messo a rischio il suo prestigio personale esponendosi a un rifiuto.

Alcuni funzionari americani hanno assicurato che, in cambio della liberazione, alla Corea del Nord non sono state promesse contropartite specifiche, e che nelle trattative dietro le quinte non è entrata la questione del programma nucleare nordcoreano. Il fatto che ad accogliere Clinton all'aeroporto ci fosse Kim Kye-gwan, il capo negoziatore nordcoreano sul nucleare, farebbe pensare il contrario, ma la sua presenza si può spiegare anche con banali motivi di propaganda da parte di Pyongyang. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha confermato che Washington ha sempre considerato la liberazione degli ostaggi e il nucleare due temi distinti e separati, e ha insistito sul fatto che quella del marito è stata una missione strettamente umanitaria, senza alcun messaggio al regime da parte del presidente Obama.

Difficile però credere che Clinton si sia presentato a mani vuote. Ciò che preoccupa soprattutto gli alleati degli Stati Uniti nella regione, Corea del Sud e Giappone, è che qualsiasi cosa affermi il governo americano, l'incontro tra Clinton e Kim Jong Il (terrificante la foto che li ritrae insieme) possa rappresentare l'inizio di trattative dirette, bilaterali, sul nucleare, escludendo gli altri quattro Paesi (Corea del Sud, Giappone, Cina, Russia) coinvolti nei negoziati a sei interrotti da Pyongyang. Non subito, ovviamente, per fugare i sospetti di un collegamento diretto tra la missione di Clinton e l'inizio dei negoziati. Anche senza alcuna contropartita, infatti, la visita di Clinton rappresenta di per sé un messaggio, data la sua autorevolezza (un ex presidente con cui Pyongyang ha avuto a che fare per otto anni). Va nella stessa direzione del tentativo di Kim di disfarsi dei negoziati a sei a favore di quel negoziato diretto con gli Usa che insegue da sempre.

Anche il Wall Street Journal si chiede oggi se la visita di Clinton non sia da interpretare come solo «l'anticipo di una più ampia serie di concessioni che Kim ha estorto all'amministrazione Obama». Se così fosse, Kim Jong Il avrebbe la conferma che la sua strategia, fatta di promesse ripetutamente disattese, di ricatti e provocazioni, funziona. Che anziché accrescere l'isolamento internazionale della Corea del Nord, le garantisce concessioni sempre maggiori. Come dire a Kim, avverte il WSJ, che peggiore è il suo comportamento, più concessioni può riuscire a strappare. E il prezzo per riscattare i prossimi ostaggi sarebbe ancora più alto.

Oltretutto esiste anche un precedente storico. Un altro ex presidente Usa, Jimmy Carter, contribuì a dare una boccata d'ossigeno alla Corea del Nord in un momento di estrema difficoltà. Nel giugno del 1994 Carter si recò a Pyongyang, dove mise a punto le linee guida di un accordo quadro che prevedeva la fornitura alla Corea del Nord di reattori nucleari ad acqua leggera, in cambio della sospensione del programma nucleare e di un suo eventuale smantellamento. Nonostante il parere contrario dell'allora presidente sudcoreano Kim Young-sam, il presidente Clinton accettò l'accordo, che non solo significò la fornitura di assistenza materiale al regime di Pyongyang, ma anche il suo riconoscimento politico da parte americana subito dopo la morte del fondatore, Kim Il Sung, cioè nel periodo di maggiore vulnerabilità dalla Guerra coreana. Ma c'è da augurarsi che Clinton abbia imparato la lezione di allora e non si sia prestato a giocare il ruolo che giocò Carter.

Al di là della soddisfazione formale espressa per la liberazione delle due americane, i governi di Seoul e Tokyo si devono essere chiesti come mai Clinton non abbia intercesso in favore di alcuni dei loro cittadini ancora nella mani del regime nordcoreano. Sul Wall Street Journal, Gordon Chang si augura che la liberazione delle due giornaliste non sia avvenuta al prezzo di ulteriori negoziati, che darebbero a Pyongyang più tempo per completare il suo arsenale militare e per sviluppare i suoi missili balistici, e che gli Stati Uniti non si dimentichino degli altri ostaggi di Kim Jong Il: un centinaio di giapponesi e almeno un migliaio di sudcoreani, alcuni prigionieri addirittura dalla Guerra coreana e gli altri rapiti successivamente. Oltre, naturalmente, ai 23 milioni di nordcoreani che Kim usa come ostaggi.

Thursday, April 03, 2008

Uiguri in rivolta, per la Cina a rischio l'operazione-Olimpiadi

Continuano a giungere da Pechino segnali in evidente contraddizione con gli impegni presi con il Cio come condizione per l'asssegnazione dei Giochi olimpici. Hu Jia, 34 anni, il più celebre attivista umanitario della nuova generazione, è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per «incitazione alla sovversione dello Stato». Noto per il suo impegno in favore dei malati di Aids e della causa tibetana, per la tutela dell'ambiente e il rispetto della libertà religiose. Una conferma delle denunce di Amnesty International, secondo cui con l'approssimarsi dei Giochi si registra addirittura un arretramento degli spazi di libertà in Cina. «Costernati» gli Usa, per la condanna di Hu Jia, mentre l'Ue chiede la sua liberazione.

In serata è intervenuta anche Condoleezza Rice per bollare la condanna come «profondamente inquietante». Si tratta «esattamente di quel tipo di decisione che noi abbiamo cercato di convincere più volte la Cina a non prendere. Perchè sono azioni non soltanto contro l'interesse dei diritti umani e del rispetto della legalità, ma anche contro lo stesso interesse della Cina», ha spiegato. Confermata comunque la presenza di Bush alle Olimpiadi: «Non è importante solo per il paese che lo organizza ma anche per tutti i suoi cittadini».

Anche la Norvegia, intanto, ipotizza di boicottare la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi, che verrebbe disertata dai vertici politici. Certa l'assenza dell'imperatore giapponese Akihito. La decisione è stata presa dal governo, a cui spetta gestire l'agenda ufficiale dell'imperatore, proprio in risposta alla repressione avvenuta in Tibet. Ulteriore motivo di attrito nei rapporti mai distesi tra Giapppone e Cina. Un'umiliazione particolare per Pechino prendere lezioni sui diritti umani proprio dal Giappone, da cui subì l'invasione della Manciuria e il massacro di Nanchino.

Ma l'appuntamento olimpico rischia sempre più di trasformarsi in un boomerang per Pechino. Uno stillicidio di proteste e rivolte potrebbe anche far fallire la gigantesca operazione di propaganda volta a mostrare al mondo l'immagine di una società "armoniosa" proiettata verso il progresso, diffondendo invece esattamente l'immagine opposta. Altro che armonia, dopo i tibetani, infatti, anche gli uiguri, il popolo turcomanno di religione islamica che abita nella vasta regione dello Xinjiang, si sono sollevati chiedendo la scarcerazione dei prigionieri politici e la libertà religiosa.

Sugli scontri del 23 e 24 marzo le autorità cinesi hanno saputo mantenere il segreto fino a ieri, per cercare di attenuare la sensazione del propagarsi in tutto il paese dei focolai di rivolta delle minoranze oppresse. Un territorio geostrategico quello dello Xinjiang: per il petrolio, gli oleodotti e i gasdotti da cui è attraversato, e per la difesa militare.

Ma il caso degli uiguri è molto di verso da quello dei tibetani. Intanto sono molti di più: 16 milioni. Non hanno un leader unico che professa la nonviolenza ma diversi leader e gruppi, alcuni democratici, altri legati al fondamentalismo islamico. La Cina è avvertita: non sarà facile incassare con le Olimpiadi il pieno successo d'immagine che si aspetta.

Friday, September 07, 2007

Democrazie si organizzano/3

Ne avevamo parlato giorni fa in occasione della visita del premier giapponese in India: l'invito rivolto da Shinzo Abe al Parlamento indiano per costituire una partnership tra democrazie insieme a Stati Uniti e Australia; le esercitazioni militari India-Giappone-Usa. Ebbene, i quattro paesi continuano a tessere la tela dalla quale si intravede una lega delle democrazie Asia-Pacifico, anche in funzione contenimento e pressione su Pechino.

Giunto a Sydney per il vertice della cooperazione economica Asia-Pacifico (Apec), il presidente americano Bush ha «una chiara strategia: contenere la crescente espansione politica, economica e militare della Cina». Sabato mattina, riferisce Il Foglio, i leader di Stati Uniti, Australia e Giappone siederanno per la prima volta allo stesso tavolo per un vertice trilaterale sulla sicurezza, mentre il presidente cinese Hu Jintao e russo Putin «aspetteranno fuori dalla porta».

La colazione «non è contro nessuno, certamente non contro i cinesi», ha assicurato il premier australiano John Howard. Solo l'«espressione di comunanza di interessi delle tre democrazie del Pacifico». Ma Pechino protesta.

Il problema è sostanzialmente uno: la Cina si sta armando. Lo sa bene il dissidente cinese Wei Jingshen, militante del Partito radicale, che nel dicembre scorso ha avvertito i suoi compagni del pericolo, scongiurandoli di evitare che l'Ue decida di abolire il bando sulla vendita di armi alla Cina imposto dopo il massacro di Tienanmen. Poco prima Emma Bonino si era trovata in Cina insieme a Prodi che assicurava a Pechino l'appoggio italiano per la revoca del bando.

Il presidente americano ha accettato di fornire al suo alleato australiano «ampio accesso alla tecnologia militare top secret e all'intelligente statunitense». Ma il Trattato di cooperazione commerciale di difesa ha «valore anche politico». Con Canberra Bush sta stringendo una special relationship che porterà l'Australia a diventare importante quanto la Gran Bretagna nella classifica degli alleati più affidabili.

Per quanto riguarda il Giappone, ci sono gli aiuti militari e il progetto di uno scudo anti-missilistico americano, che servirà a proteggere l'allleato da eventuali missili nordcoreani e Taiwan da eventuali missili cinesi.

Anche l'India è della partita, com'era apparso evidente non molto tempo fa con la visita di Abe a Nuova Delhi: l'accordo nucleare con Washington e le esercitazioni militari di mercoledì, programmate da tempo, tra la marina indiana, due gruppi di portaerei americane e navi da guerra giapponesi e australiane.

Friday, August 24, 2007

Democrazie si organizzano

Per Robert Kagan la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire

Le speranze degli anni '90, di un sicuro sviluppo delle nazioni del mondo in senso democratico, si sono rivelate pie illusioni. Robert Kagan, sul New York Times, ha di recente spiegato che «il mondo è ridiventato normale», che «è riaffiorata l'antica concorrenza tra liberalismo e assolutismo», che la lotta tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire, se due tra le più grandi potenze mondiali, come Russia e Cina, disattendendo le aspettative di democratizzazione, scelgono l'autocrazia come forma di governo e virano verso il nazionalismo e il militarismo.

La strategia per affrontare dal punto di vista ideologico e culturale, politico e diplomatico, questo secolare conflitto passa per «politiche mirate sia a promuovere la democrazia, sia a rafforzare la cooperazione tra le democrazie». Occorre superare il mito della "comunità internazionale". Non esiste: per parlare di "comunità" dovrebbe innanzitutto essere condiviso da tutti i membri un universo di principi e di regole di convivenza, sia interna agli Stati, sia tra gli Stati. Ad oggi invece, nonostante il progressivo ma lento avanzamento della democrazia, la maggior parte dei membri dell'Onu, alcuni dei quali siedono addirittura nel Consiglio di Sicurezza, ignorano e, in modo conclamato, calpestano i principi della Carta costitutiva delle Nazioni Unite.

Le democrazie dovrebbero quindi unirsi tra di loro «per dar vita a nuove istituzioni internazionali che sappiano riflettere e valorizzare principi e obiettivi comuni, forse una nuova lega di Stati democratici, che si riunisca regolarmente per consultarsi sui temi del giorno» e, per esempio, per «dare legittimità ad azioni che i governi liberali ritengono necessarie ma che sono avversate dai Paesi autocratici».

Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, sembra intenzionato a percorrere questa strada almeno in Asia. Parlando mercoledì al Parlamento indiano, ha invitato l'India a formare una partnership tra democrazie. A partire dal Giappone e dall'India, «questa "Grande Asia" evolverebbe in un immenso network fino ad abbracciare interamente l'Oceano Pacifico, comprendendo gli Stati Uniti e l'Australia». Questa partnership, ha spiegato Abe, sarebbe «un'associazione nella quale noi condividiamo valori fondamentali come la libertà, la democrazia, e il rispetto dei diritti umani fondamentali, così come interessi strategici».

La Cina non è stata nominata dal primo ministro giapponese. Non potrebbe far parte di questo "club", non essendo una democrazia. L'iniziativa giapponese è una risposta alla Shanghai Cooperation Organization (di cui fanno parte Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrghizistan, Tajikistan e Uzbekistan). Tuttavia, non sarebbe un'organizzazione anti-Cina, ma volta a promuovere principi e obiettivi comuni alle democrazie del continente, quindi, a esercitare anche sulla Cina, come sugli altri paesi asiatici non democratici, pressione politica ed economica.

Senza dimenticare però di dare precisi segnali in ambito militare. In risposta all'esercitazione militare congiunta Russia-Cina, che se la memoria non c'inganna mancava dagli anni '50, il prossimo mese è in programma nel Golfo del Bengala la prima esercitazione della storia che vedrà impegnate le marine militari di Giappone, India e Stati Uniti. Se la sfida tra liberalismo e autocrazia è destinata a proseguire a livello globale, è bene che le democrazie si organizzino.