Di solito i rapitori non ti lasciano andare via con gli ostaggi se prima non gli hai consegnato il riscatto. E il regime nordcoreano non è nuovo a rapimenti di cittadini stranieri. Può anzi essere definito un "rapitore seriale". Un centinaio i giapponesi e migliaia i sudcoreani che sono ancora detenuti da Pyongyang. E' evidente che prima della partenza di Bill Clinton alla volta della capitale nordcoreana un accordo di massima fosse stato già raggiunto tra i due Paesi per la liberazione delle due giornaliste americane riportate a casa oggi dall'ex presidente Usa, che non avrebbe messo a rischio il suo prestigio personale esponendosi a un rifiuto.
Alcuni funzionari americani hanno assicurato che, in cambio della liberazione, alla Corea del Nord non sono state promesse contropartite specifiche, e che nelle trattative dietro le quinte non è entrata la questione del programma nucleare nordcoreano. Il fatto che ad accogliere Clinton all'aeroporto ci fosse Kim Kye-gwan, il capo negoziatore nordcoreano sul nucleare, farebbe pensare il contrario, ma la sua presenza si può spiegare anche con banali motivi di propaganda da parte di Pyongyang. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha confermato che Washington ha sempre considerato la liberazione degli ostaggi e il nucleare due temi distinti e separati, e ha insistito sul fatto che quella del marito è stata una missione strettamente umanitaria, senza alcun messaggio al regime da parte del presidente Obama.
Difficile però credere che Clinton si sia presentato a mani vuote. Ciò che preoccupa soprattutto gli alleati degli Stati Uniti nella regione, Corea del Sud e Giappone, è che qualsiasi cosa affermi il governo americano, l'incontro tra Clinton e Kim Jong Il (terrificante la foto che li ritrae insieme) possa rappresentare l'inizio di trattative dirette, bilaterali, sul nucleare, escludendo gli altri quattro Paesi (Corea del Sud, Giappone, Cina, Russia) coinvolti nei negoziati a sei interrotti da Pyongyang. Non subito, ovviamente, per fugare i sospetti di un collegamento diretto tra la missione di Clinton e l'inizio dei negoziati. Anche senza alcuna contropartita, infatti, la visita di Clinton rappresenta di per sé un messaggio, data la sua autorevolezza (un ex presidente con cui Pyongyang ha avuto a che fare per otto anni). Va nella stessa direzione del tentativo di Kim di disfarsi dei negoziati a sei a favore di quel negoziato diretto con gli Usa che insegue da sempre.
Anche il Wall Street Journal si chiede oggi se la visita di Clinton non sia da interpretare come solo «l'anticipo di una più ampia serie di concessioni che Kim ha estorto all'amministrazione Obama». Se così fosse, Kim Jong Il avrebbe la conferma che la sua strategia, fatta di promesse ripetutamente disattese, di ricatti e provocazioni, funziona. Che anziché accrescere l'isolamento internazionale della Corea del Nord, le garantisce concessioni sempre maggiori. Come dire a Kim, avverte il WSJ, che peggiore è il suo comportamento, più concessioni può riuscire a strappare. E il prezzo per riscattare i prossimi ostaggi sarebbe ancora più alto.
Oltretutto esiste anche un precedente storico. Un altro ex presidente Usa, Jimmy Carter, contribuì a dare una boccata d'ossigeno alla Corea del Nord in un momento di estrema difficoltà. Nel giugno del 1994 Carter si recò a Pyongyang, dove mise a punto le linee guida di un accordo quadro che prevedeva la fornitura alla Corea del Nord di reattori nucleari ad acqua leggera, in cambio della sospensione del programma nucleare e di un suo eventuale smantellamento. Nonostante il parere contrario dell'allora presidente sudcoreano Kim Young-sam, il presidente Clinton accettò l'accordo, che non solo significò la fornitura di assistenza materiale al regime di Pyongyang, ma anche il suo riconoscimento politico da parte americana subito dopo la morte del fondatore, Kim Il Sung, cioè nel periodo di maggiore vulnerabilità dalla Guerra coreana. Ma c'è da augurarsi che Clinton abbia imparato la lezione di allora e non si sia prestato a giocare il ruolo che giocò Carter.
Al di là della soddisfazione formale espressa per la liberazione delle due americane, i governi di Seoul e Tokyo si devono essere chiesti come mai Clinton non abbia intercesso in favore di alcuni dei loro cittadini ancora nella mani del regime nordcoreano. Sul Wall Street Journal, Gordon Chang si augura che la liberazione delle due giornaliste non sia avvenuta al prezzo di ulteriori negoziati, che darebbero a Pyongyang più tempo per completare il suo arsenale militare e per sviluppare i suoi missili balistici, e che gli Stati Uniti non si dimentichino degli altri ostaggi di Kim Jong Il: un centinaio di giapponesi e almeno un migliaio di sudcoreani, alcuni prigionieri addirittura dalla Guerra coreana e gli altri rapiti successivamente. Oltre, naturalmente, ai 23 milioni di nordcoreani che Kim usa come ostaggi.
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