Il verdetto di condanna non è mai stato in dubbio e dopo numerosi rinvii "tattici" del regime, nella speranza di far scemare l'attenzione internazionale sul caso, stamane è arrivato. Aung San Suu Kyi è stata ritenuta colpevole di aver violato gli arresti domiciliari e condannata a tre anni di carcere. La Corte ha concesso ai giornalisti di assistere alla lettura della sentenza, ma solo perché era in programma l'ennesima sceneggiata. Dopo qualche minuto di pausa, infatti, il colpo di teatro. Ha fatto il suo ingresso in aula il ministro degli Interni birmano, il quale ha letto un ordine speciale di Than Shwe, leader della giunta militare al potere, che commutava la pena a "18 mesi di arresti domiciliari". Giusto il tempo per togliere dalla circolazione la leader dell'opposizione birmana per tutto il 2010, anno in cui si terranno le elezioni-farsa.
Fin dall'inizio il caso che ha portato al nuovo processo nei confronti di Suu Kyi è sembrato una montatura creata ad arte dal regime. Il 14 maggio scorso il nuovo arresto, quando neanche due settimane dopo, il 27 maggio, sarebbero scaduti i termini degli arresti domiciliari che duravano da sei anni, prorogati più volte di anno in anno dal 2003. Ma proprio a pochi giorni dalla scadenza, ecco quello strano individuo che riusciva a introdursi nella villa - controllatissima - della dissidente e a rimanerci due notti approfittando della sua ospitalità. Un caso preso subito a pretesto dal regime, o addirittura pianificato - come si direbbe alla luce di una tempistica a dir poco sospetta - per mantenere Aung San Suu Kyi ancora agli arresti.
Adesso vedremo come la comunità internazionale, ma soprattutto Europa e Stati Uniti, reagiranno. Se si limiteranno alle sdegnate dichiarazioni di queste ore, o se adotteranno misure concrete nei confronti della giunta militare birmana.
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