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Friday, December 30, 2011

Molto rumore per nulla

Molto clamore per così poco ha suscitato questo articolo del Wall Street Journal secondo cui lo scorso 20 ottobre la cancelliera Merkel avrebbe telefonato al presidente Napolitano per sollecitarlo a sostituire il primo ministro Berlusconi perché incapace ad affrontare la crisi. Il Quirinale ha già smentito, ma una smentita converrebbe anche alla cancelliera, per non alimentare inutilmente sentimenti anti-tedeschi.

Un racconto puntuale e dettagliato degli ultimi mesi dell'euro-panico quello del WSJ, ma bisogna andarci cauti e separare il verosimile dall'inverosimile. Innanzitutto, che la Merkel abbia «gentilmente sollecitato l'Italia a cambiare il suo primo ministro» sembra più che altro una conclusione cui giunge il giornalista del WSJ. Infatti, come osserva Il Post nella sua traduzione commentata, quando verso la fine dell'articolo l'autore passa a descrivere nel dettaglio la telefonata, il racconto perde la sollecitazione della Merkel a cambiare il primo ministro e diventa più verosimile:
«Merkel disse a Napolitano che gli sforzi dell'Italia per tagliare il deficit erano stati "apprezzati", ma che in realtà l'Europa avrebbe voluto vedere riforme più aggressive per far ripartire la crescita. Disse che era preoccupata che Berlusconi non fosse abbastanza forte da riuscirci. Napolitano disse che il fatto che Berlusconi fosse recentemente sopravvissuto a un voto di fiducia per un solo voto "non era rassicurante". Merkel ringraziò il presidente in anticipo per il suo fare "quanto nei suoi poteri" per promuovere le riforme».
In pratica, ciò che resta in piedi nella ricostruzione è ciò di cui tutti, già allora, eravamo consapevoli: la grande preoccupazione per la situazione italiana e per la debolezza parlamentare del governo Berlusconi. In effetti forti dubbi riguardo la sua capacità di realizzare le riforme strutturali richieste dai mercati e dalle istituzioni europee, Bce in testa, abbondavano in Italia così come - non era affatto un mistero, ma cosa piuttosto ovvia - nelle cancellerie europee. Anche secondo l'articolo la Merkel non fa altro che rappresentare a Napolitano queste preoccupazioni. Dunque, la caduta di Berlusconi non è il frutto di un'ingerenza tedesca, o di un complotto Merkel-Napolitano, ma è ovvio che non è nemmeno merito delle opposizioni. Il governo Berlusconi è caduto sotto le pressioni dei mercati ed europee perché troppo debole per affrontare la crisi del debito. Non ci sono stati diktat ma i colpi inesorabili della realtà. Sulle cause di questa debolezza si può disquisire a lungo, qui in estrema sintesi possiamo dire che sono in parte interne (l'immobilismo e l'incompetenza), in parte esterne (l'aggressione mediatico-giudiziaria che ha distrutto l'immagine personale del premier). Ma a conti fatti l'articolo del WSJ non aggiunge nulla di particolarmente nuovo o che non fosse già intuibile.

Thursday, December 29, 2011

Un Berlusconi in loden

Autocompiacimento, supponenza e tanto tanto fumo

Anche su Notapolitica

La conferenza stampa di fine anno del premier Mario Monti non può aver deluso chi, non curandosi del clima di grande attesa alimentato dai giornali, si aspettava una lezione professorale piuttosto che impegni concreti. Così è stato. La lectio magistralis ha preso fin dalle prime battute il sopravvento sulla conferenza stampa, con i soliti momenti soporiferi e le preoccupanti amnesie su quel documento che non si trova ("dov'è quella cosa della Fornero?"). Recessivi erano persino l'abito grigio scelto da Monti e la scenografia marrone alle sue spalle, che nei primi piani ricordava lo sfondo di un ascensore ("A che piano scende?" - "Al meno uno, grazie").

Giornali e commentatori vari dovrebbero avere l'onestà intellettuale di ammetterlo: al netto della sobrietà accademica e dei toni british, è stata una conferenza stampa molto berlusconiana. Se il Cavaliere si affidava all'iperbole, il professore fa largo uso di understatement per dare sfogo ad un sarcasmo forse non colto pienamente ma davvero acido nei confronti dei giornalisti. Ha difeso con una supponenza ai limiti del disprezzo il proprio operato; si è arrampicato sugli spread per sostenere che il suo ingresso a Palazzo Chigi ha tranquillizzato i mercati; ha ripetuto noiosamente le cose fatte ed elencato genericamente i temi ancora da affrontare; ha recriminato che «nei fondamentali della nostra economia non c'è nulla che giustifichi uno spread così alto» e che «l'Europa e il mondo hanno pregiudizi sbagliati verso di noi»; ha accusato i giornalisti di inventarsi le cose e lamentato di essere incompreso dai suoi perfidi colleghi economisti, ma meno male che almeno i cittadini comprendono ciò che il governo sta facendo. Insomma, un Berlusconi in loden.

Ma il momento più berlusconiano – che probabilmente giornali e tv ignoreranno – è quando Monti ha citato esplicitamente Berlusconi, in particolare il passaggio conclusivo della conferenza stampa di fine anno dell'anno scorso, quando disse che serviva «un bagno di ottimismo, perché nella crisi il fattore psicologico è importantissimo», e invitò quindi i giornali «a non riportare solo le cose negative». Monti si è associato alle parole dell'ex premier proprio su uno degli aspetti più criticati della sua comunicazione. Berlusconi veniva accusato di voler occultare la realtà, negare la crisi, mettere il bavaglio ai giornali, prendere in giro i cittadini, ma ecco che anche Monti sottolinea l'importanza del «fattore psicologico» per uscire dalla crisi e invita la stampa ad un «moderato ottimismo» e a non farsi megafono di disfattismo con un eccesso di notizie negative. Ed esattamente come il suo predecessore alla fine del 2010, Monti ha negato che nel prossimo anno sarà necessaria un'altra manovra correttiva. Quel genere di «moderato ottimismo» che finora non ci ha portato molta fortuna.

Non sono mancate le contraddizioni tra le pieghe del suo argomentare. Per esempio, ha spiegato che la differenza di spread tra Italia e Spagna, e il principale motivo di esposizione del nostro Paese sui mercati, è dovuto allo stock di debito pubblico, il 120% rispetto al Pil, piuttosto che ad altri parametri macroeconomici su cui siamo messi meglio degli altri, ma poco dopo che la priorità è agire sui flussi di cassa, facendo intendere che l'abbattimento dello stock di debito verrà preso in esame, semmai, in un secondo momento.

La fase 2, che ha definito "Crescitalia", sarà focalizzata sulle liberalizzazioni e sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche sulle infrastrutture e la ricerca. Monti si è autocensurato invece sul tema del fisco, in realtà centrale per la ripresa economica. E quando ha cercato di tranquillizzare i cittadini preoccupati per l'elevata pressione fiscale confidando che «il nostro sforzo è di rendere più omogenea la preoccupazione effettiva», in molti devono aver sentito un brivido correre lungo la schiena: "Ok, panico".

E' comprensibile che Monti appaia piuttosto reticente e non voglia anticipare nel concreto le misure in via di elaborazione, restando sul generico quando parla di liberalizzazioni e mercato del lavoro. Teme di pestare i piedi e di suscitare conflitti con le parti sociali e le corporazioni, come accaduto nei giorni scorsi sull'art. 18, prim'ancora di chiamarle al tavolo della concertazione. Purtroppo però è proprio evitando di chiamare le cose con il loro nome, e cercando di evitare a tutti i costi il conflitto, che rischia di farsi impantanare come ogni governo.

Wednesday, December 28, 2011

Una patrimoniale puntata alla tempia

Anche su Notapolitica

A dar credito alle anticipazioni filtrate da fonti governative l'annunciata riforma del catasto sarà «a saldo zero», nel senso che non aumenterà la pressione fiscale complessiva sulla casa. Servirà ad aggiornare le rendite adeguandole ai valori di mercato; ad eliminare imbarazzanti sperequazioni negli estimi tra centro e periferie nelle grandi città; ma gli adeguamenti saranno accompagnati dall'abrogazione dei «moltiplicatori» e dalla riduzione delle aliquote. A parità di gettito però, non potrà che mutare, ovviamente, la posizione fiscale del singolo proprietario. In breve: qualcuno pagherà di più e qualcuno meno.

Ma ammesso e non concesso che il suo impatto immediato sia davvero «a saldo zero» - e c'è da dubitarne fortemente, anche per le difficoltà tecniche - la vera operazione per la quale, neanche troppo surrettiziamente, il governo getta le basi con il nuovo catasto è quella di una patrimoniale ordinaria. E' come se caricasse una pistola e la puntasse alla tempia degli italiani, promettendo di non premere il grilletto. Per ora. E' scritto nero su bianco nel documento elaborato dal ministero dell'Economia circolato in questi giorni, infatti, che uno degli obiettivi della riforma, il primo anzi, è «la costituzione di un sistema catastale che contempli assieme alla rendita (ovvero il reddito medio ordinariamente ritraibile al netto delle spese di manutenzione e gestione del bene), il valore patrimoniale del bene, al fine di assicurare una base imponibile adeguata da utilizzare per le diverse tipologie di tassazione».

Ciò significa che ci troviamo di fronte ad una rivoluzione copernicana della filosofia stessa del catasto. Fino ad oggi il suo scopo era quello di rappresentare la redditività di un immobile, calcolata sulla base del canone medio, al netto delle spese, al quale lo si potrebbe affittare. Il nuovo catasto dovrebbe affiancare al valore reddituale quello patrimoniale, cioè il prezzo di mercato dell'immobile, «da utilizzare per le diverse tipologie di tassazione». E' proprio questo il senso del passaggio dai vani al metro quadrato. L'aumento dell'imposta dovuto alla rivalutazione della rendita catastale può essere compensato riducendo «moltiplicatore» o aliquote, ma adeguare le rendite ai valori di oggi non implica necessariamente il passaggio dal concetto di redditività a quello di valore patrimoniale.

Dunque, mentre i giornali si sbizzarriscono in tabelle e simulazioni su chi pagherà di più e chi meno, il bersaglio grosso della riforma non è il mero aggiornamento delle rendite, ma comporre un quadro attendibile del valore degli immobili come primo tassello di qualsiasi imposta patrimoniale. Ricordate come lo stesso Monti ha giustificato in queste settimane la mancata introduzione di una patrimoniale ordinaria, come richiesto dai partiti di sinistra e persino da Confindustria? Non può essere introdotta senza prima possedere le necessarie informazioni sul valore reale dei patrimoni degli italiani. E di quei patrimoni la casa è il "mattone" fondamentale. La riforma del catasto offre una straordinaria occasione per acquisire quelle informazioni propedeutiche. Non sarebbe un'eresia, tutt'altro, pensare di tassare la ricchezza accumulata e immobilizzata piuttosto che quella investita in attività produttive, ma si deve trattare, appunto, di spostare il carico fiscale dall'una all'altra e non semplicemente di aggiungerlo. Ma qui di un taglio drastico alle aliquote sui redditi e sulle imprese non si vede nemmeno l'ombra.

Se i nostri sospetti si dimostrassero fondati, bisognerebbe concludere che il governo Monti si sta impegnando a fondo per far esplodere anche in Italia la bolla immobiliare. Prendiamo come esempio un patrimonio immobiliare di 1 milione di euro. Un'aliquota patrimoniale del 5 per mille significherebbe dover pagare allo Stato 5.000 euro l'anno. Lasciamo per il momento da parte l'effetto sul mercato delle locazioni. Considerando un periodo di 20 anni, 100 mila euro di tasse, ecco che quel patrimonio ha già perso il 10% del suo valore. Prima l'Imu, ora la riforma del catasto, poi la patrimoniale ordinaria. L'effetto combinato di una tassazione punitiva e di dismissioni di patrimonio immobiliare pubblico, pur auspicabili, potrebbe far crollare il valore degli immobili, provocando una pesante svalutazione degli asset dello Stato stesso e delle banche. Un incubo a cui ci auguriamo di non assistere. Lo Stato taglierebbe così il ramo su cui è seduto. Dopo aver reso anti-economiche, nel corso dei decenni, le altre forme di investimento (dalle attività produttive a quelle finanziarie), adesso lo Stato mette nel mirino il mattone pur di non mettersi a dieta. E ovviamente ciò che ottiene è che i capitali sono sempre più in fuga dal nostro Paese - sia illegalmente che legalmente (attività finanziarie detenute all'estero per oltre 13,5 miliardi di euro; beni immobili per oltre 19,4 miliardi di euro).

Wednesday, December 21, 2011

I mercati bocciano le tasse di Monti e credono alle promesse di Rajoy

Anche su Notapolitica

C'è un dato di finanza pubblica che ha fatto poco rumore in questi giorni di commenti e deliri sulla prima manovra del governo Monti. Mentre il premier ammetteva candidamente dinanzi alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato che i suoi primi sforzi si sono concentrati nell'«identificare strutturalmente nuova materia imponibile», anziché spesa da tagliare, nelle stesse aule parlamentari il presidente della Corte dei Conti spiegava come, a causa del forte sbilanciamento sul lato delle entrate delle ultime tre manovre (tremontiane e montiane), «il percorso di riequilibrio dei conti pubblici dal 2010 al 2014 si realizzerebbe, in Italia, in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico. In altri termini, la riduzione del disavanzo programmata nel periodo (circa 75 miliardi) sarebbe conseguita solo per l'aumento imponente delle entrate (circa 120 miliardi) e nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più di 45 miliardi)».

Tradotto, vuol dire che il trend della spesa pubblica continua ad essere crescente. Insomma, mesi e mesi di allarmi default, di “fatepresto”, di demagogia e piagnistei contro i «tagli», più o meno lineari, e scopriamo che in effetti non è stata ridotta la spesa, ma solo rallentata la sua crescita. In Italia, e solo in Italia, il concetto di austerity si traduce solo con nuove tasse e non anche con tagli alla spesa. E' questo il grande illusionismo che i nostri governi, tecnici o politici, fiancheggiati dai mainstream media, stanno tentando: salvare l'Italia non nell'unico modo in cui può essere salvata, cioè imponendo allo Stato di dimagrire, ma salvando lo Stato – e quindi le quote di potere degli “incumbent” politici, economici e sociali – così com'è, con tutte, e di più, le sue spese e le sue entrate. E' un illusionismo molto rischioso, tuttavia, perché salvare uno Stato ipertrofico potrebbe non coincidere con il salvare l'Italia e gli italiani. E questo rischio i mercati l'hanno ben presente e continuano a “prezzarlo”.

Quanto tempo dovremo attendere prima di leggere sul Corriere della Sera o sul Sole24Ore che la manovra Monti è stata sostanzialmente bocciata dai mercati (lo spread btp-bund oscilla ancora tra i 470 e i 500 punti), mentre i soli annunci del nuovo premier spagnolo Rajoy sembrano aver calmierato i rendimenti sui titoli emessi da Madrid? Lo spread bonos-bund è a 311 (-155 rispetto al differenziale sui nostri titoli), ma soprattutto all'asta di ieri i rendimenti dei “bonos” a tre mesi sono crollati dal 5,11% dello scorso 22 novembre all'1,73%, quelli a sei mesi dal 5,22 al 2,43%. Ne sono stati collocati in tutto per 5,64 miliardi, con una richiesta che ha superato di ben quattro volte l'offerta. Forse gli analisti individueranno qualche causa “tecnica”, ma è un fatto che Rajoy nel suo discorso programmatico alla Camera dei deputati spagnola ha annunciato tagli strutturali per 16,5 miliardi di euro al bilancio delle amministrazioni pubbliche, a tutti i livelli e su tutte le voci di spesa, senza «nemmeno un euro in più di tasse»; tra le altre cose, la soppressione dei prepensionamenti e della «pratica abusiva» dei pensionamenti anticipati usati come sussidi di disoccupazione.

Da noi, invece, oltre ad una manovra per quasi il 90% di tasse nel 2012, si susseguono segnali inquietanti: il ministro Passera che esclude ulteriori manovre (quindi niente tagli alla spesa derivanti della spending review in corso?); il ministro dell'istruzione Profumo che annuncia concorsi per 12.500 nuovi insegnanti; e infine il dibattito sulla riforma del mercato del lavoro, che sta prendendo una piega assai pericolosa per le casse dello Stato. L'improcrastinabile esigenza di superare un'eccessiva rigidità in uscita, per favorire la crescita dimensionale delle imprese e quindi l'occupazione, sta lasciando la scena al cosiddetto “reddito minimo garantito”. Come spiega Oscar Giannino su Panorama, già il progetto Ichino ha i suoi difetti, se poi la base di partenza, come lasciano intendere alcune dichiarazioni governative, diventa il progetto Boeri-Nerozzi, allora rischiamo un esito paradossale: articolo 18 esteso di fatto a tutti; assenza di contratti a tempo; cassa integrazione universale, ossia salario garantito. Il che vorrebbe dire: Grecia, stiamo arrivando! In Italia l'assegno di disoccupazione non può essere generoso, soprattutto nella sua durata, come nei Paesi nordici, perché lavoro nero e truffe ci farebbero piangere per i prossimi 50 anni.

Se la speculazione finanziaria, come la fortuna, è cieca, i mercati nel loro insieme mostrano invece di vederci benissimo. Non guardano più solo ai saldi di bilancio, ma anche a come i governi li perseguono; non solo alla quantità ma alla qualità di una manovra. Certe misure vengono giustificate con la presunta impazienza dei mercati, che non sarebbero inclini ad aspettare i benefici di lungo termine di una riforma strutturale. Eppure, negli ultimi tempi gli investitori mostrano di non accontentarsi di una tenuta dei conti pubblici nel breve periodo. Al contrario, nella valutazione del rischio di un'obbligazione statale della durata di 5 o 10 anni è probabile che le loro analisi guardino quasi esclusivamente alla presenza o meno di riforme strutturali in grado di produrre effetti duraturi e di lungo termine. Delle manovre italiane hanno capito che non sarà così: se l'agognato azzeramento del deficit si realizzerà, come prevede la Corte dei Conti, solo per l'aumento delle tasse, allora con una spesa pubblica che continua a crescere e un Pil fermo (nella migliore delle ipotesi), il mantenimento del pareggio di bilancio potrà essere garantito solo al prezzo di un ulteriore aumento delle tasse, il che ci condannerebbe ad una spirale recessiva. Senza tagli alla spesa e senza crescita non c'è rientro dal debito sostenibile.

Ogni economista ed editorialista che si rispetti ha una sua ricetta anti-crisi. Va per la maggiore quella di trasformare la Bce in una Fed europea, con il ruolo cioè di prestatore di ultima istanza e stampatore di moneta facile (che per inciso ha portato la Fed americana a contribuire in modo decisivo all'esplosione della crisi dei subprime); c'è chi invoca un maxi-prestito del Fmi per rifinanziare a tassi accettabili parte del debito in scadenza nel 2012; c'è chi propone un deprezzamento dell'euro per aumentare l'export dei Paesi in deficit commerciale, in modo da concedere loro del tempo per realizzare quelle riforme necessarie per ridurre il gap di produttività nei confronti della Germania. Nessuno (o quasi) però nega che l'unica soluzione strutturale della crisi sia meno spesa pubblica e più produttività dei singoli Paesi. Non è che alla spasmodica ricerca di soluzioni “parafulmine” per guadagnare tempo, in realtà abbiamo solo perso del tempo prezioso (due anni ormai dall'esplosione della crisi greca) per fare quelle riforme che tutti ritengono ineluttabili? I tedeschi sembrano gli unici a rifiutare soluzioni tampone – le quali contemplano il rischio che l'euro, nato per dare all'Europa una moneta forte come il marco, possa fare la fine della liretta – e con sangue freddo sotto i colpi dei mercati a insistere per le riforme nei singoli Paesi.

Monday, December 19, 2011

Non stupisce, purtroppo, la violenza della Camusso

Le interviste domenicali ci hanno regalato un Tremonti che si lamenta con Monti per le troppe tasse e il poco sviluppo, tra le cose più ridicole e spudorate sentite in tutto il 2011, e un Passera che si candida al ruolo di nuovo Prodi («occuparsi di bene comune è il più bello dei lavori»). Oggi invece entra nel vivo lo scontro sull'art. 18 e non stupisce la violenza verbale di Susanna Camusso, leader della Cgil, in un'intervista al Corriere della Sera: sulle pensioni parla di intervento addirittura «folle» da parte del governo, al quale attribuisce anche un «tratto autoritario». E poi ecco l'immancabile personalizzazione del "nemico", che in questo caso viene identificato nel ministro Fornero, accusata di una «aggressione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici». Tra l'altro, oltre che un insulto alla Fornero, quando la Camusso afferma che «fatto da una donna, stupisce molto», insulta anche tutto il genere maschile, evidentemente essendo gli uomini i soli capaci delle peggiori nefandezze.

Purtroppo invece non stupisce affatto la violenza verbale della Camusso, in pieno stile Cgil, e anzi accusare la Fornero di «aggredire» i lavoratori ricorda in modo inquietante l'appellativo «limaccioso» di Cofferati all'indirizzo di Marco Biagi. La Fornero stessa è consapevole della «personalizzazione dell'attacco» e si dice dispiaciuta «per un linguaggio che pensavo appartenesse a un passato del quale non possiamo certo andare orgogliosi».

Se poi, come già annunciato da Monti nel suo discorso alla Camera per la prima fiducia, il superamento dell'art. 18 dovesse limitarsi ai nuovi contratti - uno dei limiti della proposta di Ichino - l'impatto sarebbe estremamente limitato in termini di incentivo alla crescita e all'occupazione, sarebbe davvero poco più che simbolico, il terreno ideale per uno scontro meramente ideologico. Ma sarebbe ancor più deludente in termini di «equità». Il mercato del lavoro infatti resterebbe "duale" ancora per molti anni, finché gli attuali assunti a tempo indeterminato non andranno in pensione e i nuovi contratti non disciplineranno la maggioranza dei rapporti in essere.

Friday, December 16, 2011

Monti il germanico, do you know?

E' la seconda volta da quando è presidente del Consiglio che Mario Monti fa un'affermazione importante che passa quasi inosservata. Per i direttori dei grandi giornali, e una vasta schiera di commentatori politici ed economici, economisti e leader politici e confindustriali, prima "il" problema italiano aveva un solo nome: Berlusconi. E dunque hanno a lungo e fortemente caldeggiato la soluzione del governo tecnico. Uscito di scena Berlusconi, e insediatosi Monti, ora il problema è l'Europa, in particolare la Germania, che per miopia o egoismo si rifiuta di mettere in gioco la propria solidità e credibilità finanziaria per sostenere i debiti sovrani dell'eurozona. Quasi unanimemente si chiede che la Bce possa monetizzare i debiti dei Paesi in difficoltà.

Senza voler entrare nel merito delle ragioni e dei torti - l'ho già fatto in questo post - qui mi interessa far notare che tutti i "grandi elettori" di Monti oggi guardano ai tedeschi come ai depositari della soluzione, chi più chi meno chiedendo loro di abbandonare un'assurda rigidità e di staccare il sospirato assegno. Ebbene, dovrebbero però prendere atto che Monti non la pensa affatto così: quando Monti dice che la crisi «non è dell'euro ma della politica di bilancio» di alcuni Paesi della zona euro sta sostenendo la stessa identica posizione della Germania e di Draghi. E cioè che, giusto o sbagliato che sia, la crisi va superata, e la credibilità sui mercati riconquistata, innanzitutto attraverso le politiche di bilancio nazionali e non grazie al soccorso di salvatori di ultima istanza.

Non sto dicendo che Monti non si adopererà per ammorbidire le posizioni dei tedeschi ed arrivare ad una soluzione di compromesso, ma che non aderisce alla linea di chi pensa, per esempio, che Berlino dovrebbe accettare di modificare lo statuto della Bce per attribuirgli il ruolo della Fed americana o di aderire a soluzioni come gli Eurobond senza prima una compiuta unione fiscale tra i Paesi dell'eurozona. Può piacere o meno, ma è bene che i grandi sostenitori di Monti ne prendano atto e ne scrivano sui loro giornali.

Thursday, December 15, 2011

Alt! Manovra contromano

Nel suo bollettino mensile la Bce sottolinea che le manovre di risanamento dei conti pubblici dovrebbero essere concentrate «prevalentemente sulla riduzione della spesa»; che «le riforme del mercato del lavoro si dovrebbero incentrare sulla rimozione delle rigidità e su una più ampia flessibilità salariale»; e che le riforme dei mercati dei beni e servizi «dovrebbero vertere sulla piena apertura dei mercati al fine di rafforzare la concorrenza». La via per uscire dalla crisi per la Bce è a senso unico. Non so a voi, ma a me la prima manovra varata dal governo Monti sembra andare contromano.

E' ciò che emerge anche dalle valutazioni del Centro studi di Confindustria. E' fortemente sbilanciata sul lato delle entrate (per l'88,6% nel 2012) e nel 2013 porterà la pressione fiscale all'insopportabile livello del 45,5% (54% al netto del sommerso). Il suo impatto recessivo sull'economia sarà ben più corposo di quello ottimisticamente stimato da Bankitalia in mezzo punto di Pil in due anni. Confindustria stima per il 2012 una contrazione del Pil dell'1,6%. Il guaio è che la manovra, allo scopo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, è calcolata sulla base di un calo del Pil dello 0,5% nel 2012. Monti farebbe bene a sbrigarsi dunque con le misure per la crescita, perché con questa manovra si parte con una penalizzazione di -1. A meno che l'impatto recessivo si rivelasse minore di un punto percentuale, ma c'è ancora qualcuno disposto a crederci?

Non vuole salvare l'Italia, ma il baraccone-Stato

Anche su Notapolitica

Poche storie, nessun alibi. Per questa manovra Monti aveva carta bianca. Quale partito si sarebbe assunto la responsabilità di mandare a casa prima di Natale il governo di salvezza nazionale dopo avergli votato la fiducia neanche un mese prima? Nessuno dunque provi a far passare la comoda balla che quei cattivoni della "casta", i sindacati, le corporazioni o chissà chi altro l'hanno bloccato. In queste prime settimane Monti avrebbe potuto far ingoiare qualsiasi riforma strutturale. Invece, ha consapevolmente scelto di dilapidare il suo "momentum", la finestra di massima disponibilità al sacrificio da parte della politica, delle parti sociali e dell'opinione pubblica, non per le riforme strutturali ma - come egli stesso ha ammesso ieri sera in Commissione Bilancio - per «identificare strutturalmente nuova materia imponibile», l'esatto opposto di ciò che i mercati e l'Ue chiedevano. La patrimoniale sulla casa e la riforma delle pensioni possono aver sedato l'invidia dei tedeschi per quelli che erano ritenuti con qualche ragione privilegi tutti italiani ormai poco sostenibili. Allo scopo di farsi ascoltare a Berlino Monti ha puntato tutto su quelle misure, ma non ci serviranno per crescere e, dunque, per convincere gli investitori a scommettere sul nostro futuro.

L'impostazione della manovra è un fallimento di metodo e di cultura politica attribuibile interamente a Mario Monti. Ma che futuro ha il grande liberalizzatore, quello che ha sanzionato nientemeno che Microsoft per milioni di euro, se poi se la svigna davanti ai tassisti e ai farmacisti, per altro rinnegando i suoi editoriali pro-crescita? Il primo colpo sparato dal governo dei tecnici è andato a vuoto e non è detto che ne avrà altri in canna. Purtroppo Monti è caduto nel solito errore di metodo, quello di una politica dei due tempi: prima aggiustiamo i conti con nuove tasse, poi pensiamo alla crescita. L'esperienza insegna che chi ha provato a intraprendere questa strada si è fermato al primo tempo, deprimendo ancor di più la nostra economia e non riuscendo nemmeno a realizzare gli obiettivi di bilancio.

Come temevamo, dunque, quella in via d'approvazione è ancora una volta la manovra delle tasse subito e delle riforme rinviate. Il fatto che Federfarma abbia rinunciato alla serrata prova che anche davanti ai farmacisti il governo s'è calato le braghe: sarà infatti l'Agenzia del farmaco (Aifa), d'intesa con il Ministero della Salute, a individuare entro quattro mesi dal varo del decreto un elenco, aggiornabile periodicamente, dei farmaci di fascia C comunque esclusi dalla vendita fuori farmacia. Rinviata anche la liberalizzazione dei trasporti: il governo si concede sei mesi di tempo per regolare i diversi settori, ma i taxi non sono nemmeno citati e soprattutto non si vede come possa procedere a liberalizzare il trasporto pubblico locale senza privatizzare le municipalizzate. Salvi gli ordini professionali: è stata infatti depotenziata la scadenza del 13 agosto 2012 come termine ultimo per adattarli alle richieste di liberalizzazione da parte dell'Ue. E in tutto questo sono state stralciate le misure per la rete dei carburanti, è stato rinviato al 2013 lo scioglimento dei consigli provinciali, mentre i parlamentari promettono di ridursi le indennità ai livelli europei entro il mese di gennaio del prossimo anno.

Quelle poche liberalizzazioni previste dal decreto sono state dunque rinviate, per essere concertate con le corporazioni, i classici "tacchini" che dovrebbero anticipare il Natale. A dispetto delle indicazioni Ue la manovra non sposta il carico fiscale alleggerendolo su lavoro e imprese, ma si limita ad aggiungere ulteriore carico, sul patrimonio mobiliare e immobiliare, mettendo in piedi un fisco tutt'altro che «amico», una vera e propria "Stasi" tributaria.

Dal punto di vista della cultura politica che il governo dei tecnici esprime, per il momento in totale continuità con i precedenti, il fatto che l'azzeramento del deficit si realizzi - come certifica la Corte dei Conti - «in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico», nonché in piena recessione, rende di per sé l'idea dell'enormità di nuove tasse da cui la società italiana verrà vessata. Ma c'è da dubitare delle reali intenzioni del medico che continua ad ingozzare il paziente obeso. Nel rapporto debito/Pil tutti concordiamo che è il denominatore la chiave di volta. E se vogliamo davvero fare un discorso di verità, dovremmo riconoscere che l'unica soluzione ai nostri problemi di crescita è abbattere l'intermediazione del bilancio pubblico di 10 punti di Pil, per far calare di altrettanti punti la pressione fiscale. Insomma, la restituzione nelle mani dei cittadini e delle imprese della ricchezza da loro prodotta è l'unico modo per crearne di nuova.

La manovra non sembra concepita nemmeno per avviarsi su questa strada. Non è una polemica sui presunti "poteri forti", la questione è più sottile. Il governo Monti si avvale delle migliori e più responsabili e pragmatiche competenze delle elites del Paese, ma proprio per questo non vuole cambiare l'attuale modello socio-economico, che vede lo Stato intermediare più o meno la metà della ricchezza prodotta, vuole salvarlo, perpetuarlo, apportando al sistema quegli accorgimenti minimi ineluttabili, perché tutto sommato è un Bengodi per gli "incumbent" politici, economici e sociali di cui è espressione.

Tuesday, December 13, 2011

Curare un obeso ad abbuffate

Anche su Notapolitica

Viviamo in uno strano Paese, dove alla crisi del debito sovrano nella zona euro si risponde non tagliando la spesa e abbattendo il nostro debito con dismissioni di patrimonio pubblico, ma aumentando le tasse. Se il riequilibrio dei conti pubblici dal 2010 al 2014, cioè l'azzeramento del deficit, si realizza - lo certifica la Corte dei Conti - «in una prospettiva di ulteriore aumento del livello di intermediazione del bilancio pubblico», cioè «nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più di 45 miliardi)», evidentemente l'obiettivo non è far dimagrire lo Stato, ma "salvarlo" così obeso come lo conosciamo. E infatti la bizzarra terapia sembra consistere in ricorrenti abbuffate di tasse.

Ma non deve sorprendere, perché è lo stesso Paese nel quale gli organi di stampa espressione della borghesia e del mondo industriale - come Corriere della Sera, Sole24Ore, Radio24 - da anni, e con più vigore in questi giorni, sono concentrati prioritariamente sulle campagne, per lo più demagogiche, contro la "casta" dei politici e contro l'evasione fiscale. Così Sergio Rizzo, sul Corriere, denuncia che l'evasione si è quintuplicata negli ultimi trent'anni, dimenticandosi però di ricordare che negli stessi trent'anni la pressione fiscale si è decuplicata. Non è strano che in Italia, anziché attaccare l'elevata imposizione fiscale, il "business" metta le sue bocche da fuoco mediatiche a disposizione dello Stato per la caccia all'evasore? Se avessero profuso altrettante energie nel condannare la spesa pubblica e l'insopportabile livello della tassazione, forse oggi sarebbe stata più forte e consapevole la pressione dell'opinione pubblica in tal senso.

Finché permarrà, invece, un approccio moralistico e ideologico ai fenomeni economici e sociali, non sconfiggeremo né l'evasione fiscale né la mafia. Solo chi è troppo accecato dal populismo e imbevuto di cultura statalista, infatti, non riesce a vedere che l'evasione fiscale in Italia è un fenomeno così di massa, così diffuso e capillare, che non può avere una spiegazione soltanto delinquenziale, o peggio antropologica (lo scarso senso civico degli italiani), ma probabilmente è alimentato da un istinto di autodifesa nei confronti di uno Stato-padrone e da ineludibili necessità economiche: a certi costi le attività produttive risultano semplicemente insostenibili. E il paradosso è che unirsi alla caccia all'evasore significa aiutare lo Stato ad intermediare quote sempre maggiori di ricchezza (non rubata, ma fino a prova contraria prodotta lavorando onestamente), in definitiva quindi aiutare proprio la "casta" degli odiati politici ad aumentare il loro potere sui cittadini. Allo stesso modo, bisogna molto laicamente riconoscere che ai livelli attuali di pressione fiscale, sprechi e inefficienze, in alcune aree del Paese le organizzazioni criminali sono più competitive dello Stato, perché meno costose e più efficienti nel controllo del territorio.

Come provano da una parte l'inarrestabile corsa della pressione fiscale negli ultimi trent'anni e dall'altra la vera e propria "Stasi" tributaria che sta prendendo forma, prima con il giustizialismo del "solve et repete" (prima si paga, poi si contesta) e i poteri sempre più invasivi di Equitalia, ora con la definitiva caduta del segreto bancario, la risposta italiana alla crisi è la socialistizzazione a tappe forzate della ricchezza che sempre meno la società è in grado di produrre. Purtroppo il rischio concreto, nel 2012, è che il Paese si trovi stretto in una morsa recessiva letale: la lotta all'evasione che con il suo armamentario di sequestri, ipoteche e pignoramenti potrebbe provocare fallimenti a catena di piccole-medie imprese, con le ricadute che possiamo immaginare sull'occupazione; e la patrimoniale da 53 miliardi sulla casa che potrebbe causare una drastica contrazione dei consumi e/o un netto calo del valore degli immobili, se dovesse innescarsi una crisi dei mutui o un'ondata di vendite da parte dei proprietari pensionati.

Stavolta non mi trovo d'accordo con Luca Ricolfi, per il quale per tagliare la spesa bisogna prima studiare dove e come. A mio modesto avviso l'ordine dei fattori dovrebbe essere invertito: solo i tagli, anche se lineari, obbligano a "studiare". Come dimostra la nostra storia fiscale, se aspettiamo di avere i «piani operativi pronti» non taglieremo mai nulla. E' solo affamando la bestia che le si può imporre di dimagrire.

Monday, December 12, 2011

Caro Rizzo, controlla anche la pressione

Evasione quintuplicata in 30 anni? Pressione fiscale decuplicata

Probabilmente al di là delle intenzioni dell'autore, l'articolo di oggi di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera, dimostra la corrispondenza - così puntuale che difficilmente può ritenersi casuale - tra l'inarrestabile ascesa della pressione fiscale e l'aumento esponenziale dell'evasione, avvalorando la tesi di quanti sostengono che il livello elevato della prima è la causa diretta dell'entità della seconda.

Rizzo nel suo articolo si concentra solo sull'evasione fiscale, giungendo alla conclusione che in trent'anni si è quintuplicata. L'evasione, infatti, è passata dai 54 miliardi di euro stimati nel 1981, circa il 7-8% del Pil, ad una cifra nel 2008 - stimata ovviamente - fra i 255 e i 275 miliardi di euro. L'inchiesta sarebbe stata più completa se il giornalista del Corriere avesse consultato le serie storiche sul conto economico dello Stato disponibili sul sito dell'Istat, da cui emerge che nello stesso periodo, sempre nei termini assoluti usati da Rizzo, la pressione fiscale si è addirittura decuplicata, è aumentata cioè di ben 10 volte. E' passata infatti dai 63,787 miliardi di euro del 1980 ai 656,861 miliardi certificati nel 2009. In termini percentuali rispetto al Pil è passata dal 31,36% del 1980 al 43,2% del 2009 (fino al 45% previsto nel 2012).

Dunque, c'è almeno un motivo di consolazione: gli italiani diventano più evasori ad un ritmo comunque inferiore a quello con cui cresce la voracità dello Stato.

Friday, December 09, 2011

Più tasse e la spesa aumenta

Nelle loro relazioni sulla manovra illustrate stamattina alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, confermano tutti gli aspetti negativi delle ultime manovre di finanza pubblica, le ultime due del governo Berlusconi ma anche la prima del governo Monti: rilevanti e pericolosi effetti recessivi; troppo squilibrate sul lato delle entrate, mentre i tagli alla spesa sono pochi; scarsa attenzione alla crescita.

Fin troppo ottimistiche le stime di Visco riguardo l'impatto della manovra su Pil e pressione fiscale. In assenza di veri e propri shock riformatori, soprattutto fiscali (ma ordinamentali, non agendo sulla deducibilità), l'effetto recessivo di questa manovra (60 miliardi in tre anni quasi solo di più tasse) sarà ben maggiore di «mezzo punto percentuale nel prossimo biennio». Potrebbe in realtà superare il punto percentuale. E appare davvero difficile che la pressione fiscale, che già si prevede salirà al 44,5% per effetto delle precedenti manovre, si contenga «intorno al 45%». Considerando anche una più marcata contrazione del Pil di quella attualmente stimata, e senza interventi compensativi sulle aliquote che gravano su lavoro e imprese, non mi stupirei se superasse il 46%.

Il problema è che esattamente come le altre manovre anche quella dei "tecnici", conferma il governatore Visco, «si concentra per circa due terzi sulle entrate» piuttosto che sui tagli. Nulla invece per superare il vero ostacolo alla crescita, il cosiddetto cuneo fiscale, che «in Italia supera la media degli altri Paesi dell'area euro di 5,5 punti percentuali». In linea le valutazioni della Corte dei Conti, la quale mette in guardia da quella che potrebbe definirsi come la sindrome greca: non si può sottovalutare «il rischio che il ricorso prevalente a manovre che impiegano lo strumento fiscale concorrano a determinare una spirale negativa, nella quale dosi sempre maggiori di restrizione sono imposti proprio dagli impulsi recessivi che vengono trasmessi all'economia».

Anche per la Corte dei Conti la manovra del governo Monti risente dei difetti imputati a quelle dei suoi predecessori:
«I tagli strutturali della spesa, se si escludono quelli di grande rilievo del sistema pensionistico, sono insufficienti. Si misura qui la difficoltà del passaggio dal metodo dei tagli lineari a criteri di selezione della spesa pubblica più accorti e mirati e che va perseguito con impegno, rafforzando le iniziative di implementazione degli indirizzi di spending review».
Dunque c'è di più: dagli odiati «tagli lineari» siamo passati a niente tagli. Almeno sulle reali intenzioni dei nemici dei tagli lineari aveva ragione Tremonti, come purtroppo temevamo. La conseguenza è che la riduzione del deficit programmata fino al 2014, certifica la Corte dei Conti, «sarebbe conseguita solo per l'aumento imponente delle entrate (circa 120 miliardi)». Non solo senza tagli, quindi, ma «nonostante un ulteriore aumento del livello della spesa pubblica (più 45 miliardi)». Il che conferma che finché continueremo a pagare più tasse lo Stato continuerà ad ingrassare e i nostri sacrifici risulteranno vani nel giro di pochi mesi. «Si tratta con tutta evidenza - ammette Giampaolino - di un trend già ai limiti della sostenibilità».

Infine, conclude la Corte, appare problematico recuperare tutto il gettito previsto dalla tassa dell'1,5% sui capitali scudati, in quanto almeno per gli importi più elevati «hanno avuto tutto il tempo di scomparire senza lasciare traccia». Ma il governo dei tecnici non doveva servire a risparmiarci questi dilettantismi? Evidentemente, ci sono sempre tecnici più tecnici di un governo dei tecnici.

Troppi furbetti su Ici e Irpef

Sul fronte fiscale della manovra è il caso di insistere nel provare a sfatare alcuni falsi miti. E' falso che il governo Monti non abbia toccato le tasse sui redditi personali: da gennaio infatti aumenta, per tutti gli scaglioni, l'addizionale regionale Irpef, il che significa buste paga più leggere in media di 62-132 euro annui. E ci vuole una fervida immaginazione per considerare l'Ici non una pesante patrimoniale ma una tassa sui servizi, come si sforza di spiegare Monti. Se fosse davvero una tassa sui servizi che i comuni erogano, si dovrebbe applicare a tutti i residenti, a prescindere dalla proprietà o meno della loro abitazione.

Riguardo il tema delle esenzioni c'è poco da scaldarsi, è inutile addentrarsi in interminabili e dotte disquisizioni normative. Senza voler colpevolizzare la Chiesa o il settore no-profit, è evidente - perché altrimenti la materia non sarebbe così ripetutamente all'attenzione delle autorità europee e delle alte corti italiane - che l'attuale normativa ha generato, e sta alimentando, una zona grigia nella quale è difficile distinguere tra esenzioni lecite e illecite. In ogni caso, a mio avviso, la reintroduzione dell'Ici sulla prima casa (inaccettabile se non compensata da un alleggerimento almeno equivalente sui redditi) taglia la testa al toro. Sarebbe incomprensibile infatti aggrapparsi alla «funzione sociale» o «no-profit» quando di tutta evidenza non c'è nulla di più "sociale" e "no-profit" della casa in cui si abita, su cui anzi spesso c'è il gravoso onere del mutuo. Se i cittadini pagano l'Ici anche sulla prima casa, nemmeno il padreterno in persona reclamerebbe il diritto all'esenzione. Questo vale per gli enti ecclesiastici, ma ancor di più - non bisogna mai scordarselo - per partiti, sindacati e camere di commercio.

Wednesday, December 07, 2011

Su 30 miliardi quasi 25 sono nuove tasse

Anche su Notapolitica

Dalla lettura della relazione tecnica che accompagna il decreto varato domenica sera dal governo si può comprendere con maggiore precisione la reale portata della manovra. In particolare, il rapporto tra nuove tasse e tagli alla spesa sembra molto diverso da quello annunciato dal viceministro Grilli (17-18 miliardi di nuove entrate e 12-13 di tagli). In realtà, sui 30 miliardi complessivi le nuove tasse pesano per 21,6 miliardi, e sfiorano i 25 con la clausola di salvaguardia sull'Iva.

Ma entriamo nel dettaglio. L'anticipazione, che nel decreto viene definita «sperimentale», dell'Imposta municipale propria, la nuova Ici, dovrebbe assicurare un gettito di 11 miliardi di euro l'anno. E' poi prevista una maggiorazione della tassa sui rifiuti di 1 miliardo. L'aumento delle accise sui carburanti porterà nelle casse dell'erario 4,827 miliardi nel 2012. Nello stesso anno l'imposta di bollo sui prodotti finanziari e la tassa sui capitali scudati porteranno rispettivamente 1,043 e 1,095 miliardi. Solo 453 milioni valgono invece le imposte sui beni di lusso (auto, barche e aerei). Siamo già a 19,418 miliardi. Ma la riduzione della compartecipazione Iva destinata al finanziamento del fabbisogno sanitario delle regioni (2,085 miliardi + 130 milioni) non può essere contabilizzata nei tagli alla spesa perché compensata da un aumento dallo 0,9 all'1,23% delle addizionali regionali Irpef. Si tratta di 2,2 miliardi di nuove tasse sui redditi personali, che si applicano a tutti gli scaglioni. Siamo così arrivati alla cifra di 21,633 miliardi nel solo 2012. Sempre che dal primo ottobre non scatti l'aumento dell'Iva previsto dalla clausola di salvaguardia per ulteriori 3,280 miliardi. In questo caso le nuove tasse sfiorerebbero i 25 miliardi.

Tra i tagli alle spese restano i 2,767 miliardi delle disposizioni sulle pensioni (che arrivano tutti dalla deindicizzazione perché la riforma vera e propria comincerà a produrre i suoi benefici nel medio-lungo termine) e 2,785 miliardi di concorso alla manovra da parte degli enti territoriali. Trascurabile il contributo dalla soppressione di enti e organismi, solo 22 milioni nel 2012.

Tuesday, December 06, 2011

Perseverare è diabolico

I mercati hanno indubbiamente promosso la manovra del governo Monti. La Borsa ieri ha guadagnato tre punti circa e lo spread è calato di 100 punti in due giorni - anche se bisogna annotare che i bonos spagnoli hanno seguito la stessa dinamica dei btp italiani rispetto ai bund tedeschi, sottolineando ancora una volta la forte influenza del contesto europeo sull'andamento dei nostri titoli. Anche le istituzioni e gli osservatori europei hanno espresso apprezzamento. Questo perché bene o male la manovra questa volta è stata concepita puntando su due riforme chiare, comprensibili, e di grande impatto sui conti presenti e futuri: pensioni e Ici. Due grossi arrosti invece dei mille coriandoli di Tremonti.

Per di più - da non trascurare - proprio il regime privilegiato di noi italiani nella tassazione sugli immobili e nell'età di pensionamento era motivo di invidia e irritazione in Europa, e soprattutto in Germania. Non credo sia stato un caso che l'azione del governo sia stata così incisiva proprio su questi due fronti. Il risultato che si voleva ottenere in termini politici è probabilmente una maggiore leva diplomatica proprio nei confronti di Berlino.

Monti ha rifiutato la concertazione con i sindacati sulla previdenza, considerandola giustamente materia di competenza esclusiva del governo, ma vi ha fatto esplicito riferimento a proposito della riforma del mercato del lavoro; di liberalizzazioni (professioni e municipalizzate) non se ne vedono; di corpose dismissioni di patrimonio pubblico nemmeno; di riduzione ordinamentale (non solo attraverso forme di deducibilità) delle tasse su lavoro e imprese neanche a parlarne, nonostante le autorità Ue avessero suggerito esplicitamente uno spostamento del carico fiscale piuttosto che un appesantimento.

Dal punto di vista fiscale quindi la manovra è un'immensa patrimoniale, sulla casa e sulle attività finanziarie, che avrà quasi certamente effetti recessivi che potrebbero rendere necessaria un'ulteriore correzione dei conti. Tagli alle spese pochissimi, tra l'altro in parte compensati dall'aumento delle addizionali regionali Irpef, quindi con nuove tasse. Troppo poco è stato fatto per la crescita e nulla per abbattere lo stock di debito. Si dirà che anche i precedenti governi negli ultimi dieci anni non hanno fatto altro che aumentare le tasse, ma questo non è un buon motivo per perseverare nell'errore, che tutti sanno essere pratica «diabolica».

Se il Financial Times promuove con riserva la manovra, il Wall Street Journal si mostra invece critico. In uno dei suoi editoriali osserva che «le nuove misure di bilancio annunciate in Italia suggeriscono che il vecchio gioco è lungi dall'essere finito». La manovra è troppo sbilanciata sugli aumenti di tasse e di corto respiro sulle riforme. Il nuovo premier, prosegue il WSJ, «sembra intenzionato a seguire la Grecia sulla via, tracciata da Ue-Fmi, di rincorrere entrate fiscali a danno della crescita economica». Bene la riforma delle pensioni, ma la manovra - sottolinea il quotidiano finanziario Usa - «non fa niente per affrontare il problema principale del mercato del lavoro italiano: l'impossibilità di licenziare per le aziende con 10 o più dipendenti. Il presunto diritto ad un posto di lavoro per la vita, iscritto nell'italiano articolo 18, è il singolo più grande ostacolo alla razionalizzazione dell'economia italiana». «Le riforme di Monti - conclude il WSJ - riflettono soltanto una mentalità comune a Bruxelles, che antepone le entrate fiscali ad una prosperità di lungo termine».

Critico anche Alberto Mingardi, direttore del Bruno Leoni: «Si chiede alle famiglie di stringere la cinghia ma non dimagrisce lo Stato: chiedere ulteriori sacrifici a cittadini già tartassatissimi, senza contemplare una privatizzazione una, sembra quasi una beffa». «Se lo Stato italiano funziona male - osserva - non è che dandogli più risorse funzionerà meglio». Nessuno continuerebbe a mettere benzina in un «serbatoio rotto». In definitiva, conclude, «la questione è molto semplice: senza libertà economica, non ci sarà crescita. E più libertà economica vuol dire meno prelievo fiscale, non di più».

Critiche anche da Lavoce.info, che mette in guardia dalla «sindrome greca», la possibilità non troppo paradossale che la manovra presentata con l'obiettivo di azzerare il deficit entro il 2013 finisca in realtà «per generare una recessione tale da far calare il Pil più di quanto faccia calare il deficit». E agire aaumentando le tasse o tagliando la spesa non è scelta neutra per la crescita:
«Nei Paesi nei quali si è scelto di tagliare il deficit aumentando le tasse la spesa pubblica è ritornata a crescere rapidamente. Nei Paesi in cui si è ridotta la spesa, le cose sono andate diversamente: le riduzioni di spesa e la parallela riduzione del deficit sono state più durature e hanno consentito l'attuazione di riduzioni di imposta nel corso del tempo».
«Per questo - conclude Lavoce - per tenere lontano la sindrome greca, Monti deve includere e dare rapida attuazione da subito all'unica svalutazione oggi alla portata di mano dell'Italia: la riduzione del costo del lavoro».

Monday, December 05, 2011

Patrimoniale, patrimoniale, patrimoniale

Ci sarà tempo per studiare tabelle e saldi, ma dopo una conferenza stampa di una lunghezza, una vaghezza e anche una reticenza francamente irritante sui numeri, ciò che emerge della manovra è un'immensa patrimoniale che colpisce i cittadini, sia sulla casa sia sulle attività finanziarie, mentre il patrimonio dello Stato resta intatto. Chi sta pagando, o dovrà iniziare a pagare, un mutuo sulla prima casa si prepari a versare una 13ma rata allo Stato. A proposito, una domanda chiave: pagheranno l'Ici anche sindacati e Vaticano?

Nulla, ma proprio nulla, invece, sulle dismissioni del patrimonio pubblico. Dunque, nessun abbattimento dello stock di debito, che non scenderà certo con la crescita, azzerata almeno per i prossimi due anni, e che resterà il target preferito dei mercati per testare la solidità dell'euro. Le liberalizzazioni riguardano alcuni farmaci e l'orario degli esercizi commerciali, robe già parzialmente liberalizzate, mentre ancora nulla sugli ordini professionali, né risultano norme di enforcement per la privatizzazione delle municipalizzate (sono lì i veri costi della politica). E' vero che la patrimoniale sulla casa, anche sulla prima, e l'aumento dell'Iva erano misure contenute nelle indicazioni dell'Ue, ma si esplicitava che dovessero servire per una riduzione del carico fiscale su lavoro e imprese, che invece nella manovra non c'è.
Inoltre, pare di capire che una parte cospicua dei 12-13 miliardi contabilizzati come tagli alla spesa, cioè i minori trasferimenti alle regioni per la spesa sanitaria, vengono compensati da un aumento delle addizionali Irpef, e quindi di fatto vengono alzate anche le tasse sui redditi personali. Insomma, il governo dei professori vara l'ennesima manovra per i 2/3, se non i 3/4, di nuove tasse, esattamente la proporzione del precedente governo, mentre mancano ancora la crescita e l'abbattimento del debito.

Il primo colpo del governo Monti purtroppo è un flop. Solo l'autorevolezza del premier, il saldo complessivo e il tanto atteso intervento sulle pensioni ci mettono nelle condizioni di poterci presentare in Europa, di fronte alla Merkel, con i "compiti a casa" fatti, e quindi di chiedere politiche più incisive a difesa del rifinanziamento del nostro debito pubblico. E' ciò che sta determinando gli effetti positivi sui mercati e sullo spread, stamattina tornato sulla soglia dei 400. Ma siamo già in recessione e questa ennesima stretta fiscale avrà effetti ancor più recessivi. La manovra, per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013, è calcolata sulla base di una contrazione del Pil dello 0,5% nel 2012, ma è probabile che il peggioramento ulteriore della stima richieda un nuovo intervento, e quindi è alto il rischio di avvitarci in una spirale di recessione più accentuata e ulteriori strette fiscali, come la Grecia.

Si dirà che il tempo stringeva e non c'erano alternative, che siamo arrivati a questo punto per responsabilità del precedente governo che non ha voluto/saputo realizzare le riforme necessarie. E ciò è sicuramente vero, senza dimenticare le formidabili opposizioni a quelle riforme. Ma fino a quando la colpa sarà di Berlusconi? Certo non potevamo aspettarci che con un colpo di bacchetta magica venissero realizzate le riforme che mancano da oltre un decennio, ma siamo sicuri che non si potesse (e quindi dovesse) fare di più, e che questa manovra rappresenti almeno un'inversione di tendenza? Oppure che non sia, piuttosto, solo l'ennesimo conto salato presentato agli italiani (come Amato nel 1992) pur di evitare di affondare il bisturi sul vero malato, che è lo Stato? Siamo sicuri che nuove tasse sia il viatico migliore per ridurre il perimetro dello Stato? Se è vero, come scriveva Di Vico qualche giorno fa, che Monti e i suoi hanno «un solo colpo in canna», a me pare che questo colpo oggi sia andato a vuoto. Speriamo ne abbiano altri.

Friday, December 02, 2011

Proiettile d'argento o lingua di Menelik?

Con l'avvicinarsi del decisivo vertice dell'8 e 9 dicembre, a sentire Sarkozy ieri e Merkel oggi emergono sempre più ragionevoli le posizioni tedesche. Ritardi, errori, omissioni ce ne sono stati da quando la crisi del debito sovrano europeo è esplosa con il caso della Grecia e come ho già scritto in crisi è il modello socio-economico dell'intero continente. I tedeschi sono più disciplinati in casa propria, ma ciò non li esime dal radicale ripensamento del ruolo dello Stato che i tempi richiedono. Su un punto decisivo però hanno ragione e bisogna essere chiari: chi invoca un ruolo più attivo della Bce, gli eurobond e qualsiasi forma di condivisione del debito che rassicuri i mercati, non può pretendere di non cedere quote di sovranità sulla propria politica di bilancio, altrimenti il sospetto che qualche furbo possa pensare di cicaleggiare sulle spalle altrui è più che fondato. E i richiami alla sovranità, alla democrazia e alla "solidarietà" europeista che sentiamo in questi giorni accompagnare i pressanti appelli rivolti a Berlino non promettono nulla di buono. Insomma, come si può parlare di Bce come la Fed e di titoli di debito in comune senza unione fiscale e, aggiungerei, politica?

Certo, resta il grande tema di una unione fiscale che nel medio-lungo termine rischia di livellare la politica comune verso le pratiche peggiori di spesa, debito e tasse, ma diciamo che al momento, almeno per noi italiani, visti i livelli a cui siamo giunti, non è la principale preoccupazione.

Non possono più essere le lunghe tavolate di capi di Stato e di governo e di ministri a decidere se allentare o meno i patti, come fecero proprio francesi e tedeschi per primi nel 2003. Prima di mettere la propria solidità a garanzia della casa comune è ragionevole che la Germania voglia assicurarsi che tutti ci si sottometta a regole stringenti e autorità indipendenti, ma questo evidentemente ferisce l'orgoglio francese. Insomma, Sarkozy esita almeno quanto la Merkel. Al netto dei tic dell'informazione italiana, che procede per luoghi comuni, le parole della Merkel tra le righe sembrano aprire ad un compromesso tra l'imperativo del rigore fiscale e la necessità invocata da molti di una più espansiva politica monetaria e di una più incisiva difesa dei debiti sovrani da parte della Bce. Ma se ai tedeschi si deve chiedere di abbandonare il loro approccio inutilmente punitivo su questo secondo aspetto, gli altri devono impegnarsi seriamente sul primo.

E qui veniamo all'Italia, perché più coraggioso sarà il pacchetto di riforme che il governo varerà lunedì prossimo, più voce in capitolo avremo al vertice Ue per superare le resistenze francesi e tedesche.

Fitta agenda di incontri per Monti nel week end: sabato vedrà Casini, Alfano e Bersani; domenica i sindacati e gli enti locali. Pd e sindacati non si accontentano però di una «consultazione», no. Vogliono «trattare». Ma non serve una «vera trattativa», qui servono vere riforme, caro Bonanni. L'auspicio naturalmente è che sia Monti che il ministro Fornero non si facciano irretire. La ragion d'essere di questo governo, per cui abbiamo derogato ai principi della democrazia dell'alternanza, è di realizzare le riforme che l'Ue e i mercati ci chiedono e che sono nel nostro stesso interesse da decenni. Niente di meno, perché per questo di meno avevamo già i governi dei partiti.

E l'agenda l'ha ricordata il commissario Rehn nel suo rapporto. Due i punti cruciali: non basta il contributivo pro rata per tutti e accelerare l'equiparazione uomini-donne nell'età di pensionamento, bisogna intervenire anche sulle pensioni d'anzianità e sui regimi previdenziali speciali; a qualsiasi tassa sui consumi e sul patrimonio, casa o altro, deve corrispondere un alleggerimento almeno equivalente del carico fiscale su lavoro e imprese. Queste le misure, oltre a norme di enforcement su liberalizzazioni e dismissioni, su cui giudicheremo l'operato del governo Monti, il cui slancio riformatore, come abbiamo ripetuto, o si sviluppa nell'arco delle prossime settimane o rischia di non venire mai alla luce.

Vedremo lunedì, dunque, cosa uscirà dalla pistola di Monti dopo questa concertazione-flash, se un proiettile d'argento per uscire dalla crisi oppure l'ennesima lingua di Menelik per la serie "abbiamo scherzato".

Sayonara grande Araki

Colui che ha dato letteralmente forme, volti, colori, ai sogni (e ai pomeriggi) della nostra infanzia se n'è andato. Non solo i Cavalieri dello Zodiaco - l'opera a cui più si era dedicato negli anni '80 e poi negli anni 2000 - Shingo Araki, morto due giorni fa, ha messo il suo ingegno e la sua mano in praticamente tutti i cartoni animati più di successo degli anni '70 e '80. Era lui, infatti, il character designer, il disegnatore dei personaggi, e/o il responsabile dell'animazione per il piccolo schermo. Cartoni indimenticabili come Lupin III, Lady Oscar, Goldrake, Ufo Robot, Galaxy Express, Ken il guerriero, Sam il ragazzo del West, Bia la sfida della magia, Lalabel, Lulù l'angelo tra i fiori, Il grande sogno di Maya, di cui è stato il disegnatore. E tanti altri di cui è stato tra i principali direttori dell'animazione: Devilman, Capitan Harlock, Addio corazzata spaziale Yamato, Mimì e la nazionale di pallavolo, Ryu il ragazzo delle caverne, Kimba il leone bianco, Rocky Joe. Addio grande Araki!

Thursday, December 01, 2011

Caro Monti, è ora di "smontare" le pensioni

I dati diffusi oggi dall'Inps sull'età effettiva di pensionamento in Italia chiudono il dibattito sulle pensioni per chiunque dotato di onestà intellettuale e minimo senso di realtà. L'età media dei pensionati Inps per anzianità nei primi 10 mesi del 2011 è di 58,7 anni. L'età media di uscita nel complesso (vecchiaia e anzianità) è stata di 60,2 anni, addirittura in calo rispetto ai 60,4 anni del 2010. Se poi si guarda solo ai lavoratori dipendenti, l'età media di uscita nel 2011 è stata, tra vecchiaia e anzianità, di 59,7 anni e dunque la più bassa degli ultimi 3 anni; era stata infatti di 60,9 anni nel 2009 e di 60 anni nel 2010. Per i lavoratori autonomi l'età media complessiva di uscita è stata di 61,1 anni, in calo rispetto ai 61,4 del 2009.

L'età effettiva dunque si sta addirittura abbassando: a stento tocca i 60, per anzianità siamo a 58 ed è scandaloso nei confronti di chi in pensione ci andrà, se ci andrà, forse a 70 anni e con nemmeno i 2/3 dello stipendio. Che cosa stiamo aspettando ad abolire le pensioni d'anzianità e a portare subito tutti a 65 anni con il contributivo? Il nervosismo di queste ore dei sindacati e del Pd lascia ben sperare, speriamo che Monti e la Fornero non si facciano irretire o la sua manovra non sarà affatto «equa».

Tra l'altro, da più parti (anche dal precedente governo) si sente il ritornello che il sistema pensionistico italiano sarebbe «in equilibrio», tra i migliori d'Europa. Ecco, ciò è falso. Facile infatti parlare di «equilibrio» quando la fiscalità generale ci mette ben 84 miliardi di euro, mentre i contributi rappresentano appena il 62% delle entrate dell'Inps (dati Corte dei Conti). Quindi sottoscriviamo questa frase di Rondolino su FrontPage: «La democrazia dei liberi mercati ha sferrato un attacco mortale all'oligarchia partitocratica della spesa pubblica».

Wednesday, November 30, 2011

Bisogna farsene una ragione

Tutti - ad iniziare dai nostri politici e sindacalisti - dovrebbero fare lo sforzo di leggersi il rapporto sull'Italia del commissario Rehn. Oltre ad essere obiettivo ed esaustivo, non è affatto punitivo (anzi, riconosce punti di forza e sforzi compiuti) e quelle che suggerisce sono misure precise, concrete, ma nient'affatto proibitive. Non ci chiede la luna, insomma, piuttosto correttivi minimi alle distorsioni più clamorose del nostro sistema, che invece a mio modesto avviso andrebbe rottamato. E' la naturale evoluzione del confronto programmatico con le autorità europee iniziato con la famosa lettera della Bce e proseguito con la lettera di intenti del governo Berlusconi al Consiglio europeo.

Ebbene, tanto per cominciare in nessuna parte viene citata una tassa patrimoniale, bisogna farsene una ragione, cari Bersani e Bindi. Si parla di tassare i consumi (Iva) e la proprietà immobiliare (Ici), con esplicito riferimento all'esenzione sulla prima casa, ma al solo scopo - si specifica - di alleggerire il carico fiscale sul lavoro e sulle imprese, non per coprire i buchi di bilancio. Per quelli la priorità assoluta sono i tagli alla spesa.

Bisogna farsene una ragione, cari sindacati: è necessario accelerare l'equiparazione uomini-donne nell'età di pensionamento; aumentare i requisiti, penalizzare o abolire del tutto le pensioni di anzianità; rivedere i regimi previdenziali speciali; sospendere l'indicizzazione delle pensioni all'inflazione in caso di recessione. E per quanto riguarda il mercato del lavoro, via l'articolo 18, a fronte di una riduzione del numero dei contratti atipici e dell'introduzione di ammortizzatori universali in sostituzione della cassa integrazione.

Bisogna farsene una ragione anche sulle riforme dei due ministri del governo Berlusconi in assoluto più odiati dalla sinistra. Nel rapporto si chiede di «fully applying the "Brunetta reform"» e di proseguire sulla strada delle riforme Gelmini. In particolare, di «accrescere la competizione e la accountability del sistema educativo», rafforzando il ruolo dell'Invalsi; di promouovere la «competizione» (questa sconosciuta...) tra le università per ottenere fondi e iscrizioni, sottoponendo le loro «performance» all'esame all'Anvur e collegando carriera e remunerazione degli insegnanti alle valutazioni dei loro risultati.

Bisogna farsene una ragione, cari enti locali: le municipalizzate devono essere privatizzate e i settori dei vari servizi pubblici locali liberalizzati, sorvegliati da forti autorità indipendenti.

Bisogna farsene una ragione, cari ordini professionali: dev'essere «pienamente attuata la direttiva sui servizi», e quindi devono essere «pienamente liberalizzati i servizi professionali». In particolare, il ruolo delle associazioni (associazioni, non ordini) professionali «dev'essere limitato a monitorare la qualità dei servizi forniti dai propri iscritti e non creare o perpetuare nascoste barriere all'ingresso».

Ci aspettiamo che questa sia l'agenda Monti, e che l'introduzione di nuove imposte sulla proprietà immobiliare e i consumi non serva a fare cassa ma ad alleggerire il carico fiscale su lavoro e impresa perché è ciò che ci chiedono l'Ue e i mercati, e perché altrimenti aggaverebbero soltanto la nostra crisi.

Errori che Monti non può commettere

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Non servono politiche "eque", ma politiche che funzionino

Se ci è arrivato anche il "politicamente corretto" Corriere della Sera si vede che non siamo gli unici ad avvertire il pericolo. «Meglio decidere che concertare», è il titolo dell'editoriale di ieri a firma Dario Di Vico. Lo ripetiamo da giorni, da quando abbiamo ascoltato Mario Monti neo premier esibire al Senato un compiaciuto gusto per la concertazione. Che sia con i partiti o con le forze sociali, concertare in Italia significa non decidere un bel niente. E anche Di Vico è consapevole che il governo «ha un solo colpo in canna»: anche se può arrivare al 2013 ha in realtà poco tempo, due/tre mesi, per spingere sulle riforme strutturali necessarie a far ripartire l'economia italiana. Trascorso questo periodo, rischia di restare impantanato da veti e contro-veti.

Dunque, il primo errore in cui Monti non può assolutamente permettersi di incappare è lo stesso in cui hanno invece perseverato Tremonti e i suoi predecessori, ossia dividere in due fasi temporalmente distinte rigore e crescita. Con la scusa che per scrivere le riforme ci vuole tempo (mentre tassare è come prelevare da un bancomat), e di voler cercare «il consenso delle parti sociali», si conviene come prima cosa di aggiustare i conti pubblici a colpi di strette fiscali, rimandando il momento delle riforme alle settimane e ai mesi successivi, quindi di fatto indefinitivamente.

Secondo errore che Monti deve evitare in tutti i modi di commettere: reiterare le solite manovre basate per i 2/3 o i 3/4 su nuove entrate, cioè nuove tasse. E' esattamente ciò che tutti gli osservatori, innanzitutto i mercati ma anche quelli istituzionali come la Banca d'Italia e la Corte dei Conti, hanno rimproverato alle due manovre estive sfornate dal precedente governo con farina del sacco Tremonti, cioè di essere sbilanciate sul versante delle entrate rispetto a quello dei tagli alla spesa. Sarebbe davvero il colmo, e probabilmente un colpo letale per la nostra economia, se il governo d'emergenza chiamato a correggere i vizi del passato li riproponesse tali e quali.

Tutti si riempiono la bocca con la parola «crescita», ma al dunque, a leggere i giornali e ascoltando anche i più insospettabili programmi televisivi e radiofonici, sembra che non ci rimanga altro che scegliere a quale tassa impiccarci: patrimoniale o Ici? Iva o Imu? Oppure, ancora meglio, di tutte un po'? Con l'ipotesi ormai certa di una contrazione del Pil dello 0,5% nel 2012, si calcola che servono circa 15-20 miliardi di euro per centrare il pareggio di bilancio nel 2013. Senza tenere conto però che ulteriori strette fiscali in questo momento avrebbero l'effetto di deprimere ancora di più l'economia, e proprio incidendo negativamente sul denominatore del rapporto deficit/Pil allontanerebbero anziché avvicinare l'obiettivo del pareggio di bilancio, rendendo inevitabili altre manovre, con il rischio di un avvitamento simile a quello che sta soffrendo la Grecia: deficit, che richiede una stretta fiscale, che aggrava la recessione, che apre nuovi buchi di bilancio, i quali richiedono nuove strette fiscali e così via.

Impostare il problema in termini di "sacrifici", di "lacrime e sangue", non è solo fuorviante, è pericoloso. Il sacrificio utile è lavorare di più e meglio; pagare più tasse sarebbe un sacrificio dannoso oltre che inutile. Ai mercati in questa fase non interessa se a causa della recessione ormai certa nel prossimo anno non centreremo il pareggio di bilancio ma ci avvicineremo soltanto alla meta. Vogliono vedere prima di qualsiasi altra cosa se siamo in grado di realizzare riforme strutturali impopolari che in prospettiva ci facciano tornare a crescere a ritmi almeno del 2%; gradirebbero un abbattimento dello stock del debito, possibile con dismissioni di patrimonio pubblico non di 1 un punto di Pil in tre anni ma di 5 punti l'anno. Non servono quindi politiche di «equità», se per «equità» si intendono misure demagogiche per far vedere che "anche i ricchi piangono". Servono politiche che funzionino.

Purtroppo un governo non di tecnici, ma per lo più di burocrati da anni ai vertici della malagestione della cosa pubblica, sembra sprovvisto di ciò che serve sopra ogni cosa: una mentalità sburocratizzante. Bisogna "destatalizzare" il Paese e inventare nuove tasse significa fare esattamente il contrario: statalizzare quote ulteriori di ricchezza. Diverso sarebbe spostare il carico fiscale, aumentarlo sui patrimoni (Ici) e sui consumi (Iva), per ridurre contestualmente e significativamente il peso delle imposte sul lavoro e sull'impresa, cioè sulle attività produttive, a patto quindi che il saldo per lo Stato in termini di pressione fiscale complessiva risulti negativo.

Tuesday, November 29, 2011

Il Cencelli ai tempi dei tecnici

Anche su Notapolitica.it

Finalmente - con tempi da Prima Repubblica - la squadra di Monti è al completo. Di indubbia competenza, ma i criteri di scelta dei sottosegretari ricalcano quelli usati per i ministri, tutt'altro che tecnici. Se infatti la politica si è rifiutata di metterci la faccia, non è riuscita tuttavia a cancellare le impronte. Si continua nel segno del tecno-ulivismo (e prodismo) e della "larga Intesa". Quel che è peggio non è tanto che risultino così visibili le matrici politiche e i potenziali conflitti di interesse (anzi, meglio alla luce del sole), ma è che ciò oltre a rassicurare i partiti non garantisca alcuna coesione programmatica, il che non promette nulla di buono in termini di coraggio riformatore. Su due snodi fondamentali per la crescita - il lavoro e l'istruzione - il misurino ideologico usato (o subìto) da Monti è sfociato in contraddizioni potenzialmente esplosive: al Welfare dovranno convivere un liberale blariano come Michel Martone e un'accanita oppositrice della flessibilità, editorialista dell'Unità, come Maria Cecilia Guerra; alla scuola Elena Ugolini, cattolica vicina a Cl e regista delle riforme Moratti e Gelmini, e Marco Rossi Doria, tutto scuola pubblica ed egualitarismo.

Dovrà essere Monti in persona, dunque, ad imporre la sua linea. Come certamente dovrà fare anche all'Economia, dove sopravvive il tremontismo con Grilli viceministro (nominato direttore generale del Tesoro da Siniscalco e in carica sia con Padoa Schioppa che con Tremonti) e con Vieri Ceriani sottosegretario, già a capo dei servizi fiscali di Bankitalia e della commissione sulla riforma fiscale istituita dall'ex ministro, ma nel 1996 regista delle riforme di Vincenzo "vampiro" Visco. Tremontismo appena attenuato dall'altro sottosegretario, Gianfranco Polillo, di storia socialista riformista, capo del servizio di bilancio della Camera e responsabile economico della Presidenza del Consiglio tra il 2002 e il 2004. Per i Rapporti con il Parlamento Monti ha lasciato spazio ai partiti e se il Pd ha indicato il prodiano D'Andrea, il Pdl ha preferito il tecnico Malaschini, segretario generale del Senato. Scelte ben bilanciate e "rassicuranti" per tutti anche alla Giustizia, con Mazzamuto, ex consigliere di Alfano, e Zoppini, consigliere di E. Letta sotto il governo Prodi. Dall'ultimo governo Prodi viene anche il sottosegretario allo Sviluppo De Vincenti, membro dei "pensatoi" di Bersani e Bassanini.

Veniamo ai potenziali conflitti di interesse: all'Ambiente Fanelli, consigliere di amministrazione di GRTN; alle Infrastrutture Ciaccia, che proprio di infrastrutture si occupava per banca Intesa; e all'Editoria Malinconico, il presidente degli editori di giornali, tanto per cominciare col piede giusto nei rapporti con la stampa. Chiudono la squadra la dalemiana Marta Dassù, direttore generale dell'Aspen Institute, e l'onusiano Staffan de Mistura, agli Esteri; il ciampiano Peluffo all'Informazione; Magri dell'Udc alla Difesa; e Patroni Griffi, una scelta bipartisan (un po' Bassanini un po' Brunetta), alla Funzione pubblica. Auguri.

Friday, November 25, 2011

Perché i tedeschi hanno ragione ma anche torto

Anche su Notapolitica

Chissà se il presidente francese avrà ripensato all'infausta risatina di un paio di settimane fa, quando al vertice di ieri, a Strasburgo, ha scoperto di averci rimesso nell'avvicendamento tra Berlusconi e Monti. Nonostante stesse soffrendo un crollo verticale di credibilità, il Cavaliere era più incline ad associarsi al pressing francese sulla cancelliera tedesca affinché cadessero le resistenze di Berlino nei confronti di un mandato più ampio della Bce a difesa dei debiti sovrani in difficoltà. Invece che al centro di una triplice intesa, come mostrano le foto ufficiali, Sarkozy dev'essersi sentito stretto in una morsa. Monti infatti è apparso più in sintonia con Angela Merkel sul ruolo della Bce e sul fatto che sia prematuro parlare di Eurobond.

In Italia nel frattempo si allarga il fronte di coloro i quali puntano l'indice contro il presunto egoismo germanico, paventando addirittura una sorta di IV Reich, e invocano acquisti illimitati dei titoli di Stato in sofferenza da parte della Bce: dai giornali vicini al centrodestra, che in questo modo sfogano la loro nostalgia del governo Berlusconi, alla stampa mainstream e al mondo confindustriale, che invece hanno caldeggiato il governo tecnico. Deposto Berlusconi, si è visto che il fattore B. non valeva né 300 né 100 punti di spread e che la crisi del debito italiano è sì legata ad un nostro deficit di credibilità sistemica, ma anche indissolubilmente ad un complessivo disinvestimento dall'eurozona. Così gli stessi giornali che imputavano la crisi a Berlusconi hanno cominciato a biasimare Angela Merkel. Come si porranno nei confronti di un Monti filo-Merkel i grandi quotidiani che reclamano a gran voce una Bce "prestatore di ultima istanza"? Fossero coerenti con gli editoriali che mandano in stampa, dovremmo aspettarci una raffica di critiche all'indirizzo del professore, il quale - così pare al momento - non intende farsi portavoce di tali richieste. Al contrario, su questo punto sembra propenso ad allinearsi alle posizioni della cancelliera: prima una solida unione fiscale, che preveda sanzioni automatiche per chi sfora, solo dopo si potranno valutare con maggiore serenità altri strumenti.

Nei panni dei tedeschi bisogna mettersi eccome. Hanno ragione a temere di dover pagare i debiti contratti dalle irresponsabili cicale europee. E noi italiani siamo tra i primi a non poter parlare, avendo gettato al vento dieci anni di bassi tassi di interesse durante i quali non abbiamo né ridotto la spesa pubblica né realizzato le riforme per rilanciare la crescita. Cedendo alle sempre più numerose richieste di monetizzazione, in varie forme, dei debiti sovrani in difficoltà - a proposito, si tratterebbe né più né meno di un pluri-miliardario condono - non si esporrebbero solo al rischio, nel caso peggiore di default, di rimetterci di tasca propria, ma anche alla beffa: perché una volta venuto meno quel minimo di pressione dei mercati sotto forma di alti rendimenti, è probabile (come purtroppo la storia insegna) che i governi debitori ne approfittino per rilassarsi, affievolendo il loro rigore e rimandando ancora una volta l'adozione delle riforme strutturali necessarie per la crescita. E' quindi quanto meno ragionevole che prima di parlare di Eurobond e di Bce come la Fed (che tra l'altro non monetizza affatto i debiti dei singoli stati dell'Unione) i tedeschi pretendano l'armonizzazione delle politiche di bilancio, affinché tutti i membri dell'eurozona siano responsabili e nessuno possa godersela sulle spalle degli altri.

Ma i tedeschi hanno anche torto, perché ciò che i mercati stanno mettendo in crisi non sono solo singoli debiti sovrani fino a ieri sostenibili, come quello italiano, non solo l'indisciplina fiscale di alcuni Paesi. La sfiducia è nei confronti di una unione monetaria artificiosa, dai piedi d'argilla, e del modello socio-economico di un intero continente rispetto alle locomotive in altre aree del mondo. Un modello non più sostenibile - che consiste in alti livelli di spesa pubblica e di tassazione per finanziare uno stato sociale inefficiente e troppo generoso rispetto alla ricchezza prodotta - che neanche i tedeschi hanno cominciato ad abbandonare. E' fuor di dubbio che le loro politiche di bilancio siano più virtuose delle nostre e che negli anni 2000 non hanno perso tempo, attuando le riforme che hanno aumentato la produttività e la competitività della loro economia. Tuttavia, il loro debito pubblico ha superato l'80%, le prospettive di minore crescita (stime calate dal +1,9 al +0,8%) rendono più lento e difficoltoso il rientro dal deficit e i mercati cominciano ad accorgersi che se la Germania dovesse pagare il conto per tutti le sue finanze non giustificherebbero più rendimenti a livelli così ridicoli, praticamente vicini allo zero. Senza aprire, poi, il capitolo sul ruolo della Kreditanstalt für Wiederaufbaue, la Cdp tedesca, e della Bundesbank, che di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza, quanto meno in via temporanea, nei confronti del debito tedesco, mentre si pretende di negare alla Bce tale ruolo. Ieri Monti, con il suo inappuntabile stile professorale, ha sì assicurato che l'Italia «farà i compiti a casa», ma anche puntigliosamente messo a verbale che furono francesi e tedeschi i primi, nel 2003, a derogare dai parametri del patto di stabilità (a proposito, chi ne lamentava la «stupidità»?). E tutti i Paesi europei, chi più chi meno (Italia e Germania meno), hanno alimentato il debito pubblico cercando di far uscire le loro economie dalla recessione con inutili spese keynesiane.

E' arrivato il momento per l'intera Europa di ripensare il proprio modello di sviluppo e rispetto a questa sfida nessuno può chiamarsi fuori, nemmeno i "rigorosi" tedeschi. Per fare un solo esempio, il ruolo della previdenza deve tornare in tutta Europa a ciò per cui era stata creata un secolo e mezzo fa: non per godersi il tempo libero in viaggi e partite a tennis, ma come sostentamento minimo negli anni della vecchiaia.

Wednesday, November 23, 2011

Cosa ci aspetta nel 2013?

Il Foglio ha chiesto a me e ad altri blogger di immaginare lo scenario politico in cui ci troveremo nel 2013, un esercizio di fantapolitica/analisi. Qui il mio, più analisi che fanta:

E' evidente che in questi mesi di rettorato di Mario Monti - senza escludere di poter andare "più decisamente a fondo" - sono in gioco il bipolarismo, la possibilità degli elettori di scegliere nelle urne tra due proposte di governo alternative, e per il Pdl in particolare il "non morire democristiani". In realtà, lo sarebbero stati anche con le elezioni "sotto la neve". Il governo Monti è molto meno tecnico di quanto si creda. Contiene in sé i semi di una nuova offerta politica. C'è il tecno-ulivismo, ossia le competenze più riformiste di area Pd; e c'è il partito di Todi, nel quale per la prima volta dalla scomparsa della Dc si ritrovano al governo tutte le anime del mondo cattolico. E c'è persino un leader in pectore: Corrado Passera. Di cosa di preciso ancora non si sa, ma una sorta di nuovo Prodi. I possibili sbocchi di questa esperienza sono due...
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Friday, November 18, 2011

Tasse certe, riforme forse

Anche su Notapolitica

Tutto molto bello e molto liberale, tutto molto ben argomentato e documentato, come nelle relazioni di Bankitalia. Come si fa a dire no a Monti? Bisogna dirgli sì, ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Il metodo e la tempistica sono ininfluenti forse per l'incedere lineare di una lezione accademica, ma non in politica. E sono questi i punti deboli del bel discorso di Monti: nuove tasse si possono imporre da domani, mentre di riforme strutturali se ne parla «nel tempo» e solo «con il consenso delle parti sociali». Insomma, la tosatura può partire immediatamente e senza lungaggini concertative, mentre per le riforme che servono davvero per la crescita si va dai tacchini a chiedergli di anticipare il Natale, quando servirebbe un piglio thatcheriano invece che un certo gusto per la concertazione. Evidentemente Monti crede di avere molto tempo a sua disposizione e di poter convincere i tacchini facendo "piangere i ricchi", o i presunti tali.

Auguri, ma temo non sia così facile. E' ragionevole che il nuovo premier guardi all'orizzonte della fine della legislatura, ma come ogni altro governo, se vuole davvero realizzare le riforme impopolari, farebbe bene a giocarsi tutte le sue carte migliori e a spendere tutta la sua autorevolezza durante la cosiddetta "luna di miele", in questo caso nei primi due/tre mesi, non oltre febbraio-marzo. Fino ad allora le forze politiche e sociali dovrebbero pagare un prezzo politico troppo elevato per staccare la spina e saranno più inclini a digerire misure sgradite. Oltre questo termine temporale, Monti rischia di farsi impantanare. La sua prosa al Senato è stata molto meno tagliente e icastica di quella dei suoi editoriali. La prudenza con la quale ha evitato di affondare la lama e di scendere nel dettaglio può essere dovuta al fatto che sta ancora elaborando le soluzioni più adeguate, oppure al timore di suscitare forti opposizioni fin da subito. In questo secondo caso, le sue buone intenzioni rischiano di evaporare in Parlamento o perdersi nei riti della concertazione.

Monti è stato abbastanza chiaro su fisco e mercato del lavoro, mentre è stato molto vago su pensioni, liberalizzazioni (delle professioni e dei servizi pubblici locali) e sulle dismissioni. Reintroduzione dell'Ici sulla prima casa; patrimoniale ordinaria, ma solo per ridurre il carico fiscale su lavoro e imprese; tassazione preferenziale per le donne; linea Marchionne per lo «spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro»; linea Ichino su licenziamenti e welfare.
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Thursday, November 17, 2011

Altro che tecnici, disegno politico

C'è poco da festeggiare per l'immaturità democratica - come l'ha definita Piero Ostellino sul Corriere, analizzandone lucidamente le radici storiche - di un popolo che saluta la caduta di un governo eletto come la fine di una dittatura e vede in un dictator, nell'accezione latina del termine, cioè di colui che sospende la politica nell'emergenza, il "salvatore della patria". Il governo Monti nasce con un peccato originale che solo in parte la fiducia delle Camere potrà cancellare. Vistoso è lo strappo alle regole della democrazia dell'alternanza, strappo che cercheranno di allargare le forze politiche desiderose di liquidare il sistema maggioritario. È pur vero però che nell'ultimo anno Berlusconi ha sbagliato tutto ciò che c'era da sbagliare e che trascinare il Paese alle urne contro il parere, e il panico, di praticamente tutto il mondo non avrebbe certo salvato la democrazia dell'alternanza, né probabilmente la nostra economia.

Come ho sempre fatto su questo blog giudicherò il governo Monti sulla base dei fatti. La lista dei ministri è un primo indicatore, purtroppo negativo. Per i loro ambienti di provenienza e i loro incarichi, la maggior parte dei ministri sono tutt'altro che tecnici disinteressati nel senso di civil servants; sono tecnici la cui area politica è molto ben marcata. Avevo concesso a Monti il beneficio del dubbio, ma l'esecutivo che ha messo su somiglia a un tecno-ulivismo allargato al "partito di Todi", come spiego in questo articolo. Per la prima volta dalla scomparsa della Dc tutte le anime del mondo cattolico si trovano riunite in un governo e il richiamo per quelli che ancora si attardano nel partito berlusconiano è forte. «E' finita la diaspora Dc», fa notare trionfante Casini.

Un governo di tutta evidenza nato non solo per affrontare l'emergenza finanziaria, ma anche per modificare l'offerta politica in Italia, e ciò non è legittimo che avvenga senza passare per le urne. Mentre il primo obiettivo può giustificare il mancato anticipo della verifica elettorale, il secondo addirittura la richiede tassativamente. Che sia l'embrione di un progetto politico di centro-centrosinistra, con tanto di leader in pectore, Corrado Passera, o che una volta alle spalle l'emergenza le varie anime dei cattolici impegnati in politica, riunite oggi al governo, decidano di dar vita a uno schieramento alternativo alla sinistra, il punto è che è stata strumentalizzata la crisi per lanciare un'operazione politica, non solo senza che fosse scelta dai cittadini, senza nemmeno che fosse loro presentata nelle urne. Se non un ribaltone, poco ci manca.

Oggi il discorso del nuovo premier per la fiducia, e avremo finalmente le prime risposte programmatiche, ma quasi tutto si potrà capire dalle primissime misure. Monti dovrà giocarsi tutte le sue carte migliori e spendere tutta la sua autorevolezza, sul fronte interno ma soprattutto nei confronti dell'ottuso direttorio franco-tedesco (a proposito, è a favore o contro una Bce prestatore di ultima istanza?), entro le prime settimane, due/tre mesi. Fino a gennaio-febbraio le forze politiche e sociali dovrebbero pagare un prezzo politico troppo elevato per staccare la spina e saranno più inclini a digerire misure sgradite.

Oltre questo termine temporale, Monti rischia di farsi impantanare. Purtroppo il gusto per la concertazione dimostrato nelle arlecchinesche consultazioni di palazzo Giustiniani e la compagine governativa neo-ulivista non fanno ben sperare sul tasso di riformismo. Patrimoniale e pochi altri ritocchi, sembra ad oggi l'esito più probabile di questa esperienza di governo, sperando che la credibilità di Monti basti a convincere i mercati a darci tregua. La patrimoniale, e in generale un ulteriore aumento della pressione fiscale, è incompatibile con le riforme per la crescita che i mercati si aspettano (e infatti non c'è tra le richieste della Bce e dell'Ue). Se la soluzione è smontare il baraccone pubblico, o almeno un suo drastico dimagrimento, dare altri soldi allo Stato non sarebbe solo una contraddizione in termini logici, ma significherebbe andare nella direzione oppposta. Può essere accettabile una tassazione ordinaria sul patrimonio, a patto però che il saldo per lo Stato in termini di pressione fiscale complessiva sia negativo, quindi accompagnata da un taglio consistente delle tasse sui redditi e sulle imprese.