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Wednesday, November 30, 2011

Bisogna farsene una ragione

Tutti - ad iniziare dai nostri politici e sindacalisti - dovrebbero fare lo sforzo di leggersi il rapporto sull'Italia del commissario Rehn. Oltre ad essere obiettivo ed esaustivo, non è affatto punitivo (anzi, riconosce punti di forza e sforzi compiuti) e quelle che suggerisce sono misure precise, concrete, ma nient'affatto proibitive. Non ci chiede la luna, insomma, piuttosto correttivi minimi alle distorsioni più clamorose del nostro sistema, che invece a mio modesto avviso andrebbe rottamato. E' la naturale evoluzione del confronto programmatico con le autorità europee iniziato con la famosa lettera della Bce e proseguito con la lettera di intenti del governo Berlusconi al Consiglio europeo.

Ebbene, tanto per cominciare in nessuna parte viene citata una tassa patrimoniale, bisogna farsene una ragione, cari Bersani e Bindi. Si parla di tassare i consumi (Iva) e la proprietà immobiliare (Ici), con esplicito riferimento all'esenzione sulla prima casa, ma al solo scopo - si specifica - di alleggerire il carico fiscale sul lavoro e sulle imprese, non per coprire i buchi di bilancio. Per quelli la priorità assoluta sono i tagli alla spesa.

Bisogna farsene una ragione, cari sindacati: è necessario accelerare l'equiparazione uomini-donne nell'età di pensionamento; aumentare i requisiti, penalizzare o abolire del tutto le pensioni di anzianità; rivedere i regimi previdenziali speciali; sospendere l'indicizzazione delle pensioni all'inflazione in caso di recessione. E per quanto riguarda il mercato del lavoro, via l'articolo 18, a fronte di una riduzione del numero dei contratti atipici e dell'introduzione di ammortizzatori universali in sostituzione della cassa integrazione.

Bisogna farsene una ragione anche sulle riforme dei due ministri del governo Berlusconi in assoluto più odiati dalla sinistra. Nel rapporto si chiede di «fully applying the "Brunetta reform"» e di proseguire sulla strada delle riforme Gelmini. In particolare, di «accrescere la competizione e la accountability del sistema educativo», rafforzando il ruolo dell'Invalsi; di promouovere la «competizione» (questa sconosciuta...) tra le università per ottenere fondi e iscrizioni, sottoponendo le loro «performance» all'esame all'Anvur e collegando carriera e remunerazione degli insegnanti alle valutazioni dei loro risultati.

Bisogna farsene una ragione, cari enti locali: le municipalizzate devono essere privatizzate e i settori dei vari servizi pubblici locali liberalizzati, sorvegliati da forti autorità indipendenti.

Bisogna farsene una ragione, cari ordini professionali: dev'essere «pienamente attuata la direttiva sui servizi», e quindi devono essere «pienamente liberalizzati i servizi professionali». In particolare, il ruolo delle associazioni (associazioni, non ordini) professionali «dev'essere limitato a monitorare la qualità dei servizi forniti dai propri iscritti e non creare o perpetuare nascoste barriere all'ingresso».

Ci aspettiamo che questa sia l'agenda Monti, e che l'introduzione di nuove imposte sulla proprietà immobiliare e i consumi non serva a fare cassa ma ad alleggerire il carico fiscale su lavoro e impresa perché è ciò che ci chiedono l'Ue e i mercati, e perché altrimenti aggaverebbero soltanto la nostra crisi.

Errori che Monti non può commettere

Anche su Notapolitica

Non servono politiche "eque", ma politiche che funzionino

Se ci è arrivato anche il "politicamente corretto" Corriere della Sera si vede che non siamo gli unici ad avvertire il pericolo. «Meglio decidere che concertare», è il titolo dell'editoriale di ieri a firma Dario Di Vico. Lo ripetiamo da giorni, da quando abbiamo ascoltato Mario Monti neo premier esibire al Senato un compiaciuto gusto per la concertazione. Che sia con i partiti o con le forze sociali, concertare in Italia significa non decidere un bel niente. E anche Di Vico è consapevole che il governo «ha un solo colpo in canna»: anche se può arrivare al 2013 ha in realtà poco tempo, due/tre mesi, per spingere sulle riforme strutturali necessarie a far ripartire l'economia italiana. Trascorso questo periodo, rischia di restare impantanato da veti e contro-veti.

Dunque, il primo errore in cui Monti non può assolutamente permettersi di incappare è lo stesso in cui hanno invece perseverato Tremonti e i suoi predecessori, ossia dividere in due fasi temporalmente distinte rigore e crescita. Con la scusa che per scrivere le riforme ci vuole tempo (mentre tassare è come prelevare da un bancomat), e di voler cercare «il consenso delle parti sociali», si conviene come prima cosa di aggiustare i conti pubblici a colpi di strette fiscali, rimandando il momento delle riforme alle settimane e ai mesi successivi, quindi di fatto indefinitivamente.

Secondo errore che Monti deve evitare in tutti i modi di commettere: reiterare le solite manovre basate per i 2/3 o i 3/4 su nuove entrate, cioè nuove tasse. E' esattamente ciò che tutti gli osservatori, innanzitutto i mercati ma anche quelli istituzionali come la Banca d'Italia e la Corte dei Conti, hanno rimproverato alle due manovre estive sfornate dal precedente governo con farina del sacco Tremonti, cioè di essere sbilanciate sul versante delle entrate rispetto a quello dei tagli alla spesa. Sarebbe davvero il colmo, e probabilmente un colpo letale per la nostra economia, se il governo d'emergenza chiamato a correggere i vizi del passato li riproponesse tali e quali.

Tutti si riempiono la bocca con la parola «crescita», ma al dunque, a leggere i giornali e ascoltando anche i più insospettabili programmi televisivi e radiofonici, sembra che non ci rimanga altro che scegliere a quale tassa impiccarci: patrimoniale o Ici? Iva o Imu? Oppure, ancora meglio, di tutte un po'? Con l'ipotesi ormai certa di una contrazione del Pil dello 0,5% nel 2012, si calcola che servono circa 15-20 miliardi di euro per centrare il pareggio di bilancio nel 2013. Senza tenere conto però che ulteriori strette fiscali in questo momento avrebbero l'effetto di deprimere ancora di più l'economia, e proprio incidendo negativamente sul denominatore del rapporto deficit/Pil allontanerebbero anziché avvicinare l'obiettivo del pareggio di bilancio, rendendo inevitabili altre manovre, con il rischio di un avvitamento simile a quello che sta soffrendo la Grecia: deficit, che richiede una stretta fiscale, che aggrava la recessione, che apre nuovi buchi di bilancio, i quali richiedono nuove strette fiscali e così via.

Impostare il problema in termini di "sacrifici", di "lacrime e sangue", non è solo fuorviante, è pericoloso. Il sacrificio utile è lavorare di più e meglio; pagare più tasse sarebbe un sacrificio dannoso oltre che inutile. Ai mercati in questa fase non interessa se a causa della recessione ormai certa nel prossimo anno non centreremo il pareggio di bilancio ma ci avvicineremo soltanto alla meta. Vogliono vedere prima di qualsiasi altra cosa se siamo in grado di realizzare riforme strutturali impopolari che in prospettiva ci facciano tornare a crescere a ritmi almeno del 2%; gradirebbero un abbattimento dello stock del debito, possibile con dismissioni di patrimonio pubblico non di 1 un punto di Pil in tre anni ma di 5 punti l'anno. Non servono quindi politiche di «equità», se per «equità» si intendono misure demagogiche per far vedere che "anche i ricchi piangono". Servono politiche che funzionino.

Purtroppo un governo non di tecnici, ma per lo più di burocrati da anni ai vertici della malagestione della cosa pubblica, sembra sprovvisto di ciò che serve sopra ogni cosa: una mentalità sburocratizzante. Bisogna "destatalizzare" il Paese e inventare nuove tasse significa fare esattamente il contrario: statalizzare quote ulteriori di ricchezza. Diverso sarebbe spostare il carico fiscale, aumentarlo sui patrimoni (Ici) e sui consumi (Iva), per ridurre contestualmente e significativamente il peso delle imposte sul lavoro e sull'impresa, cioè sulle attività produttive, a patto quindi che il saldo per lo Stato in termini di pressione fiscale complessiva risulti negativo.

Tuesday, November 29, 2011

Il Cencelli ai tempi dei tecnici

Anche su Notapolitica.it

Finalmente - con tempi da Prima Repubblica - la squadra di Monti è al completo. Di indubbia competenza, ma i criteri di scelta dei sottosegretari ricalcano quelli usati per i ministri, tutt'altro che tecnici. Se infatti la politica si è rifiutata di metterci la faccia, non è riuscita tuttavia a cancellare le impronte. Si continua nel segno del tecno-ulivismo (e prodismo) e della "larga Intesa". Quel che è peggio non è tanto che risultino così visibili le matrici politiche e i potenziali conflitti di interesse (anzi, meglio alla luce del sole), ma è che ciò oltre a rassicurare i partiti non garantisca alcuna coesione programmatica, il che non promette nulla di buono in termini di coraggio riformatore. Su due snodi fondamentali per la crescita - il lavoro e l'istruzione - il misurino ideologico usato (o subìto) da Monti è sfociato in contraddizioni potenzialmente esplosive: al Welfare dovranno convivere un liberale blariano come Michel Martone e un'accanita oppositrice della flessibilità, editorialista dell'Unità, come Maria Cecilia Guerra; alla scuola Elena Ugolini, cattolica vicina a Cl e regista delle riforme Moratti e Gelmini, e Marco Rossi Doria, tutto scuola pubblica ed egualitarismo.

Dovrà essere Monti in persona, dunque, ad imporre la sua linea. Come certamente dovrà fare anche all'Economia, dove sopravvive il tremontismo con Grilli viceministro (nominato direttore generale del Tesoro da Siniscalco e in carica sia con Padoa Schioppa che con Tremonti) e con Vieri Ceriani sottosegretario, già a capo dei servizi fiscali di Bankitalia e della commissione sulla riforma fiscale istituita dall'ex ministro, ma nel 1996 regista delle riforme di Vincenzo "vampiro" Visco. Tremontismo appena attenuato dall'altro sottosegretario, Gianfranco Polillo, di storia socialista riformista, capo del servizio di bilancio della Camera e responsabile economico della Presidenza del Consiglio tra il 2002 e il 2004. Per i Rapporti con il Parlamento Monti ha lasciato spazio ai partiti e se il Pd ha indicato il prodiano D'Andrea, il Pdl ha preferito il tecnico Malaschini, segretario generale del Senato. Scelte ben bilanciate e "rassicuranti" per tutti anche alla Giustizia, con Mazzamuto, ex consigliere di Alfano, e Zoppini, consigliere di E. Letta sotto il governo Prodi. Dall'ultimo governo Prodi viene anche il sottosegretario allo Sviluppo De Vincenti, membro dei "pensatoi" di Bersani e Bassanini.

Veniamo ai potenziali conflitti di interesse: all'Ambiente Fanelli, consigliere di amministrazione di GRTN; alle Infrastrutture Ciaccia, che proprio di infrastrutture si occupava per banca Intesa; e all'Editoria Malinconico, il presidente degli editori di giornali, tanto per cominciare col piede giusto nei rapporti con la stampa. Chiudono la squadra la dalemiana Marta Dassù, direttore generale dell'Aspen Institute, e l'onusiano Staffan de Mistura, agli Esteri; il ciampiano Peluffo all'Informazione; Magri dell'Udc alla Difesa; e Patroni Griffi, una scelta bipartisan (un po' Bassanini un po' Brunetta), alla Funzione pubblica. Auguri.

Friday, November 25, 2011

Perché i tedeschi hanno ragione ma anche torto

Anche su Notapolitica

Chissà se il presidente francese avrà ripensato all'infausta risatina di un paio di settimane fa, quando al vertice di ieri, a Strasburgo, ha scoperto di averci rimesso nell'avvicendamento tra Berlusconi e Monti. Nonostante stesse soffrendo un crollo verticale di credibilità, il Cavaliere era più incline ad associarsi al pressing francese sulla cancelliera tedesca affinché cadessero le resistenze di Berlino nei confronti di un mandato più ampio della Bce a difesa dei debiti sovrani in difficoltà. Invece che al centro di una triplice intesa, come mostrano le foto ufficiali, Sarkozy dev'essersi sentito stretto in una morsa. Monti infatti è apparso più in sintonia con Angela Merkel sul ruolo della Bce e sul fatto che sia prematuro parlare di Eurobond.

In Italia nel frattempo si allarga il fronte di coloro i quali puntano l'indice contro il presunto egoismo germanico, paventando addirittura una sorta di IV Reich, e invocano acquisti illimitati dei titoli di Stato in sofferenza da parte della Bce: dai giornali vicini al centrodestra, che in questo modo sfogano la loro nostalgia del governo Berlusconi, alla stampa mainstream e al mondo confindustriale, che invece hanno caldeggiato il governo tecnico. Deposto Berlusconi, si è visto che il fattore B. non valeva né 300 né 100 punti di spread e che la crisi del debito italiano è sì legata ad un nostro deficit di credibilità sistemica, ma anche indissolubilmente ad un complessivo disinvestimento dall'eurozona. Così gli stessi giornali che imputavano la crisi a Berlusconi hanno cominciato a biasimare Angela Merkel. Come si porranno nei confronti di un Monti filo-Merkel i grandi quotidiani che reclamano a gran voce una Bce "prestatore di ultima istanza"? Fossero coerenti con gli editoriali che mandano in stampa, dovremmo aspettarci una raffica di critiche all'indirizzo del professore, il quale - così pare al momento - non intende farsi portavoce di tali richieste. Al contrario, su questo punto sembra propenso ad allinearsi alle posizioni della cancelliera: prima una solida unione fiscale, che preveda sanzioni automatiche per chi sfora, solo dopo si potranno valutare con maggiore serenità altri strumenti.

Nei panni dei tedeschi bisogna mettersi eccome. Hanno ragione a temere di dover pagare i debiti contratti dalle irresponsabili cicale europee. E noi italiani siamo tra i primi a non poter parlare, avendo gettato al vento dieci anni di bassi tassi di interesse durante i quali non abbiamo né ridotto la spesa pubblica né realizzato le riforme per rilanciare la crescita. Cedendo alle sempre più numerose richieste di monetizzazione, in varie forme, dei debiti sovrani in difficoltà - a proposito, si tratterebbe né più né meno di un pluri-miliardario condono - non si esporrebbero solo al rischio, nel caso peggiore di default, di rimetterci di tasca propria, ma anche alla beffa: perché una volta venuto meno quel minimo di pressione dei mercati sotto forma di alti rendimenti, è probabile (come purtroppo la storia insegna) che i governi debitori ne approfittino per rilassarsi, affievolendo il loro rigore e rimandando ancora una volta l'adozione delle riforme strutturali necessarie per la crescita. E' quindi quanto meno ragionevole che prima di parlare di Eurobond e di Bce come la Fed (che tra l'altro non monetizza affatto i debiti dei singoli stati dell'Unione) i tedeschi pretendano l'armonizzazione delle politiche di bilancio, affinché tutti i membri dell'eurozona siano responsabili e nessuno possa godersela sulle spalle degli altri.

Ma i tedeschi hanno anche torto, perché ciò che i mercati stanno mettendo in crisi non sono solo singoli debiti sovrani fino a ieri sostenibili, come quello italiano, non solo l'indisciplina fiscale di alcuni Paesi. La sfiducia è nei confronti di una unione monetaria artificiosa, dai piedi d'argilla, e del modello socio-economico di un intero continente rispetto alle locomotive in altre aree del mondo. Un modello non più sostenibile - che consiste in alti livelli di spesa pubblica e di tassazione per finanziare uno stato sociale inefficiente e troppo generoso rispetto alla ricchezza prodotta - che neanche i tedeschi hanno cominciato ad abbandonare. E' fuor di dubbio che le loro politiche di bilancio siano più virtuose delle nostre e che negli anni 2000 non hanno perso tempo, attuando le riforme che hanno aumentato la produttività e la competitività della loro economia. Tuttavia, il loro debito pubblico ha superato l'80%, le prospettive di minore crescita (stime calate dal +1,9 al +0,8%) rendono più lento e difficoltoso il rientro dal deficit e i mercati cominciano ad accorgersi che se la Germania dovesse pagare il conto per tutti le sue finanze non giustificherebbero più rendimenti a livelli così ridicoli, praticamente vicini allo zero. Senza aprire, poi, il capitolo sul ruolo della Kreditanstalt für Wiederaufbaue, la Cdp tedesca, e della Bundesbank, che di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza, quanto meno in via temporanea, nei confronti del debito tedesco, mentre si pretende di negare alla Bce tale ruolo. Ieri Monti, con il suo inappuntabile stile professorale, ha sì assicurato che l'Italia «farà i compiti a casa», ma anche puntigliosamente messo a verbale che furono francesi e tedeschi i primi, nel 2003, a derogare dai parametri del patto di stabilità (a proposito, chi ne lamentava la «stupidità»?). E tutti i Paesi europei, chi più chi meno (Italia e Germania meno), hanno alimentato il debito pubblico cercando di far uscire le loro economie dalla recessione con inutili spese keynesiane.

E' arrivato il momento per l'intera Europa di ripensare il proprio modello di sviluppo e rispetto a questa sfida nessuno può chiamarsi fuori, nemmeno i "rigorosi" tedeschi. Per fare un solo esempio, il ruolo della previdenza deve tornare in tutta Europa a ciò per cui era stata creata un secolo e mezzo fa: non per godersi il tempo libero in viaggi e partite a tennis, ma come sostentamento minimo negli anni della vecchiaia.

Wednesday, November 23, 2011

Cosa ci aspetta nel 2013?

Il Foglio ha chiesto a me e ad altri blogger di immaginare lo scenario politico in cui ci troveremo nel 2013, un esercizio di fantapolitica/analisi. Qui il mio, più analisi che fanta:

E' evidente che in questi mesi di rettorato di Mario Monti - senza escludere di poter andare "più decisamente a fondo" - sono in gioco il bipolarismo, la possibilità degli elettori di scegliere nelle urne tra due proposte di governo alternative, e per il Pdl in particolare il "non morire democristiani". In realtà, lo sarebbero stati anche con le elezioni "sotto la neve". Il governo Monti è molto meno tecnico di quanto si creda. Contiene in sé i semi di una nuova offerta politica. C'è il tecno-ulivismo, ossia le competenze più riformiste di area Pd; e c'è il partito di Todi, nel quale per la prima volta dalla scomparsa della Dc si ritrovano al governo tutte le anime del mondo cattolico. E c'è persino un leader in pectore: Corrado Passera. Di cosa di preciso ancora non si sa, ma una sorta di nuovo Prodi. I possibili sbocchi di questa esperienza sono due...
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Friday, November 18, 2011

Tasse certe, riforme forse

Anche su Notapolitica

Tutto molto bello e molto liberale, tutto molto ben argomentato e documentato, come nelle relazioni di Bankitalia. Come si fa a dire no a Monti? Bisogna dirgli sì, ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Il metodo e la tempistica sono ininfluenti forse per l'incedere lineare di una lezione accademica, ma non in politica. E sono questi i punti deboli del bel discorso di Monti: nuove tasse si possono imporre da domani, mentre di riforme strutturali se ne parla «nel tempo» e solo «con il consenso delle parti sociali». Insomma, la tosatura può partire immediatamente e senza lungaggini concertative, mentre per le riforme che servono davvero per la crescita si va dai tacchini a chiedergli di anticipare il Natale, quando servirebbe un piglio thatcheriano invece che un certo gusto per la concertazione. Evidentemente Monti crede di avere molto tempo a sua disposizione e di poter convincere i tacchini facendo "piangere i ricchi", o i presunti tali.

Auguri, ma temo non sia così facile. E' ragionevole che il nuovo premier guardi all'orizzonte della fine della legislatura, ma come ogni altro governo, se vuole davvero realizzare le riforme impopolari, farebbe bene a giocarsi tutte le sue carte migliori e a spendere tutta la sua autorevolezza durante la cosiddetta "luna di miele", in questo caso nei primi due/tre mesi, non oltre febbraio-marzo. Fino ad allora le forze politiche e sociali dovrebbero pagare un prezzo politico troppo elevato per staccare la spina e saranno più inclini a digerire misure sgradite. Oltre questo termine temporale, Monti rischia di farsi impantanare. La sua prosa al Senato è stata molto meno tagliente e icastica di quella dei suoi editoriali. La prudenza con la quale ha evitato di affondare la lama e di scendere nel dettaglio può essere dovuta al fatto che sta ancora elaborando le soluzioni più adeguate, oppure al timore di suscitare forti opposizioni fin da subito. In questo secondo caso, le sue buone intenzioni rischiano di evaporare in Parlamento o perdersi nei riti della concertazione.

Monti è stato abbastanza chiaro su fisco e mercato del lavoro, mentre è stato molto vago su pensioni, liberalizzazioni (delle professioni e dei servizi pubblici locali) e sulle dismissioni. Reintroduzione dell'Ici sulla prima casa; patrimoniale ordinaria, ma solo per ridurre il carico fiscale su lavoro e imprese; tassazione preferenziale per le donne; linea Marchionne per lo «spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro»; linea Ichino su licenziamenti e welfare.
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Thursday, November 17, 2011

Altro che tecnici, disegno politico

C'è poco da festeggiare per l'immaturità democratica - come l'ha definita Piero Ostellino sul Corriere, analizzandone lucidamente le radici storiche - di un popolo che saluta la caduta di un governo eletto come la fine di una dittatura e vede in un dictator, nell'accezione latina del termine, cioè di colui che sospende la politica nell'emergenza, il "salvatore della patria". Il governo Monti nasce con un peccato originale che solo in parte la fiducia delle Camere potrà cancellare. Vistoso è lo strappo alle regole della democrazia dell'alternanza, strappo che cercheranno di allargare le forze politiche desiderose di liquidare il sistema maggioritario. È pur vero però che nell'ultimo anno Berlusconi ha sbagliato tutto ciò che c'era da sbagliare e che trascinare il Paese alle urne contro il parere, e il panico, di praticamente tutto il mondo non avrebbe certo salvato la democrazia dell'alternanza, né probabilmente la nostra economia.

Come ho sempre fatto su questo blog giudicherò il governo Monti sulla base dei fatti. La lista dei ministri è un primo indicatore, purtroppo negativo. Per i loro ambienti di provenienza e i loro incarichi, la maggior parte dei ministri sono tutt'altro che tecnici disinteressati nel senso di civil servants; sono tecnici la cui area politica è molto ben marcata. Avevo concesso a Monti il beneficio del dubbio, ma l'esecutivo che ha messo su somiglia a un tecno-ulivismo allargato al "partito di Todi", come spiego in questo articolo. Per la prima volta dalla scomparsa della Dc tutte le anime del mondo cattolico si trovano riunite in un governo e il richiamo per quelli che ancora si attardano nel partito berlusconiano è forte. «E' finita la diaspora Dc», fa notare trionfante Casini.

Un governo di tutta evidenza nato non solo per affrontare l'emergenza finanziaria, ma anche per modificare l'offerta politica in Italia, e ciò non è legittimo che avvenga senza passare per le urne. Mentre il primo obiettivo può giustificare il mancato anticipo della verifica elettorale, il secondo addirittura la richiede tassativamente. Che sia l'embrione di un progetto politico di centro-centrosinistra, con tanto di leader in pectore, Corrado Passera, o che una volta alle spalle l'emergenza le varie anime dei cattolici impegnati in politica, riunite oggi al governo, decidano di dar vita a uno schieramento alternativo alla sinistra, il punto è che è stata strumentalizzata la crisi per lanciare un'operazione politica, non solo senza che fosse scelta dai cittadini, senza nemmeno che fosse loro presentata nelle urne. Se non un ribaltone, poco ci manca.

Oggi il discorso del nuovo premier per la fiducia, e avremo finalmente le prime risposte programmatiche, ma quasi tutto si potrà capire dalle primissime misure. Monti dovrà giocarsi tutte le sue carte migliori e spendere tutta la sua autorevolezza, sul fronte interno ma soprattutto nei confronti dell'ottuso direttorio franco-tedesco (a proposito, è a favore o contro una Bce prestatore di ultima istanza?), entro le prime settimane, due/tre mesi. Fino a gennaio-febbraio le forze politiche e sociali dovrebbero pagare un prezzo politico troppo elevato per staccare la spina e saranno più inclini a digerire misure sgradite.

Oltre questo termine temporale, Monti rischia di farsi impantanare. Purtroppo il gusto per la concertazione dimostrato nelle arlecchinesche consultazioni di palazzo Giustiniani e la compagine governativa neo-ulivista non fanno ben sperare sul tasso di riformismo. Patrimoniale e pochi altri ritocchi, sembra ad oggi l'esito più probabile di questa esperienza di governo, sperando che la credibilità di Monti basti a convincere i mercati a darci tregua. La patrimoniale, e in generale un ulteriore aumento della pressione fiscale, è incompatibile con le riforme per la crescita che i mercati si aspettano (e infatti non c'è tra le richieste della Bce e dell'Ue). Se la soluzione è smontare il baraccone pubblico, o almeno un suo drastico dimagrimento, dare altri soldi allo Stato non sarebbe solo una contraddizione in termini logici, ma significherebbe andare nella direzione oppposta. Può essere accettabile una tassazione ordinaria sul patrimonio, a patto però che il saldo per lo Stato in termini di pressione fiscale complessiva sia negativo, quindi accompagnata da un taglio consistente delle tasse sui redditi e sulle imprese.

Wednesday, November 16, 2011

Tecno-ulivismo al potere con il partito di Todi

Anche su Notapolitica

Se per "tecnici" si intendono figure non solo competenti nel loro settore, ma anche distanti dalla politica, ebbene il nuovo esecutivo guidato da Mario Monti non è poi così tecnico. Sono pochi, forse un paio, i nuovi ministri di cui ad un primo sguardo non si riesce a scorgere alcuna traccia di una qualsiasi collocazione, mentre abbondano i tecnici la cui area, e in qualche caso esperienza politica, è ben marcata. Studiando le biografie e scorrendo le prime reazioni, sembra piuttosto un tecno-Ulivo, nemmeno troppo dissimulato (ma va bene anche la definizione di Osvaldo Napoli: «tecno-prodismo»). La componente cattolica però questa volta non è limitata ai cattolici democratici, ma è forse la prima espressione di quel rinnovato impegno dei cattolici in politica teorizzato a Todi, e quindi è allargata ad esponenti di un mondo cattolico che non ha mai fatto parte dell'ulivismo. Mondo cattolico che per la prima volta dai tempi della Dc si trova riunito in una esperienza di governo: dai big dell'Università Cattolica favoriti in Vaticano (Ornaghi) fino all'associazionismo, alla galassia della solidarietà e del terzo settore (Riccardi).

Insomma, più che un governo d'emergenza che quasi casualmente imbarca dai più disparati ambienti le migliori menti di un Paese, sembra di intravedere un nucleo, se non compatto almeno coerente, pronto ad aprire una nuova stagione politica di centro-centrosinistra. E persino, al fianco di Monti, che potrà puntare al Quirinale nel 2013, un leader in pectore, un nuovo Prodi, che risponde al nome di Corrado Passera, vero e proprio super ministro per la crescita economica. O davvero si può pensare che l'ad di una banca come Intesa Sanpaolo abbia deciso di lasciare il suo posto per una parentesi politica di poco più di un anno? Qualificanti saranno ora i sottosegretari scelti da Monti per il suo dicastero, ma è soprattutto dalle prime misure concrete che vedremo quale tasso di riformismo saprà esprimere questo tecno-Ulivo con autorevoli apporti bocconiani e cattolici. Il gusto per la concertazione e i calorosi attestati di stima con i quali i nuovi ministri sono stati accolti da sindacati e corporazioni varie (la Fornero, ad esempio, diversamente da Ichino sembra raccogliere la stima della Camusso e di Cesare Damiano) non fanno presagire molto di buono. All'orizzonte non si scorge nessuna rivoluzione liberale, come la figura di Monti poteva indurre a sperare, nessuna rottamazione del baraccone pubblico, ma l'idea innanzitutto di riprenderne il controllo, poi di riossigenarlo con alcune minime e ineluttabili riforme. E il Pdl? Sembra fare buon viso a cattivo gioco, con la sua componente cattolica forse consapevole che si è aperta la gara per l'egemonia dell'area moderata nell'era del post-berlusconismo. Insomma, ci sono tutte le premesse per la liquidazione del bipolarismo.

Nella nuova compagine governativa sono ben rappresentati i cosiddetti "poteri forti", il Vaticano e le banche (molta Intesa e una spruzzata di Unicredit), e l'establishment culturale, università (Bocconi, Cattolica, Politecnico di Torino) e grandi giornali (Corriere e Sole24Ore).
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Dopo la casta, il mito statalista

Anche su Notapolitica e taccuinopolitico

Si apre nel 2007, con la pubblicazione del best seller di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, la meritoria campagna del Corriere della Sera contro "la casta". E nel corso degli anni, in un crescendo fino alla crisi di leadership di Berlusconi, diventa martellante, facendo da cornice perfetta a inchieste giudiziarie e scandaletti sessuofobici. Non era il primo successo editoriale sui costi della politica. Prima di loro arrivarono l'ex ministro Raffaele Costa, con "L'Italia degli sprechi" (1999) e "L'Italia dei privilegi" (2002), e il duo Salvi-Villone con "Il costo della democrazia" (2005). Ma Stella e Rizzo avevano dalla loro le bocche di fuoco di Via Solferino e dell'establishment culturale, economico e finanziario di cui il quotidiano è solo una delle voci.

Da quando poi la Confindustria ha perso ogni fiducia nella capacità del governo, e della politica in generale, di affrontare la crisi con efficaci misure di rilancio dell'economia, alla campagna contro la casta si sono associati i media degli industriali. Il Sole24Ore e, in modo veemente, quotidiano, Radio24, con le sue trasmissioni di punta del mattino e "La Zanzara". Alla fine la campagna ha successo: l'opinione pubblica è disgustata ed esasperata, i politici sono costretti a umilianti atti di contrizione, ad ogni livello di governo si dimenano in diversivi per salvare il salvabile dei loro privilegi, ma la bufera finanziaria che si abbatte sui titoli di Stato italiani è la classica goccia che fa traboccare il vaso, o in questo caso l'ondata, e li manda ko. Insieme a Berlusconi tutti i partiti fanno volentieri un passo indietro, lasciando in piena curva il volante a un governo di soli tecnici guidato da Mario Monti, esito che probabilmente il Corriere – e i poteri più o meno deboli di cui è espressione – si auguravano/prefiggevano fin dall'inizio del loro attacco alla casta. Bene, bravi, bis.

I nostri politici se la sono cercata e si sono rivelati miopi e inetti. Tuttavia, ora che abbiamo vivisezionato e denunciato tutti i privilegi della casta, e ora che la politica si è dovuta accomodare sul sedile posteriore, sarebbe il momento di lanciare una campagna altrettanto spietata sui tanti privilegi della gente comune, altrimenti non ci salviamo. Gli italiani s'illudono infatti che la casta sia solo quella dei politici, che un bel taglio alle loro parcelle basti a salvare il Paese. Un'illusione pericolosa, perché quando il mondo ti avverte che non ti farà più credito a buon mercato, e ti intima di cambiare comportamenti, nessuno è disposto non dico a fare sacrifici, ma a mollare un'unghia delle proprie costose abitudini: è colpa dei nostri politici, paghino loro, o al massimo "piangano anche i ricchi". Ora che siamo sull'orlo del baratro, e che non c'è più l'alibi di Berlusconi, è forse il momento di un'operazione verità: le caste, a cominciare dai giornalisti e dal mondo dell'editoria, abbondano nel nostro Paese e tutte – nessuna esclusa – hanno contribuito al dissesto finanziario, produttivo e culturale. La cultura statalista e corporativa dominante, a partire dalle scuole fino ai mass media, ha semplicemente inculcato nella testa degli italiani l'idea che ad ogni cosa ci debba pensare lo Stato, sottintendendo la gratuità dei suoi servizi e delle sue opere.

Ebbene, oggi che l'evidenza empirica dimostra l'insostenibilità non solo del socialismo reale, ma anche dello stato sociale europeo del '900, sarebbe ora che i grandi giornali italiani si occupassero di rimediare a questo grande inganno culturale con la stessa intensità con la quale hanno combattuto la casta dei politici. Perché se gli italiani non si risvegliano dal profondo sonno statalista in cui sono precipitati, il governo dei tecnici potrebbe non avere il sostegno necessario a riparare le falle della nostra barca.

Sotto esame, dunque, insieme al nuovo esecutivo Monti, c'è tutto quel mondo editoriale, accademico, intellettuale, che da anni sui giornali bacchetta la politica – a ragione – per la sua improduttività e i suoi privilegi. Ora alcuni dei più illustri rappresentanti di quel mondo avranno la possibilità di dimostrare le loro capacità di governo (e se governare non fosse poi così facile come scrivere editoriali?), ma ancor più decisiva e urgente è l'operazione culturale contro il mito statalista. Non ci sono alternative. State certi che tutti i privilegi che la gente comune ha (e non si rende neanche conto di averli), e che non esistono in altri Paesi, verranno spazzati via uno ad uno. Da uno statista (improbabile), o da un branco di famelici creditori (ad oggi più probabile).

Tuesday, November 15, 2011

Una squadra per Mr. Monti

Un governo per farcela e uno per il default

Un amico mi ha chiesto stamattina di designare i miei favoriti (non una previsione, dunque) per la nuova squadra di governo del sen. prof. Monti. Ecco la lista che è venuta fuori per singolo ministero, motivazioni incluse. Un gioco, ma neanche troppo. Un governo che potrebbe farcela a salvare l'Italia:


Affari esteri
Gianni Castellaneta: una garanzia, ci vuole sempre uno che sappia farsi ascoltare a Washington.

Interno
Luciano Portolano: generale di brigata, attualmente al comando del Regional Command West in Afghanistan, esperienze in Kosovo (1999) e Iraq (2003). Chi può negare che la sfida della ricostruzione e dell'ordine pubblico in certe regioni italiane non sia paragonabile al Kosovo o all'Afghanistan?

Giustizia
Guido Tabellini: no, non è una svista. Alla giustizia serve un economista forse più che all'economia. Basta coi parrucconi della Consulta, ci vuole uno che razionalizzi il baraccone sulla base di criteri di economicità.

Difesa
Antonio Martino: già ministro, semplicemente un liberale e atlantista di ferro.

Economia e finanze
interim a Mario Monti: stavolta niente rischi, massima unità d'azione.

Sviluppo economico
Sergio Marchionne: una "mano tesa" ai sindacati...

Agricoltura
Emma Bonino: a discutere col contadino chi meglio di una cuneese molto concreta; già esperienza in Europa nel settore e critica sulla Pac.

Ambiente
Carlo Stagnaro: spezziamo la catena di luoghi comuni sul riscaldamento globale e gli ogm.

Infrastrutture e trasporti
Antonio Catricalà: Mr. concorrenza in Italia.

Welfare
Pietro Ichino: il padre della flexsecurity italiana.

Istruzione, università e ricerca
Roberto Perotti: autore de "L'Università truccata", leggere per credere che cambiarla si può.

Cultura
Antonio Paolucci: già ministro, uno che almeno non farà gaffe sul nostro patrimonio artistico.

Poi mi sono chiesto: e un governo dei peggiori? Be', qui la scelta era molto più ampia. Ecco una delle tante combinazioni possibili per un governo in grado di farci finire come la Grecia entro Natale:

Affari esteri: Rocco Buttiglione
Interno: Livia Turco
Giustizia: Anna Finocchiaro
Difesa: Marco Perduca
Economia e finanze: Stefano Fassina
Sviluppo economico: Maurizio Gasparri
Agricoltura: Alfonso Pecoraro Scanio
Ambiente: Stefania Prestigiacomo
Infrastrutture e trasporti: Altero Matteoli
Welfare: Paolo Ferrero
Istruzione: Rosi Bindi
Cultura: Renata Polverini

Monday, November 14, 2011

Patrimoniale dirimente

Mi pare che come spesso accade Alesina e Giavazzi, sul Corriere della Sera, colgano il punto: la vera «equità» si persegue realizzando le riforme per la crescita, mentre l'impressione è che quella di cui parlano Napolitano e Monti sia l'equità dei sacrifici che saranno richiesti ai partiti e alle parti sociali, l'idea cioè di varare misure che accontentino/scontentino un po' tutti. Neanche è nato, e il nuovo governo dei tecnici pensa già alla propria sopravvivenza piuttosto che al vero e proprio shock thatcheriano che serve a questo Paese. L'equità è un nobile intento, ma anche un concetto dietro cui si nasconde la conservazione dello status quo: «La concertazione ha creato l'esatto opposto dell'equità: i veri deboli non siedono a quei tavoli». Dunque, cercare una «certificazione dell'equità delle riforme al tavolo della concertazione» semplicemente significa rinunciare alle vere riforme. E che l'incaricato con riserva Monti si accinga, propedeuticamente alla nascita del suo governo, a consultare non solo le forze politiche in Parlamento ma anche le parti sociali non è certo un inizio molto promettente. Per dirla in breve, se lo schema Monti è: tasse subito, riforme dopo la concertazione con i partiti e le parti sociali, allora no, non ci siamo.

Molto, quasi tutto, del tentativo Monti si capirà quindi dalle prime misure. Dirimente per comprendere quale sia la sua filosofia d'azione sarà la decisione sulla patrimoniale. Ma perché è così dirimente per dare un giudizio quasi definitivo sulla politica dell'eventuale nuovo governo? Perché la patrimoniale sarebbe un segno di continuità con le politiche meramente ragionieristiche del tremontismo. Qui per patrimoniale intendiamo un'imposta una tantum sul patrimonio per ridurre in fretta il debito e per dimostrare che "anche i ricchi piangono" (diffidare dai confindustriali e i banchieri favorevoli alla patrimoniale, ma che hanno già spostato tutto su conti e proprietà all'estero).

Anche se con la probabile recessione del prossimo anno dovesse sfuggire di poco il pareggio di bilancio previsto nel 2013, non servono altre manovre frettolose e sbilanciate sul fronte delle entrate, quindi recessive, che rischierebbero di peggiorare ancor di più le prospettive di crescita accentuando, invece che allentare, le tensioni sui mercati. E così concepita la patrimoniale sarebbe drasticamente recessiva, non solo per la ricchezza sottratta, ma anche per l'ulteriore fuga di grandi risparmi e capitali che incoraggerebbe.

Ciò che è veramente cambiato nelle valutazioni dei mercati è che non si accontentano più di una gestione del debito solo contabile, come negli anni '90, altrimenti si sarebbero accontentati delle due manovre fatte quest'estate. Ciò che maggiormente puniscono è la prospettiva italiana di scarsa, anzi quasi nulla crescita. C'è tutto il tempo, insomma, per studiare l'abbattimento del debito attraverso un piano di dismissioni del ricco - e improduttivo - patrimonio pubblico, soprattutto immobiliare, da cui si potrebbe ricavare qualche centinaio di miliardi. Ciò che serve subito, immediatamente, domani, sono riforme per la crescita: liberalizzazioni e riforma fiscale.

Ecco perché la scelta patrimoniale sì/no è così dirimente. Fare cassa subito e rinviare al momento della concertazione le riforme delle pensioni, del mercato del lavoro e del sistema fiscale, magari solo per dimostrare che "anche i ricchi piangono" sperando di accattivarsi le simpatie della sinistra politica e sindacale, vorrebbe dire da parte del governo dei tecnici perseverare nell'errore. La prospettiva credibile di una crescita economica intorno al 2% basterebbe ad abbassare lo spread, il che avrebbe un effetto positivo sui tassi di interesse e dunque proprio sulla crescita. Si invertirebbe il trend: il circolo da vizioso diventerebbe virtuoso. La «scorciatoia» della patrimoniale, invece, scrivono Alesina e Giavazzi, «ammazzerebbe la crescita facendo probabilmente aumentare il rapporto debito-Pil, dopo una momentanea riduzione».
«È un'esperienza che abbiamo già vissuto dopo il 1992 con il governo Amato: in quegli anni le privatizzazioni ridussero il rapporto debito-Pil di oltre dieci punti, ma poiché non si fece nulla per la crescita, nel decennio successivo quel beneficio ce lo siamo mangiati. Non solo, una patrimoniale sarebbe come dire: "Siamo nel panico, parliamo tanto di crescita, ma la sola cosa che sappiamo fare è confiscare un po' di soldi agli italiani". Molto probabilmente gli spread salirebbero invece che scendere. Quanti condoni e misure una tantum abbiamo varato negli ultimi anni, con un approccio ragionieristico ai conti pubblici? Innumerevoli. Quale è stato il loro effetto sul rapporto debito-Pil? Nessuno».
Del tutto diverso sarebbe un intervento "patrimoniale" all'interno di una rimodulazione del carico fiscale, di carattere ordinario e permanente, a favore di impresa e lavoro. Non sarebbe né scandaloso né depressivo disboscare le selve di detrazioni e sussidi, pensare alla reintroduzione dell'Ici, in realtà già prevista dal governo uscente nella forma dell'Imu (una tassa sulla residenza più che sualla casa), ma a patto di eliminare l'Irap e tagliare le aliquote sui redditi individuali (anche grazie all'abolizione delle pensioni d'anzianità).

Una sfida per tutti


Se «la fronda di Fini è il peccato originale della legislatura», Berlusconi ha sbagliato a non ascoltare quanti a lui vicini suggerirono, già all'indomani della rottura nell'ormai storica Direzione nazionale, di cacciare via tutti dall'Eden e di non farsi logorare. Ma ormai il latte è versato e anche se non c'è mai nulla da festeggiare nella nascita di un governo non legittimato (non in via diretta) dalla volontà popolare, è tuttavia una medicina amara che il Pdl non poteva rifiutarsi di ingoiare. Sì, la forzatura istituzionale è evidente, e assume tratti preoccupanti per la pressione internazionale esercitata a favore dell'ipotesi Monti, ma l'emergenza è innegabile e Berlusconi, i partiti di maggioranza, non sono certo senza peccato. Non s'era mai visto che neanche aperte le consultazioni il premier in pectore fosse già al lavoro. Ci sta che come un pugile frastornato il Pdl abbia faticato a comprendere cosa stesse accadendo nell'ultima settimana e di conseguenza non abbia saputo assumere velocemente una linea netta tra elezioni immediate e sostegno a Monti. Le democrazie, se vogliono funzionare nel mondo di oggi superveloce e globalizzato, devono sempre più somigliare al cda di un'azienda, con simili capacità e rapidità decisionali, altrimenti rischiano di essere commissariate. L'Italia (così come l'Unione europea) è tra gli Stati occidentali meno attrezzati dal punto di vista dei meccanismi istituzionali, troppo farraginosi, ma è un grande tema cui non ci si può sottrarre e di cui le forze politiche devono essere consapevoli. E' comprensibile il fastidio per una soluzione elitaria e tecnocratica, ma intraprendere la strada del "tanto peggio tanto meglio", cedere al populismo anti-mercatista e anti-finanza, come indignados qualsiasi, sarebbe puro autolesionismo per un grande partito di governo come il Pdl.

Certo, la sconfitta politica è innegabile e cocente. Ma pur con le attenuanti generiche di un sistema politico malato di ingovernabilità e di un'aggressione mediatico-giudiziaria senza precedenti, per cui si è distrutta l'immagine del Paese pur di distruggere quella di Berlusconi, non c'è dubbio che la causa prima va individuata nello scarso tasso di riformismo del governo e della maggioranza, che non hanno voluto/saputo somministrare al nostro Paese la cura liberale, che pure era stata promessa fin dal 1994, per le malattie più gravi che ci affliggono: spesa pubblica e pressione fiscale a livelli insostenibili; alto debito; privilegi corporativi.

Nei prossimi mesi il Pdl dovrà sostenere un vero e proprio esame di maturità: dovrà analizzare a fondo limiti e inadeguatezze dal punto di vista liberale e riformatore della propria esperienza di governo; dovrà vigilare rispetto ai rischi e alle trappole che si nascondono nella fase politica che si sta aprendo; il tutto restando unito e senza bocciare apriori il tentativo di Monti, nel 1994 scelto proprio da Berlusconi come commissario europeo. Almeno in teoria, infatti, il presidente della Bocconi è chiamato a realizzare le riforme liberali che il centrodestra non è stato in grado di realizzare e che la sinistra odia. Il Pdl ha in questo un grande vantaggio: al contrario del Pd non ha pregiudiziali ideologiche sulle ricette che la Bce, l'Ue e i mercati ci chiedono – e, non scordiamocelo, che sono anche nel nostro interesse di italiani.

Certo, bisognerà vedere se Monti vorrà e saprà fare quelle riforme, o si rivelerà un nuovo Padoa-Schioppa. Il rischio concreto, com'è già accaduto in passato, è che il governo dei tecnici se la cavi con una patrimoniale subito e faccia leva sulla propria credibilità e sul favorevole atteggiamento dei media nazionali e internazionali per allentare la tensione dei mercati, rimandando le riforme decisive per la crescita (tasse e lavoro), che sono quelle più scomode per la sinistra. Così facendo, dilapiderebbe il suo "momentum" di poche settimane, due/tre mesi al massimo, trovandosi molto presto impantanato, e la ritrovata stabilità italiana sarebbe di nuovo fondata su un'illusione contabile, senza un reale cambiamento nei comportamenti di spesa e nel modello socio-economico. Rispetto a tale prospettiva purtroppo probabile, il Pdl dev'essere però cosciente che è nel suo interesse che Monti riesca sulla base del programma europeo. Perché se riesce, e se quelle ricette dovessero funzionare, a trarne vantaggio in vista delle prossime elezioni sarà la forza politica che con più convinzione l'avrà sostenuto. E oggettivamente il Pdl, più del Pd, è nelle condizioni di appoggiare certe riforme.

Quali i rischi e le trappole che si nascondono in questo cammino? Non è un mistero che le forze centriste guidate da Casini mirano a liquidare il bipolarismo e alla disgregazione del Pdl, per porsi come unico soggetto aggregatore dell'area moderata, con una esclusiva identità democratico-cristiana, marginalizzando il pur imperfetto progetto fusionista che invece è alla base del Pdl. Il Pd, da parte sua, si augura che dall'esperienza comune di appoggio al governo Monti possa finalmente nascere l'alleanza moderati-progressisti contro la destra. Se quindi il governo dei tecnici offrisse l'occasione e i tempi per inseguire simili disegni, che nulla hanno a che fare con l'affrontare l'emergenza finanziaria, per esempio tramite la riforma della legge elettorale, il Pdl dovrà essere pronto a rovesciare il tavolo.

Ma questa nuova fase rappresenta una sfida non solo per il Pdl. Anche per la sinistra, che non avrà più l'alibi di Berlusconi, si dovrà misurare con un governo di professori catto-liberisti, e dovrà finalmente assumersi la responsabilità di una visione e di scelte di merito. Sotto esame però è anche tutto quel mondo intellettuale e accademico che da anni si esercita sui giornali in dotti editoriali e bacchetta la politica per la sua improduttività e i suoi privilegi. Ora i più illustri rappresentanti di quel mondo avranno la possibilità di dimostrare le loro ragioni e il loro valore. E se governare non fosse poi così facile come scrivere editoriali? Già dalla composizione della squadra e dalle prime misure si comprenderà molto delle reali intenzioni e delle chance del governo Monti.

Friday, November 11, 2011

Un solo programma per Monti

Anche su Notapolitica.it

Pare (sottolineo: pare) che Berlusconi e il Pdl abbiano finalmente cominciato a ragionare in modo serio sull'ipotesi Monti, cioè riportando in primo piano la politica, il programma, e lasciando sullo sfondo le ambizioni personali, e che stiano ponendo sul tavolo le condizioni che suggerivo nei post dei giorni scorsi.

Com'era prevedibile, un minuto dopo (in realtà già un minuto prima) l'annuncio delle dimissioni e della non ricandidatura da parte di Berlusconi, è scattato nel Pdl il momento del "ciascuno per sé, Dio per tutti". Ci sarà modo e tempo per analizzare il brutto finale di partita cui in parte lo stesso Berlusconi si è auto-condannato in quest'ultimo anno, le tante occasioni sprecate per rilanciarsi. Ma commetterebbe un grossolano errore il big del partito che si convincesse di potersi salvare singolarmente, del fatto che se la casa comune crolla, sotto le macerie ci restano solo Berlusconi e gli altri suoi competitor interni, e non anche lui stesso. Chi freme per ereditare la baracca ed è in posizione di forza nel partito spinge per il voto, per consolidarsi; chi ambisce alla leadership ma deve ancora costruirla, magari con un incarico prestigioso nel prossimo governo tecnico, spinge per Monti, e dunque per avere un anno di tempo. Ragionando così chiunque sarà ad ereditare, rischia di ereditare le macerie.

In realtà, con in campo un'ipotesi così autorevole e con la quasi certezza che i mercati penalizzerebbero con esiti disastrosi l'incertezza politica di una campagna elettorale in questo momento (con la fondata prospettiva della vittoria di una sinistra in massima parte contraria alla lettera della Bce), il Pdl non può realisticamente permettersi di sottrarsi al confronto. E' un momento di straordinaria emergenza per il Paese. Napolitano e Monti sanno che non tutte le responsabilità sono attribuibili all'operato del governo uscente, né possono permettersi ribaltoni. E il Pdl ha un grande vantaggio davanti agli occhi, che sarebbe un peccato non riuscire a vedere e ad afferrare: al contrario del Pd non ha pregiudiziali ideologiche sulle ricette della lettera della Bce, né sui 39 punti segnalati dall'Ue. Solo che per state of denial, incapacità e debolezza non è riuscito a realizzarle.

Proprio quel programma, e non qualche poltrona, rappresenta oggi una straordinaria polizza d'assicurazione contro i rischi e le trappole che si nascondono dietro un governo tecnico di unità nazionale. Se Monti si impegna ad attuare esclusivamente, ed integralmente, quel programma, allora il Pdl non ha nulla da perdere, non solo a dare il proprio sostegno parlamentare, ma a metterci la faccia. Se la cura Monti avrà effetto, nel 2013 certe impostazioni ideologiche prevalenti a sinistra saranno pressoché bandite, bollate come perdenti. Se invece i cosiddetti "tecnici" cominciano a regalare la patrimoniale, in modo che il Pd possa far digerire la pillola ai propri elettori, si mettono a pescare dalla lettera della Bce solo le cose meno sgradite ai partiti, e magari nel frattempo in Parlamento si ritocca la legge elettorale per liquidare il bipolarismo, o per favorire il progetto dalemiano di alleanza tra Pd e Udc, allora sarebbero clamorosamente contraddette la natura "tecnica" e le ragioni puramente emergenziali dell'unità nazionale.

Sia pure Monti a decidere autonomamente la sua squadra di governo (e lui stesso a scegliere al massimo un solo rappresentante per Pdl, Pd e Terzo polo), ma la scrupolosa attinenza alla lettera della Bce è la misura della serietà dell'operazione. Il punto è proprio questo: se Monti vorrà/saprà fare le riforme liberali o se invece, per propria inclinazione o per le pressioni del Pd, è destinato a diventare un nuovo Padoa-Schioppa. Tanto per capirci: un governo Monti con il Pd che impone la patrimoniale e mette il veto su parti della lettera della Bce (come il responsabile economico Fassina continua a fare in queste ore) non ha senso. Ha senso rinunciare a consultare gli italiani solo se il programma è quello europeo. Su questo bisogna essere chiari. Altrimenti, tanto vale rischiare e tornare dritti al voto.

Thursday, November 10, 2011

Monti a due condizioni

Monti deve servire ad attuare le riforme - tutte! - della lettera della Bce (senza patrimoniali) e non per liquidare il bipolarismo

Fosse stato Berlusconi il problema, l'annuncio delle sue dimissioni e non ricandidatura (che solo nella mente ossessionata di qualcuno non sono una certezza ma l'ennesima beffa) se non calare lo spread almeno non avrebbe dovuto causarne l'esplosione. Il problema invece è sistemico: l'irriformabilità del Paese, il deficit di credibilità di tutte le forze politiche e sociali, la mancanza di alternativa politica e, non ultime, le sciagurate (in-)decisioni del direttorio franco-tedesco. Se fosse stato solo Berlusconi il problema, anche le elezioni, come in Spagna, avrebbero almeno sospeso il giudizio dei mercati. Ci stiamo rapidamente accorgendo che così non è e proprio perché Berlusconi non è l'unico problema era inevitabile, come ho scritto nei precedenti post, che il Pdl dovesse valutare l'ipotesi di un governo tecnico d'emergenza (anche se è una soluzione non entusiasmante e per la quale nutro la massima sfiducia) e, anzi, a certe condizioni metterci la faccia.

Non mi scandalizza di per sé la sgradevole sensazione che siano i mercati, e non la volontà popolare, a imporci un governo. Questo accade quando la politica fallisce, quando la democrazia si inceppa. E rispetto ai colonnelli, meglio i mercati. E accade quando si è debitori incalliti di arrivare al punto di dover fare quello che ti impongono i creditori. Se Berlusconi avesse voluto la certezza delle elezioni anticipate, avrebbe dovuto fare l'anno scorso di questi tempi quello che ha fatto martedì, invece di rabberciare una maggioranza e farsi logorare per mesi. Ebbene oggi, se c'è anche una minima possibilità che il governo tecnico sia una cosa seria e non l'ennesimo pastrocchio politicista, il Pdl ha il dovere di verificarla.

Senza le adeguate precauzioni politiche infatti è altamente probabile che un governo tecnico sostenuto in Parlamento da Pdl, Pd e Terzo polo, riduca la propria azione ad una gigantesca patrimoniale e a poco altro. Calmate un po' le acque, soprattutto con l'aiuto del profilo market-friendly di Monti, ma senza aver davvero trasformato il modello socio-economico del Paese, tra un paio d'anni ripartirà la giostra della politica e quindi della spesa, magari nel frattempo avendo pure archiviato il bipolarismo. Questo, purtroppo, l'esito più probabile dell'operazione, che però bisogna scongiurare.

L'introduzione della patrimoniale e la modifica della legge elettorale sono le due spie principali dell'inganno. Per questo anziché preoccuparsi di piazzare i propri uomini nella nuova compagine governativa, il Pdl dovrebbe prima di tutto dettare due condizioni politiche per il proprio appoggio al nuovo governo: 1) la lettera della Bce dev'essere attuata integralmente, non dev'essere annacquata per addolcire la medicina al Pd, che dovrà garantire il proprio appoggio a tutte quelle riforme "europee" che fino ad oggi ha contrastato nelle aule parlamentari e in piazza; 2) nessuna modifica della legge elettorale per soddisfare la voglia matta del Terzo polo di liquidare il bipolarismo: se il governo nasce per affrontare l'emergenza finanziaria, il suo mandato e quest'ultima parte della legislatura devono essere esclusivamente circoscritti ad essa. Della legge elettorale si occuperanno i cittadini con il referendum già depositato. Chi sostiene che nell'agenda di un governo Monti dovrebbe esserci anche la riforma della legge elettorale, vuole strumentalizzare l'emergenza per liquidare il bipolarismo (e il Pdl).

In breve, bisogna scongiurare le due "P": il Pd deve condividere per intero l'impopolarità delle riforme presso il suo elettorato, senza sconti, senza imboscarsi dietro patrimoniali; e l'Udc deve rinunciare al proporzionale. E' in gioco il bipolarismo, il diritto degli elettori a scegliersi i governi. Se un governo Monti non può offrire garanzie su questo, allora dritti al voto.

Wednesday, November 09, 2011

Scongiurare le due "P"

Il botto di oggi sui mercati ha dato forza al partito delle larghe intese e nel Pdl il dissenso rispetto alla strada maestra del voto anticipato rischia di trasformarsi in una valanga. Che sia dettato dall'attaccamento dei singoli parlamentari ai propri scranni, o dal timore di alcuni big di non poter contrastare la leadership di Alfano in una corsa precipitosa alle urne, il partito potrebbe ritrovarsi nel giro di pochi giorni al punto di disgregazione. Contro l'ipotesi che la valanga si trasformi in un ribaltone gioca innanzitutto l'indisponibilità del capo dello Stato ma anche, pare di capire, quella del Pd ad un governo con eventuali scissionisti del Pdl. Comprensibile che non vogliano essere l'unico grande partito ad assumersi la titolarità di scelte impopolari. E' evidente però che nel Pdl non si tratta di qualche scontento, ma di una vera e propria spaccatura del gruppo dirigente sul da farsi, e nel momento in cui con l'annuncio delle dimissioni Berlusconi è ancora più debole come fattore aggregante può degenerare in una sorta di "si salvi chi può".

A mio modo di vedere il premier dimissionario e il Pdl hanno ancora margini per assumere l'iniziativa piuttosto che subire gli eventi. Tra un governo del presidente a guida Amato-Monti, o Amato-BiniSmaghi, e il ritorno alla maggioranza del 2008 che favoleggia Scajola, va ricordato che fu Berlusconi a designare Mario Monti (e non Napolitano) come commissario Ue; ed è il Pdl a rivendicare di voler attuare la lettera della Bce e onorare gli impegni con l'Ue. Quindi non ci sarebbe nulla di scandaloso se proprio il Pdl, facendo leva sul panico che sembra essersi finalmente scatenato nel mondo politico, si facesse promotore di una verifica delle pur scarsissime chance di un governo tecnico ma serio. Che non sia, cioè, il governo delle due "P" (patrimoniale e proporzionale), come lo chiama Il Foglio.

Solo a determinate condizioni non sarebbe l'ennesimo pasticcio politicista. E le condizioni sono che il Pd deve accettare fino all'ultima le misure della lettera della Bce; che il mandato di questo governo dovrebbe essere circoscritto esclusivamente all'attuazione integrale di quelle misure; e che le forze politiche dovrebbero convenire di non ritoccare la legge elettorale, lasciando agli elettori la possibilità di decidere con il referendum. Ritoccarla, infatti, significherebbe avvantaggiare questo o quel partito e contraddire la natura "tecnica" e puramente emergenziale di quest'ultima parte di legislatura.

Quasi sicuramente Pd e Udc non rinuncerebbero alle due "P", patrimoniale e proporzionale, assolutamente da scongiurare e anzi cartina di tornasole del papocchio, ma le carte verrebbero scoperte, i dissidenti del Pdl avrebbero meno alibi e il Pdl avrebbe responsabilmente tentato di evitare il ritorno alle urne.

Orfani del fattore B

Anche su notapolitica.it

Per la prima volta il mondo politico italiano è costretto a misurarsi con l'assenza del fattore B e chi non l'ha ancora capito, chi ancora teme (o spera?) in un colpo di coda, farebbe bene a guardare in faccia la realtà per non farsi trovare impreparato. Berlusconi annuncia che si dimetterà e che non si ricandiderà alle prossime elezioni. Non credo porrà la fiducia sulla legge di stabilità e sul maxi-emendamento con le misure promesse all'Ue, con il retropensiero di ottenere un reincarico da parte di Napolitano, perché ricostituirebbe di colpo l'alibi che con questa mossa ha voluto togliere sia alle opposizioni che ai dissidenti della sua maggioranza. Invece, portando in aula almeno una prima parte del programma che Ue, Bce e Fmi ci chiedono di attuare nel più breve tempo possibile, ma avendo tolto di mezzo la questione politica che riguarda la sua persona, dimostrerà in Parlamento quali forze politiche sono in grado per davvero, nel merito, di adempiere ai doveri necessari per portarci fuori dalla crisi. Le opposizioni dovranno consentire di accelerare i tempi e se il Pd non dovesse votare il pacchetto pur avendo sul tavolo le sue dimissioni, sarà la dimostrazione senza bisogno di aggiungere altre parole che un governo "tecnico", di unità nazionale, è semplicemente impensabile, e dunque che chi lo invoca ha in mente la propria convenienza, che sia quella del singolo parlamentare a restare aggrappato allo scranno, o quella di un partito, o di una corrente, al miglior posizionamento possibile prima del voto, magari grazie a qualche ritocco alla legge elettorale.

Certamente non tutti nel Pdl condividono l'idea che sia preferibile evitare un governo tecnico e che l'unica strada sia quella di tornare al voto. Per questo cosa ci aspetta dopo le dimissioni del premier è ancora avvolto nell'incertezza, e i mercati lo avvertono (anche se forse B. non valeva da solo 100 punti o più di spread). La campagna acquisti di Casini e del Terzo polo proseguirà nel tentativo di convincere un gruppo il più folto possibile di parlamentari del Pdl a sostenere un altro governo, facendo leva ovviamente più sul loro attaccamento alla poltrona che sulla responsabilità istituzionale. Ma la riuscita dell'operazione dipenderà dai numeri e non credo bastino una ventina o una trentina fra deputati e senatori. E' improbabile infatti che il capo dello Stato voglia avallare soluzioni ribaltonistiche che tra l'altro in poco tempo potrebbero rivelarsi persino più deboli numericamente di quanto lo fosse il governo Berlusconi. Il rischio c'è, ma dipenderà dai numeri. Quindi il voto resta ad oggi l'esito più probabile.

Sarebbe bello se vivessimo in un Paese in cui le forze politiche fossero capaci, nell'emergenza, di fare un passo indietro a favore di un governo davvero esclusivamente di tecnici, guidato da uno come Mario Monti, con nessun altro scopo se non quello di approvare le misure richieste all'Italia dalle istituzioni europee e internazionali. Purtroppo è un'ipotesi preferibile ma in astratto, perché l'appoggio del Pd ad un simile governo ci costerebbe una tassa patrimoniale (che non mi risulta sia citata nella lettera della Bce) e probabilmente di dover accantonare buona parte delle misure necessarie, quelle sul lavoro, per esempio, mentre per accontentare Casini dovremmo sacrificare il bipolarismo. Insomma, i partiti non farebbero davvero un passo indietro rispetto ai loro calcoli elettoralistici. Il Pdl dovrebbe aprire ad un'ipotesi Monti solo a due condizioni: che sia formato al 100% da tecnici puri e che si occupi esclusivamente di realizzare, integralmente, il programma della lettera Bce; e che si convenga tra le forze politiche di non ritoccare la legge elettorale, perché si finirebbe inevitabilmente per avvantaggiare questo o quel partito e, dunque, per intaccare la natura "tecnica" e puramente emergenziale dell'ultima parte di legislatura. Dovrebbero essere gli elettori, invece, a decidere su di essa con il referendum.

Come sarebbe un errore pensare, una volta ricompattata la maggioranza grazie al "passo indietro" di Berlusconi e votata la legge di stabilità, ad un governo Alfano o Letta. Un governo che si troverebbe ben presto nelle stesse condizioni del governo Berlusconi, sotto il ricatto di questo o quel pezzo di maggioranza e di scontenti, oppure, nel caso l'Udc ci ripensasse sull'allargamento senza Pd, a dover accontentare Casini, il cui scopo ultimo è il superamento del bipolarismo e lo sfaldamento del Pdl, per presentarsi come unico soggetto aggregatore dell'area moderata.

Tuesday, November 08, 2011

Le due poste in gioco

Nel grande caos di queste ore Berlusconi sembra propenso a decidere il da farsi alla luce del voto di oggi pomeriggio sul rendiconto, in questo modo concedendo però ai cosiddetti malpancisti e ai sostenitori - molto interessati - del "passo di lato", cioè della successione in corsa Alfano-Maroni, un potere d'influenza senza responsabilità definitive. Letta è pronto a tessere le trame della nuova fase; Alfano e la corte dei giovani ministri berlusconiani (come Maroni nella Lega) a coronare le loro ambizioni di successione; Tremonti è fuori gioco ma può e vuole ancora far male. Una certezza almeno dovrebbe invece coltivare Berlusconi: a prescindere dai numeri, andare in Parlamento e chiedere la fiducia sul programma e sui tempi di realizzazione della lettera all'Ue. Può anche annunciare che si dimetterà e non si ricandiderà se la maggioranza numerica si dimostrasse troppo labile, ma quello a mio avviso è un passaggio di chiarezza essenziale. "Passo indietro" significa gettare la spugna, il voto in Parlamento è un atto politico su cui tutti si assumono le proprie responsabilità nelle sedi proprie di una democrazia. Chi drammatizza un'eventuale sfiducia ragiona con gli schemi della Prima Repubblica. Ma perché dovrebbe pregiudicare le successive mosse di Pdl e Lega, che restano la coalizione uscita vittoriosa dalle urne nel 2008 e di cui quindi non si potrà fare a meno?

Una premessa è d'obbligo: purtroppo nessuno, ma proprio nessuno in queste ore, né partiti né singoli, sta ragionando in base a cosa convenga al Paese, ma in base al miglior posizionamento possibile per se stesso. Chi per tenersi la poltrona, chi per succedere a Berlusconi, chi addirittura guardando al Quirinale. Le poste in gioco per l'Italia sono ovviamente diverse: una è chiaramente la salvezza dalla crisi del debito; l'altra, come sostiene Il Foglio, secondo me a ragione, il «sistema maggioritario in cui il popolo sceglie chi governa, esprime un mandato su un programma». Ma non è detto che votare a gennaio o a marzo sia la soluzione più efficace.

UDC - Votare a gennaio o a marzo è infatti la best option di chi il sistema maggioritario vuole distruggerlo. E' sempre più palese che Casini a parole predica le "larghe intese", ma nei fatti (alzando ogni giorno le sue pretese) lavora ad elezioni subito. I parlamentari del Pdl che invocano una "nuova fase", il "passo indietro", avanti o di lato, e così via, e che si affidano all'Udc pensando di prolungare la vita della legislatura e la permanenza sulle loro poltrone, si illudono e stanno finendo nelle braccia di quelli che più di tutti premono per le elezioni anticipate. In questo momento l'Udc è l'unica forza a non avere niente da perdere dalle urne. Guarda un po', appena si è vociferato che il Pdl potesse prendere in considerazione un passo indietro di Berlusconi e un allargamento all'Udc, magari con Letta o Alfano premier, Casini ha subito alzato l'asticella, dichiarando che è da «irresponsabili escludere il Pd» dal governo di unità nazionale che propone, e Rutelli ha bocciato il nome dello «stimatissimo» Letta. Come dire meglio il voto subito. Il Terzo polo infatti può sperare di capitalizzare, risultando determinante al Senato, le debolezze di Pdl e Lega e dell'asse di Vasto. Ossia con i voti di un italiano su dieci di dominare la successiva fase politica, magari posizionando Casini nella casella della presidenza della Camera per il momento in cui il Parlamento dovrà votare il successore di Napolitano al Quirinale.

Questo sarebbe uno scenario ad altissimo rischio rispetto ad entrambe le poste in gioco. Ma ancora peggiori sarebbero le ipotesi di una successione in corsa Alfano-Maroni, di un governo dei "moderati" o di "larghe intese" a guida politica: sarebbe comunque alto il rischio di veder archiviare il maggioritario per accontentare l'Udc e di certo, scontata l'euforia del momento per l'uscita di scena di Berlusconi, non sarebbero sufficientemente autorevoli da risolvere il problema di credibilità dell'Italia agli occhi dei mercati, l'unico intento nobile che potrebbe giustificare un mancato ritorno alla volontà degli italiani.

PROPOSTA - Caduto Berlusconi, ma solo sulla lettera della Bce, un minuto dopo il Pdl dovrebbe tentare di spiazzare l'Udc, dando la propria disponibilità ad un governo al 100% di tecnici, guidato da Mario Monti, con un mandato chiaro - la lettera della Bce - ma con una clausola di salvaguardia sulla tenuta del sistema maggioritario: essendo un governo di tecnici, sostenuto da una unità nazionale per affrontare l'emergenza del debito, nell'ultima fase della legislatura nessun ritocco alla legge elettorale. Pd e Terzo polo si troverebbero davanti ad un bel dilemma: appoggiare le misure impopolari che la Ue ci chiede, e che il Pdl sostiene, e accettare che si voti il referendum per il ritorno al Mattarellum; oppure, far cadere anche l'ipotesi "tecnica" di Monti, rendendo evidente ai cittadini e ai mercati chi è che affossa il Paese e chi, invece, è il partito "europeo".

Solo a queste condizioni - governo al 100% di "tecnici" fino al 2013 per attuare la lettera della Bce e nessun intervento sulla legge elettorale - sarebbe conveniente per il Paese non tornare subito alle urne. In teoria, ma siccome nella pratica ciascuno, a cominciare da Alfano e Casini, guarda alle proprie convenienze, nemmeno di partito ma puramente personali, allora piuttosto che soluzioni pasticciate meglio il voto.

Friday, November 04, 2011

Sorvegliati speciali

Il monitoraggio Fmi sull'implementazione delle riforme su cui il governo si è impegnato con l'Ue e il G20, che sia stato richiesto o imposto, certifica, come d'altronde ha ammesso esplicitamente la direttrice del Fondo, Christine Lagarde, che il problema dell'Italia è «la mancanza di credibilità» delle misure annunciate. I mercati dubitano che verranno mai realizzate. Ma non illudiamoci che dipenda solo dai demeriti, innegabili, del governo. Si tratta di una mancanza di credibilità, come più volte ho ripetuto su questo blog, "di sistema", delle forze politiche, economiche e sociali, e della stessa opinione pubblica, che in grandissima parte si oppongono ai cambiamenti necessari. Da qui consegue che non basterà cambiare governo per risolvere i problemi, come ci ha ricordato ieri un portavoce di Obama.

Le parole della Lagarde però implicano anche che i cosiddetti fondamentali sono solidi, a conferma di quanto il governo non si stanca di ripetere, irriso da media e commentatori. Se sbaglia il governo, sbaglia anche la Lagarde a individuare principalmente nella «credibilità» il nostro problema. Era inevitabile che la Borsa e gli spread sui nostri titoli risentissero del nostro quasi commissariamento sancito dal G20. L'interessamento dell'Fmi è di per sé la conferma che la situazione è molto seria e gli investitori ne traggono le conseguenze, ma credo che nel medio periodo il monitoraggio, meritato oltre che imbarazzante per la nostra politica e lo stesso governo, non possa far altro che bene al nostro Paese, costringendoci a rispettare gli impegni.

Ma un effetto più pesante su Borsa e spread potrebbe averlo provocato a mio avviso l'offerta di fondi da parte dell'Fmi. Non vedo perché questa volta il premier si sarebbe dovuto inventare una cosa del genere. E' probabile che in effetti l'offerta ci sia stata. Ma peggio che bugiardo, scellerato Berlusconi a rivelarlo solo per pavoneggiarsi di aver rifiutato i fondi. Ovvio che per i mercati è di per sé allarmante che siano stati offerti. E infatti più tardi la Lagarde ha dovuto smentire: l'Fmi «non ha offerto fondi» all'Italia, perché l'Italia «non ha bisogno di linee di credito precauzionali». Questa sì una gaffe molto sciagurata.

Comunque, se è lecito ironizzare sul nostro premier quando dichiara che l'attacco ai nostri titoli è una «moda passeggera», per la cronaca sembra echeggiare proprio Berlusconi il presidente Obama quando afferma che «la crisi in molti casi è psicologica» e che «l'Italia è un grande Paese, con un'enorme base industriale, grande ricchezza, grandi risorse». Ma lui è cool, può permettersi di dire qualsiasi cosa, non rischia di essere sbertucciato.

A breccia aperta

Quando si apre una breccia, è probabile che l'argine ceda del tutto e che si venga travolti. Ed è quello che sembra stia accadendo in queste ore alla maggioranza. Alla luce di quanto accaduto ieri notte a Cannes e del forsennato mercato parlamentare in corso, comprendiamo fino in fondo quanto sia stata determinante la scelta di procedere con il maxi-emendamento anziché con decreto. La breccia l'ha aperta proprio lo stop al decreto con le misure anticrisi. La prova finale della ormai irreversibile debolezza di leadership del presidente del Consiglio, che si è dovuto piegare al suo ministro dell'Economia e al capo dello Stato, che molti nel Pdl aspettavano. Le condizioni di «necessità e urgenza» per emanarlo c'erano tutte, anzi mai in modo così conclamato, ma serviva un passaggio parlamentare a breve, in modo da sfruttare fino in fondo questa finestra di panico politico aperta dal martedì nero delle Borse per sfilare deputati dalla maggioranza. Era, insomma, ciò che ci voleva - indebolimento ulteriore, definitivo, del premier e passaggio in aula a breve - per garantire un certo grado di successo a questa nuova fase di campagna acquisti.

Peccato che sull'altare dell'ennesima manovra di palazzo sia stato sacrificato un altro pezzo di credibilità del nostro Paese. Che Berlusconi abbia accettato o meno il monitoraggio dell'Italia da parte del Fmi, il che non è detto sia un male, è evidente che senza quel decreto, quindi senza nuove misure già in vigore, il nostro Paese si è presentato al G20 di Cannes ancor più debole politicamente di quanto già non fosse per i demeriti del governo. Tremonti e - bisogna dirlo - Napolitano portano per intero questa responsabilità. Quella che nelle intenzioni del ministro e a questo punto credo anche del capo dello Stato non era che una tattica parlamentare per favorire la caduta del premier, e quindi una «nuova prospettiva di larga convergenza», agli occhi degli interlocutori internazionali è apparsa come l'ennesima dimostrazione della mancanza di volontà delle istituzioni italiane ad agire con rapidità sulla strada delle riforme.

A ciò si aggiungano altri gravi strappi costituzionali, senza precedenti, come le consultazioni pre-crisi, il ministro dell'Economia che concerta con il capo dello Stato atti di governo alle spalle del Consiglio dei ministri, il presidente della Camera che partecipa in prima persona alla campagna acquisti per far cadere il governo. Cose cui purtroppo assisteremo anche in futuro e che contribuiranno ad aggravare l'instabilità del nostro sistema politico-istituzionale.

Per carità, i motivi di malcontento sono più che fondati e su questo blog non li abbiamo certo nascosti, ma per favore, almeno non credeteci così scemi da berci il racconto di improvvisi sussulti di responsabilità istituzionale. I movimenti di queste ore non hanno nulla a che fare né con il merito della politica del governo (anzi, sarà un caso che proprio ora che sembra costretto a cimentarsi in riforme serie, si fanno mancare i voti?), né con la credibilità di Berlusconi, né con l'assenza di dibattito nel Pdl, e nemmeno con chissà quali nobili strategie politiche. Semplicemente lo scenario è cambiato, un Berlusconi che ha provato a reagire e a rilanciarsi si è ulteriormente indebolito, forse in modo decisivo, il Pdl rischia lo sfaldamento, e ciascun deputato sta giocando la sua personalissima partita di miglior posizionamento possibile. E' così che vanno le cose in Italia perché questo è il sistema politico. E non mi si venga a raccontare che da una parte ci sono i venduti e dall'altra i "responsabili". Sono tutti venduti, chi per un posto di sottogoverno, chi per una ricandidatura, chi per un appartamento a Roma, chi per un pezzo di pane. Governo tecnico, di "larghe intese"? Con chi? E per fare cosa? Una patrimoniale e poco altro, e poi si ricomincerà come prima. Ma senza Berlusconi, questo è l'unico obiettivo che importa realmente. Ma come ha ricordato un portavoce della Casa Bianca, non è che cambiando un governo cambiano i problemi del Paese.

Non bisogna farsi distrarre dai tatticismi del momento, l'obiettivo ultimo di Casini non è governare insieme al Pdl senza Berlusconi, prospettiva da cui molti parlamentari sono ovviamente attratti, sembra così ragionevole... E' invece distruggere il Pdl (quante volte ha ripetuto di voler "disgregare" questo bipolarismo?) ed ergersi come unico soggetto aggregatore sulle macerie del centrodestra, spianando la strada alla discesa in campo di Montezemolo in quello spazio politico oggi occupato proprio dal Pdl. L'Udc è l'unico partito che in questa situazione non ha nulla da perdere, o almeno così crede. Se si forma un governo tecnico o transitorio, non potrà che acquisire una centralità sempre maggiore, da capitalizzare al momento del voto, soprattutto se nel frattempo si mettesse mano ad una riforma elettorale in senso proporzionalista; ma anche se si vota subito, con l'attuale legge (guarda caso facendo saltare il referendum per il ritorno al Mattarellum!), è probabile che al Senato risulti determinante. Ecco perché è il partito più attivo nel forzare il quadro politico, pur sapendo che al 90% si rischia di andare a votare a marzo. «Governo di larghe intese. Pdl dica sì o si dissolverà», è il titolo dell'intervista di Casini oggi al Corriere della Sera. L'impressione è che nei suoi piani/sogni il Pdl si dissolverà comunque.

Per quanto mi riguarda non riesco proprio a mandar giù questa logica del "passo indietro". Che sia auspicabile o meno la fine di questo governo e l'uscita di scena di Berlusconi, il modo più democratico e trasparente è ciò che molti, abituati ad una logica trasformistica e fangosa, chiamano "schianto", "ultima raffica", o "fucilata": un voto di sfiducia parlamentare, lineare, limpido. Nel quale ciascuno si assume le sue responsabilità guardando negli occhi l'avversario e il Paese. Non sarebbe nulla di drammatico. Sarebbe la democrazia, bellezza. Sarebbe.

L'Iran vero banco di prova per Obama


Tre anni persi ad inseguire i falsi miti della realpolitik

Un altro pezzo della politica estera del presidente americano Barack Obama si sta sgretolando sotto i duri colpi della realtà. Il programma nucleare iraniano è tornato al centro delle agende diplomatiche e militari e si è quindi riaffacciato nelle conferenze stampa dei leader e sulle prime pagine dei giornali. Nei giorni scorsi le notizie di esercitazioni militari congiunte e un articolo del Guardian, secondo cui le forze armate britanniche stanno perfezionando i loro piani di appoggio agli Stati Uniti nel caso di un attacco contro obiettivi nucleari in Iran. Il dossier iraniano è stato al centro dell'incontro di ieri fra il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak e il ministro britannico degli Esteri William Hague. Ed è imminente (previsto per l'8 novembre) un rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), che dovrebbe contenere informazioni allarmanti come mai prima d'ora: il programma atomico e missilistico di Teheran sarebbe in uno stato molto avanzato e il regime iraniano potrebbe essere dotato di un arsenale nucleare entro la fine del 2014. L'Iran avrebbe dimostrato - in verità come molti avevano previsto - una sorprendente resistenza alle sanzioni internazionali. I sabotaggi tramite attacchi cibernetici e gli omicidi mirati degli scienziati iraniani non avrebbero sortito gli effetti sperati, o quanto meno non sarebbero riusciti a rallentare il programma nucleare secondo le aspettative.

L'amministrazione Usa per il momento si limita allo studio di nuove e più dure sanzioni, e il presidente Obama non vorrebbe prendere in considerazione un attacco prima delle prossime elezioni presidenziali. Tuttavia, secondo le fonti del Guardian un'accelerazione della Casa Bianca verso l'opzione militare non sarebbe da escludere. Molto dipenderà dal grado di allarme che susciteranno i progressi iraniani. Le obiezioni sono sempre le stesse e riguardano il rapporto costi-benefici: dubbi sulla reale efficacia dello "strike" rispetto ai rischi di rappresaglia iraniana (non va dimenticato infatti che gli Hezbollah in Libano sono pronti in qualsiasi momento a scatenare l'inferno, alla faccia della missione Unifil). Inoltre, c'è chi è convinto che un attacco possa ricompattare il regime, che invece nel tempo che ancora ci separa dall'acquisizione della bomba potrebbe essere dilaniato dalle divisioni e/o travolto da un'ondata rivoluzionaria. Ma se i dubbi si concentrano sull'efficacia dell'attacco nell'azzerare, o arrestare il programma nucleare, è anche vero che più passano i mesi più Teheran avrà il tempo di studiare e attuare le sue contromosse per limitarne i danni. Entro i prossimi 12 mesi, infatti, gli iraniani potrebbero nascondere il loro materiale e le loro armi all'interno di bunker fortificati in grado di resistere alla pur incredibile forza di penetrazione dei missili americani e israeliani. Insomma, la finestra per un attacco potrebbe chiudersi prima di quanto si creda e ciò secondo gli inglesi potrebbe indurre il presidente Obama ad anticipare l'operazione.

In ogni caso, la politica della «mano tesa» verso Teheran inaugurata all'indomani del suo insediamento alla Casa Bianca appare ormai un pallido ricordo. Una svolta che ha avuto la sua sanzione pubblica circa un mese fa, dopo la scoperta del complotto ordito dal governo iraniano che doveva portare all'uccisione dell'ambasciatore saudita a Washington. «Continueremo ad applicare contro l'Iran le più dure sanzioni, perché il Paese venga sempre più isolato», aveva assicurato Obama in quella circostanza, aggiungendo che «nessuna opzione viene esclusa» nei confronti di Teheran. Un'espressione tipica dei "falchi" della precedente amministrazione. Dunque, lo stesso Obama che nel 2009 aveva rinunciato a sostenere l'"onda verde" contro la truffaldina rielezione di Ahmadinejad, riuscendo solo dopo molte incertezze a proferire qualche timida parola contro le violenze e sui diritti del popolo iraniano, nel timore di compromettere fin da subito la sua apertura di credito agli ayatollah, oggi ha cambiato strategia nei confronti del regime iraniano, ma l'ipotesi di un attacco militare mi sembra prematura. Per il momento con Teheran sembra più una guerra di nervi.

Certo è che l'opzione è tornata prepotentemente sul tavolo di Obama, anche perché non vanno sottovalutati i rischi di un'eventuale azione unilaterale da parte israeliana, quindi i piani militari vengono tenuti aggiornati, ma l'impressione è che non si muoverà nulla prima della scadenza del suo mandato nel 2012. Scadenza che conviene aspettare anche al governo israeliano, che a gennaio 2013 potrebbe trovare alla Casa Bianca un interlocutore più sensibile. In Israele intanto il dibattito sull'opzione militare è ancora aperto, nell'opinione pubblica e tra i vertici militari. Il premier Netanyahu e il ministro della Difesa Barak avrebbero ottenuto il via libera della propria maggioranza, ma le indiscrezioni di questi giorni su un attacco dato addirittura per "imminente" vengono interpretate come un'azione di boicottaggio ai danni del processo di costruzione del consenso attorno all'eventuale operazione. Israele infatti scioglierà il suo dilemma, se muoversi o meno in solitudine, solo nel momento in cui apparisse chiaro che gli Usa e i loro alleati non intendono in alcun caso agire, e comunque tempi e modi verranno concordati con Washington.

Strike o non strike, che sia imminente o meno, è degno di nota che il presidente Obama prenda in considerazione l'ipotesi di un attacco preventivo in pieno stile George W. Bush, a riprova del fatto che, contrariamente a quanto veniva spacciato in Europa durante la crisi irachena, il concetto negli Usa è da sempre bipartisan, non una diavoleria da neocon. Se guardiamo all'architettura legale e militare della guerra al terrorismo (Guantanamo e affini, per intenderci), nient'affatto smantellata; all'Iraq, con la conferma dei piani di ritiro di Bush; all'Afghanistan, con il "surge"; e ai bombardamenti con i droni in Pakistan e in altre zone del mondo, Obama si è rivelato persino tougher than Bush, deludendo le aspettative pacifiste dei liberal e smentendo quanti a destra temevano un presidente incline a disimpegni precipitosi, quindi debole su quanto di più delicato: la sicurezza nazionale.

La politica di Obama in Medio Oriente invece è stata un disastro. Da quel discorso di apertura pronunciato al Cairo e indirizzato nient'affatto ai popoli della regione, ma ai loro regimi autoritari, ai quali assicurava la non interferenza Usa, Obama ci ha messo tre anni per capire di dover quanto meno correggere la sua impostazione. Tre anni persi ad inseguire i falsi miti della realpolitik. E l'ha capito a suon di sberle degli eventi. C'è voluta l'"onda verde" di Teheran nel 2009, abbandonata alla brutale repressione del regime, per incrinare le sue certezze; ci sono volute le piazze arabe di questa primavera per obbligarlo a correggere il tiro, imboccando, sia pure in modo opportunistico e maldestro, la via del regime change. Adesso però è giunto il momento della verità. L'abbandono frettoloso e "obtorto collo" di Mubarak al suo destino, senza alcuna garanzia sull'esito democratico del processo politico in corso in Egitto, e il successo contro Gheddafi - della serie "ti piace vincere facile" - non si possono considerare prove sufficienti del cambio di rotta in senso pro-democracy della politica di Obama in Medio Oriente. Il vero banco di prova sono la Siria e l'Iran, i cui regimi sono ben più armati e sanguinari e dove gli interessi di Russia e Cina non rendono agevole velare di multilateralismo le proprie scelte.

Thursday, November 03, 2011

A mani vuote

Opponendosi al decreto Napolitano e Tremonti hanno mandato Berlusconi al G20 di Cannes a mani vuote. Va dato atto al presidente della Repubblica di aver svolto correttamente il suo ruolo, di aver cercato di mantenersi neutrale, registrando le posizioni, mediando con la sua moral suasion, ma di fatto ha finito con il prestare una sponda decisiva alle manovre di Tremonti e delle opposizioni volte unicamente ad abbattere Berlusconi. Non poteva non rendersi conto il Quirinale, al di là delle ragioni che sul piano legislativo, ma in linea puramente teorica, consigliavano il maxi-emendamento, dell'impatto devastante sul piano politico di mandare il premier a Cannes senza nulla di nuovo già in vigore. Ed è il colmo, come scrive oggi Mario Sechi su Il Tempo, che dopo «tanti decreti inutili, proprio quello necessario e urgente più di tutti lo si è evitato». Non so immaginare necessità e urgenze più conclamate di quelle attuali. Una strada, tra l'altro, quella sostenuta da Napolitano, in evidente contraddizione con tutti i suoi richiami ad agire presto.

Certo, si può sostenere che il maxi-emendamento fosse lo strumento legislativo in grado di trasformare in legge nei tempi più rapidi possibili - entro la metà di novembre - le misure anticrisi che si intendevano adottare, nonché di garantire il massimo del confronto parlamentare, così caro al presidente, mentre per la conversione del decreto si sarebbero dovuti aspettare 60 giorni. Ma questo solo in teoria, perché al 15 novembre il governo potrebbe non arrivare e d'altra parte il decreto avrebbe avuto il vantaggio di far entrare in vigore già da oggi alcune delle misure chieste dall'Ue e dalla Bce. Il Cdm non si sarebbe concluso con un sostanziale nulla di fatto, sanzionato stamattina dai mercati, e il premier non si sarebbe recato al G20 a mani vuote. Questo, dunque, sul piano più squisitamente politico: opponendosi al decreto, sia pure con motivazioni diverse, Tremonti e Napolitano hanno di fatto spianato la strada, per usare le espressioni del Foglio, al plotone d'esecuzione che si prepara a "fucilare" Berlusconi.

Al di là dello strumento legislativo, e delle sue implicazioni politiche, nel merito resta l'inadeguatezza delle misure. Tutte positive e nella direzione della lettera di impegni all'Ue, ma non lo shock che sembra ormai necessario. Come previsto alla vigilia, nessuna patrimoniale o prelievo forzoso sui conti correnti, ma delle quattro macro-aree (dismissioni, liberalizzazioni, pensioni e fisco) solo su due il governo interviene e in modo troppo soft, che forse poteva andare bene a luglio, ma non più oggi.

Dismissioni del patrimonio pubblico (terreni, ex caserme, ex ospedali, immobili degli enti previdenziali, ecc.) per un valore di 5 miliardi l'anno per il prossimo triennio, in pratica un punto di Pil in tre anni, non sono assolutamente sufficienti. Ci vorrebbero almeno 5 punti di Pil, ma d'altra parte le chiavi tecniche delle dismissioni sono nelle mani del Tesoro, cioè di Tremonti. Ci sono incentivi per il lavoro dei giovani e delle donne e, bisogna dare atto, norme a lungo contrastate dalle corporazioni come la derogabilità delle tariffe minime degli ordini professionali e la possibilità di costituire società di capitali, mentre sui licenziamenti l'intenzione sembra quella di intraprendere la strada del ddl Ichino. Però manca del tutto lo shock fiscale, quello più in grado di rilanciare la crescita nel breve periodo: ma per finanziarlo servirebbe un definitivo intervento sulle pensioni (abolizione di quelle d'anzianità e passaggio immediato al contributivo per tutti indistintamente).