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Friday, November 27, 2009

Napolitano argina la magistratura

Inutile girarci attorno. Per quanto i siti di Corriere e Repubblica (e domani vedremo anche sui giornali) cerchino di addolcire la pillola, evidenziando la parte generica dell'appello di Napolitano, laddove parla di fermare le tensioni tra istituzioni, il cuore politico del suo intervento è il fermo richiamo rivolto ai magistrati ad attenersi «rigorosamente» allo svolgimento delle loro funzioni. Evidente l'imbarazzo del segretario del Pd e della capogruppo al Senato, leader di un partito (lo stesso cui, per la sua storia personale, fa riferimento il presidente) che ieri, ancora una volta, ha aggredito il premier per le sue dichiarazioni offrendo una sponda politica agli sconfinamenti dei magistrati.

Bersani ha letto nelle dichiarazioni del capo dello Stato un richiamo alla «centralità del Parlamento», «sede nella quale deve condursi un confronto trasparente e leggibile dai cittadini tra le diverse posizioni politiche sia in termini di riforme sia per quel che riguarda le grandi scelte economiche e sociali», mentre la Finocchiaro alla «responsabilità della politica». Entrambi nei loro commenti hanno volutamente evitato di prendere atto del richiamo ai magistrati. Ma il senso politico del messaggio del presidente è chiaro e inequivocabile. Non ha richiamato il governo, o la politica, a rispettare il lavoro dei magistrati. Al contrario, chiedendo a «tutte le parti», com'è naturale, uno «sforzo di autocontrollo», si è rivolto direttamente a «quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione», perché «si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione».

E non a caso il termine che ha usato è «funzione», a sottolineare che quella esercitata dalla magistratura è per la nostra Costituzione una «funzione» e non un potere. Ha difeso con forza dagli sconfinamenti di certi magistrati il governo che gode della fiducia della maggioranza del Parlamento («nulla può abbatterlo») e le prerogative delle Camere in una democrazia parlamentare (a loro spetta «definire i corretti equilibri tra politica e giustizia»). E il fatto che abbia citato non solo la fiducia del Parlamento al governo, ma anche la «coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare», può significare che in caso di crisi il capo dello Stato intende tenere in massima considerazione il legame tra il governo e la coalizione uscita vincitrice dalle urne, in funzione anti-ribaltone.

Non si può ignorare che il tutto rappresenti un argine forte nei confronti della pretesa, da parte di alcuni settori della magistratura, di farsi "potere" anziché ordine dello Stato. L'ultima palese dimostrazione di tale tentazione si è avuta ieri sera, quando a caldo, dopo che le agenzie avevano da poco battuto alcune parti dell'intervento di Berlusconi alla direzione del Pdl, un consigliere togato del Consiglio superiore della magistratura in quota ad una corrente di sinistra, Mario Fresa, ha annunciato che avrebbe chiesto alla prima commissione del Csm di «acquisire» le ultime dichiarazioni del premier, «anche riportate attraverso gli organi di stampa», nell'ambito di una «pratica a tutela» dei pm di Milano e di Palermo già aperta. Dev'essere stata l'ultima goccia che ha indotto il presidente Napolitano a intervenire così energicamente.

Come ha spiegato Michele Saponara, infatti, consigliere laico del Csm, «minacciare a nome del Csm di "acquisire" le dichiarazioni, vere o presunte, fatte da un politico, da uno qualsiasi (e ancora peggio se fatte dal presidente del Consiglio e capo di una forza politica), in una sede di partito, significa far saltare ogni regola democratica. Significa mettere sotto "tutela giudiziaria" il bene più sacro di una nazione che è quello del dibattito politico, anche del più acceso». Le parole di Fresa sono «la plastica conferma che alcuni settori della magistratura sono fuori da ogni regola costituzionale» e che da ordine quale sono tentano invece di «farsi "potere" e contestare ogni giorno il potere assegnato dalla Costituzione alla politica».

Thursday, November 26, 2009

Se il tremontismo seppellisce il berlusconismo

Quelli che non si bevono la balla di una spesa pubblica "incomprimibile". Risulta letteralmente incredibile che non si possa ridurre una spesa di 830 miliardi l'anno e che corrisponde a circa il 50% del Pil. Tremonti è uscito vincitore su tutta la linea dalla riunione della consulta del Pdl sulla Finanziaria, sprezzante nei confronti di chi aveva avanzato proposte concrete, e ben coperte, di tagli sia alle tasse che alle spese. E' vero che il partito della spesa è vasto e multiforme e sempre in agguato, e che Tremonti durante la crisi ci ha risparmiato grandi manovre in stile prodiano, i soldi «veri e freschi» di cui ha ancora fame Bersani, ma il ministro oppone strumentalmente l'esigenza del rigore anche a chiunque per finanziare tagli alle tasse proponga tagli alla spesa, sostenendo che sia "incomprimibile". Un falso ideologico.

Niente tagli a Irap o Irpef nel 2010, dunque, solo il rinvio a giugno prossimo, che era stato già deciso due settimane fa dal governo con un decreto ad hoc, di una parte dell'acconto Irpef di novembre. Per quanto riguarda i soldi "una tantum" dello scudo, circa 4 miliardi, andranno via in Cig, 5 per mille, nuove carceri, libri di testo, ospedali e altre spese sociali. Non proprio una scelta di rigore. E un rigore che non riesca ad agire sul denominatore del rapporto deficit/pil è un rigore destinato a fallire.
Il nostro ministro dell'Economia ci ha risparmiato un ulteriore saccheggio della finanza pubblica stringendo i cordoni della borsa. Questo perché le nostre banche hanno retto meglio alla crisi finanziaria; e lo Stato - malgrado l'elevata pressione fiscale - non può permettersi spese ulteriori. Ma restano i problemi, strutturali, che risalgono a prima della crisi, agli inizi degli anni Duemila: bassa crescita della produttività, poca internazionalizzazione. I costi che le aziende devono sostenere - di produzione, nelle reciproche transazioni e burocratici - sono elevati e non più compensati dal basso costo del lavoro (per la concorrenza dei Paesi emergenti) e dalle svalutazioni competitive (per i vincoli europei).
Così Piero Ostellino, oggi sul Corriere della Sera, che si appella direttamente a Berlusconi esortandolo a contraddire il suo ministro dell'Economia per alcune riforme "a costo zero": semplificazione amministrativa e normativa, maggiore produttività della giustizia civile, il modello danese per il welfare, «una Maastricht previdenziale». Poi ci sarebbero gli sprechi, che «non si contano» nella sanità, nella pubblica amministrazione, nella scuola, nella giustizia, e soprattutto al Sud. Per non parlare dell'insopportabile pressione fiscale.

Come ricorda oggi Maurizio Belpietro, su Libero, «la riduzione del peso del Fisco nelle tasche degli italiani è da sempre il pilastro centrale della proposta di centrodestra», così come lo è «l'idea di uno Stato snello, il quale non grava sulle nostre spalle, elimina gli sprechi e le incrostazioni degli apparati». Non c'è solo questo, nel programma e nell'identità del centrodestra, ma è questo che «ha scaldato gli animi». In questi primi due anni di governo, nel mezzo della crisi, «nessuno ha reclamato il rispetto del patto stipulato il giorno del voto», ma «ora che qualche segnale di ripresa si intravede, non mantenere la promessa è un errore grave», sottolinea Belpietro.

Un errore grave perché non solo la politica economica immobilista di Tremonti, dove sembra che spesa pubblica e pressione fiscale elevate siano variabili indipendenti, rischia di non assicurarci una ripresa sostenuta e durevole, ma anche perché rischia di ridefinire l'identità politica del centrodestra, demolendo quelli che erano i pilastri del berlusconismo. Ma gli elettori hanno votato il berlusconismo, non il tremontismo. Se ne dovrebbe ricordare primo tra tutti il premier. A tempo debito gli elettori se ne ricorderanno senz'altro.

Tuesday, November 24, 2009

Cosa c'entrano i diritti umani con il valore dello yuan

Wei Jingsheng cerca di spiegare al presidente Obama che questioni di primaria importanza per gli Stati Uniti nelle loro relazioni con la Cina, come la politica commerciale e la svalutazione dello yuan, sono intimamente legate al problema dei diritti umani. E' grazie al non rispetto di questi ultimi, infatti, che il Partito comunista cinese può continuare a perseguire indisturbato quelle politiche. «Usando il potere del governo - spiega Wei Jingsheng in un articolo tradotto da Asianews.it - i comunisti cinesi hanno tenuto in maniera forzata lo yuan svalutato, producendo così prezzi iper-competitivi per i beni di produzione cinese, che non rispondono ai canoni classici dell'economia di mercato». Tuttavia, osserva, «la riduzione forzata del tasso di cambio operata dal governo cinese è proprio il tipo di condotta che non porta vantaggi neanche a chi se ne rende autore».

Non ci guadagna affatto la popolazione cinese. La svalutazione forzata dello yuan mantiene bassi i salari della maggioranza dei cinesi, accresce le disparità, già «enormi», fra i ricchi e i poveri, sta provocando «una crisi sociale di larga scala». Una delle conseguenze della disparità è che «il mercato interno cinese è molto piccolo» e, di conseguenza, «la sopravvivenza dell'industria manifatturiera dipende per la maggior parte dal mercato internazionale: è, dunque, sotto il controllo degli altri». Il che significa che «ogni segnale di disturbo del mercato internazionale provoca danni all'intera industria». Inoltre, osserva Wei Jingsheng, «i Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati costretti ad adottare una sorta di protezionismo commerciale per reagire» alla politica monetaria voluta da Pechino, la quale quindi ha finito per colpire «l'intera economia» e «un enorme numero di persone ha perso il proprio lavoro».

Dal «produrre problemi per gli altri», dalla svalutazione forzata dello yuan «per poter poi invadere il mercato con prezzi ridotti», deriva anche la «scarsa qualità» dei prodotti cinesi che hanno invaso il mondo, rendendo noto il marchio "made in China" appunto per la sua bassa qualità: «Il furto e il plagio costano molto meno dell'innovazione, così come la bassa qualità non costa quasi nulla». Un'economia interamente orientata sulle esportazioni e la politica monetaria conseguente hanno «danneggiato non soltanto la reputazione del "made in China", ma anche il potenziale, ulteriore sviluppo dell'economia interna... Tutte le risorse ereditate dai nostri avi vengono vendute a scapito delle generazioni future, e non soltanto dell'inquinamento ambientale».

Ma il «prerequisito» in forza del quale il partito riesce a esercitare questo «monopolio economico e politico», conclude Wei Jingsheng, è «la disastrosa situazione dei diritti umani in Cina. Per mantenere il potere assoluto, infatti, Pechino ha bisogno di schiacciare i diritti della propria popolazione». Diritti umani, libertà di espressione e di stampa «sono direttamente collegati al commercio, sono fra le questioni relative all'economia». «Senza di loro, infatti, non si possono avere le condizioni per un commercio libero e per una politica democratica». Affrontando il tema di diritti umani, è il messaggio del dissidente cinese al presidente Obama, si affrontano anche le questioni di politica commerciale e monetaria.

Monday, November 23, 2009

Spericolato Brunetta

Rasenta la perfezione l'analisi di Luca Ricolfi, su La Stampa di oggi. Le uniche proposte alternative alla politica, diciamo attendista, di Tremonti, «se messe in atto, sarebbero risultate più dannose della linea di contenimento praticata dal Tesoro». Vanno dal tassa-e-spendi del nuovo segretario del Pd Bersani, che coerentemente con la sua breve esperienza di governo con Prodi rimpiange i bei tempi delle "grandi manovre" da 40 miliardi, al cosiddetto multiforme "partito della spesa", di cui il partito del Sud è solo uno dei volti più visibili e minacciosi. Non si vede all'orizzonte, invece, un "partito delle riforme" che abbia la stessa consistenza, e delle gambe su cui far camminare le sue proposte.

Forse si candida il ministro Brunetta a dargli voce? Di certo l'uscita di Brunetta è stata coraggiosa, perché spericolata. Non poteva infatti non mettere in conto l'isolamento che avrebbe patito. Forse non con questa nettezza, ma era prevedibile che Berlusconi rivendicasse come sue e di tutto il governo le scelte del suo ministro dell'Economia, soprattutto dopo le recenti polemiche.

Il ragionamento di Brunetta è semplice: la politica di Tremonti è andata bene per affrontare la crisi, ma ora ne serve un'altra: «Tutti i comparti della nave sono in sicurezza. La politica economica e finanziaria fatta nell'attraversamento della crisi è stata efficace. Il "rigore conservatore" di Tremonti ha funzionato. Del resto, bastava dire no: non fare, non spendere, bloccare tutto; chiudere i boccaporti. Ora però bisogna cambiare passo. Passare da un metodo all'altro. Sciogliere le vele, far ripartire i motori». Passare, quindi, «dal rigore conservatore al rigore selettivo, modernizzante, intelligente, capace di decidere», mentre quello di Tremonti è «un blocco cieco, cupo, conservatore, indistinto... un egemonismo leonino, opaco, autoreferenziale». E «incapace di distinguere» tra sprechi e spese produttive.

Brunetta «in teoria ha ragione», riconosce Ricolfi, ma «se uno schieramento politico riformista diverso dal partito della spesa, al momento, non esiste ancora», è da una parte perché la politica non ha il coraggio di scelte che importanti pezzi di opinione pubblica farebbero pagare a prezzi elevati, dall'altra perché il confronto, sia per gli uni che per gli altri, è bloccato sul nodo Berlusconi, come da sedici anni a questa parte.

Diciamo subito che quella in cui sembra muoversi Brunetta è un'ottica riformista, non liberista. Non ha sfiducia nella macchina, non vuole ridurla, ma vuole farla funzionare. E' un proposito nobile, quello delle riforme e del «rigore selettivo» (leggi spesa selettiva), e in ultima analisi di una politica che vuole far funzionare al meglio ciò che c'è. Bisogna stare attenti però a non iscriversi ad un altro affluente del torrente, già parecchio ingrossato, del "partito della spesa". Il rischio che mi pare corra Brunetta, se non ne prenderà esplicitamente le distanze, è proprio quello di venire arruolato in quel partito nella rappresentazione mediatica del tremontismo e dei suoi critici.

La strada di governi sia di centrodestra che di centrosinistra è lastricata di "fasi due", ma nessuna ha prodotto i risultati sperati. Una condizione che potrebbe/dovrebbe aiutare Berlusconi a farsi coraggio è, come ha ricordato Ricolfi, che «dal 22 marzo prossimo fino alla fine della legislatura (3 anni dopo) non ci saranno più test elettorali importanti». L'occasione sarebbe ghiotta per dedicarsi alle riforme: costituzionali ed economiche. Se non ora, quando?

Thursday, November 19, 2009

Volti anonimi per un'Europa senz'anima

Scelte di bassissimo profilo da parte dei capi di Stato e di governo dell'Ue per le cariche, introdotte con il Trattato di Lisbona, di presidente permanente del Consiglio europeo e rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell'Ue: il premier belga Herman Van Rompuy, che non rischierà certo di oscurare con la sua personalità e il suo carisma gli altri leader europei, che potranno continuare indisturbati a offrire l'immagine di un'Europa vuota e divisa, senz'anima; e la semi-sconosciuta Cathrine Ashton, che non ha alcuna esperienza di politica estera (si è occupata di welfare), e pochissima di politica tout court, essendo stata solo sottosegretario all'Istruzione, per un anno leader dei laburisti alla Camera dei Lord, prima di essere catapultata a Bruxelles, poco più di un anno fa, come commissaria al commercio.

E' evidentemente prevalsa la logica "euroburocratica" (con in mano il manuale Cencelli e un occhio alle "quote rosa") di non attribuire peso politico alle due nuove cariche. Oggi a Bruxelles non sono stati nominati un presidente e un ministro degli Esteri, quanto piuttosto un segretario e una portavoce. Peccato che i leader europei non abbiano compreso quanto potesse contare essere rappresentanti nel mondo da una figura riconoscibile e di una certa statura politica. Possiamo sempre consolarci per aver evitato D'Alema. Quella sì sarebbe stata una beffa, oltre al danno di non vedere Blair presidente.

Wednesday, November 18, 2009

Obama si fa ingabbiare dai cinesi

Tanta "cooperazione" e toni adulatori, ma sui temi caldi (Iran e politica monetaria) il presidente Obama torna a mani vuote, mentre la buona retorica su diritti umani, Internet e Tibet non arriva a chi dovrebbe arrivare. Il Wall Street Journal vede il rischio che la politica monetaria e di bilancio americana provochi bolle finanziarie in Asia che avrebbero pesanti ripercussioni in tutto il mondo, alimentando svalutazioni e protezionismi, fino a rappresaglie politiche, mentre Martin Wolf, sul Financial Times, punta l'indice sul «protezionismo valutario cinese» e rimprovera semmai a Obama di non aver parlato al presidente Hu Jintao «in termini tanto crudi» quanto avrebbe dovuto.

Su il Velino

Nella visita in Cina del presidente americano, Barack Obama, il Washington Post vede un «forte contrasto con il passato». Un «contrasto», rispetto alle visite dei suoi predecessori, che tuttavia a giudizio del quotidiano Usa non riflette tanto un cambiamento di approccio da parte di una nuova amministrazione, quanto «un incredibile, e molto più grande cambiamento» negli equilibri di potere, soprattutto in economia, durante l'ultimo decennio. Un cambiamento che ha fatto da «sottofondo» all'intera visita. Nella sua analisi il WashPost sottolinea che «non ci sono stati grandi passi avanti su temi importanti quali il programma nucleare iraniano o la moneta cinese. Eppure, dopo due giorni di colloqui con il più grande creditore degli Stati Uniti, l'amministrazione ha affermato che le relazioni tra i due Paesi sono importanti come non mai». Sebbene un piccolo progresso sia emerso in vista della conferenza del prossimo mese a Copenhagen sui cambiamenti climatici, è «relativamente poco per un nuovo presidente che in campagna elettorale ha promesso che avrebbe realizzato cambiamenti di vasta portata nelle relazioni diplomatiche degli Stati Uniti».

«Se c'è stato un cambiamento significativo durante questo viaggio - osserva il WashPost - è stato il tono conciliante e a volte persino elogiativo» nei confronti del governo Pechino. «Con gli Stati Uniti indebitati con la Cina per oltre mille miliardi di dollari e inondati da merci cinesi», quella tra Obama e il presidente Hu Jintao è stata una conferenza stampa in «stile cinese». «Ciascuno ha letto il suo discorso preparato, guardando l'altro in silenzio. E nessuna domanda». Stati Uniti e Cina «non sono mai stati così vicini», ma «con la forma e anche la sostanza dei rapporti sempre più alle condizioni cinesi», sebbene i consiglieri di Obama suggeriscano che «il loro approccio e il tono cortese fossero finalizzati a risultati di lungo termine».

Anche l'incontro stile "town-hall" di Obama con 500 studenti a Shanghai - dove il presidente ha toccato il tema dei diritti umani, definiti «valori universali», e della libertà d'espressione, dicendosi contrario alla censura di Internet - che la Casa Bianca aveva sperato potesse permettere al presidente di raggiungere i cinesi comuni, «è stato privato di spontaneità dalla coreografia scritta dalle autorità di Pechino». Un'analisi simile quella di ieri del Wall Street Journal, secondo cui allo scopo di non far esprimere il potenziale del carisma di Obama, i leader cinesi lo hanno ingabbiato «in una visita tra le più strettamente controllate che si ricordino, senza concedergli alcuna opportunità, data invece ai suoi predecessori, di arrivare direttamente al grande pubblico cinese». Totale assenza di contatto diretto con il pubblico, come dimostra l'incontro di Shanghai con 500 studenti, accuratamente selezionati - e persino «addestrati» - dal regime tra i quadri giovanili del partito, e non trasmesso in televisione.

Anche l'itinerario della visita, secondo fonti sia cinesi che americane, riferisce il WSJ, «è stato aspramente conteso da ambo le parti». La Casa Bianca avrebbe voluto un'occasione «per far brillare la personalità telegenica di Obama» e ha chiesto maggiori libertà, ma le autorità cinesi hanno resistito, temendo il paragone con la classe politica cinese. Durante la visita in Cina del 1998, il presidente Clinton, ricorda il WSJ, ebbe quattro occasioni per parlare direttamente ai cinesi, tra cui un'intervista in diretta tv senza censure e discorsi agli studenti. Anche George W. Bush, nel 2002, parlò di libertà politica e religiosa agli studenti cinesi, ma al contrario di questa volta l'incontro fu trasmesso sulla televisione nazionale.
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Tuesday, November 17, 2009

Commissariare la democrazia? Si può, secondo Ingroia e Scarpinato

Su il Velino

«Quella di Palermo è una procura normale, o una sorta di tribunale supremo della rivoluzione giudiziaria permanente?». Se lo chiede oggi Maurizio Crippa su Il Foglio. Purtroppo non è un interrogativo retorico o capzioso, considerando certe tesi, recenti e passate, di alcuni suoi procuratori e i processi che hanno condotto o stanno conducendo. In un recente convegno organizzato dall'Italia dei Valori, il procuratore aggiunto di Palermo Antono Ingroia ha attaccato le annunciate riforme del governo in materia di giustizia, sostenendo che nel nostro Paese c'è «un'emergenza democratica», che da decenni l'Italia sarebbe governata da chi fa affari con la mafia, da chi ha gli stessi obiettivi della mafia, cerca l'impunità come la mafia e vuole abbattere lo stato di diritto, depotenziando i pm con leggi come quella sulle intercettazioni, e che contro tutto questo occorra «ribaltare il corso degli eventi». Una frase estrapolata dal suo contesto, si è difeso il pm.

Ma è lo stesso Ingroia che insieme ad un altro procuratore di Palermo, Roberto Scarpinato (il pm del processo a Giulio Andreotti), firmava un articolo dal titolo "Un programma per la lotta alla mafia", pubblicato sulla rivista MicroMega n. 1/2003 (numero che raccoglieva in tutti gli ambiti programmi di governo alternativi al governo Berlusconi), in cui sosteneva la necessità di «un'istanza politica superiore» che in determinate circostanze - di «collegamenti» con la mafia, o «condizionamento» da parte di essa, di elementi di un governo eletto - avesse il compito «di sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica, al fine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza».
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P.S. Significative - e inquietanti - anche le tesi espresse più di recente in questo convegno organizzato da Magistratura Democratica.

Monday, November 16, 2009

Dalla Fao un vero schiaffo alla miseria

Roma deve sopportare per tre giorni questo circo di ipocrisia e vanità messo su da una delle più screditate organizzazioni internazionali che si siano mai viste: la Fao. Invece di chiedersi dove siano finiti, e cosa ne sia stato fatto, tutti i miliardi di dollari che la Fao ha preso e gestito in ben 64 anni di vita, visto che il problema della fame nel mondo non solo non accenna ad attenuarsi, ma si aggrava, assistiamo ai soliti appelli sdegnati, alla solita questua (44 miliardi di dollari per cancellare istantaneamente - vogliono farci credere - l'incubo della fame dalla faccia del pianeta), le solite tirate demagogiche sugli aiuti alle banche e sui consumi nei Paesi ricchi. Si calcola fino all'ultimo centesimo quanta spesa alimentare le famiglie nei Paesi ricchi gettano nella spazzatura, come se quella mozzarella rimasta in frigo per troppi giorni, o quel mezzo piatto di pasta in più potessero essere impacchettati e immediatamente spediti dall'altra parte del mondo (sarebbe bello - e facile!). Ma nessuno che metta sul banco degli imputati la stessa Fao e innanzitutto i governi di quei Paesi in cui si muore di fame nonostante tutti gli aiuti.

L'atto d'accusa nei confronti dell'avidità e del modello capitalistico del mondo ricco serve a nascondere le terribili responsabilità di regimi corrotti e criminali, di capi di Stato che affamano i loro popoli e vengono accolti con tutti gli onori a Roma, ai vertici Fao, per l'ennesima predica. Il vertice di quest'anno sarà ricordato per la passerella delle "lady dittatura": riempiono le prime pagine dei giornali, tra le altre, la signora Ahmadinejad, la signora Mugabe, la signora Ben Alì e la signora Mubarak. Tutta la demagogia e l'ipocrisia possibile e immaginabile, purché non si discutano né l'evidente fallimento di un modello di aiuto ai Paesi poveri, né i privilegi di cui godono i funzionari Fao. Primo tra tutti lo stesso Jacques Diouf, alla guida dell'organizzazione dal 1993, che avrà pure qualche responsabilità nei fallimenti e nelle comprovate inefficienze di questi ultimi sedici anni. In questi vertici la Fao dovrebbe innanzitutto riflettere su se stessa e rendere conto ai suoi contribuenti di quanto e come spende.

UPDATE: Ecco quanto, e come, spende la Fao (da il Velino)

Wednesday, November 11, 2009

Quanto ci costa l'"ingiustizia" italiana

I nostri pm ci costano il doppio che ai francesi. E le sentenze? Un miraggio

Su il Velino

Mentre la maggioranza si appresta a presentare in Senato il disegno di legge per il processo breve, che dovrebbe prevedere una durata massima dei processi di sei anni fino al terzo grado di giudizio, la giustizia sembra essere al centro delle cronache e del dibattito politico come problema personale del premier, e non per la crisi in cui versa nel nostro Paese. Crisi i cui emblemi sono lo spropositato numero, quasi 9 milioni, di procedimenti pendenti (5.425.000 civili e 3.262.000 penali) e la loro durata media (960 giorni per il primo grado e 1509 giorni per il giudizio di appello nel civile; 426 giorni per il primo grado e 730 per il grado di appello nel penale). Sono questi alcuni dei dati più impressionanti forniti dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, nell'ultima relazione al Parlamento sullo stato della giustizia.

Eppure, come vedremo, le lievi differenze nell'entità della spesa pubblica destinata alla giustizia, nel numero dei tribunali, dei giudici, dei procuratori, e del personale non togato e tecnico-amministrativo, rispetto agli altri grandi Paesi europei paragonabili all'Italia per ricchezza, popolazione e cultura giuridica, non giustificano un divario così abissale nel numero dei procedimenti pendenti e nella loro durata. Anzi, per molti aspetti impieghiamo anche molte più risorse degli altri, ma la "produttività" del sistema è lontana anni luce.
(...)
Da molte parti si lamenta la scarsità di risorse, ma come dimostrano i dati, relativi all'anno 2006, del secondo rapporto CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice) sul funzionamento e la valutazione comparata dei sistemi giudiziari europei, l'Italia non si discosta dagli altri grandi Paesi membri dell'Ue per il numero di risorse umane e materiali impiegate dallo Stato per l'amministrazione della giustizia. Anzi, per la pubblica accusa spende di più... Secondo la stima del rapporto CEPEJ, spendiamo per il nostro sistema giudiziario 4,08 miliardi di euro, contro i 3,35 della Francia e i 2,98 della Spagna. Spendono più di noi, in valore assoluto, Germania (8,73 miliardi) e Gran Bretagna (6,07 miliardi). In queste spese però sono inclusi i fondi per il patricinio legale gratuito, per il quale spendiamo meno di tutti. Solo 86,5 milioni l'anno. La Germania spende oltre 6 volte di più, la Francia quasi quattro volte di più e la Spagna il doppio di noi. Per non parlare della Gran Bretagna, che dedica all'assistenza legale oltre la metà del suo budget per la giustizia (3,35 miliardi su 6,07).

Tolta la spesa per il patrocinio gratuito, emerge quindi che l'Italia spende meno solo della Germania. Ma scorporando le varie destinazioni della spesa tra corti, pubblica accusa e patrocinio gratuito, emerge anche che ai procuratori italiani va una spesa di 1,33 miliardi di euro, il doppio rispetto ai 670 milioni che spende la Francia per i suoi pm.
LEGGI TUTTO (articolo molto lungo)

Tuesday, November 10, 2009

Obama come un disco rotto con l'Iran

Come un disco rotto la Casa Bianca continua a chiedere a Teheran una risposta in tempi brevi (nel frattempo sono passate quasi due settimane) alla bozza di accordo preparata dall'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero. L'aspetto surreale, e un po' patetico, della vicenda è che una risposta, anche se negativa, gli iraniani l'hanno già data, a tutti i livelli, ma da quest'altra parte fanno finta di non aver sentito/capito. Può non piacere, ma la risposta è un "no". Più precisamente, l'Iran offre controproposte che nella sostanza rifiutano di concedere ciò che l'Occidente sperava di ottenere con la proposta dell'arricchimento all'estero: privare Teheran della quantità di uranio a basso arricchimento necessaria per, se ulteriormente arricchito, fabbricare una bomba atomica. Si trattava di prendersi un anno di tempo per cercare, poi, un accordo complessivo. Questo retroscena del New York Times descrive piuttosto lo stato di negazione che impedisce all'amministrazione Obama di prendere la risposta iraniana per quella che è.

Il "no" iraniano ha sorpreso anche me. L'accordo non mi sembrava molto sconveniente per Teheran, visto che in un anno si sarebbero visti riconsegnare uranio arricchito gratis al 19,75%, che fa sempre comodo, potendo tranquillamente riprodurre le stesse quantità spedite all'estero per tornare al livello di scorte pre-accordo e per di più scongiurando ulteriori sanzioni. Evidentemente, ci devono essere ragioni di opportunità politica interne al regime che suggeriscono a Khamenei e Ahmadinejad di declinare comunque l'offerta. Forse il regime per sopravvivere non può permettersi di dialogare, neanche per finta, con il "Grande Satana", la cui minaccia è ingrediente fondamentale del collante ideologico che tiene insieme il sistema.

Alcuni autorevoli giornali ancora incantati dal fascino di Obama, come il New York Times e il Washington Post, hanno provato a sostenere, in realtà in modo poco convincente, che per lo meno l'apertura Usa e l'offerta dell'Aiea hanno creato un dibattito e persino delle divisioni all'interno della leadership iraniana. Un'ipotesi che un attento osservatore come Meir Javedanfar smentisce agilmente.

Di certo l'Iran sta dimostrando di non essere affatto disponibile a dialogare seriamente sul nucleare, come molti - soprattutto tra i cosiddetti "realisti" - pensavano. Si è perso un anno per soddisfare la curiosità di Obama, il quale adesso però può ancora volgere a suo vantaggio questa perdita di tempo, dimostrando alla comunità internazionale di aver dato una chance concreta alla diplomazia ma che ora è giunto il momento di agire. Certo, dovrà riconoscere che i suoi poteri da ammaliatore non hanno funzionato, ma speriamo che non pecchi d'orgoglio e che sia così pragmatico da cambiare strategia. In fretta, possibilmente.

Purtroppo, le sue ultime dichiarazioni inquietano, perché sembra che ritenga di poter aspettare ancora chissà quanto tempo: «Ci vorrà tempo, e parte dei problemi che dobbiamo affrontare consiste nel fatto che né Corea del Nord, né Iran sembrano politicamente pronti ad assumere decisioni rapide» sui rispettivi programmi nucleari. Il presidente francese Sarkozy e quello russo Medvedev sono sembrati più fermi, ricordando a Teheran che «la pazienza della comunità internazionale non è infinita». E i due leader, anche quello russo, «non hanno escluso» la possibilità di ulteriori sanzioni.

Perché sperare ancora contro Max

Ieri, nel primo pomeriggio, una vecchia conoscenza, il "capò" Martin Schulz, piazzava una mossa furba, dichiarando alle agenzie di stampa che ormai il gruppo dei Socialisti e dei Democratici considerava «definitiva» l'indisponibilità di David Miliband, facendo così decollare le quotazioni di Massimo D'Alema per il posto di ministro degli Esteri Ue. Non era così, nel senso che il gruppo può pensarla come crede, ma Miliband non si era affatto ritirato dalla corsa. Forse non ci è ancora mai entrato, ma è tutt'altra cosa. In tarda serata arrivava infatti la doccia fredda. Il primo ministro britannico, Gordon Brown, durante la cena dei leader europei riuniti a Berlino per le celebrazioni del ventennale della caduta del Muro, fa il nome del suo ministro degli Esteri. Lo stesso Miliband, contraddicendo quanto diffuso poche ore prima da Schulz, avrebbe spiegato di non essersi mai ritirato ma di considerarsi in «stand-by».

In realtà, i nomi di Blair per la presidenza o, in alternativa, di Miliband per gli Esteri, rimangono ancora sul tavolo. Brown punta ancora su Tony Blair («il premier sostiene ancora al 100 per cento la candidatura di Blair», ha ribadito il suo portavoce), sostenendo, di fronte all'opposizione dei socialisti europei, che la scelta spetta ai governi e non ai partiti. La candidatura dell'ex premier britannico alla presidenza quindi non è ancora tramontata del tutto, ecco perché Miliband rimane al coperto. Berlusconi durante la cena ha sì sostenuto la candidatura di D'Alema, ma in seconda battuta, se tornasse l'ipotesi Blair per la presidenza, agli Esteri sarebbe pronto ad avanzare quella di Franco Frattini (in quota Ppe).

La mia sensazione/speranza - che appunto mi fa sperare ancora di non vedere D'Alema rappresentare la politica estera e di sicurezza dell'Ue - è che per una serie di ragioni uno tra presidente e ministro degli Esteri Ue debba essere un inglese. Non perché è Londra a pretenderlo, ma perché è l'Ue che non può permettersi un doppio schiaffo alla Gran Bretagna. A maggior ragione considerando scontata la vittoria dei conservatori alle elezioni della primavera prossima, ancor più euroscettici dei laburisti, a Bruxelles c'è bisogno di qualcuno che sappia trattare con Londra, che riesca a tenere dentro il sistema la Gran Bretagna.

Monday, November 09, 2009

1989-2009. Venti di libertà

Ma non fu una vittoria di tutti

No, non so dirvi dove fossi, o cosa facessi quel 9 novembre del 1989, quando il Muro venne giù. Posso dirvi che ricordo quelle immagini in tv, che ero ancora piccolo ma non così piccolo da non capire cosa stava succedendo. E poiché alcune semplici idee su ciò che accadeva là fuori, nel mondo, anche a migliaia di chilometri di distanza dalla mia vita quotidiana, le avevo maturate, compresi che stavamo vincendo. Noi, non loro. Noi, non tutti. Perché il più grande errore che si può fare, e che comprensibilmente si fa ancora oggi, parlando della caduta del Muro, è non ricordare che c'erano un Noi e un Loro. E allora erano già concetti ben presenti nella mia mente, oltre che nel mio stomaco. Noi stavamo vincendo, loro stavano perdendo. Noi eravamo quelli che credevano nel mondo libero, negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale, e nel modello politico ed economico che ancora oggi rappresentano. Loro - molti di quali anche in mezzo a noi - credevano nella sua negazione, nell'antitesi di tutto questo.

E quando ripenso a quel giorno, quando rivedo quelle immagini, mi tornano alla mente due dei più bei discorsi mai pronunciati in tutto il secolo scorso. E alcuni passaggi molto noti in particolare. Quando il 26 giugno 1963 il presidente John F. Kennedy disse «Oggi, nel mondo libero, il più grande vanto è dire Ich bin ein Berliner», ma anche il meno ricordato «La libertà ha molte difficoltà e la democrazia non è perfetta. Ma non abbiamo mai costruito un muro per tenere dentro i nostri - per impedirgli di andarsene». E quando il 12 giugno 1987 il presidente Ronald Reagan diede voce a tutti i cittadini tedeschi esclamando «Mr. Gorbachev, tear down this wall!». Al di là della loro forza simbolica, si tratta di due discorsi particolarmente significativi dal punto di vista politico, perché non esprimono la voglia di distensione, di convivenza pacifica con la tirannia, né una strategia di contenimento e deterrenza. No, da essi traspira la convinzione - che fu di pochi soprattutto nei primi anni '80 - che fosse possibile prevalere nella sfida contro l'Unione sovietica senza sparare un colpo o quasi.

L'improvvisa caduta del Muro colse molti – quasi tutti – di sorpresa, e quasi nessuno si aspettava che di lì a poco quel muro si sarebbe portato dietro quel che rimaneva dell'intero impero sovietico e che l'Urss si sarebbe addirittura disciolta come neve al primo sole della primavera. Ma è ciò che accadde, e anche se all'epoca i leader americani non poterono dirlo - per non irritare Mosca, con il rischio di far prevalere l'ala dura e scatenare una reazione violenta a quegli eventi - la Guerra Fredda non finì per caso, o per scelta da parte dei sovietici, ma si concluse con una vittoria completa di una parte sull'altra. Oggi questa "lezione" rischia di essere completamente dimenticata nei confronti di regimi ben più deboli di quanto fosse allora l'Urss. E' questo ciò che mi sta più a cuore sottolineare a vent'anni dal 9 novembre del 1989: ci fu una parte che uscì sconfitta e ci furono alcuni leader, al di là delle famiglie politiche di appartenenza, che si fecero guidare dalla visione giusta. Ma fu Reagan, negli anni '80, l'unico a perseguire lucidamente la fine dell'Unione sovietica, anche contro il parere dominante nell'establishment.

Purtroppo non vedremo partecipare alle celebrazioni per il ventennale della caduta del Muro il primo presidente americano nero, Barack Obama, che giorni fa ha giustificato la sua assenza con i preparativi per la partenza - solo due giorni dopo, l'11 novembre - alla volta dell'Asia per un'importante missione. Dobbiamo pensare che alla Casa Bianca non ci sia nessuno che possa fargli i bagagli...? Battute a parte, il presidente che ha trovato il tempo di andare a Copenhagen a sostenere la candidatura della sua città, Chicago, per le Olimpiadi del 2016; e che andrà di persona ad Oslo a ricevere quel Premio Nobel per la Pace che a molti è sembrato a dir poco prematuro; ma soprattutto il presidente che in qualche modo incarna l'essenza dei valori americani contrapposti a tutto ciò che il Muro di Berlino rappresentava, non ci sarà. E' vero, ormai ci siamo così tanto abituati, soprattutto i più giovani, a vedere la Germania, e Berlino, unite, che ci sembra quasi impossibile che sia esistito un tempo lungo quasi quarantacinque anni in cui sono state divise. Ma in definitiva no, l'assenza di Obama è ingiustificabile e va sottolineata. Quale reale impedimento può far mancare il presidente della nazione leader del mondo libero ad una ricorrenza ancora oggi così ricca di significato?

Il '900 non è stato solo un secolo pieno di incubi, ma Obama sembra comportarsi come se la storia fosse iniziata dal 2000. Perché non sembra interessato a celebrare una vittoria che appartiene al suo Paese almeno quanto ai tedeschi? Una vittoria che in definitiva non è solo una vittoria di Reagan o di qualche "falco" conservatore, ma anche di democratici come J. F. Kennedy e Harry Truman? Obama si è già recato una volta a Berlino, durante la campagna elettorale, ma per sedurre gli europei, per parlare di sé, non del Muro o dei valori che hanno trionfato con la sua caduta. Andando a Berlino e pronunciando la famosa frase "Ich bin ein Berliner", Kennedy disse tutto ciò che c'era da sapere su di sé e la sua amministrazione. Il sospetto è che anche Obama, con la sua assenza oggi a Berlino, ci stia dicendo tutto sulla sua.

Friday, November 06, 2009

Il problema di D'Alema si chiama D'Alema

Fanno cadere le braccia, sono insopportabili, editoriali come quello di oggi di Mario Calabresi, dove tutte le argomentazioni sono piegate in funzione del mero posizionamento politico, direi persino personale dell'autore. Solo alla fine dell'editoriale si comprende dove vuole andare a parare con le sue arrampicate sugli specchi. In breve, distorcendo di qua, enfatizzando di là, Calabresi vuole dire che se D'Alema non dovesse riuscire a diventare ministro degli Esteri dell'Ue sarà a causa della «diffidenza americana» nei confronti dell'Italia (e non, caso mai, di D'Alema, che per l'impegno in Kosovo e per l'Unifil agli occhi di Calabresi passa per affidabile filoamericano, non curandosi di tutto il resto). E chi, secondo Calabresi, ha provocato questa «diffidenza» che ora si starebbe per ritorcere contro l'innocente D'Alema? Berlusconi, ovviamente, e indirettamente anche George W. Bush, con il suo uso della extraordinary rendition, che ha "costretto" il tribunale di Milano a condannare gli agenti Cia coinvolti nel caso Abu Omar, irritando così l'amministrazione Obama. E' colpa di Bush, è il contorto ragionamento di Calabresi, se oggi alla Casa Bianca sono «delusi» dall'Italia e per punirci ostacolano la nomina di D'Alema a Bruxelles.

Pazienza se questa pratica è stata introdotta da Clinton, e se Obama ha già deciso di continuare ad avvalersene. Certo, le condanne di Milano aprono un «capitolo spinoso» per Obama, che non può permettersi di avere in giro per l'Europa e per il mondo agenti timorosi e poco motivati. Ma il problema non è forse la procura di Milano, che ha testardamente continuato la sua crociata contro la guerra al terrorismo di Bush anche quando è emerso chiaramente che gli agenti Cia operavano con la piena collaborazione, e sotto la responsabilità, delle autorità italiane ai massimi livelli? Calabresi condanna «i comportamenti illegali dell'amministrazione guidata da Bush e Cheney», mentre con grande faccia tosta celebra l'America di Obama che «si impegna a non violare più i diritti civili in nome della sicurezza», quasi sorvolando sul fatto centrale che le extraordinary rendition continueranno anche con Obama.

Il procedimento, dovuto da parte della magistratura milanese, avrà «ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi», secondo Calabresi, che punta l'indice sul comportamento «confuso e ingiusto» della politica italiana. La Cia si muoveva all'interno di un quadro concordato con le autorità italiane nell'ambito della lotta al terrorismo, come dimostra il segreto di Stato opposto sia dal governo Berlusconi che dal governo Prodi. Incurante di questo non piccolo particolare - poiché in Italia vige l'obbligatorietà dell'azione penale, che si trasforma in arbitrio delle procure, le quali non rispondono ad alcuno del loro operato - la Procura è andata avanti. Ma a Washington sanno bene che il governo non può nulla sul potere giudiziario e saranno grati al governo che non inoltrerà mai richieste di estradizione. Dunque, quello della sentenza di Milano non è un colpo inferto ai rapporti politico-diplomatici tra Roma e Washington, quanto semmai alla collaborazione tra intelligence e forze dell'ordine nella lotta al terrorismo, e rende sia loro che noi un po' meno sicuri, come spiega il Wall Street Journal.

Non poteva mancare, poi, un riferimento alle divergenze tra Italia e Usa sui nostri rapporti con la Russia e la Libia. Ma si dimentica da un lato che è stato proprio Obama a spingere il famoso pulsante di "reset" con Mosca, dall'altro, che i rapporti tra Usa e Libia si sono ormai normalizzati. Riguardo il sostegno italiano ai progetti di gasdotti russi (North e South Stream) anziché al Nabucco, non si dimentichi che siamo in buona compagnia in Europa. Insomma, al di là del merito delle politiche del nostro governo (comunque bipartisan, avallate a suo tempo anche da D'Alema), si tratta di divergenze a mio modo di vedere spesso enfatizzate dai media. Non so se D'Alema ce la farà o no, né se Washington eserciterà delle pressioni contro questo o quel candidato (non credo proprio), ma una cosa è certa: come ha spiegato bene l'ambasciatore polacco a Bruxelles ieri, il problema di D'Alema si chiama D'Alema, il suo passato comunista e il suo record antiamericano e anti-israeliano, filo-arabo, filo-Hezbollah e filo-Hamas.

Contributo interessante invece è quello scritto a quattro mani da Emma Bonino e Marta Dassù per il Corriere della Sera, sul futuro delle relazioni transatlantiche. Avvertendo come un pericolo «lo spostamento degli equilibri globali verso l'asse transpacifico a spese di quello transatlantico», il cosiddetto G2 Usa-Cina, la tesi di Bonino-Dassù è che «gli europei abbiano ancora delle carte da giocare per restare nel gioco - se solo volessero. Se solo volessero, insomma, guardare a un G3». In fin dei conti, «l'area economica transatlantica resta, per ora, l'area più vasta, più ricca e più integrata del mondo», l'Europa è ancora una «potenza commerciale» e l'euro è forte, quindi «un G3 economico non è impossibile da immaginare».

Eppure per gli Stati Uniti, e per Obama (il primo presidente Usa «postatlantico»), l'Europa è sempre più marginale, rischia di ridursi a potenza regionale, magari legata a un rapporto preferenziale con la Russia. E' questo il rischio da scongiurare. E qui entra in gioco un rapporto dello European Council on Foreign Relations, secondo cui agli Usa di un'Europa «in ordine sparso non gli importa granché», non sanno che farsene. Per riconquistare le attenzioni e l'interesse di Washington serve un'Europa «post-americana», «l'Europa - così sintetizzano Bonino e Dassù - riuscirà a maturare, come attore internazionale, solo emancipandosi da un rapporto ancora troppo subalterno con l'altra sponda dell'Atlantico». Dunque, «l'autonomia come condizione per la rilevanza. E la rilevanza come condizione per salvare un'alleanza occidentale che dovrà essere meno squilibrata - e quindi più utile agli Stati Uniti - o non sarà più».

«D'accordo a grandi linee e in parte», si dicono Bonino e Dassù. E' vero, come osservano, che alcuni degli assunti sono discutibili (viviamo davvero in un mondo «post-americano»?), ma soprattutto si chiedono: «Si può dare per scontato che l'Europa non abbia più bisogno, in termini di sicurezza, della protezione americana?». Ma a me pare - da quanto riportano le due autrici, perché non ho letto il rapporto dell'ECFR - che proprio questo si chieda all'Europa: è finita da tempo l'epoca della Guerra Fredda, deve mettersi in grado di proteggersi da sola, senza l'aiuto dello zio Sam. Ciò significa meno assistenzialismo, meno welfare, e più spesa militare. Si può essere d'accordo o meno con questa richiesta, ma non far finta che non sia questa la questione sul tappeto se vogliamo avere un ruolo come Europa sulla scena mondiale futura. Altrimenti, possiamo decidere che ci va bene essere una potenza regionale dipendente dagli Usa, ma in questo caso scordiamoci di evitare un futuro da ruota di scorta.

«Come invito a pensare senza troppi tabù - ammettono Bonino e Dassù - il punto di partenza che ci viene sottoposto è utile». Ma non è solo utile, è anche il punto di arrivo: sia con Bush che con Obama gli Usa si sono stufati di un'Europa che chiede protezione, delega sui temi della sicurezza, vuole sentirsi «speciale», e poi si permette anche di criticare e fare la morale agli Usa. Poteva andar bene durante la Guerra Fredda, ma ora non più. L'Europa deve assumersi le proprie responsabilità se vuole che il rapporto transatlantico abbia un futuro. E ciò significa, care Bonino e Dassù, unione politica e spesa militare.

Thursday, November 05, 2009

Iran, i leader "per caso" del movimento verde

Mentre il regime usa il "diversivo" dei negoziati sul nucleare

Nonostante divieti e minacce, ieri il movimento di opposizione iraniano è tornato a protestare nelle strade. Ma lo ha fatto in un giorno particolare, il 4 novembre. L'anniversario - il trentesimo - dell'assalto all'ambasciata americana di Teheran, celebrato come sempre con un comizio di piazza convocato dal regime da cui si sono levati i soliti slogan antiamericani («Morte all'America»), quest'anno si è trasformato in un'occasione di protesta contro il regime, nelle persone della Guida Suprema Khamenei e del presidente Ahmadinejad. Un nuovo, palese sintomo della loro debolezza e della perdita di autorità dopo le contestate elezioni del 12 giugno scorso. Grandi manifestazioni hanno preso vita non solo a Teheran, ma anche in altre importanti città come Shiraz, Isfahan, Tabriz, Kermanshah, Zahedan, Arak, Mazandaran e Rasht. Foto e video sui blog dei dissidenti testimoniano la folla e la repressione ancora una volta violenta da parte dei pasdaran e dalla milizia Bassiji, con arresti, pestaggi e spari sui dimostranti.

Un'altra giornata di imbarazzo per il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, stretto tra l'esigenza di non mostrarsi insensibile alle manifestazioni di piazza ma anche di tenere aperta la porta del dialogo con la leadership della Repubblica islamica sul programma nucleare: «L'Iran deve scegliere. Per trent'anni - ha dichiarato ieri Obama - abbiamo ascoltato a cosa il governo iraniano è contrario; ora, il problema è quale tipo di futuro vuole. Il popolo americano ha grande rispetto per il popolo dell'Iran e la sua ricca storia. Il mondo continua ad essere testimone della sua richiesta di giustizia e della sua coraggiosa ricerca di diritti universali. E' tempo per il governo iraniano di decidere se vuole concentrarsi sul passato, o se fare quelle scelte che apriranno la porta a una maggiore opportunità, prosperità e giustizia per il suo popolo».

Ma ha anche aggiunto che gli Stati Uniti «cercano una relazione con la Repubblica islamica basata sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto» e che non intendono «interferire negli affari interni» iraniani. Il movimento di opposizione sembra percepire la difficoltà in cui si barcamena Obama, e a sua volta, a suo modo, gli chiede di decidere: «Obama, Obama, o stai con noi o contro di noi!», hanno gridato ieri i dimostranti in piazza, insieme ad altri slogan significativi come «Morte al dittatore», «Khamenei assassino, la sua leadership è finita», «Ambasciata russa covo di spie» (un'accusa rivolta dal regime a quella americana) e, infine, anche «l'Iran verde non vuole una bomba atomica».
The regime is using the Obama administration’s overweening desire to talk - and refusal to take "no" for an answer - as a way of deflecting any international pressure regarding its domestic crackdown. And the regime's strategy is succeeding. The longer the Obama administration plays this game, the more time the regime will have to crush its opponents while the West looks on in self-imposed impotence. Unpleasant as it may be for the president to hear, his policy is objectively aiding the Tehran regime and harming the opposition in their ongoing struggle. The chanters are right. The United States can either be with them or against them. Right now, President Obama is against them. But it’s not too late for him to switch sides.
Robert Kagan
I negoziati sulla bozza dell'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero sono in una situazione di stallo, dopo la non risposta da parte di Teheran, che chiede modifiche sostanziali che eluderebbero ciò che l'Occidente cerca di ottenere dall'accordo, e dopo la recente chiusura di Khamenei. Per Ray Takeyh, studioso del Council on Foreign Relations, il regime sta usando i negoziati sul nucleare come «diversivo» e l'amministrazione Obama è «alle prese con l'enigma» iraniano dovendo «bilanciare le sue preoccupazioni per la proliferazione nucleare con le sue responsabilità morali» di fronte alle violazioni dei diritti umani. La protesta per la rielezione di Ahmadinejad è tutt'altro che sopita e il regime «vede il dialogo sul programma nucleare come un mezzo per mettere a tacere le critiche che il suo comportamento interno meriterebbe». L'Iran, prevede Takeyh nella sua analisi per il Washington Post, «cercherà senza dubbio di prolungare i negoziati accettando, e poi rigettando, gli accordi pattuiti e offrendo innumerevoli controproposte».

Gli Stati Uniti e i loro alleati devono decidere come reagire dinanzi a questa tattica «che nasce dal cinico desiderio di porre un freno all'opposizione impunemente». L'attenzione internazionale, osserva Takeyh, rimane concentrata sul programma nucleare, ma «lontano dal clamore la struttura e l'orientamento delle Guardie rivoluzionarie stanno cambiando», il regime sta rafforzando la propria «infrastruttura repressiva». Negli ultimi mesi, gli ex candidati dissidenti Karroubi e Mousavi «sono stati minacciati di arresto», le università sono state oggetto di «campagne di purificazione», gli attivisti della società civile condannati sulla base di processi-farsa. E' stata mobilitata «la macchina statale per una spietata purga» all'interno del sistema.

Nel tentativo di ristabilire la sua presa sul Paese, il regime «si muove ancora una volta in modo contraddittorio», spiega Takeyh: da una parte accusa gli oppositori di essere agenti dell'Occidente, dall'altra si mostra disponibile al dialogo con le potenze straniere. Così Teheran «si offrirà sporadicamente di discutere del nucleare per stimolare l'appetito delle potenze occidentali... nella speranza che un prolungato e inconcludente processo negoziale» le induca ad abbandonare il loro atteggiamento critico e le ipotesi di nuove sanzioni. Secondo lo studioso del Council on Foreign Relations, l'errore in cui l'Occidente ha perseverato nel trattare con l'Iran è stato porre il tema del nucleare al di sopra di ogni altro.

Il problema iraniano «non è limitato alle attività nucleari illecite, ed è incomprensibile che gli Stati Uniti e le altre nazioni possano concepire transazioni sul nucleare con un regime che mantiene legami con una vasta gamma di organizzazioni terroristiche e che attua una repressione interna brutale». L'ala dura del regime, conclude Takeyh sul Washington Post, «deve sapere che il prezzo per una simile condotta può essere la fine di qualsiasi dialogo con l'Occidente. Solo con una politica simile gli Stati Uniti possono perseguire i loro obiettivi strategici allo stesso tempo non rinunciando ai loro valori morali».

Dopo quasi sei mesi dalle proteste per la rielezione di Ahmadinejad e la brutale repressione, il movimento verde è forte «come non mai», come hanno dimostrato le manifestazioni di ieri. Ma chi sono i suoi leader? Se lo chiede Mehdi Khalaji, analista del Washington Institute for Near East Policy. La sua tesi, esposta in un articolo per Foreign Policy, è che Mousavi, Karroubi e Khatami si siano ritrovati quasi «per caso, e loro malgrado», come «leader simbolici» del movimento di protesta, in realtà mantenendosi a una debita distanza. Più che guidare la piazza, la inseguono cercando di cavalcarla ma anche temendola. Questi leader «apparenti» sono tutti ex funzionari di alto livello della Repubblica islamica, ricorda Khalaji, che «vorrebbero mantenere in vita molta parte di essa», mentre «i dimostranti mirano a far cadere l'intero sistema di cui i loro leader fanno ancora parte».

«Nonostante siano lodati come modernizzatori», Mousavi e i suoi due colleghi «sono profondamente leali agli ideali dell'ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, e sostengono un sistema politico teocratico». Loro sono leader riformisti, mentre il popolo è «sovversivo». Se Mousavi fosse diventato presidente, sostiene Khalaji, non avrebbe modificato la posizione dell'Iran sul nucleare, o la sua politica estera, limitandosi ad introdurre riforme economico-sociali, e non politiche, all'interno dei principi della Repubblica islamica. «Come sono arrivati questi moderati alla guida di una rivoluzione? Per caso», secondo Khalaji, perché - spiega - erano gli unici cui il regime aveva permesso di candidarsi in alternativa alla rielezione di Ahmadinejad, ma nessuno di loro aveva previsto che dalle proteste di massa a seguito delle elezioni presidenziali del 12 giugno sarebbe sorto un movimento popolare.

Questi apparenti leader hanno avuto «un ruolo minore sia nella nascita che nell'organizzazione del movimento, ma sono stati catapultati alla sua testa da un'ondata spontanea e improvvisa», spiega l'analista del Washington Institute for Near East Policy. La differenza tra i leader dell'"Onda verde" e la gente nelle strade «si sta ampliando». «Mousavi e Khatami hanno ripetuto che il loro obiettivo è ritornare agli ideali di Khomenei e ai principi originali della Repubblica islamica», mentre «i manifestanti nelle strade sono consapevoli del fallimento delle riforme del passato e hanno poche speranze che la Repubblica islamica possa essere salvata». Essi ritengono che l'islamismo politico, l'esperimento di "democrazia islamica", sia ormai fallito e che sia tardi anche per un tentativo riformista calato dall'alto. L'ex presidente Khatami, in un recente discorso, riferisce Khalaji nel suo articolo, «ha cercato di distinguere i partecipanti alle attuali proteste, che rifiutano l'intero sistema esistente, e i suoi seguaci, che vogliono lavorare all'interno della struttura politica della Repubblica islamica».

«I veri leader di questo movimento, dunque - osserva Khalaji - sono studenti, donne, attivisti per i diritti umani e attivisti politici che non hanno alcun desiderio di operare in un regime teocratico, all'interno della cornice legale dell'attuale Costituzione». E il movimento di oggi, fa notare, è molto più ampio di quello riformista di Khatami degli anni '90, che non portò mai in strada più di 50 mila persone. «Ecco perché non solo il regime, ma anche i leader riformisti che pretendono di guidarlo, temono il successo del movimento verde. La democrazia in Iran - conclude Khalaji su Foreign Policy - emergerà solo attraverso una rottura con gli ideali di Khomeini e l'ideologia islamica, concetti ai quali i leader 'per caso' del movimento verde sono ancora leali».

Le procure in guerra contro la guerra al terrorismo

Su il Velino

Delusione e disappunto hanno espresso il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Ian Kelly, e un portavoce del Pentagono, per la condanna di 22 agenti della Cia e di un colonnello dell'aviazione Usa per il "rapimento" su territorio italiano del sospetto terrorista Hassan Mustafa Osama Nasr (Abu Omar). Una reazione che rivela il malcontento dell'amministrazione Usa, ma cauta, nella consapevolezza che il potere giudiziario in Italia è indipendente dal governo. Nessun danno, quindi, nei rapporti politici tra Roma e Washington, ma con ogni probabilità, anche se i condannati non sconteranno neanche un giorno di carcere, un colpo inferto alla cooperazione tra i due Paesi nella lotta al terrorismo. Duramente critico nei confronti della sentenza, per quanto riguarda questo aspetto, il Wall Street Journal. In uno dei suoi editoriali, dal titolo emblematico «La guerra contro la guerra al terrorismo», ricordando che il procuratore Armando Spataro «si è fatto le ossa dando la caccia alle Brigate rosse», definisce la condanna in contumacia degli agenti Cia «un'altra discutibile pietra miliare nella guerra giudiziaria contro la guerra al terrorismo».

(...) «a prescindere dai particolari, sarebbe un errore per le anime belle d'Europa rallegrarsi per le condanne di ieri». Infatti, «se gli agenti di intelligence americani non possono cooperare con le controparti europee senza temere di venire arrestati - avverte il WSJ - allora sia l'America che l'Europa sono meno sicure»... «Persone innocenti rischiano alla fine di pagare per la "vittoria" di Spataro».
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Tuesday, November 03, 2009

Altro che crocefisso, smascherato l'inganno della scuola statale

Levata di scudi praticamente unanime da parte del mondo politico per la sentenza della Corte europea dei diritti umani contro il crocefisso nelle aule. Della sentenza non mi scandalizza il merito, che anzi per lo più condivido: è ovvio che dal momento che la scuola è pubblica, l'ambiente educativo dovrebbe essere il più possibile neutro dal punto di vista della religione, come della razza, del sesso, eccetera. D'altra parte, c'è piena libertà di scegliere una scuola non neutra dal punto di vista religioso, optando per una scuola privata cattolica. L'equivoco quindi nasce dalla proprietà statale delle scuole, ma il discorso, più che per il crocefisso (il cui significato sembra davvero a cavallo tra il religioso e il nazional-popolare) dovrebbe valere per l'ora di religione, che al massimo dovrebbe essere storia delle religioni o religioni comparate.

Fin qui rimaniamo nell'ambito della discriminazione religiosa. Ma la sentenza, così come riportata dai siti d'informazione, non mi convince laddove cita il «pluralismo educativo» e «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni». Qui si apre un vero e proprio vaso di pandora, che ha ancora una volta a che fare con la proprietà e la natura statale della scuola. C'è davvero «pluralismo educativo» nelle nostre scuole statali, o è solo un mito che raccontiamo a noi stessi (o che ci viene inculcato), mentre in realtà viene esercitato un "monopolio educativo" da parte dell'insegnante che ti capita in sorte e che nessuna famiglia ha scelto? I genitori hanno certamente il diritto a educare i figli secondo le proprie convinzioni, ma dal momento che li affidano a una istituzione, in qualche modo accettano di porre dei limiti a quel diritto. Nel caso di una scuola privata, scelgono effettivamente secondo le proprie convinzioni. Nel caso di una scuola statale, vengono illusi dal mito del «pluralismo educativo». Perché - se la mettiamo su questo piano - io genitore dovrei accettare che mio figlio debba studiare storia sul Villari (che dovrei pure comprare con i miei soldi)?

Infine, sono rimasto non poco sorpreso dalla nazionalità dei sette giudici autori della sentenza: un belga, un italiano, ma anche un portoghese, un lituano, un ungherese, un serbo e un turco (!). Un turco che giudica sul crocefisso in Italia sembra un paradosso! E qui si apre una problematica ancora più ampia, quella della legittimazione della giurisdizione delle corti internazionali. Quanto è sopportabile, da un punto di vista liberale, che una simile giurisdizione sia fondata su dei trattati internazionali? Per altro, già la nostra Corte costituzionale si era espressa sul medesimo caso. Posso capire che se un ordinamento non vuole o non può esprimersi a tutela dei diritti dei cittadini (ciò che accade spesso nelle dittature), possa intervenire una corte sovranazionale. Ma rimango convinto che all'interno di un Paese democratico i cittadini debbano essere giudicati, e le controversie risolte, da giudici che derivano la loro autorità dalla comunità cui appartengono. La giurisdizione è una cosa delicata, non basta un trattato internazionale a legittimare un tribunale.

La versione di Marrazzo sempre più traballante

La posizione dell'ex governatore del Lazio nel procedimento che per ora lo vede "parte lesa" scricchiola sempre di più. Non mi stupirei se tra qualche giorno finisse nel registro degli indagati per calunnia, o addirittura per aver tentato di "comprare" i carabinieri che oggi sono accusati di averlo ricattato. Dopo le ammissioni di ieri, la sua versione collima sempre di più con quella dei militari incarcerati. Adesso sostiene di non aver subito un ricatto, ma una «rapina», e ammette di aver pagato non solo le prestazioni sessuali, ma «qualche volta» anche la cocaina, e che effettivamente, al momento dell'irruzione dei carabinieri, la droga si trovava all'interno dell'appartamento di via Gradoli. Fino a ieri Marrazzo aveva sostenuto che la droga non c'era, mentre ora ammette di averla pagata e di averne fatto uso. Nel primo interrogatorio, infatti, aveva sostenuto che la coca era comparsa con i carabinieri Luciano Simeone e Carlo Tagliente e che era sparita quando i due militari avevano lasciato l'appartamento. Praticamente li aveva accusati di aver introdotto la droga al momento dell'irruzione per incastrarlo. Un'accusa molto grave, che adesso ritratta. Con la transessuale Natalie aveva pattuito soltanto mille euro, il resto del denaro - racconta oggi - gli sarebbe stato «rubato» dai carabinieri, ma in precedenza aveva dichiarato che il prezzo pattuito per la sola prestazione sessuale era di 5 mila euro.

Innanzitutto, le ammissioni di Marrazzo (e qualcosa mi dice che non saranno le ultime) ridicolizzano i tentativi di questi giorni anche solo di accostare il suo comportamento con quello di Berlusconi nel caso D'Addario. Qui c'è acquisto e consumo di cocaina, assegni staccati per 20 mila euro, calunnie. E per ora fermiamoci qui.

Riepilogando: Marrazzo implora i carabinieri di «non rovinarlo», promette loro denaro e favori (è ciò che si sente, anche se confusamente, nel video). I carabinieri si sarebbero accontentati di rapinarlo di 5 mila euro in contati (il prezzo pattuito per la coca e per il sesso) e di tre assegni per 20 mila euro complessivi (che essendo tracciati avrebbero dovuto sapere di non poter incassare). Nessun ricatto: se ne sarebbero andati via senza farsi più vedere né sentire. Dunque, i carabinieri ricattano un personaggio potente come il governatore del Lazio, giocandosi la carriera e rischiando il carcere, per 5 mila euro da dividersi minimo in due? Mmh, mi sembra troppo anche per i carabinieri delle barzellette.

L'ipotesi più probabile è che al momento dell'irruzione Marrazzo se la sia fatta sotto e abbia farfugliato qualcosa per non venire sputtanato. Che, visti i quantitativi di droga, i carabinieri abbiano chiuso un occhio, magari sperando un domani che Marrazzo si ricordasse del favore, e che la vera possibilità di guadagno l'abbiano intravista dopo, insieme al loro "confidente", vendendo il video ai media. Ma aspettiamo gli sviluppi perché ancora molti aspetti rimangono oscuri.

Ma nel frattempo qualcosa si può concludere. «Mi è stato riservato un trattamento che non ha precedenti», ha avuto modo di lamentarsi Marrazzo per la gogna mediatica cui è stato sottoposto. E' vero. Il trattamento che gli è stato riservato non ha precedenti, ma per tutt'altro motivo. Se fosse stata la parola di un cittadino comune contro quella di due carabinieri, a chi avrebbero creduto i magistrati? Al cittadino comune che sorpreso nel mezzo di un festino a base di coca e trans accusava i carabinieri di averlo ricattato e/o rapinato? Chi si troverebbe oggi in carcere in attesa di fare luce sulla vicenda, i carabinieri o il suddetto cittadino comune?

Perché l'Europa deve correre il rischio di diventare una Lega araba che non parla arabo?

«Alla tavola europea, nel ruolo di guida della politica estera, non ci dovrebbe essere posto per chi passeggia a braccetto con i ministri di Hezbollah sulle macerie di Beirut per denunciare i crimini di guerra israeliani», scrive oggi Christian Rocca in un articolo su Il Foglio in cui ricorda le posizioni di D'Alema sulla questione palestinese, sugli ebrei, su Hezbollah e su Hamas, spiegando perché non è l'uomo giusto per quella «specie di ministro degli Esteri dotato di un corpo diplomatico autonomo e destinato a diventare la figura più importante dell'Unione, specie se il presidente non sarà Tony Blair, ma un grigio euroburocrate».

Chi si oppone alla candidatura di Blair obietta che «l'Europa ha bisogno di un amico di Obama, non di Bush», ma «chi non è amico di Obama sulle questioni decisive della politica estera, cioè su chi sono gli amici e chi i nemici, è D'Alema». Eppure, per un breve periodo, quando è stato presidente del Consiglio, è esistito un D'Alema diverso, ricorda Rocca. «In nome degli stessi valori di democrazia e libertà che oggi giudica un finto pretesto per chissà quali misfatti, il premier D'Alema liberava con le bombe e senza l'Onu il Kosovo, abbracciava Clinton e fondava centri studi con Blair. Quel D'Alema è durato lo spazio breve del governo con Cossiga e Mastella. Guido Rossi di quel D'Alema disse che aveva trasformato Palazzo Chigi in una "merchant bank che non parla inglese". Oggi D'Alema sa bene l'inglese, ma perché l'Europa deve correre il rischio di diventare una Lega araba che non parla arabo?».

Monday, November 02, 2009

Prendere tempo, il solo vero obiettivo di Teheran

Il ministro degli Esteri Mottaki dice che l'Iran non ha mai detto "no" alla proposta di arricchimento dell'uranio iraniano all'estero avanzata dall'Aiea. E' vero. La scorsa settimana al direttore dell'Aiea ha solo espresso un «parere» e «osservazioni», che però contraddicono nella sostanza la bozza di accordo. «Abbiamo preso in esame questa proposta, ma abbiamo alcune considerazioni tecniche ed economiche in merito», ha spiegato, proponendo una «commissione tecnica» per «riconsiderare tutte le opzioni». E' evidente che il tentativo di Teheran è impantanare le controparti in una lunga ed estenuante trattativa, non sui dettagli dell'accordo, ma sul punto centrale: il trasferimento all'estero in blocco delle proprie scorte di uranio a basso arricchimento.

I ministri degli Esteri di Gran Bretagna, Russia e Francia, e il direttore dell'Aiea, El Baradei, si sono fatti sentire, intimando a Teheran di dare una risposta «rapida». Il più fermo è stato il francese Kouchner, il quale ha avvertito che «non accetteremo tattiche dilatorie». E da Washington? Al momento in cui scriviamo (19:28 ore italiane) tutto tace. L'ambasciatore iraniano presso l'Aiea, Ali Asghar Soltanieh, ha quindi chiarito che l'Iran chiede nuovi colloqui per «esprimere le sue preoccupazioni tecniche, in particolare sulle garanzie di approvvigionamento del combustibile». E' questa la «questione chiave, vista la nostra sfiducia dovuta ad esperienze del passato». «Siamo pronti ad un nuovo ciclo di discussioni tecniche», ha quindi aggiunto Soltanieh, auspicando che possa tenersi «al più presto».

Sembra un dialogo tra sordi, con l'Iran che si comporta come se la bozza fosse trattabile, e le controparti che fingono di non aver avuto una risposta da Teheran. Nessuno vuole addossarsi la responsabilità di una eventuale rottura dei negoziati, quindi gli uni sostengono di non aver risposto "no", e di volere nuovi colloqui, nonostante le loro osservazioni corrispondano sostanzialmente a un rifiuto, mentre gli altri è come se non avessero udito e continuano a chiedere una risposta.

No, D'Alema no

Situazione "lose-lose" per Berlusconi

«Si tratta di valutare quale sia l'interesse nazionale prevalente: se per un incarico di così alto prestigio fosse indicato un italiano, Berlusconi ha già detto, e io confermo, che noi sosterremmo questa candidatura». La candidatura è quella di D'Alema ad Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'Ue (l'ex Mr. Pesc, per intenderci) e le parole sono quelle del ministro degli Esteri Frattini. Le ipotesi sono due. Nella prima, il governo sta solo facendo buon viso a cattivo gioco. Visto che ormai D'Alema è stato inserito nella lista dei candidati compilata dai leader socialisti, vuole mostrare un profilo istituzionale e bipartisan, ma in cuor suo spera che le chance di Massimo di farcela rimangano talmente basse da non trovarsi nell'imbarazzo di dover decidere se sostenerlo sul serio o meno. Nella seconda, Berlusconi sarebbe talmente ingenuo da credere che sponsorizzare davvero la candidatura di D'Alema (rinunciando a Tajani commissario - e pazienza - ma anche a Tremonti presidente dell'Eurogruppo o, in alternativa, a Draghi presidente della Bce) contribuirebbe a creare tra maggioranza e Pd un clima collaborativo sulle riforme istituzionali e della giustizia.

Sarebbe un'ingenuità sciagurata. D'Alema lo conosciamo. Se dovesse farcela, si scorderebbe presto dell'aiuto di Berlusconi e, complici la sua arroganza e la stampa "amica", la storia diventerebbe quella del grande statista riconosciuto a livello europeo: era il candidato perfetto... chi altri, se non lui, avrebbe potuto essere designato per quella carica? Se viceversa, come probabile, non dovesse farcela, ciò proverebbe lo scarso peso dell'Italia in Europa.

Ma un eventuale successo contribuirebbe almeno a svelenire il clima interno sulla figura di Berlusconi, favorendo un dialogo costruttivo tra maggioranza e Pd su riforme e giustizia? Nient'affatto, perché il Pd nemmeno con Bersani (e D'Alema) al comando riuscirebbe tornare titolare della guida dell'opposizione reale, che rimarrebbe appaltata a la Repubblica, ai magistrati e a Di Pietro, che continuerebbero imperterriti a intorbidire il clima, per di più accusando D'Alema e il Pd di inciucio. Bersani passerebbe i prossimi anni a convincere la Repubblica che non c'è stato nessun inciucio e addio a ogni possibilità di dialogo.

Tra l'altro, nel merito delle riforme la sinistra è come l'Iran sul nucleare: non ha nessuna intenzione di collaborare davvero, al massimo - se il clima lo consentirà, cosa improbabile - fingerà di essere disponibile a discuterne nelle commissioni, ma in chiave solo ostruzionistica. Il motivo è semplice. Per la sinistra è Berlusconi l'anomalia italiana; per il centrodestra è la magistratura politicizzata - a causa di un assetto squilibrato dei rapporti tra politica e giustizia e della scarsa terzietà e indipendenza del giudice dall'accusa - la vera anomalia. Finché la sinistra non smetterà di credere che sia Berlusconi la principale anomalia, e di voler avvantaggiarsi politicamente (cosa che tra l'altro non gli è quasi mai riuscita dal '94 in poi) dei suoi guai giudiziari, non ci sarà accordo possibile sulla giustizia.

Né c'è alcuna possibilità inoltre che si arrivi a riforme istituzionali approvate dal Parlamento con un quorum tale da evitare il referendum confermativo. Presidenzialismo o premierato rimangono tabù a sinistra e, tra l'altro, rispetto al Pd veltroniano Bersani e D'Alema si oppongono a un sistema tendenzialmente bipartitico, preferendo quello tedesco. Non vedo compromessi possibili. Se questo Paese avrà mai le riforme che aspetta, e di cui si parla da decenni, sarà con voto a maggioranza, confermato per referendum dagli italiani.

Infine - ma per chi legge questo blog è scontato e non ho bisogno di dilungarmi - D'Alema a rappresentare la politica estera e di sicurezza dell'Ue sarebbe una iattura, a cominciare dai rapporti con Israele e il mondo arabo, e dall'approccio nei confronti del terrorismo islamico.