Nonostante divieti e minacce, ieri il movimento di opposizione iraniano è tornato a protestare nelle strade. Ma lo ha fatto in un giorno particolare, il 4 novembre. L'anniversario - il trentesimo - dell'assalto all'ambasciata americana di Teheran, celebrato come sempre con un comizio di piazza convocato dal regime da cui si sono levati i soliti slogan antiamericani («Morte all'America»), quest'anno si è trasformato in un'occasione di protesta contro il regime, nelle persone della Guida Suprema Khamenei e del presidente Ahmadinejad. Un nuovo, palese sintomo della loro debolezza e della perdita di autorità dopo le contestate elezioni del 12 giugno scorso. Grandi manifestazioni hanno preso vita non solo a Teheran, ma anche in altre importanti città come Shiraz, Isfahan, Tabriz, Kermanshah, Zahedan, Arak, Mazandaran e Rasht. Foto e video sui blog dei dissidenti testimoniano la folla e la repressione ancora una volta violenta da parte dei pasdaran e dalla milizia Bassiji, con arresti, pestaggi e spari sui dimostranti.
Un'altra giornata di imbarazzo per il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, stretto tra l'esigenza di non mostrarsi insensibile alle manifestazioni di piazza ma anche di tenere aperta la porta del dialogo con la leadership della Repubblica islamica sul programma nucleare: «L'Iran deve scegliere. Per trent'anni - ha dichiarato ieri Obama - abbiamo ascoltato a cosa il governo iraniano è contrario; ora, il problema è quale tipo di futuro vuole. Il popolo americano ha grande rispetto per il popolo dell'Iran e la sua ricca storia. Il mondo continua ad essere testimone della sua richiesta di giustizia e della sua coraggiosa ricerca di diritti universali. E' tempo per il governo iraniano di decidere se vuole concentrarsi sul passato, o se fare quelle scelte che apriranno la porta a una maggiore opportunità, prosperità e giustizia per il suo popolo».
Ma ha anche aggiunto che gli Stati Uniti «cercano una relazione con la Repubblica islamica basata sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto» e che non intendono «interferire negli affari interni» iraniani. Il movimento di opposizione sembra percepire la difficoltà in cui si barcamena Obama, e a sua volta, a suo modo, gli chiede di decidere: «Obama, Obama, o stai con noi o contro di noi!», hanno gridato ieri i dimostranti in piazza, insieme ad altri slogan significativi come «Morte al dittatore», «Khamenei assassino, la sua leadership è finita», «Ambasciata russa covo di spie» (un'accusa rivolta dal regime a quella americana) e, infine, anche «l'Iran verde non vuole una bomba atomica».
The regime is using the Obama administration’s overweening desire to talk - and refusal to take "no" for an answer - as a way of deflecting any international pressure regarding its domestic crackdown. And the regime's strategy is succeeding. The longer the Obama administration plays this game, the more time the regime will have to crush its opponents while the West looks on in self-imposed impotence. Unpleasant as it may be for the president to hear, his policy is objectively aiding the Tehran regime and harming the opposition in their ongoing struggle. The chanters are right. The United States can either be with them or against them. Right now, President Obama is against them. But it’s not too late for him to switch sides.I negoziati sulla bozza dell'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero sono in una situazione di stallo, dopo la non risposta da parte di Teheran, che chiede modifiche sostanziali che eluderebbero ciò che l'Occidente cerca di ottenere dall'accordo, e dopo la recente chiusura di Khamenei. Per Ray Takeyh, studioso del Council on Foreign Relations, il regime sta usando i negoziati sul nucleare come «diversivo» e l'amministrazione Obama è «alle prese con l'enigma» iraniano dovendo «bilanciare le sue preoccupazioni per la proliferazione nucleare con le sue responsabilità morali» di fronte alle violazioni dei diritti umani. La protesta per la rielezione di Ahmadinejad è tutt'altro che sopita e il regime «vede il dialogo sul programma nucleare come un mezzo per mettere a tacere le critiche che il suo comportamento interno meriterebbe». L'Iran, prevede Takeyh nella sua analisi per il Washington Post, «cercherà senza dubbio di prolungare i negoziati accettando, e poi rigettando, gli accordi pattuiti e offrendo innumerevoli controproposte».
Robert Kagan
Gli Stati Uniti e i loro alleati devono decidere come reagire dinanzi a questa tattica «che nasce dal cinico desiderio di porre un freno all'opposizione impunemente». L'attenzione internazionale, osserva Takeyh, rimane concentrata sul programma nucleare, ma «lontano dal clamore la struttura e l'orientamento delle Guardie rivoluzionarie stanno cambiando», il regime sta rafforzando la propria «infrastruttura repressiva». Negli ultimi mesi, gli ex candidati dissidenti Karroubi e Mousavi «sono stati minacciati di arresto», le università sono state oggetto di «campagne di purificazione», gli attivisti della società civile condannati sulla base di processi-farsa. E' stata mobilitata «la macchina statale per una spietata purga» all'interno del sistema.
Nel tentativo di ristabilire la sua presa sul Paese, il regime «si muove ancora una volta in modo contraddittorio», spiega Takeyh: da una parte accusa gli oppositori di essere agenti dell'Occidente, dall'altra si mostra disponibile al dialogo con le potenze straniere. Così Teheran «si offrirà sporadicamente di discutere del nucleare per stimolare l'appetito delle potenze occidentali... nella speranza che un prolungato e inconcludente processo negoziale» le induca ad abbandonare il loro atteggiamento critico e le ipotesi di nuove sanzioni. Secondo lo studioso del Council on Foreign Relations, l'errore in cui l'Occidente ha perseverato nel trattare con l'Iran è stato porre il tema del nucleare al di sopra di ogni altro.
Il problema iraniano «non è limitato alle attività nucleari illecite, ed è incomprensibile che gli Stati Uniti e le altre nazioni possano concepire transazioni sul nucleare con un regime che mantiene legami con una vasta gamma di organizzazioni terroristiche e che attua una repressione interna brutale». L'ala dura del regime, conclude Takeyh sul Washington Post, «deve sapere che il prezzo per una simile condotta può essere la fine di qualsiasi dialogo con l'Occidente. Solo con una politica simile gli Stati Uniti possono perseguire i loro obiettivi strategici allo stesso tempo non rinunciando ai loro valori morali».
Dopo quasi sei mesi dalle proteste per la rielezione di Ahmadinejad e la brutale repressione, il movimento verde è forte «come non mai», come hanno dimostrato le manifestazioni di ieri. Ma chi sono i suoi leader? Se lo chiede Mehdi Khalaji, analista del Washington Institute for Near East Policy. La sua tesi, esposta in un articolo per Foreign Policy, è che Mousavi, Karroubi e Khatami si siano ritrovati quasi «per caso, e loro malgrado», come «leader simbolici» del movimento di protesta, in realtà mantenendosi a una debita distanza. Più che guidare la piazza, la inseguono cercando di cavalcarla ma anche temendola. Questi leader «apparenti» sono tutti ex funzionari di alto livello della Repubblica islamica, ricorda Khalaji, che «vorrebbero mantenere in vita molta parte di essa», mentre «i dimostranti mirano a far cadere l'intero sistema di cui i loro leader fanno ancora parte».
«Nonostante siano lodati come modernizzatori», Mousavi e i suoi due colleghi «sono profondamente leali agli ideali dell'ayatollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, e sostengono un sistema politico teocratico». Loro sono leader riformisti, mentre il popolo è «sovversivo». Se Mousavi fosse diventato presidente, sostiene Khalaji, non avrebbe modificato la posizione dell'Iran sul nucleare, o la sua politica estera, limitandosi ad introdurre riforme economico-sociali, e non politiche, all'interno dei principi della Repubblica islamica. «Come sono arrivati questi moderati alla guida di una rivoluzione? Per caso», secondo Khalaji, perché - spiega - erano gli unici cui il regime aveva permesso di candidarsi in alternativa alla rielezione di Ahmadinejad, ma nessuno di loro aveva previsto che dalle proteste di massa a seguito delle elezioni presidenziali del 12 giugno sarebbe sorto un movimento popolare.
Questi apparenti leader hanno avuto «un ruolo minore sia nella nascita che nell'organizzazione del movimento, ma sono stati catapultati alla sua testa da un'ondata spontanea e improvvisa», spiega l'analista del Washington Institute for Near East Policy. La differenza tra i leader dell'"Onda verde" e la gente nelle strade «si sta ampliando». «Mousavi e Khatami hanno ripetuto che il loro obiettivo è ritornare agli ideali di Khomenei e ai principi originali della Repubblica islamica», mentre «i manifestanti nelle strade sono consapevoli del fallimento delle riforme del passato e hanno poche speranze che la Repubblica islamica possa essere salvata». Essi ritengono che l'islamismo politico, l'esperimento di "democrazia islamica", sia ormai fallito e che sia tardi anche per un tentativo riformista calato dall'alto. L'ex presidente Khatami, in un recente discorso, riferisce Khalaji nel suo articolo, «ha cercato di distinguere i partecipanti alle attuali proteste, che rifiutano l'intero sistema esistente, e i suoi seguaci, che vogliono lavorare all'interno della struttura politica della Repubblica islamica».
«I veri leader di questo movimento, dunque - osserva Khalaji - sono studenti, donne, attivisti per i diritti umani e attivisti politici che non hanno alcun desiderio di operare in un regime teocratico, all'interno della cornice legale dell'attuale Costituzione». E il movimento di oggi, fa notare, è molto più ampio di quello riformista di Khatami degli anni '90, che non portò mai in strada più di 50 mila persone. «Ecco perché non solo il regime, ma anche i leader riformisti che pretendono di guidarlo, temono il successo del movimento verde. La democrazia in Iran - conclude Khalaji su Foreign Policy - emergerà solo attraverso una rottura con gli ideali di Khomeini e l'ideologia islamica, concetti ai quali i leader 'per caso' del movimento verde sono ancora leali».
No comments:
Post a Comment