Pagine

Monday, December 31, 2012

2013: Bentornati nella Prima Repubblica

«Sconforto e solitudine». Questi i sentimenti espressi da Luca Ricolfi in un commento apparso oggi su La Stampa (on line sul sito della Camera, non del quotidiano). Il suo giudizio sull'offerta politica messa in piedi da Mario Monti lo troverete straordinariamente in sintonia con quello che avete letto nei giorni scorsi su questo blog e su Notapolitica, ed è tutto condensato nel titolo: «Verso la prima Repubblica». Termini ricorrenti in entrambi i testi: «piccola Dc», «compromesso storico».

«Cadute tutte le ipotesi più coraggiose e innovative», osserva Ricolfi, la lista Monti «di liberaldemocratico ha quasi nulla e di vecchia politica ha molto, se non quasi tutto». Per chi avesse coltivato illusioni, «è stato un piccolo shock, una doccia fredda». Ci prepariamo ad assistere, dunque, «all'edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democristiani». Probabilmente le elezioni del 24 febbraio ci diranno chi tra Bersani e Monti sarà presidente del Consiglio, ma anche Ricolfi è convinto che (come abbiamo ripetuto più volte nelle ultime settimane su questo blog) non sfuggiremo ad un governo di centro-sinistra, frutto di un'alleanza post-elettorale tra il centro "montiano" e il Pd di Bersani (più Vendola, almeno inizialmente). E d'altra parte, a leggere le loro agende, «contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersani e Monti sono minime».

Condividiamo quindi l'amara conclusione di Ricolfi:
«Oggi, chi avrebbe voluto cambiare decisamente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica, imboccando risolutamente la strada delle riforme liberali - meno spesa, meno tasse, meno Stato - è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza».
Come nella prima Repubblica, gli elettori torneranno a contare poco o nulla, «perché i giochi si faranno dopo, in Parlamento, come ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti». In breve, per chi non crede più in Berlusconi e non intende consegnarsi all'improbabile agenda Grillo, «la scelta è fra Pci e Dc. Anzi non c'è vera scelta, perché Bersani e Monti governeranno insieme».

Come ho già scritto nel post di venerdì scorso, Monti «ha scelto un'operazione neo-democristiana di rito moroteo, di "compromesso storico" con gli eredi del Pci. I quali non vedono l'ora di coronare il loro sogno, che era quello di sostituirsi ai socialisti e ai partiti laici della Prima Repubblica nella condivisione/spartizione del potere con la Dc. Oggi ne hanno finalmente l'occasione, addirittura potendo trattare da forza egemone con una piccola Dc».

Critiche all'agenda del professore, in particolare sul riferimento ad una nuova tassa patrimoniale, continuano ad arrivare anche dal duo Alesina/Giavazzi:
«La campagna elettorale sembra concentrarsi su quale sia il modo migliore per tassare gli italiani. Invece si dovrebbe discutere di come riformare lo Stato, in modo che esso non pesi per la metà del Pil. (...) l'agenda che Mario Monti propone agli italiani avrebbe dovuto indicare un obiettivo per la riduzione del rapporto fra spesa pubblica e Pil da attuarsi nell'arco della prossima legislatura».

Friday, December 28, 2012

Il più grande bluff dopo la Seconda Repubblica

Anche su Notapolitica

Che Monti - con praticamente tutti i pezzi più importanti del potere vero, in Italia e nel mondo, inginocchiati dinanzi a lui a implorarlo di candidarsi, quindi con carta bianca - abbia partorito questa agenda, così generica, senza un numero, una riforma concreta, porta a concludere che l'immagine del personaggio supera di gran lunga la sua statura reale - umana, intellettuale e politica.

Da uno come lui, con il suo curriculum, che dovrebbe conoscere il bilancio dello Stato come le sue tasche, per averlo "governato" in questi mesi così critici, ci saremmo aspettati proposte concrete, corredate da numeri, ipotesi di fattibilità, effetti. O per lo meno, il coraggio intellettuale di sfidare alcuni tabù, di raccontare agli italiani le scomode verità sul nostro modello sociale ed economico ormai insostenibile.

E invece niente di tutto questo. La cosiddetta "agenda Monti" è vaga, generica, retorica come qualsiasi programma scritto in politichese. Le uniche proposte che emergono con chiarezza sono la patrimoniale e il «reddito minimo di sostentamento». Senza cifre, ovviamente. Si parla di operazioni di «valorizzazione/dismissione» del patrimonio pubblico, ma senza specificare cosa, quanto e come, anzi con il primo termine a sfumare, quasi contraddire il secondo. Si parla di spending review, ma non solo nel senso di «meno spesa», piuttosto di «migliore spesa», che quindi va riqualificata, non necessariamente ridotta per ridurre il peso dello Stato inefficiente. Si parla di ridurre le tasse su lavoro e impresa, ma solo «quando sarà possibile», o quando sarà possibile introdurre una nuova tassa patrimoniale, cioè dopo che saranno stati individuati «meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitale». Tutto questo è la classica retorica delle finte dismissioni, delle finte liberalizzazioni, della spending review sulle briciole.

Poi, i soliti capitoletti di politica industriale che da qualche anno non mancano in nessun programmino: agenda digitale, economia verde, «strategia energetica nazionale», investimenti in ricerca. Nemmeno una bozza di riforma della giustizia, delle istituzioni, della sanità, della scuola e dell'università (al massimo incentivi economici ai docenti meritevoli, ma a quelli incapaci?). Silenzio totale, nessun riferimento ai mercati finanziari e al settore bancario nostrano, «omissione grave - sottolinea Alberto Bisin - non solo perché vizia l'analisi» di fondo, ma perché «essendosi Monti da sempre occupato del settore bancario, sia accademicamente che come consulente, potrebbe segnalare una sorta di sottomissione ideologica e/o psicologica» sul tema.

Alla questione fiscale, il peso delle tasse che gravano su cittadini e imprese, che dovrebbe essere al centro del programma, vengono dedicate appena 13 righe su 25 pagine, mentre una pagina intera solo alle politiche agricole (su cui spicca l'approccio protezionistico del "liberale" Monti).

L'agenda quindi se la merita tutta la stroncatura di Alesina e Giavazzi sul Corriere:
«Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta».
Il problema non è che di «ridurre lo spazio che occupa lo Stato non si parla abbastanza» nell'agenda Monti, o che «non punti abbastanza al ridimensionamento dell'intervento pubblico»; è che proprio non è individuato come priorità, come questione centrale a cui tutte le politiche dovrebbero essere ispirate. E, d'altra parte, perché aspettarselo, se «finora il governo Monti si è mosso nella direzione opposta»? «Con un debito al 126% del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo - concludono i due economisti - non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente "riqualificare la spesa" con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema». Ancora più lapidario sembra il giudizio di Luigi Zingales, sul Sole:
«Non ci sono né nuove idee, né proposte concrete su come realizzare questi obiettivi... Non sembra un programma di riforme per un rilancio dell'economia, ma un programma per la protezione dei diritti acquisiti e di chi vive di spesa pubblica».
Insomma, siamo nel campo della mera manutenzione. Ragionevole quanto si vuole, ma pur sempre manutenzione. Non c'è traccia di quello shock che servirebbe al paese per ripartire e di cui scriveva lo stesso Monti nella sua vita precedente: da editorialista.

Tra i tanti micro interventi anche condivisibili, non viene messa a fuoco la questione centrale - il ruolo dello Stato, che deve ritrarsi per rilanciare l'economia - e si scorgono invece pericolosi ammiccamenti a sinistra, come la patrimoniale (per «redistribuire», non ridurre il carico fiscale), e promesse da vera e propria agenda dei sogni: «Ridurre a un anno il tempo medio del passaggio da una occupazione all'altra»; «coniugare il massimo di flessibilità delle strutture produttive con il massimo di sicurezza dei lavoratori». Bellissimo, ma come? E poi il colmo: lo stesso Monti che considera la proposta di abolire l'Imu sulla prima casa (4 miliardi) un'illusione tanto pericolosa da minacciare che un solo anno dopo dovrebbe essere reintrodotta in misura doppia, nella sua agenda propone di introdurre un «reddito minimo di sostentamento», senza tuttavia indicare i miliardi che servirebbero e dove prenderli.

Purtroppo di politico l'agenda Monti ha solo il fatto di preparare il terreno, sul piano dei contenuti, per un'apertura a sinistra dopo il voto. Monti avrebbe potuto rappresentare, e federare, un'alternativa di centrodestra liberale, degasperiano alla sinistra, e invece ha scelto un'operazione neo-democristiana di rito moroteo, di "compromesso storico" con gli eredi del Pci. I quali non vedono l'ora di coronare il loro sogno, che era quello di sostituirsi ai socialisti e ai partiti laici della Prima Repubblica nella condivisione/spartizione del potere con la Dc. Oggi ne hanno finalmente l'occasione, addirittura potendo trattare da forza egemone con una piccola Dc.

Le cose, mi pare, stanno esattamente nei termini esposti oggi da Angelo Panebianco sul Corriere, e su questo blog diverse volte nelle ultime settimane:
«Monti aveva, sulla carta, due possibilità. La prima era quella di proporsi, in polemica con un Berlusconi non più credibile in quel ruolo, come il federatore dei liberali, in alternativa alla sinistra. In nome di un bipolarismo meno "selvaggio", più civile, di quello che abbiamo conosciuto. Oppure poteva fare la scelta che ha effettivamente fatto: chiudere a destra lasciando aperta la porta, anche se a certe condizioni, al dialogo con la sinistra. Solo i fatti diranno se si è trattato di una decisione saggia. Al momento, si può solo constatare che con la sua scelta Monti ha fatto obiettivamente un grosso favore a Berlusconi. Perché gli ha lasciato aperta la strada per una rimonta. Cosa potrebbe infatti fare, a questo punto, quell'elettorato di centrodestra che è deluso, e magari anche delusissimo, di Berlusconi ma che mai, in nessun caso, potrebbe andare a braccetto con la sinistra? Quell'elettorato non ha di fronte a sé molte possibilità: o sceglie l'astensione o torna nell'ovile berlusconiano».
Dunque, rispetto ad un esito quasi scontato, cioè il dialogo o l'alleanza post-elettorale tra il centro "montiano" e il Pd di Bersani, si tratta di capire chi dalle urne potrà condurre la trattativa da una posizione di forza: se Bersani, nel caso riuscisse a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, o se Monti, nel caso di pareggio al Senato. In ogni caso, il matrimonio tra centro e sinistra si farà e addio bipolarismo, è l'amara conclusione di Panebianco:
«Se Monti perde (cioè non riesce a essere determinante per la formazione del prossimo governo), vuol dire che rimarremo inchiodati al "bipolarismo selvaggio" conosciuto negli ultimi venti anni. Se Monti vince, ossia se potrà trattare con la sinistra, dopo le elezioni, da una posizione di forza, vorrà dire che avremo superato il bipolarismo, e ridato vita a qualcosa di simile a quei governi di centrosinistra, senza alternanza, che caratterizzarono la Prima Repubblica. Il bipolarismo responsabile lo faranno, se mai ci riusciranno, i nostri discendenti».

Friday, December 21, 2012

Con o senza Monti candidato, sarà centro-centrosinistra

Anche su Notapolitica

Si candida o non si candida? Ormai è diventato come sfogliare i petali di una margherita. Non è da escludere che la suspense che si è creata nell'ultima settimana sulle intenzioni di Monti non sia destinata a sciogliersi nemmeno nella conferenza stampa di domenica mattina. Il professore, infatti, potrebbe esporre in quella sede la sua agenda-appello con le riforme da fare nella prossima legislatura e solo in un secondo momento, sulla base delle reazioni dei partiti (soprattutto del Pd di Bersani), prendere la sua decisione definitiva sulle modalità del suo impegno in politica: se defilato, sfruttando l'altissima "notiziabilità" che gli deriva dalla centralità della sua figura, e dai suoi appuntamenti para-istituzionali, per parlare al paese e cercare di influenzare "dall'alto" la campagna elettorale; o se da candidato premier, alla guida di una coalizione centrista.

Un passaggio intermedio, quello dell'agenda-appello, da interpretare come ultima chiamata rivolta ai "montiani" del Pdl e del Pd, perché Monti ha bisogno che la sua eventuale candidatura sia sostenuta da un arco il più possibile ampio e trasversale di posizioni e "storie" politiche, affinché non venga percepita come un mero soccorso dei centristi - Casini, Fini e Montezemolo - che navigano in una pozza di voti. Quanto "aperto", dunque, dovrà essere il suo appello? Fino al punto da tentare Berlusconi di aderirvi, dal momento che l'intesa con la Lega appare ancora in alto mare?

Di sicuro, da una parte Monti è tentato dalla discesa in campo in prima persona, perché a questo punto restare nelle retrovie significherebbe delegare la rappresentanza della propria agenda a personaggi non proprio freschissimi politicamente ed essere oggetto passivo delle «mistificazioni» altrui sull'operato del governo e sulle sue intenzioni future. Ma dall'altra la teme, perché potrebbe arrivare terzo o addirittura quarto.

La candidatura diretta del quasi ex premier può cambiare considerevolmente il risultato elettorale del cartello di liste centriste in suo nome - che faticherebbero ad arrivare al 10% senza di lui, mentre il professore in campo potrebbe puntare al 15-20% - ma non cambierebbe poi di molto lo scenario politico post-voto. Che si candidi o meno, che l'allenza Pd-Sel riesca o meno a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, un'intesa tra Monti e i centristi da una parte e il Pd dall'altra è praticamente obbligata (Bersani si è già pronunciato per un'apertura ai moderati in ogni caso). Se il premier incaricato sarà Bersani o Monti dipenderà dai rapporti di forza che usciranno dalle urne, ma un'apertura di Bersani ai centristi per puntellare la maggioranza e un coinvolgimento di Monti, magari per il Colle, come copertura internazionale, è un esito più che probabile. D'altra parte, tanti o pochi che siano, Monti o chiunque in suo nome dovrà decidere dove portare i suoi voti, a quali sommarli per dar vita ad una coalizione di governo, e visto che nei confronti di Berlusconi e dei frammenti dell'ex centrodestra vige una vera e propria "conventio ad excludendum", i giochi sembrano fatti.

Dunque, il dubbio di Monti oggi è sulla formula che gli offre più chance di tornare a Palazzo Chigi senza precludersi, eventualmente, la strada per il Colle: se conquistandosi sul campo il suo gruzzolo di voti (e quanti dovrebbe essere in grado di raccoglierne), o se defilandosi facendo affidamento sulla non autosufficienza numerica e sulla ragionevolezza del Pd. Ma a meno di colpi di scena, e a prescindere da chi occuperà quali "caselle", il nuovo scenario politico sembra abbastanza delineato: una maggioranza di centro-centrosinistra, quindi centrodestra frammentato, diviso tra un centro "montiano" che difficilmente darà buona prova di sé al governo con la sinistra, e una destra post-berlusconiana marginalizzata, non tanto dal punto di vista numerico ma per le derive demagogiche, complottiste e anticapitaliste, per la perdita della cultura di governo.

Insomma, come abbiamo osservato in altre occasioni e come sottolineano oggi Andrea Mancia e Simone Bressan, finisce qui una certa idea di centrodestra, "fusionista", che negli ultimi vent'anni aveva dato prova di esistere nel paese e non solo nella mente di qualche ingenuo idealista, ma che è stata soffocata sul nascere dai «contrapposti egoismi», da un berlusconismo culturalmente miope e politicamente suicida da una parte, e dalle varianti di centro e di destra dell'antiberlusconismo. A decidere se in Italia è il caso di accontentarsi di un centro neo-democristiano, culturalmente subalterno alla sinistra e moderato nel senso di moderatamente socialista (come nella Prima Repubblica), o invece occorre spingere per qualcosa di diverso, più ambizioso e radicalmente alternativo, saranno gli elettori, ma probabilmente non il 24 febbraio 2013.

Tuesday, December 18, 2012

Le convergenze parallele di Monti

Anche su L'Opinione

Le cronache e i retroscena di questi giorni raccontano di un Mario Monti impegnato in esasperati tatticismi ed equilibrismi il cui scopo sembra quello di restare in corsa per entrambe le "caselle" che verranno riempite dopo il voto: Palazzo Chigi e Quirinale. Peccato che per la prima occorra schierarsi, per l'altra restare imparziali. Roba da "convergenze parallele", insomma. A prescindere dagli innumerevoli bizantinismi possibili – quasi sempre efficaci solo nei palazzi, nella testa di chi li escogita, non tenendo conto che alla fine dagli elettori bisogna passare – la situazione può essere riassunta in termini piuttosto semplici. Monti ha dinanzi a sé due scelte entrambe onorevoli: ritrarsi e starsene in silenzio fino a dopo le elezioni, preservando il suo profilo super partes, pronto a offrirsi di nuovo come riserva della Repubblica in caso di pareggio elettorale o condizioni di emergenza e ingovernabilità simili al novembre scorso (linea suggerita dal presidente Napolitano); oppure scendere in campo in prima persona, schierarsi, "abbassarsi" a chiedere agli italiani un mandato politico per proseguire il suo lavoro a Palazzo Chigi. Verrebbe meno alla sua terzietà, all'impegno di non candidarsi, ma per lo meno lo farebbe mettendoci la faccia e senza paracadute istituzionali.

Tutte le altre combinazioni, le infinite sfumature di grigio, che servirebbero a salvare capra e cavoli (preservare il profilo di terzietà, per non bruciarsi la strada verso il Colle, allo stesso tempo escogitando una formula per incanalare il consenso alla "continuità" della sua azione di governo) sono indegne operazioni di palazzo.

L'idea di un'agenda-appello rivolta a tutti i partiti, prevedendo o meno per quelle forze che dovessero aderire il diritto all'uso in "franchising" del nome di Monti per liste e simboli, è un modo per offrire una sponda ai centristi e tornare a Palazzo Chigi con i voti del Pd. Ma sulla scheda ci vanno simboli e nomi, non i programmi. E per quanto siano convincenti le sue idee, le gambe su cui dovrebbero correre (Casini? Montezemolo? Qualche suo ministro?) sarebbero molto meno credibili delle sue. Ancora più beffarda l'idea di una lista «equidistante e autonoma», «che non si allea con alcun partito esistente» (nemmeno con i centristi montiani della prima ora?), quindi portatrice esclusiva dell'"agenda Monti", ma pronta ad allearsi con il Pd di Bersani dopo le elezioni.

In ogni caso, insomma, un'operazione centrista che culminerebbe, dopo il voto, in una manovra di palazzo per tornare a Palazzo Chigi senza mandato politico, solo a seguito di un pareggio elettorale e/o di movimenti scissionisti da Pd e Pdl. Ma il presidente Napolitano ieri ha avvertito il professore: "Toccherà a me dare l'incarico e mi baserò sull'esito del voto". Il rischio, infatti, è che le liste "montiane" non arrivino al 10%, ma se andasse male resterebbe un "capitale" di terzietà sufficiente per puntare al Colle. Per Monti, quindi, si aprirebbe un ruolo alla Ciampi, da "legittimatore" del centro-sinistra.

Oltre alla mancanza di rispetto per gli elettori, sul piano politico vorrebbe dire sciupare l'occasione di una "normalizzazione" in senso europeo – sull'asse Ppe vs Pse – del nostro sistema politico. Sarebbe invece un ritorno alla peggiore Prima Repubblica, con un "centrino" in piena sudditanza e subalternità culturale alla sinistra. Non è questa la storia né il presente dei popolari e dei centrodestra europei.

Né può valere l'alibi Berlusconi. Oggi il Cav conta appena sul 15% del 50% di italiani che esprimono preferenze nei sondaggi, e i centristi ancora meno. Dunque, non rappresentano ostacoli insormontabili per chi volesse davvero dar vita ad una nuova offerta di centrodestra. Se Monti non si fida del vecchio e compromesso ceto politico, c'è una prateria per scavalcarlo del tutto. Certo, bisogna metterci il coraggio, scommettere sulla propria capacità di raccogliere consensi, ma questa è la democrazia, bellezza. Il vero punto è: c'è qualcuno – Monti o chiunque altro – che ha un progetto di centrodestra? Oppure l'unica idea rispettabile è quella di un centro consociativo, stampella della sinistra? Se nessuno ha intenzione di federare i "moderati", o proporre un nuovo centrodestra, come pretendere che Berlusconi lasci?

Insomma, tutto si riduce ad una semplice domanda: vedremo un dibattito tv tra Monti da una parte e Bersani dall'altra? Se no, Monti resterà solo una "risorsa" di palazzo per il centrosinistra. Se avrà coraggio, guiderà un Ppe italiano contro Bersani. Potrebbe perdere, e non potrebbe riciclarsi per incarichi super partes, ma l'atto fondativo resterebbe. Altrimenti, farà il nuovo Ciampi, che servirà al centrosinistra ma non al paese.

Monday, December 17, 2012

Secondo Emendamento, una questione di principio

Anche su Rightnation

Gli aspetti giuridici del dibattito sulle restrizioni alla vendita e al porto d'armi negli Usa dopo l'ennesima strage in una scuola sono stati egregiamente riassunti da Alessandro Tapparini per America24. E ci aiutano a capire come la questione abbia radici profondissime, e attenga sostanzialmente alla concezione che si ha del rapporto tra Stato e libertà individuali. Al di là del fatto se debbano esserlo o meno, lo Stato, i poteri pubblici, sono davvero così onnipotenti, efficienti e infallibili da rendere superfluo per i cittadini acquistare e portare con sé armi per difesa personale o, al limite, in linea teorica, per esercitare un implicito diritto di “resistenza” a un governo divenuto tiranno? Già, perché i costituenti americani probabilmente non hanno voluto disarmare i cittadini neppure nei confronti del loro governo.

Anche volendo, e soprattutto in un territorio vasto come quello americano, non esisterà mai una forza pubblica che possa dire al cittadino “rinuncia alle armi, ti proteggiamo noi”, senza timore di venire meno alla promessa. Quello che l'esperienza dimostra, anche nelle città della nostra “civile” Europa, è che malintenzionati e squilibrati le armi da fuoco riescono quasi sempre a procurarsele e l'azione repressiva delle forze dell'ordine è più che altro postuma (vedi Breivik in Norvegia). Il risultato è che il cittadino viene privato di un mezzo personale di difesa per affidarsi ad un mezzo pubblico che in caso di bisogno difficilmente arriverà a soccorrerlo prima che sia troppo tardi.

Ora, ammesso e non concesso che un divieto totale (che non c'è nemmeno in Italia!) o ragionevoli restrizioni, che esistono anche negli Usa in alcune zone (tra cui il Connecticut), potessero impedire ciò che è accaduto a Newtown, da un punto di vista “di principio”, filosofico, bisogna capire se stragi come questa non siano che il triste prezzo da pagare a un'idea, una concezione del rapporto tra Stato e libertà individuali, per la quale qualsiasi limite a queste ultime, per rendere possibile la convivenza, non deve mai presupporre l'onnipotenza e l'infallibilità della macchina statale.

D'altra parte, la Corte suprema nel difendere con forza il Secondo Emendamento ha però aperto ad alcune restrizioni ragionevoli. Puoi bandire del tutto le armi da fuoco, ci sono paesi in cui persino la polizia è praticamente disarmata, ma poi arriva uno come Breivik e si torna al punto di partenza, cioè a chiedersi: perché?

Saturday, December 15, 2012

Ppe vs Pse, un terreMonti nel sistema politico italiano

Se l'investitura di Mario Monti da parte dei vertici del Ppe riuniti giovedì scorso a Bruxelles spingesse davvero il premier a rompere gli indugi e a muovere il passo decisivo della sua discesa in campo – la politica non è solo governare, ma anche raccogliere il consenso – il sistema dei partiti della cosiddetta II Repubblica ne verrebbe completamente terremotato. Una sua candidatura a premier alla guida di una coalizione di centrodestra ispirata al popolarismo europeo, non sancirebbe solo la definitiva uscita di scena del Berlusconi leader, come è facile intuire, ma anche il superamento di una certa idea di centrodestra e di centrosinistra.

Porterebbe con sé, in sostanza, una "normalizzazione" in senso europeo – lungo l'asse Ppe-Pse – del nostro sistema politico. A confrontarsi per il governo del paese sarebbero la sezione italiana del Ppe da una parte e quella del Pse dall'altra, le due grandi famiglie politiche che si confrontano in tutti i maggiori paesi europei.
LEGGI TUTTO su L'Opinione

Un esito inevitabile del fallimento dell'idea berlusconiana di centrodestra, tanto demonizzata dalla sinistra. L'anomalia Berlusconi si è portata con sé un'evoluzione "all'americana" del nostro sistema politico: un centrodestra nelle intenzioni (non nei fatti) "fusionista" e un Pd nelle intenzioni (non nei fatti) non solo socialdemocratico. Il fallimento di Berlusconi oggi si porta con sé anche il fallimento di quell'idea di Pd. Se sia un bene o no, dipende dall'idea di paese che ha in mente ciascuno di noi. Per quanto mi riguarda, dipenderà da due cose: quanto liberale sarà la sezione italiana del Ppe (secondo me molto poco) e quanto conservatrice sarà la sezione italiana del Pse (secondo me molto).

La storia insegna che i tratti distintivi delle culture politiche nazionali sono preminenti rispetto alla famiglia politica europea di appartenenza: in Germania i popolari sono più liberali che in Francia e in Italia e i socialisti più moderni che in Francia e in Italia. Insomma, a meno di sorprese, in Italia avremo la sezione di Ppe più democristiana, statalista e bigotta d'Europa e il Pse più socialista e assistenzialista d'Europa.

Friday, December 14, 2012

Come Monti può usare l'investitura Ppe per tornare a Palazzo Chigi senza candidarsi

Isolando Berlusconi e bruciando Bersani

Sui giornali di oggi emergono da un lato il panico del Pd, nell'arrogante intervista di D'Alema al Corriere, dall'altro le penose miserie personali degli oligarchi Pdl, quelli che si riuniranno domenica al Teatro Olimpico, disperatamente aggrappati alla zattera Monti dal momento che quella Berlusconi si è rovesciata.

Monti candidato? No («sarebbe illogico e in qualche modo moralmente discutibile che il professore scenda in campo contro la principale forza politica che lo ha voluto e lo ha sostenuto»). Liste "montiane", in suo nome? Nemmeno («sarebbe un pernicioso bizantinismo). La diffida, vero e proprio monito con tanto di scomunica morale pronta sul tavolo, arriva da D'Alema: il Pd è disposto ad aprire ai "moderati", e riconoscere un ruolo a Monti anche in caso di autosufficienza (al Pd serve un nuovo Ciampi), ma come avversari solo Berlusconi e Grillo. Al Pd piace vincere facile, insomma. Pretende di sceglierseli gli avversari: o quelli facilmente etichettabili come irresponsabili, o i "moderati" buoni, cioè quelli disposti a fare le stampelle della sinistra. Ma soprattutto con questa intervista D'Alema getta la maschera e si rivela come il vero burattinaio della candidatura Bersani e vero e proprio "dominus" del Pd, anche se bisogna riconoscere che nel suo discorso una logica c'è: se si candida, in effetti Monti tradisce la lealtà del Pd e diventa a tutti gli effetti un avversario (da trattare come tale). Non «moralmente», ma politicamente discubitile, e anche istituzionalmente scorretto forse un po' lo sarebbe, dal momento che Monti aveva promesso che a fine mandato non si sarebbe candidato con nessuno schieramento e che una candidatura di parte di un senatore a vita (nominato per meriti extra-politici) non s'è mai vista nella storia repubblicana.

Dopo l'onore dell'investitura da parte del Ppe, a Monti spetta l'onere della candidatura e, soprattutto, del programma. Ma non si può ancora escludere che il professore intenda utilizzare l'endorsement non per mettersi alla testa di un nuovo centrodestra che colmi il vuoto nel campo moderato che spaventa, comprensibilmente, il Ppe, bensì per una manovra centrista che gli consenta di ottenere ciò che vuole restando con le mani (e la coscienza) politicamente pulite. Si accontenterebbe, cioè, marginalizzato Berlusconi dai popolari europei, di far mollare definitivamente gli ormeggi alla zattera dei "montiani" del Pdl, ma resterebbe comunque super partes, puntando sulla minaccia di una sua candidatura e sulla non autosufficienza dell'allenza Pd-Sel per bruciare Bersani e riproporsi anche nella prossima legislatura come premier di una "grossa coalizione" dai "montiani" del Pdl fino al Pd. Pd che di fronte al rischio di una candidatura Monti, quindi di fare la fine della "gioiosa macchina da guerra" del 1994, potrebbe anche decidere di sacrificare le ambizioni del suo segretario. In questo modo Monti avrebbe comunque buone chance di tornare a Palazzo Chigi, senza però precludersi il Colle correndo per uno schieramento, quindi senza svilire i suoi titoli di merito tecnico "abbassandosi" a chiedere i voti. Il Ppe avrebbe il suo Monti-bis e un'area in sintonia con il popolarismo, anche se centrista e non di centrodestra, ma non si può avere tutto.

Qualcuno ha un progetto di centrodestra?

Berlusconi o no, c'è una parte del paese – difficilmente quantificabile ma consistente, che corrisponde in gran parte all'elettorato del Pdl del 2008 – che si riconosce in un'offerta politica di centrodestra chiaramente alternativa alla sinistra. Conviene al paese che insieme all'"acqua sporca" Berlusconi, si getti via anche il "bambino", il bipolarismo, che caratterizza i sistemi politici di tutti i maggiori paesi europei, per altro regalando comunque al Cav una fetta di elettorato senza il quale qualsiasi coalizione di centrosinistra sarebbe egemonizzata dalla sinistra?

Mentre nel centrosinistra, a prescindere dal merito, oggi si confrontano due progetti politici differenti, quello progressista di Bersani e quello "blairiano" di Renzi, il dramma del centrodestra è che non sembra essercene alcuno. Per Berlusconi qualsiasi strada - ritirarsi favorendo la successione partecipata delle primarie, o ricandidarsi - avrebbe avuto un senso se imboccata per tempo, preparata bene e portata avanti senza incertezze, senza logoranti stop-and-go. Il ritorno in campo di questi giorni ha invece il respiro cortissimo della mera resistenza personale, o peggio della tattica, è maldestro e confuso nelle modalità. Anche se il Cav è ancora l'unico che compie lo sforzo di cercare un rapporto diretto con i suoi elettori, del grande comunicatore di un tempo resta una pallida ombra: in poche ore è caduto nel cliché anti-europeista e populista che gli avevano preparato i suoi avversari. Gli elettori di centrodestra non sopportano i riti e la retorica europeista ma non cercano certo un salto nel buio; sono furiosi per un anno di tasse ma apprezzano serietà e affidabilità di Monti. Invece, proprio sul premier, e non su Bersani, Berlusconi ha polarizzato il suo ritorno in campo - in modo poco credibile, tra l'altro, avendo votato tutte le sue misure.

D'altra parte, si fatica a scorgere un progetto di centrodestra anche nella fronda montiana nel Pdl, che ha troppo il sapore di un frettoloso riposizionamento di oligarchi. L'unico scopo che li tiene insieme sembra quello di trovare la zattera migliore per traghettare le loro carriere nella prossima legislatura. Anche i centristi (nuovi e d'annata), consapevoli di esercitare una scarsissima attrazione presso i delusi del centrodestra, invocano la zattera Monti per dar vita ad un grande centro consociativo.

Resta da capire che tipo di progetto intende mettere in campo Monti.
LEGGI TUTTO su L'Opinione o su Notapolitica

Thursday, December 13, 2012

Il Ppe sceglie Monti, ma Monti sceglierà il Ppe?

L'invito a partecipare al vertice del Ppe di oggi a Bruxelles si è trasformato per Monti in una sorta di investitura: più o meno tutti i leader - Merkel e Berlusconi compresi - gli avrebbero chiesto di candidarsi premier. Che di fatto Berlusconi ne esca sconfessato conta poco, a questo punto è secondario: non coltivava certo l'ambizione di tornare a Palazzo Chigi. Piuttosto, che il Ppe candidi Monti così esplicitamente getta nello scompiglio Bersani. Ma il premier accetterà di farsi candidare dal Ppe, quindi di schierarsi, tradendo la lealtà di Bersani e del Pd? E avrà il coraggio di correre apertamente per la premiership, l'umità di rimettersi al giudizio degli italiani, rischiando di bruciarsi per il Colle? Continuo a dubitarne.

Le parole di Bersani, «disponibile ad un dialogo con le forze del centro europeiste e costituzionali» in «qualsiasi condizione numerica» dovesse ritrovarsi dopo il voto, cioè che riesca o meno a conquistare la maggioranza dei seggi in entrambe le Camere, rivelano l'errore storico che rischiano di commettere Monti e i "montiani" di diversa estrazione (terzopolisti mancati, montezemoliani e pdiellini). Monti e tutti coloro che auspicano un Ppe italiano "de-berlusconizzato", dovrebbero tenere ben presente che in tutti i paesi europei i popolari sono espressione di un elettorato di centrodestra, non solo di centro, e che nessuno di quei partiti si presenterebbe mai non in alternativa ma come stampella della controparte socialista. Quindi, una candidatura Monti in chiave Ppe avrebbe senso solo nello schema di una sfida bipolare, maggioritaria, non se il gioco è stare nel mezzo. E' ciò che invece rischia di accadere in Italia, se solo allo scopo di isolare, e liquidare Berlusconi, Monti e i montiani non avranno il coraggio di smarcarsi dal tentativo di abbraccio del segretario del Pd, che ha bisogno di un contrappeso centrista per rendere credibile agli occhi dell'Europa e dei mercati la sua alleanza sbilanciata a sinistra e che teme, invece, che attorno a Monti leader si possa coalizzare un nuovo centrodestra alternativo, e vincente, rispetto al suo «squadrone».

Resta difficile vedere il professore accettare di misurarsi nella competizione elettorale, avendo una concezione della democrazia per "titoli", come fosse un concorso, e non per voti, che non si abbasserebbe a chiedere. Il ruolo meno coraggioso, più scontato e comodo che potrebbe preferire, restando apparentemente super partes, è quello di "legittimatore", garante (da Palazzo Chigi o dal Quirinale), di una maggioranza di centro-sinistra. Alla Ciampi, insomma. Se lo volesse, potrebbe davvero ridisegnare il sistema politico, normalizzandolo in senso europeo (Ppe vs Pse), ma dovrebbe mettersi alla testa di una nuova offerta di centrodestra: o riorganizzando le truppe esistenti, oppure – se comprensibilmente non vuole offrire coperture o zattere – scavalcando del tutto il vecchio ceto politico. La sua presenza al vertice del Ppe di oggi rafforza un'«affinità» culturale già più volte espressa, accentua l'isolamento di Berlusconi ma getta anche un'ombra su Bersani, nella misura in cui sembrerebbe preludere a una candidatura a premier in nome del Ppe. Questa «affinità» però per aver un senso, una funzione storica, si deve trasformare in qualcosa di più: non una manovra centrista per arrivare al Colle, ma una candidatura in uno schema di sfida bipolare, maggioritaria.

Wednesday, December 12, 2012

Monti al bivio: federatore di un nuovo centrodestra o "legittimatore" del centrosinistra?

Anche su Notapolitica

Se si conviene unanimemente tra gli osservatori che una vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe dissuaso Berlusconi dal ripresentarsi, come atto di mera resistenza personale e politica, non è meno fondato ritenere che anche altre circostanze avrebbero potuto (e forse ancora potrebbero) dissuaderlo. Per esempio, nonostante il recente strappo con Monti, se il professore si convincesse a scendere in campo, non per sostenere ambiguamente un'operazione centrista volta a isolare la destra (berlusconiana e non) e a collaborare con Bersani dopo il voto, ma come vero e proprio atto fondativo e federatore di un nuovo centrodestra alternativo al centrosinistra, probabilmente il Cav si farebbe davvero da parte.

Non c'è motivo di dubitare che Berlusconi in questi mesi abbia effettivamente cercato un "nuovo Berlusconi", cioè una personalità in grado di unire i cosiddetti "moderati" ma in alternativa alla sinistra, non come sua costola. Le cronache hanno riportato di contatti in questo senso sia con Montezemolo che con lo stesso Monti.

C'è chi è affezionato all'idea di un superamento traumatico del berlusconismo, una recisione netta, che però il Cav, dal suo punto di vista, comprensibilmente rifiuta di subire, come abbiamo provato a spiegare in questo post di qualche giorno fa. Non potrebbe essere più efficace un suo superamento progressivo, una sorta di diluizione in un nuovo centrodestra, di cui non sarebbe più il leader, ovviamente, ma del quale gli fosse consentito di essere uno dei soci?

E' vero che quella del Cav è un'eredità scomoda, e che in questo paese raccoglierla significa giocarsi la propria "rispettabilità" agli occhi dei poteri che contano, ma si tratterebbe qui di ereditare l'unico aspetto positivo del berlusconismo, cioè una leadership innestata in uno schema bipolare, e non anche le derive e gli aspetti più deleteri.

Nonostante il personaggio abbia una certa difficoltà a vedersi relegato in un ruolo di secondo piano, l'impressione è che nessuno ci abbia mai seriamente provato, fondamentalmente perché tutte le operazioni volte a superare Berlusconi, a imporgli un «passo indietro», sono "centriste", non alternative ma complementari al centrosinistra, e quindi non in grado di attrarre l'elettorato di centrodestra, nonostante non sia stato mai più di oggi deluso e lontano dal Cav.

Nel suo lucido editoriale di oggi, sul Corriere, Ernesto Galli Della Loggia coglie entrambi questi aspetti. Innanzitutto, l'aiuto che Berlusconi ogni volta riceve dal coro degli antiberlusconiani. Probabilmente questa volta al Cav non riuscirà la rimonta, ma quest'attenzione ossessiva, questa demonizzazione gli basta per galvanizzare attorno a sé una fetta consistente di elettorato: «un'Italia per nulla stupida che è giusto presumere abbia capito benissimo - scrive Della Loggia - la misura del fallimento di Berlusconi», ma che non è disposta a concedersi alla sinistra, né ad un centro che lungi dal presentarsi come alternativo alla sinistra, quindi come nuovo centrodestra, odora di alleanza post-elettorale con Bersani. Questa Italia, da dodici mesi in attesa di una nuova offerta politica, merita rispetto, va considerata. Eppure, in tv, sui giornali, nelle radio, in questi giorni è ripartita la strumentalizzazione dello spread, assistiamo ad un flusso di irritanti lezioncine e interferenze in casa nostra da parte delle cancellerie europee, di volgari euroburocrati e della stampa estera. A ragione o a torto (secondo me a torto, ma conta poco), la leadership tedesca non gode di grande popolarità in Italia in questo momento: le continue prese di posizione per Monti e contro Berlusconi (oggi il ministro delle finanze Schauble, ieri quello degli esteri e la cancelliera Merkel) danneggiano o favoriscono il Cav? Forse non lo faranno vincere, ma comunque lo aiutano più di quanto lo ostacolino.

Ma Galli Della Loggia parla di un altro regalo a Berlusconi: se il centro non è contro la sinistra oltre che contro la destra berlusconiana, infatti, non è un vero centro ma di fatto una costola della sinistra, e concede al Cav «l'esclusiva della contrapposizione alla sinistra», un ruolo politico che come osserva l'editorialista ha sia «buone ragioni» che una «grande storia alle spalle».

La funzione storica per cui varrebbe la pena che Monti scendesse in campo sarebbe quella di aggregare questo elettorato oggi ancora «politicamente orfano», presentandosi quindi come federatore di un nuovo centrodestra che superi sì Berlusconi, ma che sia anche alternativo alla sinistra.

Chi ci crede è Mario Sechi:
«Chi non si riconosce nel patto Bersani-Vendola oggi è di fronte o a un'offerta politica polverizzata o a un berlusconismo declinante. Il più che mai necessario ruolo di aggregatore oggi potrebbe averlo Mario Monti... Rispetto alla vicenda del Cavaliere, quello di Monti potrebbe essere un progetto politico "fusionista" più vasto e armonioso, basato su un programma da condividere».
In caso contrario, osserva Sechi, «il sistema politico italiano rimarrebbe ancora una volta ancorato alla figura di Berlusconi che – per assenza di competizione nel centrodestra – continuerebbe a influenzare lo scenario».

Di sicuro non è una mossa preparata in questi mesi di governo, durante i quali Monti si è inimicato proprio l'elettorato di centrodestra, basando la sua politica di risanamento su aumenti di tasse e subendo tutti i veti della sinistra sulle riforme e i tagli alla spesa. Il problema, quindi, è che il Monti aggregatore di un nuovo centrodestra dovrebbe anche mettere da parte la sua smisurata autostima per marcare una certa discontinuità nella politica fiscale rispetto alla sua prima esperienza di governo. Come suggerito da Panebianco, cioè indicando l'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese e attraverso quali tagli di spesa.

Temo però che Monti non farà questo passo, anche perché il personaggio crede di avere meriti extra-politici tali che non possono essere "sviliti" accettando il giudizio e/o mendicando il consenso degli elettori, e che il suo curriculum possa bastare per aprirgli le porte di qualsiasi incarico. Che decida di sponsorizzare un'operazione centrista in suo nome, o di condurre in queste settimane una campagna ambiguamente "parallela", preservandosi come "riserva della Repubblica", si prepara ad un ruolo di argine e allo stesso tempo di "legittimatore" post-voto - dalla sede istituzionale che si troverà ad occupare (Quirinale o Palazzo Chigi) - di una coalizione di centro-sinistra in cui l'azionista di maggioranza sarà il Pd di Bersani sostenuto da una stampella di centristi "montiani".

Tuesday, December 11, 2012

Per le riforme serve un mandato politico

«Ci dice qualcosa sulla situazione della politica italiana che ciò che i mercati sembrano temere di più è una fiammata di democrazia. Ma forse la vera lezione qui è che l'Italia - e il resto d'Europa - ha bisogno di una classe politica capace di generare consenso popolare per le riforme, piuttosto che cercare costantemente di imporle dall'alto».
Saggia riflessione quella del Wall Street Journal nell'edizione odierna. Lo slancio riformatore di un governo tecnico, anche il più autorevole, non è durevole, le sue riforme non irreversibili e comunque parziali e insufficienti. Il quotidiano però boccia l'attuale offerta politica: Bersani resta inaffidabile, nonostante la rassicurante intervista proprio al WSJ, perché troppo «dipendente» dall'estrema sinistra, e di Berlusconi si ricorda «il fallimento nel mantenere le promesse», nonostante il «chiaro mandato» per le riforme liberali, e che oggi, elettoralmente, secondo i sondaggi, il suo partito vale la metà di quello di Bersani.

«Qualcuno - conclude il WSJ - ha visto in Monti un'occasione per realizzare con mezzi tecnocratici ciò che il corso ordinario della politica italiana aveva mancato di realizzare». Ma una vasta riforma dell'economia, perché sia accettata in democrazia, deve avere un «mandato». «Monti non ne ha mai avuto uno e quindi è stato limitato in ciò che ha potuto fare. Adesso, grazie alla credibilità a pezzi di Berlusconi, la destra riformista è priva di un serio leader proprio nel momento in cui l'Italia ne ha più bisogno».

Anche l'altro autorevole quotidiano finanziario, il Financial Times, non mostra il minimo rimpianto per la stagione dei tecnici, anzi «il ritorno della politica a Roma è benvenuto». «La parentesi tecnocratica era necessaria per aiutare l'Italia a restaurare la sua credibilità, ma solo un governo eletto avrà la legittimazione per completare le riforme di cui l'Italia ha bisogno». Certo, «sfortunatamente» l'offerta politica sembra «inadeguata allo scopo». Per diversi motivi, che possiamo facilmente intuire, il quotidiano boccia Berlusconi, Grillo, ma anche Bersani. Vede invece uno «spazio politico» per Monti: «La sua presenza nella contesa elettorale darebbe agli elettori maggiore scelta e porterebbe la qualità necessaria nella politica italiana». Da "grand commis" è preoccupato di perdere il suo ruolo super-partes. «Ma in questo passaggio critico, i suoi istinti liberali potrebbero essere un'alternativa vincente al populismo di Berlusconi e un utile contrappeso al dubbio spirito riformista dei Democratici», conclude il Ft, dando l'impressione di protendere per un Monti alternativo a Berlusconi ma complementare, invece, a Bersani.

Anti-montiano, invece, fino al punto di concedere all'odiato Berlusconi qualche ragione, l'editoriale di Wolfganf Munchau, per il quale Monti è stato «una bolla» - un bluff, insomma, quante volte l'ho scritto su questo blog - buona finché politica e mercati ci credono, ma non si tarderà a scoprire che «nell'anno trascorso poco è davvero cambiato, tranne il fatto che l'economia è caduta in una profonda depressione».

I problemi dell'Italia si possono risolvere solo "politicamente" e «per quanto Berlusconi possa essere stato incapace e comico nel suo ultimo mandato, la sua diagnosi dei problemi dell'Italia è esatta», riconosce Munchau, coerente con la sua linea anti-austerità. Quindi suggerisce 1) di ribaltare l'operato di Monti (gli aumenti delle tasse e i tagli alla spesa); 2) di contrapporsi ad Angela Merkel, cosa che Monti non ha voluto, o è stato incapace di fare.

Curiosamente c'è una linea sottile che sembra unire certi autorevoli commentatori ed economisti, nostrani e non, il politico più screditato del continente (Berlusconi) e la sinistra più conservatrice: il rifiuto dell'austerity in qualsiasi forma si presenti, senza distinguere tra un rigore solo depressivo e una via virtuosa - possibile - al risanamento.

Monti, che si prepara a guardare da bordo campo la partita, pur senza rinunciare a "orientare" le scelte dei cittadini, dovrebbe riflettere su quanto scrivono WSJ e Ft circa la necessità di un mandato politico forte per le riforme economiche. Se pensa che basti tornare a Palazzo Chigi anche senza prima accettare il giudizio/raccogliere il consenso degli italiani, sostenuto da una coalizione post-voto tra progressisti e moderati, o addirittura di "garantire" per essa dal Colle, si sbaglia di grosso e sciupa un'occasione storica.

Di segno opposto il suggerimento di Angelo Panebianco: candidarsi per intercettare l'elettorato deluso da Berlusconi ma che non si rassegna ad affidarsi alla sinistra (o ad un'offerta di centro che odora di alleanza con la sinistra, aggiungo io). A quel punto la «misteriosa agenda Monti» dovrebbe diventare un programma, facendo cadere parecchi alibi: si potrebbe valutare la vera cifra riformatrice del professore e di chi oggi chiede voti in suo nome ma non su un programma concreto. Ma senza un'indicazione precisa, avverte Panebianco, sull'obiettivo di ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese, e sul "come", marcando quindi una discontinuità rispetto alla politica fiscale di questi 12 mesi, difficilmente Monti potrebbe conquistare quell'elettorato.

Nel futuro di Monti il ruolo di "legittimatore" di Bersani?


L'ennesima ricandidatura di Berlusconi è un atto di disperata resistenza – personale e politica – dal cortissimo respiro. Non ha alcuna possibilità di vincere, ma proprio per questo attribuire la reazione dei mercati al timore per un suo possibile ritorno al governo è azzardato. Le cancellerie europee e la comunità finanziaria non lo amano di certo, ma non ne temono il ritorno a Palazzo Chigi. A spaventare, semmai, è la possibilità che l'uscita di scena di Monti sia definitiva e che le elezioni le vinca Bersani. Una lettura – non molto lusinghiera per il Cav ma nemmeno per il segretario del Pd – che onestamente non si può escludere. E' già stato detto tutto il peggio della ri-discesa in campo del Cav, ma non che ha trovato dei complici inconsapevoli in quanti hanno sbagliato tutto negli ultimi 12 mesi. Ogni volta che ha fatto un mezzo passo indietro, quelli che avrebbero dovuto/potuto sostituirlo, alcuni dotati di risorse consistenti e autorevolezza mondiale, per una ragione o per l'altra non hanno mai fatto un mezzo passo in avanti.

Era proprio la via più sicura cercare di "rottamarlo", stringergli un cappio politico e giudiziario intorno al collo, invece di riconoscergli un ruolo di co-fondatore di un nuovo centrodestra? L'errore è stato pensare che gli italiani insieme a Berlusconi volessero liquidare il bipolarismo e una certa idea di centrodestra. Tutte, ma proprio tutte le operazioni volte al superamento del berlusconismo (Casini, Montezemolo, Alfano dall'interno) si sono rivelate operazioni "centriste". Mirano cioè a liquidare anche il bipolarismo, a costruire un grande centro perno del sistema, che da una parte, alla sua destra, isolerebbe la Lega, lo zoccolo duro berlusconiano, la destra ex missina, nonché i pochi, e poveri, liberisti, e dall'altra non chiuderebbe certo le porte ad un'alleanza con il Pd o con la sua componente riformista. Peccato che queste operazioni non decollano, il "popolo" di centrodestra sembra ancora affezionato allo schema bipolare di un centrodestra "fusionista", alternativo alla sinistra. Se tutti avessero avuto lo stesso progetto – un centrodestra alternativo al centrosinistra in uno schema bipolare – Berlusconi probabilmente avrebbe accettato di prendersene alcune "quote" e di farsi da parte (sostituito da Monti, da Montezemolo, o persino da Alfano).

Da un anno il Pdl è al 15%, l'area astensione/indecisi vicina al 50%, milioni e milioni di elettori di centrodestra in "libera uscita" sono arrabbiati e disgustati come non mai. Mai come oggi disponibili a prendere in considerazione nuove offerte politiche, a patto però che non odorino di alleanza con la sinistra. I Casini, i Montezemolo, i Monti, avevano due strade dinanzi a sé: o sedersi attorno a un tavolo con Berlusconi e organizzare un nuovo centrodestra offrendogli delle "quote"; oppure, scavalcarlo completamente, rivolgendosi però al suo elettorato con un'offerta politica di centrodestra, bipolare, chiaramente alternativa alla sinistra. Hanno scelto, invece, uno sterile tatticismo centrista. Per non "sporcarsi le mani", certo, ma anche perché coltivano un progetto diverso: di centro, non di centrodestra.

Le annunciate dimissioni risparmiano Monti da quel logoramento cui sarebbe stato sottoposto da parte di Berlusconi e del Pdl, ma possono essere interpretate sia come propedeutiche a una sua discesa in campo, diretta o indiretta, sia come una ritirata tattica per preservare la sua figura in vista di un incarico futuro (Palazzo Chigi o Quirinale). A questo punto, però, ci pare piuttosto remota l'unica ipotesi che darebbe al premier qualche chance dal punto di vista elettorale: un Monti che sfidando Berlusconi cercasse di conquistare l'elettorato di centrodestra, presentandosi in alternativa al centrosinistra e ricalibrando la sua agenda per i prossimi anni, spiegando cioè che il secondo tempo intende giocarlo diversamente dal primo. Un'operazione di fatto fondativa di un nuovo centrodestra, che però avrebbe dovuto preparare per tempo, non schierandosi politicamente ma perseguendo una via diversa al risanamento, non basata su aumenti di tasse e non subendo tutti i veti della sinistra.

Se Monti si facesse avanti alla testa, direttamente o indirettamente (concedendo l'uso del suo nome), di un'operazione centrista (Casini, Montezemolo), a prescindere dai pezzi di ceto politico, dal Pdl e dal Pd, che riuscisse ad aggregare, rischierebbe di andare incontro ad un misero 10-12% e, quindi, di bruciarsi. Resta l'ipotesi più probabile: Monti non si espone ma nemmeno resta in silenzio durante la campagna elettorale. Difende il suo operato, i sacrifici di quest'anno, la credibilità riconquistata in Europa, indicando implicitamente in Berlusconi e Grillo gli irresponsabili e, dunque, preparandosi a svolgere il ruolo di "legittimatore" di un governo di centrosinistra – o dal Quirinale, o da Palazzo Chigi se dalle urne dovesse uscire una situazione di stallo al Senato. E sarà un errore storico.

Monday, December 10, 2012

Beato chi non mistificherà il mio operato

«Non vanno drammatizzate» le reazioni dei mercati, ai quali ricorda che «questo governo è ancora in carica», nel pieno dei poteri, e chiunque dovesse vincere le prossime elezioni, assicura, «sarà responsabile con gli impegni presi con l'Europa». Non sta considerando, «in particolare in questa fase», la questione di una sua candidatura. Vede un rischio, quello dei «populismi», che «c'è in ogni paese» e che va combattuto «nella campagna elettorale». Si dice convinto che i cittadini siano «maturi, non disposti a credere a promesse irrealistiche, da qualunque parte arrivino queste promesse», e auspica che non ci siano «mistificazioni» del suo operato, e nel caso «qualcuno vorrà negare il fondamento di queste cose fatte, mi auguro che ci siano altri che argomenteranno in senso opposto».

Il suo primo intervento da "dimissionario" lascia intendere che Monti non abbia alcuna intenzione di bruciare le sue carte, né di intralciare Bersani, candidandosi apertamente e che, anzi, con una certa malizia stia offrendo la sua "benedizione" ex post a chi durante la campagna elettorale non mistificherà il suo operato. Sarebbe forse azzardato leggervi, in filigrana, un "sì" ad una specie di ticket Bersani-Monti (il primo a Palazzo Chigi, il secondo al Quirinale, come "garante" non solo della Costituzione ma anche degli impegni presi dall'Italia in Europa), ma in queste parole sembrano esserci tutti i concetti che Monti si limiterà a ripetere durante la campagna elettorale, preparandosi quindi non a scendere in campo per guidare un fantomatico «schieramento liberale» (dove sarebbe?) contro lo «squadrone» di Bersani, bensì ad un ruolo di "legittimatore", agli occhi della comunità internazionale e del mondo finanziario, di un governo di centro-sinistra (dal Quirinale, o da Palazzo Chigi se dalle urne dovesse uscire una situazione di stallo al Senato).

Su una cosa ha ragione Wolfganf Munchau: «Mr Monti's year in office has been a bubble» e «little has really changed over the past year, except that the economy has fallen into a deep depression». I problemi dell'Italia si possono risolvere solo "politicamente" e «per quanto Berlusconi possa essere stato incapace e comico nel suo ultimo mandato, la sua diagnosi dei problemi dell'Italia è esatta».

E ha senz'altro ragione anche Luca Ricolfi, su La Stampa:
«Monti ha fatto molto di meno di quello che ci si sarebbe aspettati da un presunto liberale come lui. Monti ha ritenuto che il problema numero uno dell'Italia fosse ridurre il deficit dei conti dello Stato e che l'unico mezzo per farlo fosse aumentare le tasse. Ha provato a liberalizzare, ma si è fermato quasi subito e su quasi tutta la linea. Ha molto parlato di ogni genere di riforme, ma di riforme incisive e riuscite ne abbiamo viste ben poche. Se avesse osato di più, tagliando di più costi della politica e sprechi, e risparmiando i produttori di ricchezza, oggi ci sarebbero (leggermente) meno famiglie in difficoltà e (decisamente) più speranze per il futuro».
Il che non significa, ovviamente, che se fosse rimasto Berlusconi la situazione oggi sarebbe migliore. Tutt'altro. Ma che Monti in questo anno non ha posto le premesse per una discesa in campo nell'unico spazio politico, quello di centrodestra, lasciato vuoto dal fallimento del berlusconismo, piuttosto si è inimicato quell'elettorato, mai come oggi ben disposto a valutare nuove offerte politiche (non centriste e terziste, però), sprecando così una grande occasione storica.

Friday, December 07, 2012

AAA nuova offerta politica di centrodestra cercavasi

Anche su L'Opinione e Notapolitica

AAA nuova offerta politica di centrodestra cercasi. Ha avuto un anno di tempo per manifestarsi. Un anno in cui Berlusconi – tra passi indietro, avanti e di lato – e il Pdl sono rimasti nel totale immobilismo, anzi impegnati in un'incessante opera di autolesionismo, travolti dagli scandali, in verticale perdita di consensi. Mai momento fu più propizio. Il Cav. era all'angolo, il suo partito allo stremo. Perché non si è (ancora) manifestata questa nuova offerta? Dov'è quel PPE italiano che avrebbe dovuto aprire l'era post-berlusconiana? E non si risponda finché Berlusconi è in campo eccetera eccetera. Cosa bisogna aspettare per farsi avanti, che muoia? Mai le truppe berlusconiane sono state così sbandate e il loro generale così lontano dal campo di battaglia. Eppure...

Tutti coloro che con ottime ragioni hanno manifestato la necessità di liquidare il fallimentare berlusconismo sostituendolo con una forza popolare, moderna, europea, hanno commesso un errore fatale. Invece di rivolgersi direttamente al "popolo" deluso e disgregato di centrodestra – come fece con successo Berlusconi nel 1994, durante la prima grave cesura del nostro sistema politico repubblicano – si sono gingillati in esasperati tatticismi, intestarditi in manovre tutte interne al ceto politico, ignorando un dato fondamentale nel paese: in questo ventennio gli elettori di centrodestra, pur con tutte le loro differenze, sono stati abituati a ragionare in termini bipolari e alternativi al centrosinistra. Questa "alternatività" i milioni di elettori lasciati per 12 mesi in libera uscita da una forza che dal 38% è scesa al 15, non l'hanno vista in Casini, di cui già non si fidavano, né in Montezemolo e nella sua ItaliaFutura, né in Monti, e addirittura nemmeno nei liberisti duri e puri di FermareilDeclino. Non credono più a Berlusconi, sono disgustati dal Pdl, ma i sondaggi e le parziali scadenze elettorali di quest'anno dimostrano che non si sono spostati a sinistra, né sono attratti dal Terzo polo o da Grillo. Sono sì in attesa di una nuova offerta politica, ma chiaramente di centrodestra.

Gettare le fondamenta di un PPE italiano attorno alla personalità di Mario Monti avrebbe potuto (potrebbe ancora?) funzionare se il professore avesse accettato – non subito, ovviamente, ma sul finire della legislatura – di giocare un simile ruolo politico, visto che lui stesso si è definito culturalmente vicino al popolarismo europeo. Il premier, insomma, doveva decidere se diventare un De Gasperi, un Ciampi, o un Dini. Ma se Monti preferisce restare super partes, riserva della Repubblica, per i soggetti che a lui si richiamano (Casini e Montezemolo) si fa dura: significa di fatto rendersi disponibili a fare le "stampelle centriste" di un Monti-bis sostenuto da una maggioranza egemonizzata dalla sinistra Bersani-Cgil. Una prospettiva che non può allettare gli elettori di centrodestra.

Per Casini si trattava di lavorarsi i "montiani" del Pdl affinché spingessero Alfano a rottamare Berlusconi. E per poco non gli riusciva. Ma a parte il fatto che gli elettori di centrodestra non avrebbero affatto seguito una classe dirigente, quella del Pdl, di cui non hanno alcuna stima, verso un "centrismo montiano" non chiaramente alternativo alla sinistra, visto che il professore non si schiera, c'è anche da dubitare che Casini a quel punto avrebbe dato seguito alla chimera dell'"unità dei moderati", visto che ha sempre lavorato a destrutturare il bipolarismo, per un sistema in cui il centro possa di volta in volta, dopo il voto, allearsi con chi esce vincitore dalle urne.

Anche Montezemolo, pur respingendo qualsiasi "avance" di pezzi del vecchio ceto politico, ha ceduto però ad alcuni autoproclamati (e molto interessati) rappresentanti della cosiddetta "società civile". Timoroso di scendere in campo in prima persona, anche lui ha dato il nome di Monti alla sua lista e lanciato un'alleanza con il mondo del socialismo cattolico – Acli, Sant'Egidio, Cisl – che, come ripete da un paio di giorni uno dei suoi più autorevoli esponenti, guarda al Pd.

FermareilDeclino è l'unica potenziale nuova offerta che non ha peccato di politicismo e si è concentrata sui contenuti. Ma ha ecceduto in anti-berlusconismo – viscerale, sconfinato in un atteggiamento di colpevolizzazione dell'elettorato di centrodestra – e in intellettualismo. Tipico dell'intellettuale è il gusto della provocazione e il voler convincere tutti delle proprie tesi – così si spiegano gli appelli a Renzi e ai suoi elettori scambiati per liberisti "in sonno" – mentre l'iniziativa politica richiede di individuare la tipologia di elettori cui rivolgersi per affinare il messaggio.

Insomma, per ragioni diverse – nobili quelle di Monti e dei promotori di FermareilDeclino, "politiciste" quelle di Casini e Montezemolo – nessuno finora ha davvero messo in campo una nuova offerta politica di centrodestra. Dunque, se oggi Berlusconi può osare ri-discendere in campo, è soprattutto per il vuoto lasciato dall'esasperato tatticismo di chi, probabilmente, non ha mai avuto in mente un'idea di centrodestra maggioritario a cui gli elettori potessero sintonizzarsi.

Monti decida chi vuole essere: Ciampi, Dini o De Gasperi

Anche su Notapolitica

Che si consideri un errore, una farsa, o tragicomica la ricandidatura di Berlusconi, non si possono ignorare fondamentali leggi della politica che varrebbero per chiunque al suo posto. Sul serio: come si può pensare di far accettare a un leader come Berlusconi quello che sta subendo senza che reagisca? A nessuno – tanto meno a uno come Berlusconi – si può chiedere di subire una "Piazzale Loreto". Chi ne ha il coraggio e la forza vada a prenderlo e lo appenda a testa in giù, ma non si appenderà da solo. Perché a questo equivale chiedere a Berlusconi di accettare una legge elettorale che liquida il Pdl e il bipolarismo (e, tra l'altro, peggiore del porcellum); di lasciare che la sua classe dirigente per riciclarsi svenda la sua eredità politica, quale che sia, ad un non meglio definito "centrismo montiano"; di continuare a sostenere un governo che lancia la volata al centrosinistra, che si prepara, a pochi mesi dal voto, a varare un decreto "ad personam" per non farlo candidare, e i cui ministri usano la propria carica come trampolino di lancio in politica. E tutto questo senza alcuna prospettiva di un nuovo centrodestra, nemmeno della cosiddetta "unità dei moderati"? Guardiamoci negli occhi, caro Monti, cari amici di sinistra: era realistico pensare che la tenuta del governo non ne avrebbe risentito?

Semplificando al massimo, la scelta del Pdl è se morire berlusconiano o morire democristiano, seppellendo un'idea di centrodestra mai nata. In un senso o nell'altro si tratta sempre di morire, questa non è una scelta, si può scegliere solo il "come". Dal "come", però, dipendono molte cose future. La questione non è Berlusconi sì o no – lo è per coloro cui è utile, anzi indispensabile l'equivoco Berlusconi per giustificare la propria funzione politica – ma è la prospettiva: e quelle che vedo in giro sono solo tante "stampelle centriste", neppure capaci di unità tra di loro e di una proposta programmatica chiara, altro che un nuovo centrodestra "normale", europeo, alternativo alla sinistra.

La "proposta montiana" (semplifichiamo: Montezemolo, Casini e i "montiani" del Pdl) si pone già oggi come «appendice diniana», si accontenta di un ruolo di argine, per «riequilibrare a destra una sinistra sbilanciata a sinistra». Non si pone come nuova offerta politica di centrodestra (per superare Berlusconi, magari!), ma come "stampella centrista" di un Monti-bis: non potrebbe essere altrimenti, perché sostenendo Monti – e dal momento che Monti non si schiera come alternativo alla sinistra e, anzi, resta super partes – non potrebbe mai escludere l'eventualità, piuttosto probabile, di trovarsi in una coalizione sì con Monti di nuovo premier, ma che avrebbe per forza di cose (visti i numeri) come azionista di maggioranza il Pd di Bersani. E una simile coalizione politica, nonostante il "top player" Monti, potrebbe fare solo del male all'Italia.

Ora, a molti del Pdl questa prospettiva può piacere, perché ci tengono alla loro carriera e capiscono che tutto ciò che restasse a destra verrebbe isolato, e anche perché comunque – intento più che dignitoso – si andrebbe a rafforzare il ruolo di Monti come argine alla sinistra. Non ci si può stupire però che la cosa non piaccia a Berlusconi e a molti la cui idea di centrodestra era diversa e ben impiantata in una logica bipolare e "fusionista". Per non parlare del fatto che la "proposta montiana" senza un Monti chiaramente alternativo alla sinistra non è elettoralmente attraente: l'elettorato di centrodestra ha già dimostrato di non seguirla e si dividerà tra astensionismo e ridotta berlusconiana. Il che indebolisce la prospettiva di un Monti-bis, perché con una doppia, forte legittimazione di Bersani (primarie e politiche), il centro "montiano" che non arriva al 10% e un centrodestra frammentato, e radicalizzato da Berlusconi, sarebbe difficile spiegare a Bersani che deve restare in panchina.

Per sostituirsi allo schieramento berlusconiano quello "montiano" deve candidarsi senza ambiguità in alternativa al centrosinistra. Ma anche ammesso che lo facesse (e non mi pare questa l'intenzione di Casini e Montezemolo, che si allea con le Acli scaricando Giannino), se Monti resta super partes l'operazione non sarà credibile agli occhi degli elettori di centrodestra. Quindi, o Monti si sveglia e si impegna – con chi ci sta – a guidare un centrodestra moderno, europeo, liberale (evviva!), o ci becchiamo lo spettacolo che stiamo vedendo. Insomma, Monti vuol essere Ciampi, Dini o De Gasperi? Questo sarà pure legittimo chiedere di saperlo prima di votare, o no?

Thursday, December 06, 2012

Il liberismo "buono" è solo quello che non c'è: a sinistra

La sudditanza culturale dell'"intellettualità liberista"

Al direttore – Da liberista mi ritrovo più nella critica di Mucchetti all'"intellettualità liberista" che guarda a sinistra che nella replica del liberista Stagnaro. Non c'è dubbio, Renzi è un innovatore, ma il suo approccio è "blairiano", non liberista. Da liberisti tifiamo tutti per lui, perché una sinistra moderna, "blairiana", che abbraccia mercato e merito, non può che far bene a se stessa e al paese. E guardando al deserto che offre l'attuale centrodestra, dal punto di vista di un elettore liberale-liberista avrebbe potuto senz'altro rappresentare il male minore, se avesse vinto le primarie. Ma da qui a pensare di costruire un'offerta politica liberista suggerendo al sindaco di Firenze di uscire dal Pd per guidarla (Giannino), o appellandosi ai suoi elettori delusi (Zingales), ce ne passa.

L'affermazione "il liberismo è di sinistra" ha senso solo come provocazione intellettuale, in un mondo ideale in cui la sinistra si batte per offrire maggiori opportunità agli outsider meritevoli, per uno Stato leggero che concentra le sue risorse sui veri bisognosi, e la destra favorisce insider e status quo. Ma se calata nella realtà politica dei paesi occidentali nell'ultimo secolo, ma anche nell'ultimo ventennio, è un ossimoro: la destra non sarà stata quasi mai un modello di liberismo, ma quasi sempre molto meno statalista della sinistra. Chi ambisce a costruire un'offerta politica liberista non può ignorare cos'è stata e cos'è la sinistra in Italia (e non solo), cosa pensano i suoi leader e quali sono gli interessi dei blocchi sociali che tradizionalmente rappresenta.
LEGGI TUTTO su ilFoglio.it

Wednesday, December 05, 2012

Verso la Terza Stampella?


C'è un'ala liberale e riformatrice, in ItaliaFutura, che ieri è andata in «subbuglio», come scrive Arnese su Formiche.net, quando ha letto su Repubblica un autorevole firmatario del manifesto Verso la Terza Repubblica, il presidente delle Acli Andrea Olivero, prospettare «un'alleanza strategica» con Bersani e Casini, sottolineare la necessità di «unire il centro alla sinistra», di «mettere insieme le forze tradizionali del centrosinistra e quelle liberali del cattolicesimo sociale [almeno la distinzione tra cattolicesimo liberale e cattolicesimo sociale la vogliamo conservare?] e del mondo dell'impresa». Con Monti a Palazzo Chigi, ovviamente.

Sempre su Formiche.net, un firmatario dello stesso manifesto, Paolo Mazzanti, esprimeva un'idea molto diversa sull'impegno di Monti, diciamo alternativa a Bersani-Vendola: «Uno schieramento che s'ispira all'agenda Monti non potrà che essere alternativo al centrosinistra a trazione bersanian-vendoliana». E ancora: «Se Monti s'impegnerà direttamente, sarà probabilmente possibile riunire tutte le forze di centro e parte delle forze di centrodestra che s'ispirano alla sua azione in un'unica coalizione. Se invece Monti deciderà di restare super partes, ognuno andrà probabilmente per conto suo. E le probabilità di vittoria dell'asse Bersani-Vendola aumenteranno».

In serata arrivava la nota di ItaliaFutura: tante belle parole, liberali e riformatrici, per ribadire equidistanza tra l'«Unione 2.0» e la «Forza Italia 2.0». Peccato che l'alleanza - appena siglata! - di Montezemolo con Acli, Sant'Egidio e Bonanni (Cisl), da cui è scaturito il manifesto V3Rep dica tutt'altro: Olivero (le Acli, non una minuzia) vuole allearsi con l'Unione 2.0. Come la mettiamo?

Con un «Grazie, è stato un piacere, ma non ci siamo ben capiti», mi risponde su twitter Romano Perissinotto, fondatore del Comitato Italia Futura Lombardia. Che ne è, dunque, di V3Rep e dell'alleanza con Acli, Sant'Egidio e Bonanni? «E' una grande realtà che può fare a meno delle dichiarazioni di Olivero». Sarà anche una grande realtà, quella in cui possono convivere chi si sente alternativo e chi complementare a Bersani-Vendola, ma a me pare un gran casino. Montezemolo ha stretto alleanza con le Acli poche settimane fa, oggi Olivero dichiara che si vuole alleare con Bersani. Diciamo che la nota della serata di ieri, che ripropone il minestrone "popolare, liberale e riformista" (mancano solo fascisti e comunisti), e l'intervista di Andrea Romano oggi, non sono sufficienti a sgombrare il dubbio che una lista Montezemolo-Riccardi possa prima o dopo il voto allearsi con il Pd bersaniano. Giannino su questo almeno aveva visto giusto, era assurdo che FiD seguisse i montezemoliani verso la Terza Stampella del Pd.

C'è poi Daniele Bellasio che si chiede come mai «il centro non sfonda», anzi è «in crisi» (crisi che va ben oltre l'ambiguità di Monti), in un contesto apparentemente così favorevole (Pd che si sposta a sinistra e centrodestra praticamente inesistente). Sarà che nonostante il disgusto gli italiani restino affezionati al bipolarismo e respingano i tatticismi centristi? Certo, potrebbero essere Montezemolo e Casini «l'altro polo», se non stessero ancora lì sul punto di fare la stampella alla sinistra-sinistra di Bersani-Vendola. La realtà è che sembrano mancare convinzioni sufficientemente forti per sentirsi, e quindi essere percepiti dall'elettorato, come alternativi alla sinistra. C'è sempre il sospetto, più che fondato, che l'intenzione sia quella di allearsi con il centrosinistra e dichiarazioni come quelle di Olivero ne sono la conferma.

Mario & Mario: i meriti di Draghi e i tentennaMonti

Anche su L'Opinione

C'è un Mario (Monti) usurpatore dei meriti dell'altro Mario (Draghi). Se, infatti, vediamo calare lo spread, per la prima volta dal marzo scorso al di sotto della soglia 300, e i rendimenti del btp decennale, il merito principale va attribuito al Mario che presiede la Bce e non al Mario presidente del Consiglio. Quest'ultimo si mostra compiaciuto del risultato, se ne attribuisce i meriti, rivela che il suo "inconfessato" desiderio è lasciare con lo spread a 287, la metà esatta dei 574 punti trovati al suo ingresso a Palazzo Chigi. I giornali mainstream hanno accreditato l'idea che sia sostanzialmente merito delle politiche del professore, anche se ancora fino al luglio scorso lo spread aveva ripreso a salire e da allora fino ad oggi non si può certo dire che il governo abbia adottato misure eccezionali.

La realtà è che il "mood", l'umore di fondo dei mercati, è cominciato a mutare dopo la ferma presa di posizione di Mario Draghi, il quale proprio nel luglio scorso ha assicurato che la Bce farà tutto il necessario («whatever it takes») per evitare la rottura dell'euro, accompagnando le sue parole con la messa a punto dello scudo anti-spread, un meccanismo d'intervento condizionato, non automatico, ma potenzialmente illimitato, a sostegno del debito dei paesi eurodeboli in difficoltà che dovessero richiederlo accettando di sottoporsi alle condizioni della Bce e del fondo Esm. Un firewall ritenuto per il momento sufficiente dai mercati, i quali in particolare in questi giorni sono rassicurati dal "buyback" di Atene e da un certo ammorbidimento delle posizioni tedesche. Insomma, oggi lo spettro di un default della Grecia e di una rottura dell'euro sembra un più lontano.

In questo senso si può dire che lo spread del novembre scorso non era solo colpa di Berlusconi, ma dipendeva per lo più da fattori esogeni. Merito indiscutibile di Monti, però, è la sua credibilità personale: senza di essa, senza un governo affidabile, con la “fedina politica” immacolata, sarebbe stato politicamente impossibile per Draghi intervenire e per la cancelliera Merkel e gli altri euromembri concederci un'apertura di credito. I meriti del professore, tuttavia, finiscono qui, perché con le politiche del governo tecnico tutti i fondamentali dell'economia italiana sono drammaticamente peggiorati. Non si pretendevano miracoli in un solo anno, ma anche le previsioni per l'anno prossimo sono piuttosto fosche. Questo perché Monti ha scelto una via al risanamento contraria a quella, virtuosa (o meno dannosa), suggerita da Draghi, agendo con tempestività ed efficacia sul lato delle entrate – ma è fin troppo facile inventare e imporre nuove tasse, chiunque può riuscirci – e fallendo, invece, nell'avvio delle riforme strutturali che avrebbero dovuto aiutare il paese a crescere: timide o fasulle liberalizzazioni e semplificazioni; una controriforma quella sul lavoro; a rischio fallimento persino quella delle pensioni, a causa del "cavallo di troia" degli esodati; risibili tagli alla spesa e dismissioni. Insomma, Monti ha – per ora – salvato lo Stato, non gli italiani.

L'economista Zingales suggerisce di sfruttare il momento favorevole per aderire al programma Omt della Bce, mettendo così in sicurezza i nostri sacrifici, proprio perché l'attuale premier gode di una credibilità, agli occhi di Berlino, di cui non godrebbe un governo Bersani-Vendola, e perché immune dai costi politici che la richiesta di aiuti comporta. A meno che Monti non coltivasse l'ambizione di tornare a Palazzo Chigi. In quel caso nemmeno lui potrebbe permetterseli.

Ma i principali fatti della settimana – quello economico, il calo dello spread – e quello politico – il successo di Bersani alle primarie del centrosinistra – rendono più o meno probabile un Monti-bis? Da una parte, aiutato dalla grande stampa, Monti può attribuirsi i meriti del primo e avvalersi del secondo come spauracchio agli occhi di un'ampia fetta di elettorato; dall'altra, lo spread in calo affievolisce il senso di emergenza favorendo il ritorno dei partiti e una doppia, forte legittimazione di Bersani – primarie e politiche – alla guida di un'alleanza Pd-Sel intorno al 30-35% renderebbe problematico negare al leader uscito vincitore dalle urne l'ingresso a Palazzo Chigi.

Se Monti rifiuterà di "politicizzarsi", di schierarsi apertamente in alternativa alla sinistra-sinistra, accontentandosi – come sembra – di fungere, al massimo, da argine o da riserva della Repubblica, le forze di centro e centrodestra si presenteranno in ordine sparso e l'Italia sarà governata da Bersani-Vendola, o ben che vada ci sarà il Monti-bis, ma sostenuto da una maggioranza a trazione Pd-Cgil con la stampella centrista Casini-Montezemolo.

Tuesday, December 04, 2012

Okkupazioni e bancarotta educativa

Banchi vuoti, cervelli disoccupati

Un quadro avvilente quello emerso dal mondo della scuola nella trasmissione 24Mattino, oggi su Radio24. Si parla di occupazioni (i casi si moltiplicano in prossimità delle festività del 7 e 8 dicembre!). Interviene un preside di Milano che «dialoga tutto il pomeriggio» con gli occupanti, che alla fine minaccia di denunciarli non perché l'occupazione sia di per sé un atto illegale e violento, un'interruzione di servizio pubblico, un uso privato di proprietà pubbliche, ma perché non è scaturita da «un'assemblea autorizzata», insomma «è mancata la trafila democratica». I motivi che giustificano l'occupazione, ovviamente, non mancano: il disagio giovanile, la crisi economica, la prospettiva di una «scuola di classe» (!), e «l'ansia di giustizia sociale» che da sempre contraddistingue i "gggiovani".

Prende la parola un sottosegretario, Marco Rossi Doria. Da un rappresentante del governo uno si aspetterebbe un richiamo alla legalità. E invece niente, zero, anzi con nonchalance Rossi Doria racconta di aver "okkupato" ai suoi tempi e giustifica le okkupazioni di oggi: «Ho occupato per due giorni, fummo sgombrati dalla polizia. C'era la piena occupazione, i giovani avevano in concreto una prospettiva più rosea, non sono di quelli che dicono "le mie occupazioni erano belle e giustificate e queste no"». Anzi, «dobbiamo cogliere quest'ansia», la prospettiva che hanno di fronte gli studenti oggi è «più difficile» di quella dei loro «compagni di 20, 30 o 40 anni fa» (se quelli usavano spranghe e pistole, oggi che è «più difficile» cosa dovrebbero usare?). Ci si accontenta che le scuole non vengano «vandalizzate», e pazienza se le funzioni del servizio pubblico vengono sospese, i diritti di altri studenti calpestati.

Poi è il turno dell'insegnante Gianna, da Prato, che invece di fare lezione fa ascoltare la trasmissione in classe! «Cos'ha fatto questo governo per investire nella scuola?». Parola al rappresentante di classe, 16 anni, che - poveretto - farfuglia al telefono, fa la figura dell'imbecille, riesce ad abbozzare un motivo di doglianza solo quando la prof da dietro gli suggerisce cosa dire: «I tagli verso gli insegnanti, verso l'istruzione». Che dire? Un'altra dimostrazione della bancarotta educativa in cui versa da decenni il nostro paese e che non ha nulla - ma proprio nulla! - a che fare con la scarsità delle risorse economiche. Aggravata dal fatto che in questi anni gli studenti vengono strumentalizzati non solo dalla politica ma anche dalla corporazione degli insegnanti, da cui dovrebbero pretendere qualità e dedizione, e che invece sostengono nella loro difesa interessata dello status quo.

A parte il fatto che nel 99% dei casi il disagio e la protesta non c'entrano nulla - si tratta di un manipolo di agitatori che si portano dietro decine di ragazzini ansiosi di farsi accettare dalla comitiva, di fare qualcosa di "figo", e per altri semplicemente di andarsene in giro a divertirsi - anche se fossero animate dalle più condivisibili motivazioni, in ogni caso le occupazioni sono atti illegali che tolgono credibilità all'istituzione e danneggiano la didattica, facendo saltare intere settimane di lezioni e altre attività. Sì alla protesta, ma fuori dalla scuola. A scuola si fa lezione e si studia.

Se davvero, come si sente dire, la scuola deve tornare «al centro dell'attenzione nazionale», la tolleranza zero con le okkupazioni dovrebbe essere il primo passo per ridare dignità all'istituzione. Il secondo è cacciare i presidi che le subiscono e gli insegnanti che fanno propaganda e strumentalizzano i propri studenti. Chi ha il coraggio non dico di farlo, ma di dirlo?

Monday, December 03, 2012

E adesso? Consigli non richiesti al "giovane" Renzi

In queste ore tutti a dare consigli a Renzi, cosa deve o non deve fare. Premesso che mi sembra se la sia cavata benissimo da sé, mi unisco al giochino con due parole, anzi quattro. Partiamo da una mini-analisi del voto, cosa gli è mancato. Non ha sfondato tra gli elettori tradizionalmente del Pd, di sinistra: molti di questi lo hanno seguito sul concetto di "rottamazione" interna, insomma per un rinnovamento generazionale, ma solo su questo. E' sui contenuti che non ha potuto allargare il consenso, perché presso quell'elettorato è indubbio, bisogna ammetterlo, quei contenuti liberali, chiamiamoli "blairiani", non hanno alcuna presa. Anzi, suscitano sospetti e ostilità anche feroci. Lungi dall'aver dimostrato che le sue idee «fanno parte del patrimonio del centrosinistra», con un loro peso e un loro consenso, Renzi ha perso proprio perché da quell'elettorato sono avvertite (ancora) come «una specie di cavallo di troia della destra». Per farcela, dunque, si sapeva fin dall'inizio, avrebbe avuto bisogno dell'appoggio in larga misura di elettori non di sinistra, voti d'opinione, indipendenti o di centrodestra, che però sono stati tenuti a debita distanza dalle regole. Non solo dalla impossibilità pratica di registrarsi al ballottaggio, ma anche dal dover dichiarare il falso all'atto della registrazione, cioè l'impegno a votare centrosinistra qualunque candidato avesse vinto. Sì, c'è ancora qualcuno che non mette la sua firma a cuor leggero.

E adesso? Sicuramente Renzi non deve abbandonare il Pd, per i motivi che lui stesso ha spiegato. Non se ne può più di gente che cambia casacca o si fa il suo partitino. Dobbiamo abituarci ad un sistema maturo in cui chi vuole far politica sceglie una parte della barricata e porta avanti le proprie idee all'interno di essa, almeno laddove esiste un minimo di contendibilità della leadership. Credo che al di là della legge elettorale scopriremo che gli italiani sono ancora piuttosto affezionati dal concetto di bipolarismo. Fermareildeclino e ItaliaFutura che a loro modo fanno appello agli elettori di Renzi delusi dalla sconfitta, o addirittura sognavano che il sindaco di Firenze uscisse dal Pd per offrirsi come loro leader, figura di cui sono drammaticamente sprovvisti, fanno tenerezza: non hanno capito che il 90% dei suoi elettori alle primarie voteranno comunque Pd e che Renzi non è un "liberista".

Renzi ora deve tornare a fare il sindaco, come aveva promesso, non deve parlare più fino alle elezioni. Il candidato premier è Bersani e, com'è giusto, dove non richiesto Renzi non deve intervenire per non offrire il fianco a strumentalizzazioni: per lealtà, e per sua stessa convenienza. Il congresso sarà la sua prossima partita e se il Pd sarà al governo potrà ricominciare a tessere, senza però dare l'impressione del sabotatore dell'esperienza di governo appena cominciata. L'establishment del partito cercherà di neutralizzarlo, con proposte piuttosto generose ai suoi uomini, per allontanarli da lui, o "normalizzandolo" in una corrente. Renzi deve evitare di farsi "correntizzare". E se Bersani riesce davvero ad arrivare a Palazzo Chigi, non deve assolutamente condividere responsabilità di governo, non deve fornire alibi: meriti e demeriti siano tutti attribuibili al segretario. Qualche parlamentare di riferimento, più che altro ideale, ma non una "componente" a lui riconducibile, perché o si sputtana, se costretto a sostenere per lealtà provvedimenti impresentabili, o passa per traditore se esercita spirito critico. Renzi si deve divincolare, insomma, dall'abbraccio che quasi sicuramente tenterà l'Apparatchik.

Tanto, se tutto andrà come deve andare, o Bersani a Palazzo Chigi non ci entra proprio, e Renzi avrà gioco facile a dimostrare l'ennesimo fallimento di credibilità della vecchia guardia, o ci entra ma non dura più di uno o due anni al massimo. In ogni caso, potrebbe essere una legislatura breve, di transizione.

Saturday, December 01, 2012

Sinistra irriformabile: perso il "treno" Renzi

Perso l'ennesimo treno verso democrazia e modernità

Con ogni probabilità sarà Bersani a vincere le primarie del centrosinistra, nonostante sia stato letteralmente asfaltato nel duello tv su Raiuno. Perché l'elettorato tradizionale della sinistra è molto conservatore e diffida delle ricette dal retrogusto liberale di Renzi e persino del suo modo "moderno" di comunicare (solo perché brillante si merita l'accusa di "cripto-berlusconismo"); e perché regole assurde (dover sottoscrivere un impegno a votare centrosinistra qualunque candidato vinca e inventare una giustificazione plausibile per votare al ballottaggio se non ci si è registrati al primo turno) hanno reso le primare molto meno aperte di quanto asserito e di quanto sarebbe servito al sindaco di Firenze per sperare di scardinare l'Apparatchik. Certo, ci si può accontentare della percezione di vitalità trasmessa al pubblico rispetto alle macerie, e miserie, del campo avversario, il fu centrodestra, ma la realtà è che alle prime vere primarie, dove il principale competitor non si accontentava di percentuali concordate a tavolino, il Pd ha mancato l'ennesimo appuntamento con la democrazia e la modernità.

L'amara realtà è che la sinistra in Italia è irriformabile: il popolo "de sinistra" – vertici e gran parte della base elettorale – è terrorizzato dalla prospettiva di un proprio leader capace di attirare l'elettorato indipendente o di centrodestra e reagisce abbandonandosi ai peggiori istinti, quelli dell'epurazione. Preferisce appaltare il compito (alla Margherita prima, forse a Casini oggi) e restare nel suo rassicurante recinto ideologico (e antropologico), anche se minoritario, piuttosto che conquistare/accogliere nuovi elettori e aprirsi a nuove idee.

È più forte di loro: gli ex Pci (ma anche gli ex Dc) i concetti di democrazia ed economia di mercato non li hanno proprio afferrati, non li hanno ancora assimilati. Dopo la caduta del Muro si sono adeguati, perché così richiedevano le convenienze e le convenzioni del momento, dei tempi. Ma non riescono a convincersi intimamente di potersi affidare pienamente né alle logiche della democrazia né a quelle del mercato, che nelle loro proposte restano sospese tra un simulacro e una presa in giro. Ascoltiamo Bersani discutere del patrimonio degli italiani come di una ricchezza che si può in ogni momento requisire per un preteso bene superiore, ancora convinto che spetti al governo «dare» lavoro, dimostrando di non possedere alcuna cognizione di come la ricchezza si crea.
LEGGI TUTTO su L'Opinione