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Friday, March 30, 2012

La giornata: tregua Monti-partiti, ma nulla sarà come prima

Con una furba lettera al Corriere Monti ha chiuso la lite con i partiti, ma è solo una tregua. Nulla infatti sarà come prima. Ad aprire la nuova fase, la scelta del ddl come veicolo legislativo della riforma del lavoro. Un vistoso rallentamento, un segno di debolezza, per di più accompagnato dalle prime crepe all'interno dello stesso Cdm, con alcuni ministri a giocare di sponda con il Pd. Dal suo tour asiatico Monti ha provato a tirare le redini, ripetendo né più né meno i ragionamenti sui partiti che fa dal giorno dell'investitura. Solo che nel frattempo i partiti hanno cambiato atteggiamento e li recepiscono diversamente. Anche i filo-governativi Corriere e Repubblica stavolta hanno ripreso il premier per le sue esternazioni.

Nella sua lettera di pacificazione Monti sembra usare il tono sarcastico di chi sta in realtà negando le cose che afferma. Se l'Italia ha imboccato la via delle riforme, è merito dei partiti e della maturità del Paese. Dopo le elezioni del 2013 torneranno sì i politici, ma vedrete che il loro comportamento, si dice certo, «non sarà quello di prima». Le sue parole quindi sono state fraintese, anzi intendeva l'esatto opposto di come è stato interpretato in Italia: non attacco i partiti, al contrario cerco di spiegare agli investitori esteri che il merito della nuova fase è proprio dei partiti. Peccato che all'estero, non manca di segnalare con tono finto-addolorato, resta la «percezione errata» che il merito delle riforme sia dei tecnici, e che il «nuovo corso possa essere abbandonato quando, dopo le elezioni, torneranno i politici». Sottinteso: mica vorrete accreditare questa "errata" percezione!

Nonostante la sensazione di presa per i fondelli, i partiti accolgono la tregua, ma è Casini che mette i puntini sulle "i": se il governo è riuscito a fare quello che ha fatto, «lo deve alla politica e non allo Spirito Santo. Siamo noi che lo sosteniamo». Insomma, l'aria è cambiata, la luna di miele è finita, e con essa probabilmente anche la spinta riformatrice del governo. Anche perché a suggellare la nuova fase sono arrivate le raccomandazioni del capo dello Stato, il quale predica concordia e coesione, sostiene Monti nella sua agenda di riforme, ma allo stesso tempo fa capire che d'ora in poi sarà più stringente il suo controllo sul ricorso a decreti e fiducie. Se quindi Monti avverte che all'estero c'è attesa, ci si chiede con quali tempi il Parlamento approverà la riforma, e se la sua portata riformatrice resterà integra o verrà diluita, Bersani ostenta ottimismo sull'articolo 18 «alla tedesca».

Anzi, secondo un retroscena - forse un po' troppo ottimistico - di Repubblica, sono già allo studio dei ministri Fornero e Severino le opportune correzioni per accontentare il Pd: o limitando il nuovo art. 18 ai nuovi assunti, o rafforzando la tutela giudiziale (ricorso automatico al giudice in tutti i casi). In soccorso di Monti, ma finendo probabilmente per accendere ancor di più gli animi nel Pd camussiano, arrivano Marchionne («la riforma va fatta, non c'è alternativa»), Bombassei («Confindustria deve sostenere la riforma del governo») e Montezemolo («sosteniamo con convinzione la riforma Fornero»).

Non resta che rendersi conto dall'articolato che il governo presenterà in Parlamento se la riforma arriva già morta.

Partiti e recessione (e spread): Monti sotto assedio

Per il premier Mario Monti la strada si fa sempre più stretta. Complice l'approssimarsi delle amministrative i partiti si stanno risvegliando dal letargo invernale e cominciano a sgomitare. Dopo l'assaggio di marzo sulle buste paga, e il prezzo della benzina alle stelle, sta per arrivare in capo alle famiglie la stangata dell'Imu, che accrescerà il malcontento. Nel frattempo, lo spread torna a salire, ieri fino a 345 punti. A metà maggio il primo esame crescita: l'Istat diffonderà la stima preliminare del Pil nel I trimestre 2012. Ma ieri, in Commissione Bilancio della Camera, il ministro Corrado Passera ha già messo le mani avanti: «Siamo nel pieno di una seconda recessione», che «durerà tutto l'anno». Non solo il "ritorno" dei partiti, anche il Pil potrebbe riservare una brutta sorpresa al professor Monti. L'Ocse prevede un calo del Pil italiano dell'1,6% nel I trimestre del 2012 e dello 0,1% nel II. Mentre tecnici e politici cincischiano sulle riforme, gli italiani sembrano aggrapparsi all'unico "salva-Italia" che conoscono. E' l'economia sommersa che ci "salva", denuncia l'Eurispes nel suo rapporto "L'Italia in nero".
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Thursday, March 29, 2012

La giornata: il ritorno dello spread

Dopo il ritorno dei partiti, oggi è stata la giornata del ritorno dello spread, schizzato di nuovo intorno ai 350 punti. L'industria non riparte affatto, al contrario di quanto affermato per tutta la giornata da Repubblica.it in apertura, e il ministro Passera - confortato dall'Ocse (Pil -1,6% nel I trimestre) - prevede nero: recessione tutto l'anno. Quindi servono riforme veloci. Mentre Befera gongola per i 13 miliardi recuperati dagli evasori nel 2013, la gente comincia a darsi fuoco disperata per il peso del fisco. ABC quasi non hanno parlato oggi, abbassando così i toni della polemica con Monti, tenuta viva invece dalla Camusso, sicura che «la controriforma del lavoro non passerà», e da Vendola, che chiede al Pd di «mandare a casa Monti».

Sui giornali di oggi era tutto un Monti sfida i partiti, lite con i partiti e via dicendo. In realtà, quella del premier a me è sembrata più una scazzottata con Bersani (e ad averla iniziata è il Pd, non Monti). Oggi le acque si sono un po' calmate. Napolitano fa di tutto per far abbassare i toni, ma sta con Monti, non manca di sottolineare che gli italiani capiscono la necessità delle riforme e che non vede «esasperazioni», proprio mentre Bersani parla di «cazzotti».

Sulla legge elettorale ABC potrebbero aver millantato un'intesa più che altro per reagire compatti ai siluri lanciati da Monti dal suo "roadshow "asiatico, insomma per far vedere di essere "tornati" sulla scena. I partiti sgomitano, si avvicinano le amministrative, cercano visibilità. E' chiaro che sono disposti a continuare a sostenere Monti, ma lo saranno sempre meno a pagare il prezzo politico delle sue riforme (e delle sue battute).

Ma il Pd freme più degli altri: si sta ribaltando infatti la prospettiva dei due partiti maggiori. Se prima era il Pdl, scalzato dal posto di comando, a mostrare irritazione nei confronti del professore, mentre il Pd sorridente festeggiava la fine del berlusconismo, ora che gli italiani stanno per avere prova nelle loro tasche dei sacrifici, e ora che è minacciato un tabù della sinistra (e del connubio Pd-Cgil) come l'articolo 18, il Pd teme di pagare a caro prezzo il suo appoggio al governo e che parte dell'elettorato possa anche cominciare a rimpiangere il centrodestra.

Insomma, il Pdl a questo punto non ha certo fretta di votare, meglio far passare un bel po' di tempo tra le promesse non mantenute e le urne, mentre il Pd si sente la gioiosa macchina da guerra del 1994 ma teme che esattamente come allora, dopo la parentesi tecnica del '92-'94, Palazzo Chigi possa sfuggirgli di nuovo. Stamattina Fabio Martini, su La Stampa, evocava la possibilità di un partito di Monti dopo le amministrative. Ci credo poco, ma se il Pd forza la mano sull'articolo 18 e si fa tentare dalla "rivoluzione d'ottobre", allora il partito di Monti potrebbe formarsi naturalmente come blocco moderato contro la foto di Vasto.

Il paradosso della politica italiana, ostaggio di due sinistre

I siluri che Mario Monti continua a lanciare sui partiti dal suo "roadshow" asiatico dimostrano che il premier non si sente affatto al sicuro. Dopo aver avvertito che non è disponibile a «tirare a campare», che può lasciare anche prima del 2013 se partiti e sindacati non sono «pronti» per le riforme, fa notare che nonostate il calo degli ultimi giorni «questo governo sta godendo di un alto consenso, i partiti no». Si dice «fiducioso» che la riforma del lavoro passerà, che la gente ne percepisce la necessità (convinzione espressa anche da Napolitano), e fissa la scadenza a «prima dell'estate». Ma la fiducia nel Parlamento che la Camusso esprime nelle sue dichiarazioni quotidiane è per lo meno sospetta. E preoccupa anche Bersani che paventi «cazzotti a politici e tecnici» ed evochi «problemi di costituzionalità». Insomma, Monti avverte che si sta allentando la sua presa sui partiti e cerca di recuperarla, aiutato dal capo dello Stato, ma potrebbe essere già troppo tardi. In parte, è la naturale conseguenza del calo dello spread – ed espressioni come «la crisi dell'area euro è quasi finita» non giovano certo al professore nel mantenere il giusto livello di allarme – ma anche dell'approssimarsi delle amministrative e della scelta del ddl, invece del decreto, come veicolo legislativo della riforma.

L'accordo di massima uscito dal vertice ABC sulle riforme istituzionali e la nuova legge elettorale dovrebbe scongiurare l'ipotesi di elezioni anticipate a ottobre, verso cui secondo qualche retroscenista spingerebbe il Pd, quindi allungare la vita del governo Monti e addirittura gettare le basi per una Grande Coalizione "montiana" nel 2013. Ma allo stesso tempo proprio quell'accordo conferma il ritorno dei partiti, con tutti i rischi che ne derivano per le riforme. Monti potrebbe aver esaurito la sua spinta riformatrice. D'altronde, appariva chiaro già a novembre come la stagione delle riforme, quella in cui le forze politiche e sociali sarebbero state disposte a ingoiare qualsiasi cosa, sotto la minaccia default, non sarebbe andata oltre l'inverno, marzo al massimo.

Il bottino è ancora piuttosto magro: completamento della riforma delle pensioni; liberalizzazioni all'acqua di rose o da attuare; riforma del lavoro in alto mare. Il rischio è che a conti fatti il merito maggiore di Monti sia il tour "Investi-Italia" nelle tre principali piazze azionarie del pianeta (la City, Wall Street e il Nikkei) per convincere i grandi investitori a tornare ad investire sull'Italia, forte della credibilità internazionale senza pari di cui il premier gode agli occhi della stampa della business community, della Casa Bianca e di istituzioni come Ue e Ocse.

Se l'irrigidimento del Pd sull'articolo 18 è solo campagna elettorale, o il grimaldello per indurre Monti a lasciare e tentare una "rivoluzione d'ottobre", lo scopriremo solo dopo il voto amministrativo. Di certo a fine luglio sul reintegro qualcuno dovrà cedere. Ma lo scontro sulla riforma del lavoro è sintomatico del paradosso della politica italiana. La riforma è di stampo socialdemocratico: costosa e punitiva sulla flessibilità in entrata, cede alla retorica della "lotta alla precarietà", mentre cerca una soluzione appena più realistica di quella attuale sui licenziamenti e gli ammortizzatori. A lamentarsene dovrebbe essere il Pdl, la cui politica economica però è di marchio cristiano-socialista. Invece è attaccata da sinistra. Nessun partito nello spettro politico italiano fa propria una posizione liberale. Il che implicherebbe sostenere apertamente, pubblicamente, senza sudditanza culturale, che il lavoro non è un diritto, ma una merce, sotto forma di prestazione d'opera; che, come per tutte le merci, prezzi e condizioni sono regolati dalla domanda e dall'offerta. E, quindi, denunciare una Costituzione collettivista che affermando il contrario condanna questo Paese ad una vera e propria tara ideologica e giuridica, che impedisce ai governi di mettere a punto (e ai cittadini di accettare) un assetto compatibile con i più elementari e nient'affatto "selvaggi" principi di una normale economia di mercato.

Dunque, l'offerta politica italiana consiste da una parte in una socialdemocrazia riformista, responsabile, che nelle sue diverse declinazioni (governo Monti-Fornero, Pdl, Terzo polo e una parte minoritaria del Pd) tenta di apportare correttivi al sistema ma senza intaccare il perimetro e il peso dello Stato, anzi con lo scopo di perpetuarlo, e dall'altra in una sorta di "partito Grecia", che spinge per la "vera" svolta a sinistra, un biglietto di sola andata verso la Grecia.

Wednesday, March 28, 2012

Equitalia non può lavarsene le mani

Anche su L'Opinione

Davvero Equitalia può far finta di niente se recapita cartelle esattoriali in cui si esigono interessi non dovuti? Può trincerarsi dietro al fatto che a determinare l'entità della somma sono gli enti locali? L'esattore pubblico può non curarsi della legittimità delle sue pretese, come qualsiasi picciotto mandato a riscuotere il pizzo? E' esattamente ciò che ha sostenuto davanti alle telecamere delle Iene, su Italia1, il presidente di Equitalia Attilio Befera.

Il caso è quello delle maggiorazioni nelle cartelle esattoriali originate da multe e sanzioni amministrative non pagate. Interessi del 10%, che scattano ogni semestre a partire dal mancato pagamento o dalla mancata opposizione alla sanzione entro i 60 giorni dalla notifica. Una sentenza della Corte di Cassazione del 16 luglio 2007, ma rimasta ben nascosta negli armadi pieni di scartoffie del Palazzaccio, ha dichiarato illegittimi tali interessi, stabilendo che va applicata «l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10%. Aumenti, pertanto, correttamente ritenuti non applicabili». Per 5 anni, tuttavia, i Comuni ed Equitalia hanno ignorato la sentenza e continuato a recapitare cartelle esattoriali con maggiorazioni a colpi del 10% ogni 6 mesi, quindi a incassare somme non dovute per milioni di euro. Finché un avvocato di Bari, Vito Franco, ha scovato quella sentenza e ha promosso migliaia di ricorsi, vincendoli.

Alle Iene Befera ha risposto che «Equitalia si occupa soltanto di riscuotere una cifra, che è quella indicata dal Comune». Come dire: noi facciamo quello che ci dicono di fare. «Siamo disponibilissimi a rinunciare a quella parte di compenso – ha aggiunto – purché il Comune ci mandi a riscuotere» la cifra legittima. Insomma, se il Comune sbaglia Equitalia non può farci niente, continuerà a mandare cartelle esattoriali nulle, in cui si pretendono interessi illegittimi. Ma è proprio così? Dalla giurisprudenza non si direbbe. Equitalia non si limita a riscuotere per altri. Sul totale, e in particolare sulle maggiorazioni applicate, ci guadagna. Dunque difficilmente può lavarsene le mani, se chiede e incassa per se stessa un compenso illegittimo.

Equitalia, così come l'ente locale per il quale agisce, rischia di incorrere nella «responsabilità aggravata» ai sensi dell'articolo 96 c.p.c., la cosiddetta "lite temeraria". Dottrina e giurisprudenza sembrano ormai ammettere l'applicabilità di questa norma al processo tributario. Il giudice può ravvisare la «responsabilità aggravata» se Equitalia resiste in giudizio, senza revocare la propria pretesa manifestamente illegittima, ma anche nel caso di atti cautelari o esecutivi emessi senza averne il diritto. E' sufficiente che abbia agito con «mala fede o con colpa grave», cioè nella consapevolezza dell'infondatezza della domanda, oppure nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di tale consapevolezza. Esigere interessi su una sanzione amministrativa nella consapevolezza che sono illegittimi per effetto di una sentenza della Cassazione di 5 anni prima sembra prefigurare proprio tale fattispecie. Di solito il giudice dispone la compensazione delle spese legali, ma il Tribunale di Roma, sezione di Ostia, con sentenza del 9 dicembre 2010 ha condannato Gerit Equitalia S.p.A. anche al pagamento di 25 mila euro a titolo di indennizzo, proprio ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., ritenendo più grave la condotta pretestuosa dell'amministrazione finanziaria, che in quanto depositaria di una funzione pubblica dovrebbe a maggior ragione ispirarsi a criteri di correttezza, buona fede e diligenza.

Tuesday, March 27, 2012

Dal salva-Italia al bluffa-Italia

E' come scrive Stefano Menichini su Europa, e cioè che il Pd è semplicemente entrato in campagna elettorale, ma ha compiuto il «piccolo capolavoro» di portare in Parlamento il confronto sull'articolo 18, facendo così un favore a Monti; oppure c'è di più, in realtà il Pd ha iniziato a fremere per tornare a Palazzo Chigi, teme possa sfuggirgli come gli è sfuggito dopo la parentesi tecnica '92-'94, e quindi ha avviato, come sostiene Mario Sechi su Il Tempo, il piano di liquidamonti, sullo slancio del probabile successo alle amministrative?

A prescindere da quale siano i piani del Pd, resta il nodo dell'articolo 18: reintegro come opzione anche per i licenziamenti economici, come vorrebbero il Pd e i sindacati, o solo indennizzo, come vorrebbe il governo? Qualcuno dovrà cedere.

Sia come sia, sembra avverarsi ciò che avevamo predetto fin da subito, pochi giorno dopo l'insediamento del governo tecnico, e cioè che Monti avrebbe avuto se non poche settimane, «due/tre mesi, non oltre febbraio-marzo», certamente non oltre le amministrative, per la sua azione riformatrice, dopo di che rischiava di essere inghiottito dal ritorno dei partiti e indebolito, paradossalmente, dall'auspicabile allentamento della tensione sui nostri titoli di Stato. Avevamo per tempo segnalato che avrebbe commesso un errore fatale programmando la sua azione - prima i conti, poi le riforme - in un arco temporale troppo lungo. La stagione delle riforme era l'inverno, non la primavera. E ora che l'inverno è finito, sembra chiudersi anzitempo.

E quindi il pericolo che intravedevamo già a novembre - e che contrapponevamo su questo umile blog all'entusiasmo che nutrivano per l'ipotesi tecnica autorevoli economisti-blogger e professori - sembra materializzarsi: l'esperienza del governo tecnico rischia di concludersi, come le precedenti, con l'ennesima tosatura (e repressione) fiscale, il completamento di una sola riforma, quelle delle pensioni, e un'operazione credibilità, tutta fondata sull'autorevolezza personale di Monti, presso gli investitori internazionali. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose o tutte ancora da attuare; la riforma del mercato del lavoro è in alto mare e comunque quella uscita da Palazzo Chigi è di stampo socialdemocratico, timida sull'articolo 18 e gli ammortizzatori sociali, costosa e dannosa sulla flessibilità in entrata. Spesa pubblica? Intatta. Stock di debito pubblico? Intatto pure quello. L'annunciata "spending review" resta nel cassetto, e comunque produrrebbe briciole, e di privatizzazioni neanche a parlarne, come scrive Barbera su La Stampa. Il vero problema, il perimetro e il peso dello Stato nell'economia italiana, non è stato nemmeno scalfito.

Dopo il salva-Italia e il cresci-Italia, a chiudere il trittico riformista del governo Monti potrebbe essere il ddl bluffa-Italia.

L'insostenibile scandalo dei riscatti

L'avevo ipotizzato circa tre settimane fa (qui e qui), oggi ne scrive in prima pagina il SecoloXIX: il 3 marzo si era sparsa la voce che Rossella Urru fosse stata liberata, poi la doccia fredda. Ora qualche ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto trapela sulla stampa: il mediatore ha incassato i soldi del riscatto, li ha girati ai sequestratori ma si è tenuto Rossella o l'ha ceduta ad un altro gruppo. E la giostra continua, con i nostri servizi segreti che si fanno prendere per il naso.

Una giostra alimentata dal comportamento letteralmente criminale dei nostri governi - di destra, di sinistra, di centro, tecnici, tutti allo stesso modo. A forza di pagare riscatti ci stiamo facendo taglieggiare non solo da gruppi terroristici veri o presunti, ma anche da finti mediatori. L'Italia paga i riscatti, e lo fa senza discutere. Se ne sono accorti persino i maosti indiani. Non solo abbiamo alimentato il business dei sequestri all'estero, ora stiamo alimentando anche un mercato di finti mediatori. Una politica che funziona sempre meno nel riportare a casa in tempi ragionevoli i rapiti, e che ormai mette a rischio anche i semplici turisti, in tutte le parti del mondo.

I risultati disastrosi sono sotto gli occhi di tutti ma nemmeno se ne parla. E per di più, la beffa: una legge - che guarda caso si è rivelata efficace - proibisce in modo categorico alle famiglie dei sequestrati sul territorio nazionale di pagare riscatti, mentre lo Stato all'estero finanzia chiunque mettendo a rischio la pelle di tutti i cittadini. Un doppio standard immorale.

Monday, March 26, 2012

Monti non ci sta a farsi logorare

Il Pd freme per tornare a Palazzo Chigi, sullo slancio delle amministrative, e a Monti non interessa tirare a campare. Quindi...

Niente da fare, la scelta del ddl invece del decreto per portare la riforma del lavoro in Parlamento, complice l'avvicinarsi delle elezioni amministrative, segna il ritorno dei partiti e Monti rischia grosso. Nei prossimi mesi si ballerà parecchio. La direzione del Pd ha dato un sostegno praticamente unanime alla linea di Bersani sulla necessità di modificare in Parlamento la riforma, in particolare sull'articolo 18. Monti ha prontamente e indirettamente risposto da Seul, in pratica minacciando di lasciare prima del 2013: «Se il Paese attraverso le sue forze sociali e politiche non si sente pronto per quello che noi riteniamo un buon lavoro non chiederemmo di continuare per arrivare a una certa data». Il professore rifiuta il «concetto stesso di crisi» e avverte che non gli interessa «tirare a campare». Ovviamente l'Udc si è subito allineato, il Pdl a condizione che il governo tiri dritto: «Siamo d'accordo con lui – ha commentato Alfano dalla conferenza nazionale del Pdl sul lavoro – o facciamo una buona riforma o niente riforma», meglio aspettare un anno, e «se alle politiche vincerà la sinistra farà la sua riforma dettata dalla Cgil. Se, come penso, vinceremo noi faremo la nostra riforma proseguendo il cammino delle idee di Marco Biagi».

Modifiche sono accettabili, ma punto irrinunciabile, ha fatto capire il ministro Fornero, è il no al reintegro nei licenziamenti per motivi economici, cioè proprio l'opzione che il Pd vorrebbe che restasse a discrezione del giudice. «Guai» se la scelta del ddl venisse letta come un «cedimento», ma il fatto è che proprio così è stata intesa dai partiti. Ed era inevitabile. D'altra parte, appare davvero poco convincente la spiegazione fornita da Monti: «Il decreto sarebbe venuto a valle di un processo più lungo, ma con qualità al ribasso». Nel caso della riforma delle pensioni e delle liberalizzazioni il premier non è sembrato dello stesso avviso.

Il governo ha rinviato la prova di forza, ma se non ha dimostrato oggi di avere i muscoli per imporre una soluzione più rapida e più blindata, difficilmente li troverà a fine luglio, quando ci sarà da riportare al suo disegno originario la riforma, nel frattempo sfigurata dall'iter parlamentare.

D'altro canto, dall'approvazione fulminea del decreto salva-Italia l'azione del governo sembra aver perso via via incisività e agilità. Rispetto alla riforma delle pensioni e al notevole aumento dell'imposizione fiscale decisi a dicembre, il dl liberalizzazioni è uscito da Palazzo Chigi meno rivoluzionario del previsto, persino contraddittorio in alcuni punti, e ha vissuto un iter parlamentare travagliato e non privo di arretramenti e rinvii. Così anche altri provvedimenti. Ora, rinunciando al decreto, una delle due riforme (dopo quella delle pensioni) più attese dai mercati Monti la rimette nelle mani dei partiti, insieme alla sua stessa credibilità. Il risultato è che delle riforme per la crescita su cui l'Italia si è impegnata con l'Ue e con i mercati, che nel frattempo stanno manifestando segni di insofferenza, dopo 6 mesi solo una è legge: quella delle pensioni. Le liberalizzazioni sono all'acqua di rose, o in attesa di attuazione (come la separazione Snam-Eni e i servizi pubblici locali), e la riforma del lavoro naviga ancora nell'incertezza, così come la stessa sopravvivenza del governo.

Monti e Napolitano devono aver pensato che un'accelerazione proprio alla vigilia delle elezioni amministrative avrebbe potuto esasperare le tensioni nel Pd, mettendo a rischio la tenuta del governo, mentre all'indomani del voto – che dovrebbe sorridere ai Democrat – sarebbe stato più facile ricondurre il partito di Bersani a più miti consigli e far digerire la "manutenzione" dell'articolo 18. Ma è un grosso rischio. Un successo, infatti, coniugato al calo dello spread, potrebbe anche persuadere il Pd che sia giunta l'ora di far scattare il piano di liquidazione del governo Monti-Napolitano, di cui ha parlato Sechi sul Tempo, e di andarsi a giocare l'intera posta stoppando sul nascere il progetto tecno-centrista.

Nei giorni scorsi, tra l'altro, abbiamo appreso che dietro la scelta di affidarsi ad un ddl e non ad un decreto, come il governo Monti aveva fatto fino ad oggi con le altre sue riforme, non ci sono solo le difficoltà del Pd e la moral suasion del presidente della Repubblica. Per la prima volta si sono intraviste delle pericolose crepe all'interno della compagine di governo, con ministri apertamente contrari non solo al tipo di soluzione legislativa, ma anche nel merito di una riforma espressamente parte del programma concordato con le istituzioni europee e attesa dai mercati.

Friday, March 23, 2012

Monti si fa prendere in ostaggio

Alla fine Monti per la riforma del lavoro ha scelto di affidarsi allo strumento del disegno di legge piuttosto che al decreto, come aveva fatto fino ad oggi per tutte le sue riforme. «Una linea di ascolto» nei confronti del Parlamento, l'ha definita il presidente del Senato Schifani. Che però rischia di suonare come un liberi tutti. In pratica il premier offre la riforma del lavoro - una delle due riforme, dopo quella delle pensioni, più attese dai mercati - in pasto ai partiti, nelle cui mani così facendo ripone anche la sua stessa credibilità. E rinuncia anche a presentarsi con qualcosa di concreto in mano nel suo «roadshow» asiatico per convincere gli investitori della ritrovata competitività italiana. Un segnale poco rassicurante: forse Monti sta perdendo la sua presa sui partiti. E se per la prima volta ha temuto che la maggioranza potesse non reggere l'urto di un decreto, significa che l'ha già persa. Un'altra conferma, come già avevamo sottolineato dopo il dl liberalizzazioni, che via via l'azione di governo sta perdendo incisività e rapidità.

Ciao riforma del lavoro, dunque, arrivederci a fine luglio. E' allora che la vedremo riemergere dalle sabbie mobili parlamentari, chissà come sfigurata. Un grosso rischio, quello che si è preso il premier, sia perché i mercati, in attesa di riforme per la crescita, stanno manifestando segni di insofferenza, sia perché è imprevedibile in quale senso il risultato delle prossime elezioni amministrative possa influenzare l'atteggiamento dei partiti che sostengono il governo.

Di due realtà bisogna inoltre prendere atto. La decretazione d'urgenza diventa un problema solo quando infastidisce il Pd: fino ad oggi il governo non ha esitato ad usare i decreti, e sui decreti a porre la fiducia, per approvare le sue riforme, comprese quelle più scomode elettoralmente per il Pdl; quando è arrivato il momento del Pd ingoiare il rospo, ecco che si è arreso al ddl. E' sempre più evidente, inoltre, che la decretazione d'urgenza non è più nella piena discrezionalità del governo. E' il capo dello Stato, che anziché limitarsi a firmare o meno l'atto, determina con la sua influenza la scelta dello strumento legislativo e, quindi, l'indirizzo politico del governo. Una prassi palesemente e gravemente incostituzionale. Così Napolitano al culmine della crisi ha impedito a Berlusconi di varare un decreto che avrebbe soddisfatto molte delle richieste europee in anticipo di mesi, e per il quale sussistevano tutti i parametri di necessità e urgenza; mentre ha permesso a Monti di governare esclusivamente per decreto, salvo poi interrompere questa prassi quando non ha più fatto comodo al Pd, e pur non essendo venuti meno i motivi di necessità e urgenza.

Danni collaterali del multiculturalismo

Tre bambini e un genitore ebrei, uccisi davanti a una scuola elementare, e tre militari di origini maghrebine hanno pagato con la vita la sconcertante sottovalutazione da parte delle autorità francesi della jihad combattuta nel cuore dell'Europa. Il loro assassino, Mohamed Merah, si era addestrato nei campi di al Qaeda ai confini tra Pakistan e Afghanistan, dove si era recato anche l'anno scorso, facendo ritorno in Francia ad ottobre come se niente fosse, come se avesse trascorso le vacanze in una colonia estiva. Aveva scelto la jihad insomma, e i servizi segreti lo conoscevano. Era stato persino arrestato in Afghanistan - non chissà quanti anni fa, ma nel 2010 - e da quel momento era stato inserito nella no fly list americana. Eppure, i servizi francesi non hanno dato peso a tutto questo. Il premier Fillon si è giustificato dicendo che «non c'era alcun elemento» per fermarlo prima che entrasse in azione: «Non abbiamo il diritto in un Paese come il nostro di sorvegliare in modo permanente, senza una decisione giudiziaria, qualcuno che non ha commesso un delitto. Viviamo in uno stato di diritto».

Giusto e sacrosanto, ma dopo i tre omicidi di Mountauban non c'erano tutti gli elementi per sospettare di Merah e impedire la strage di Tolosa? E siamo proprio sicuri che un elemento come Merah non sia il tipico affare da servizi segreti? A che servono, se non ad occuparsi di minacce alla sicurezza extra-giudiziali, cioè che non possono essere affrontate con i normali mezzi investigativi e giudiziari? E siamo proprio sicuri che andarsi ad addestrare nei campi di al Qaeda non sia da considerarsi un reato per le nostre leggi?

Le 7 vittime innocenti di Mountauban e Tolosa sono i danni collaterali della superficialità delle autorità francesi e del politically correct multiculturale. Precisiamo che qui non s'intende mettere in discussione il modello aperto e tollerante delle società occidentali, quel modello grazie al quale persone di razze, culture, religioni e idee diverse possono convivere in modo pacifico e civile. Per multiculturalismo intendiamo quell'ideologia buonista che ci impedisce di riconoscere minacce terroristiche che covano nel seno delle nostre società; per cui culture diverse possono tranquillamente convivere fianco a fianco anche senza integrarsi, senza condividere nemmeno alcuni valori basilari; che vede nell'"Altro", nel diverso culturalmente, sempre e inevitabilmente qualcuno da cui imparare, qualcuno migliore di noi, e mai, in nessun caso, qualcuno che ci odia, che ci considera nemici da massacrare. C'è una cultura diffusa che rifiuta a priori persino di ipotizzare che nell'"Altro" possa annidarsi una minaccia, salvo puntualmente venire smentita dai fatti. Ma guai a pensare il contrario, guai, si finisce per essere tacciati di razzismo.

Quella di Merah «non è una storia di degrado e povertà, il suo non era odio sociale ma ideologico, intriso di propaganda qaedista. Si era addestrato in campi all'estero, aveva scelto la strada della jihad». Parole dell'ex ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, intervistato dal Corriere. Cercavano il nazista, e il nazista era Merah, un ragazzo maghrebino, nero, di religione islamica.

Thursday, March 22, 2012

La riforma c'è, l'accordo no. E ora si balla

Anche su Notapolitica

Si terrà oggi tra il governo e le parti sociali l'incontro conclusivo per le ultime limature, ma il dado è tratto. La riforma c'è, l'accordo no. E forse proprio perché non c'è l'accordo, potrebbe trattarsi di una buona riforma. Non c'è l'accordo inteso come un testo da tutti sottoscritto, ma la formula della «verbalizzazione» permette a Monti di stringere un patto di non belligeranza, e persino un'intesa di fondo, con le organizzazioni imprenditoriali e con i sindacati meno conservatori. Il premier potrà così provare a "vendere" la svolta sull'articolo 18 già nella sua missione in Asia della prossima settimana, nei suoi «roadshow» all'estero per convincere gli investitori che almeno uno degli ostacoli alla competitività dell'economia italiana è venuto meno.

Non sappiamo se il metodo della concertazione sia definitivamente seppellito, come molti osservano, o riposto solo momentaneamente in soffitta in attesa di tempi migliori, ma al governo va dato atto di aver impostato con le parti sociali un confronto serrato e in tempi tutto sommato ragionevoli, senza concedere potere di veto ad alcuno, inaugurando una prassi politica di per sé preziosa, che costituisce comunque un precedente. Si può fare.

Nel merito è difficile esprimere un giudizio complessivo sulla riforma, per l'eterogeneità degli interventi. In generale è una riforma che sembra affetta da una certa schizofrenia, laddove, in ossequio alle opposte ideologie sul tema del lavoro, l'obiettivo di superare la logica del posto fisso viene perseguito con le nuove norme sui licenziamenti senza giusta causa ma contraddetto da un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità in entrata, perpetuando così l'illusione che si possa risuscitare il posto fisso. Una contraddizione che apparirà sempre meno tale solo quando ci accorgeremo che la flessibilità in entrata è destinata a perdere rilevanza dal momento in cui il contratto «dominante» non potrà più dirsi, di fatto, «a tempo indeterminato». La realtà, che fa così orrore riconoscere, è che si va verso un contratto "finché dura": come nel matrimonio, anche sul lavoro ci si promette amore eterno, salvo constatare che l'amore è finito. Si soppesano torti e ragioni e si procede oltre.

In particolare, sull'articolo 18 il ministro Fornero ha scansato la trappola del modello tedesco: in Italia lasciare alla discrezionalità dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo avrebbe significato non liberare affatto i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che hanno funzionato da deterrente ad assumere. La discrezionalità del giudice tra le due forme di sanzione resta limitata ai licenziamenti disciplinari, mentre per quelli economici si prevede solo l'indennizzo. Il problema però è che gli indennizzi di legge previsti, quelli ai quali le parti faranno riferimento per risolvere il rapporto senza finire davanti al giudice, sono costosissimi, soprattutto per le piccole imprese, a cui l'articolo 18 viene esteso. E' dalle piccole-medie imprese che ci si aspetta, venuto meno lo spauracchio della reintegra, il maggior contributo alla crescita dell'occupazione, ma certi indennizzi se li può permettere solo la grande impresa. Così il rischio di mettere a repentaglio la propria attività assumendo nuovi lavoratori resta troppo alto per i piccoli-medi imprenditori.

L'indole dirigista del governo si sfoga, come già sul dl liberalizzazioni, sui contratti atipici, appesantiti da ulteriori oneri fiscali e contributivi (che finiranno ovviamente per gravare sulle spalle dei lavoratori precari) e vincoli burocratici. L'idea alla base, da "Stato etico", è di costringere le aziende ad assumere a tempo indeterminato, ma l'effetto che si rischia di ottenere è che preferiranno non assumere affatto, soprattutto le piccole e medie. Dunque, a fronte di un indiscutibile merito, il superamento dell'articolo 18, la riforma non solo non riduce il cuneo fiscale, perché il governo non riesce, o non vuole, tagliare la spesa pubblica, ma il costo del lavoro aumenta, mentre come ci ricorda Oscar Giannino «non c'è grande riforma del lavoro che abbia avuto successo, da quella tedesca a quella svedese, che non sia partita da questo primo passo». Anche la revisione degli ammortizzatori sociali, per passare dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto, risente di tempi troppo lunghi, della mancata cancellazione della Cigs, sempre per la riluttanza a reperire le risorse necessarie da tagli ad altre voci di spesa.

Abbiamo finalmente una riforma del lavoro sul tavolo, ma la partita è solo all'inizio, il governo sarà chiamato a nuove prove di forza. La Cgil è pronta a far marciare migliaia di persone (già annunciate 16 ore di sciopero generale), ma soprattutto ad esercitare tutta la propria influenza sui partiti di sinistra per bloccare o annacquare la riforma in Parlamento. Il mancato accordo non facilita quindi i passaggi parlamentari, perché pone il Pd – su cui, come sul Pci-Pds-Ds, la Cgil ha sempre esercitato un forte potere di condizionamento, impedendo ogni sua svolta riformista – in una posizione difficilissima, a rischio spaccatura, come dimostra l'irritazione del segretario Bersani. Eppure, proprio sulla rottura con la Cgil sul tema della riforma del mercato del lavoro e sull'appoggio al governo Monti il Pd potrebbe costruire un profilo finalmente riformista, blariano, ma non sembra questa una sfida nelle corde dell'attuale classe dirigente.

Monday, March 19, 2012

Riforma del lavoro, giù le carte

Anche su Notapolitica

Si apre una settimana decisiva per la riforma del mercato del lavoro – se il governo intenderà far rispettare la scadenza del 23 marzo. Al tavolo dei negoziati con le parti sociali verrà girata l’ultima carta, proprio come nel poker alla texana. Martedì il premier e il ministro Fornero incontreranno sindacati e imprese con l’intenzione di tirare le fila del discorso e giungere ad un accordo di massima su tutti i dossier aperti. Sabato al convegno di Confindustria Monti ha confermato per questa settimana la chiusura delle trattative, facendo appello allo «spirito di coesione» delle parti e chiedendo a ciascuna di «cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Nel vertice di giovedì sera con il presidente del Consiglio l’ABC – il tridente dei leader di partito alle spalle di Monti, la prima punta – aveva sostanzialmente espresso il proprio via libera all’impostazione della riforma, rimettendosi comunque all’eventuale accordo tra il governo e le parti sociali. Una concordia, immortalata dallo scatto fotografico di Casini, che aveva autorizzato un certo entusiasmo, come se ormai l’accordo fosse cosa fatta. Un pressing però non molto gradito dalle parti sociali, che tra venerdì e sabato hanno bruscamente frenato. Tutti sono tornati a rimarcare i punti di distanza tra di loro e con le proposte avanzate dal governo. L’accordo, insomma, è ancora possibile ma né scontato né facile.

Sull’articolo 18 «tutte le soluzioni» appaiono «lontane da ogni possibile ipotesi di un accordo», ha messo le mani avanti la Camusso dal palco del convegno di Confindustria, poco prima che prendesse la parola il presidente del Consiglio. «Fondare tutto sul tema dell’articolo 18 – lamentava la leader della Cgil – significa far passare l’idea che l’unico problema sia quello di licenziare». Poi la doccia gelata: «Siamo belli lontani» dal raggiungere l’accordo, «impossibile chiudere martedì». Dagli incontri informali di sabato mattina «sono emersi estremismi», ha commentato Bonanni, della Cisl, avvertendo che senza accordo «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura» e spiegando di comprendere la posizione delle imprese ma «non quella di altri», riferendosi senza citarla alla Cgil. Dubbioso anche Angeletti della Uil, che non scommetterebbe soldi sull’accordo perché «allo stato attuale non ci sono soluzioni condivise».

L’impressione tuttavia è che per la Cgil, e in misura minore per gli altri sindacati, meno oltranzisti, ormai non sia questione di trattare, ma di trattare una resa onorevole. Il tabù dell’articolo 18 in un modo o nell’altro verrà infranto. I mercati hanno probabilmente già scontato la riforma, sulla fiducia nel professor Monti, e una delusione costerebbe al governo la sua credibilità. Ma il premier si sforzerà di offrire un compromesso che non abbia il sapore dell’umiliazione per i sindacati, in modo da poter esibire la loro firma sulla riforma, che addolcirebbe enormemente la pillola per il Pd facilitando, quindi, i passaggi parlamentari; per i sindacati si tratta di arrivare all’accordo, se accordo ci dev’essere, in frenata, puntando i piedi, per non dare alla base, intransigente nel denunciare gli "inciuci" con i "padroni", l’impressione di una resa.

D’altra parte Emma Marcegaglia non ci sta ad un «compromesso al ribasso», se è così «meglio non farla, o quanto meno non avrà la firma di Confindustria». Nel suo intervento conclusivo sabato ha ripetuto le obiezioni della laconica nota diffusa venerdì sera da Abi, Cooperative, Ania, Confindustria, Rete Imprese Italia: «La riforma del lavoro che il governo va delineando non pare ancora in grado di individuare le giuste soluzioni». Diverse le preoccupazioni degli imprenditori: la restrizione e il significativo aumento di oneri e vincoli burocratici delle forme "buone" di  flessibilità in entrata; l’aumento del costo del lavoro che dovranno sopportare per finanziare i nuovi ammortizzatori, che non sarebbero comunque in grado di agevolare i processi di ristrutturazione; e la mancanza di chiarezza sulle soluzioni, «che anche l’Europa chiede all’Italia, per migliorare la flessibilità in uscita». Il rischio che paventano le imprese italiane è, quindi, di trovarsi «indebolite di fronte alla concorrenza internazionale», ma al tempo stesso rinnovano la disponibilità a lavorare per raggiungere «un accordo pienamente condiviso».

Il ministro Fornero ribadisce che un accordo con le parti sociali è «imprescindibile», perché darebbe «un valore aggiunto di notevole importanza alla qualità della riforma», ma ci sono molte ragioni per dubitarne: una buona riforma con l’accordo di tutti i sindacati è come i neutrini più veloci della luce, come sfidare le leggi della fisica. Se infatti non si può disconoscere il valore politico e sociale di un accordo tra le parti, ciò che dovrebbe essere imprescindibile, al di sopra degli interessi di parte, è l’efficacia della riforma rispetto agli obiettivi che si prefigge per favorire la crescita economica e dell’occupazione. E sono essenzialmente tre: ridurre il dualismo del mercato del lavoro superando la logica del posto fisso, quindi aumentando la flessibilità in uscita; semplificare la selva di contratti flessibili senza irrigidire il mercato in entrata; passare gradualmente ma in modo incisivo dalla tutela del posto di lavoro alla tutela del lavoratore che perde il posto. Il tutto, se possibile, senza aumentare il cuneo fiscale, già a livelli massimi e fuori mercato.

Un approccio punitivo nei confronti delle forme di flessibilità "buona", così come il mantenimento della centralità della cassa integrazione chissà per quanti anni ancora, contraddirebbero gli obiettivi proclamati della riforma. Sull’articolo 18, il riferimento al modello tedesco è pericoloso: in Germania funziona perché storicamente i sindacati, più coinvolti nella gestione delle aziende, si comportano più responsabilmente, e la giustizia del lavoro viene amministrata in modo ultra-rapido e pragmatico. In Italia lasciare alla discrezione dei giudici del lavoro la scelta tra reintegro e indennizzo significherebbe non liberare i licenziamenti dalla roulette di lungaggini e ideologismi, cioè da tutte quelle incertezze che fungono da deterrente ad assumere. Il ricorso al modello tedesco quindi può prestarsi ad una doppia interpretazione: un assist offerto ai sindacati per incoraggiarli a sottoscrivere una riforma che si richiama esplicitamente ad un sistema produttivo in cui i sindacati svolgono un ruolo centrale e in cui non vige certo il licenziamento facile; oppure un espediente, che si rivelerebbe ben presto velleitario, per nascondere ai mercati, dietro il riferimento all’efficienza germanica, una piccola riforma e per compiacere il partner tedesco.

Sunday, March 18, 2012

Nessuno irrita Monti come Giavazzi

Anche per Francesco Giavazzi, a giudicare dal suo editoriale di ieri sul Corriere, il venir meno dell'urgenza per effetto del calo dello spread (determinato per lo più dagli interventi della Bce ma anche dalla fiducia dei mercati nel professor Monti) è un «fattore di rischio» e l'azione del governo dal dicembre scorso sembra aver perso incisività. Esattamente quanto si osservava qualche giorno fa su Notapolitica. Molto poi dipenderà dall'andamento del Pil, visto che il governo ha fondato i suoi programmi per il pareggio di bilancio sull'ipotesi che nel 2012 si contragga dell'1%, mentre sembra già ottimistico un -2%.

Ma soprattutto Giavazzi ha avvertito che «bruciata, purtroppo, la carta delle liberalizzazioni, rimane solo la riforma del mercato del lavoro» per convincere i mercati di un reale «cambio di passo» da parte dell'Italia e ha insinuato che alcuni «colleghi ministri» starebbero frenando la Fornero che invece «ha pronto un testo incisivo». Se avessero successo, conclude l'economista, il ministro «dovrebbe, con lo stile e la determinazione che la caratterizzano, abbandonarli al loro destino».

Fatto sta che Monti se l'è presa e non poco con il suo «amico Giavazzi» e dal palco di Confindustria si è lasciato andare ad una lunga polemica piena di pungenti ironie. Fosse stato Berlusconi a riservare una polemica e un'irrisione così dure ad un editoriale sì critico, ma rispettoso e non infondato nei confronti del governo?

«E' bene per noi governo sentire la frusta dell'impazienza intellettuale, ma è troppo comodo per noi se quella frusta perde un po' di autorità perché è imprecisa». E giù ad elencare le presunte imprecisioni: le «cose sbagliate che disorientano»; «inaccettabile» bollare il dl liberalizzazioni come una «carta bruciata»; lo stile e la determinazione riconosciuti alla Fornero «il punto più pregiato di tutto l'articolo»; «credo che il ministro non possa abbandonarci al nostro destino, anche perché martedì siederò al suo fianco per presiedere la riunione con le parti sociali».

I timori di Giavazzi in realtà sono più che fondati e la stizza ben dissimulata di Monti ci ricorda che anche al più tecnico dei tecnici viene da fare il politico quando viene criticato sulla stampa. Se non fosse per la sua oratoria sobria, elegante e ironica, per il suo aplomb, si direbbe che a Monti siano saltati i nervi. E quando era la sua, con i suoi cattedratici editoriali sul Corriere, «l'impazienza intellettuale»?

L'editoriale di Giavazzi è un altro sintomo che l'unanimismo intorno a Monti sta mostrando le prime crepe (dopo Garante privacy e Corte dei Conti)? Molto dipenderà dalla riforma del lavoro che riuscirà a varare. Dopo la quale, ha già annunciato il premier, si impegnerà in un «roadshow» all'estero per presentare agli investitori la maggiore «attrattività» italiana. Come c'eravamo chiesti in occasione delle sue visite alla City di Londra e a Wall Street, non è che Monti è il nostro miglior piazzista piuttosto che un riformatore?

P.S. la dice lunga sullo stato di rincoglionimento dell'informazione italiana il fatto che le agenzie di stampa, con i siti internet a ruota per molte ore, abbiano scambiato la lunga citazione dedicata da Monti all'editoriale di Giavazzi per parole e dichiarazioni dello stesso Monti.

Thursday, March 15, 2012

Come ci siamo arresi alla trappola indiana

Una ricostruzione, quella finalmente fornita dal ministro Terzi in Parlamento, che scagiona la Farnesina in merito alla "consegna" dei nostri marò alle autorità indiane (si è trattato di un vero e proprio arresto, al quale la nostra diplomazia ha tentato di opporsi); che chiama in causa – quanto meno per ingenuità – la Difesa; ma che soprattutto porta alla luce per la prima volta in tutta la sua gravità il comportamento indiano, rendendo così ancor più evidente l'inadeguatezza della risposta del governo italiano.

Sono due i dettagli emersi rispetto a quanto già sapevamo, ma di grande rilevanza. La vera natura dell'«azione coercitiva» messa in atto dalle autorità indiane nei confronti dei nostri marò: sono stati costretti a scendere dalla Enrica Lexie, nonostante «la ferma opposizione delle nostre autorità presenti», sotto la minaccia delle armi. E l'ingenuità dei comandi della Difesa e della Farnesina, che non hanno avanzato obiezioni rispetto all'intenzione del comandante della nave e dell'armatore di accogliere la finta richiesta di collaborazione da parte indiana.

Non sembra da escludere, inoltre, che l'«azione coercitiva» abbia avuto inizio già in acque internazionali, anche se all'insaputa dell'equipaggio e del nucleo della Marina militare a bordo. L'armatore, infatti, tramite il suo legale riferisce che dopo la finta richiesta di collaborazione inoltrata dalle autorità indiane un elicottero ha cominciato a sorvolare la Enrica Lexie, mentre il radar segnalava la presenza di due motovedette ai suoi lati.

Ora sappiamo che da parte indiana ci fu malafede, un'imboscata, una vera e propria aggressione militare ai nostri marò. A maggior ragione, proprio per la gravità di tale comportamento, e per il manifesto e attuale pericolo di vita che i nostri uomini stavano correndo – «in un ambiente fortemente ostile che si era subito determinato nell'intero Stato del Kerala», riconosce lo stesso ministro Terzi – la reazione del nostro governo appare oggi ancor più inadeguata, molle, di quanto non sia apparsa in queste settimane. Avrebbe dovuto essere molto più dura, fino a prendere in considerazione l'ipotesi di una missione di recupero.

La maggior parte dei parlamentari e degli osservatori punta l'indice sulle norme che regolano l'impiego di militari sui nostri mercantili in funzione di scorta anti-pirateria, in particolare sul fatto che si trovano sottoposti alle decisioni del comandante della nave. Alla luce di quanto emerso, norme e convenzioni possono certamente essere migliorate, e forse basterebbe perfezionare le comunicazioni tra il comandante da una parte e Difesa e Farnesina dall'altra, ma nel valutare la vicenda non si possono tacere due elementi chiave: l'ingenuità con cui le autorità italiane, e in particolare la Difesa, sono cadute nella trappola indiana; e l'inadeguatezza della risposta iniziale messa in campo dal nostro governo, assolutamente non commisurata alla gravità del comportamento indiano, equiparabile ad un atto di aggressione armata.
ARTICOLO INTEGRALE su Notapolitica

Wednesday, March 14, 2012

Niente accordo, niente paccata

Bene ha fatto il ministro Fornero, evidentemente stizzita per le reazioni negative dei sindacati alla proposta del governo sugli ammortizzatori sociali, ad alzare i toni del confronto. E speriamo non si tratti solo di una provocazione, di un tatticismo per spingerli a più miti consigli, ma di alzare l'asticella nel merito della riforma del mercato del lavoro.

Le viene attribuito il piglio antipatico della "maestrina", ma rimettiamo le cose al loro posto: i veri arroganti sono i sindacati, che minacciano rotture, scioperi, e s'impuntano come bambini viziati, mentre il ministro Fornero cerca di tenergli testa, di non farsi travolgere, e speriamo che non molli. Un nuovo incontro è in corso proprio in queste ore. Immaginatela così, come in un tiro alla fune: la Fornero tira la corda delle riforme verso la Germania, i sindacati verso la Grecia. Insieme a chi vi mettereste a tirarla?

Il ministro si chiede «come possano non dichiararsi d'accordo su una riforma che prevede inclusione e universalità di ammortizzatori sociali». E' rimasta stupita dalla mancanza di una sola parola di apprezzamento da parte dei sindacati, e quindi è sbottata: «È chiaro che se uno comincia a dire "no", perché noi dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire "voi diteci di sì"? No, non si fa così».

Aggiungendo espressioni notoriamente urticanti per i sindacalisti, come «smantellare le protezioni» e «più facilità di uscita». La parola chiave della riforma, ha infatti spiegato, è «inclusione invece di segmentazione. Vuol dire dare effettiva parità di accesso al mercato del lavoro. Significa smantellare le protezioni che si sono costituite, che spesso sono state motivate da buoni principi ma che hanno implicazioni di conservatorismo molto forte, fino alla difesa dei privilegi». Il governo non è così ingenuo da pensare che la riforma possa far ripartire immediatamente la crescita e l'occupazione, ma è un «prerequisito fondamentale». Serve un mercato del lavoro «più dinamico», e «in un mercato del lavoro dinamico c'è maggiore facilità di entrata e un po' più di facilità di uscita». Evidente il riferimento al superamento dell'articolo 18.

E' ancora presto per giudicare, ne sappiamo ancora poco, ma riguardo i nuovi ammortizzatori il mantenimento della cassa integrazione straordinaria (Cigs) non è certo un buon segnale. Obiettivo del ministro Fornero è (era?) un sistema fondato su due pilastri: cassa integrazione ordinaria e sussidio di disoccupazione universale. Invece sembra aver ceduto alle pressioni delle parti sociali (compresa Confindustria) e quindi si andrebbe verso un sistema tripartito: Cigo-Cigs-Aspi. Ma accettando di lasciare in vita la Cigs, sia pure escludendola nei casi di aziende che chiudono, il sistema resterebbe comunque troppo squilibrato a tutela del "posto" piuttosto che del lavoratore, non accelerando le ristrutturazioni delle imprese. Giudicheremo nei fatti che riforma ci darà, ma intanto è importante non soccombere dialetticamente ai sindacati.

Imboscata indiana, ingenuità italiana

Mentre raffredda - e fa bene - la polemica con Londra per il ritardo nella comunicazione del fallito blitz in Nigeria, finalmente il ministro degli Affari esteri Giulio Terzi chiarisce in Parlamento come sono andate le cose nella vicenda dei nostri due marò prigionieri in India. Ci voleva tanto? In realtà crediamo di capire il perché della reticenza del ministro. I particolari sono di una gravità inaudita, e rivelati ufficialmente nelle prime ore avrebbero destato certamente un moto di indignazione molto più forte dall'Italia. Non si sarebbe trattato di una consegna, infatti, ma di un vero e proprio arresto sotto la minaccia delle armi. Ma a maggior ragione, proprio per la gravità del comportamento indiano, e per il manifesto e attuale pericolo di vita che i nostri uomini stavano correndo, «in un ambiente fortemente ostile che si era subito determinato nell'intero Stato del Kerala», la reazione del nostro governo doveva essere molto più dura, fino a prendere in considerazione l'ipotesi di una missione di recupero.

Ma andiamo con ordine. Stando a quanto riferito da Terzi, gli "allocchi" starebbero alla Difesa, e non agli Esteri come pensavamo. L'ingenuità dell'armatore si può perdonare, ma dei comandi militari, che non hanno fiutato la trappola, molto meno. L'ingresso del mercantile Enrica Lexie nelle acque territoriali indiane e quindi in porto è stato ottenuto con «un sotterfugio della polizia locale, in particolare del centro di coordinamento della sicurezza in mare di Bombay, che aveva richiesto al comandante della nave di dirigersi verso il porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati».

Il comandante della nave ha deciso di accogliere la richiesta, ovviamente su autorizzazione dell'armatore, ma con colpevole ingenuità «il comandante della squadra navale e il Centro operativo interforze della Difesa non avanzavano obiezioni, in ragione di una ravvisata esigenza di cooperazione antipirateria con le autorità indiane». «Da ministro degli Affari esteri - si giustifica Terzi - non avevo titolo, né autorità, né influenza per modificare la decisione del comandante» della nave. Forse, invece, se avessero esercitato pressioni congiunte in questo senso, Esteri e Difesa avrebbero potuto convincere l'armatore a cambiare idea.

Ma di chi è stata, abbiamo chiesto più volte in queste settimane, la decisione di far scendere i marò a terra? Ebbene, nonostante «la ferma opposizione delle nostre autorità presenti», sono stati costretti a scendere dalla nave da «un'azione coercitiva portata a compimento da oltre 30 uomini armati della sicurezza indiana, saliti a bordo per prelevarli e portarli a terra sotto la custodia della polizia locale». Un particolare fin qui inedito: gli indiani sono effettivamente saliti a bordo ad arrestare i nostri militari, un'azione di forza di una gravità inaudita che avrebbe meritato ben altra reazione da parte nostra.

Questa è una settimana fondamentale. Oltre all'esito dell'esame balistico, arriverà anche la sentenza sulla giurisdizione del caso e si svolgeranno le elezioni locali che condizionerebbero, irrigidendolo, l'atteggiamento delle autorità indiane. Se verrà confermata la giurisdizione indiana, la disfatta politica italiana sarà completa e la figuraccia irrimediabile, a prescindere dall'eventuale scagionamento dei due marò. Se entrambe le decisioni dovessero essere negative, oltre alla disfatta politica, prepariamoci all'idea che i nostri due marò dovranno affrontare il processo e quindi rimanere imprigionati in India ancora per molti mesi.

Tuesday, March 13, 2012

I compiti non sono finiti

La visita della cancelliera Merkel sembra aver fatto bene a Monti, che oggi ha parlato in modo più saggio ed equilibrato della crisi. La sua versione «più acuta» sembra superata, ma «non ci si può rilassare, né dal punto di vista delle politiche interne, né dal punto di vista delle politiche europee». E in particolare l'Italia «non ha ancora superato l'emergenza» dal punto di vista finanziario. «Abbiamo arrestato la tendenza» verso la Grecia, ma «i compiti non sono ancora finiti». Dichiarazioni senz'altro più responsabili di quelle, di pochi giorni fa, in cui sembrava pensarla diversamente parlando di crisi ormai alle spalle, «uscita di scena».

Fisco da paura

Politiche di finanza pubblica del governo Monti sotto accusa da parte di Corte dei Conti e Garante per la privacy

Anche su Notapolitica

Si sta forse incrinando il monolitico unanimismo che circonda e accoglie le scelte di politica economica del governo Monti, e in particolare quelle che riguardano la crociata contro l'evasione fiscale? Presto per dirlo, ma certo ieri due importanti istituzioni di controllo – Garante per la privacy e Corte dei Conti – hanno posto l'accento su alcune criticità delle politiche del governo che dovrebbero quanto meno ridestare lo spirito critico dei mainstream media.

I magistrati contabili non fanno politica, ma unendo i puntini ciò che emerge dalla relazione del presidente Giampaolino dinanzi alla Commissione Bilancio della Camera è un atto d'accusa alle politiche di finanza pubblica del governo. In sostanza, suggerisce una serie di misure che Monti non sta facendo e non sembra intenzionato a fare: ridurre le tasse, tagliando drasticamente la spesa, e abbattere lo stock di debito pubblico attraverso dismissioni. Il presidente della Corte dei Conti quantifica in 50 miliardi il taglio necessario per riportarci a livelli di tassazione europei. Da ricavare, ovviamente mantenendo l'equilibrio di bilancio, da una «tenace» e «severa» riduzione della spesa e dalla lotta a erosione ed evasione fiscale. Si tratta di tagli alle tasse e alla spesa dell'ordine di 3-4 punti di Pil, ben lontano dalle più rosee intenzioni del governo.

Ovviamente Giampaolino apprezza il conseguimento del pareggio di bilancio, ma avverte che «dal punto di vista della crescita fa differenza a quale livello della pressione fiscale – e quindi della spesa pubblica – quel pareggio di bilancio verrà conseguito». E osserva: «Sulla spinta dell'emergenza, le ripetute manovre di aggiustamento finanziario condotte nel 2011 hanno operato soprattutto dal lato dell'aumento della pressione fiscale, piuttosto che, come sarebbe stato desiderabile – ammonisce – dal lato della riduzione della spesa. Il risultato è che ci avviamo verso una pressione superiore al 45% del prodotto, un livello che ha pochi confronti nel mondo». Considerando che «le stime più accreditate – aggiunge – ipotizzano un livello dell'evasione fiscale dell'ordine del 10-12% del prodotto, ne consegue che il nostro sistema è disegnato in modo tale da far gravare un carico tributario sui contribuenti fedeli sicuramente eccessivo». Quindi non si può certo affermare che gli italiani nel loro complesso non pagano le tasse, visto che devolvono allo Stato il 45% della loro ricchezza, ma la pressione fiscale sull'economia regolare, sugli "onesti", sfiora il 60%, la più alta del mondo sviluppato. Per poter ridurre la pressione fiscale, in modo da aiutare il rilancio dell'economia senza compromettere l'equilibrio di bilancio, «è necessario lavorare con tenacia e determinazione alla riduzione della spesa».

«In termini complessivi – osserva inoltre la Corte dei Conti – se si assume che l'assetto fiscale "medio" europeo (Europa a 17) identifichi il benchmark cui rapportare un'evoluzione virtuosa del sistema tributario italiano, gli sgravi necessari per riportare a livello europeo il prelievo sui redditi da lavoro e da impresa dovrebbero aggirarsi attorno ai 50 miliardi di euro (32 per i redditi da lavoro e 18 per quelli d'impresa)». Si tratta di 3-4 punti di Pil. Ma considerando che «un ulteriore aumento del prelievo sui consumi non assicurerebbe più di un decimo», una «trasformazione del sistema per conferirgli un assetto "europeo" in grado di rilanciare competitività, efficienza e crescita economica resta subordinata» ad una «severa politica di contenimento e di riduzione della spesa» e alla lotta a erosione ed evasione fiscale.

Il presidente Giampaolino mette anche in guardia da una politica che punti al rientro dal debito solo attraverso avanzi primari: «Anche in condizioni di pareggio di bilancio, e per quanto il risanamento faccia flettere lo spread, ancora a lungo avremo a che fare con elevati oneri per interessi del debito pubblico. Non si può, pertanto, rinunciare a ridurre lo stock del debito attraverso la cessione di quelle parti del patrimonio pubblico non funzionali allo svolgimento dei compiti essenziali delle amministrazioni e non oggetto di tutele artistiche e simili». E osserva che per «gran parte» delle dismissioni pubbliche l'ostacolo «non consiste affatto in eventuali considerazioni strategiche, bensì in difficoltà di procedura, in resistenze burocratiche, in ritardi operativi».

Particolarmente inquietanti gli allarmi lanciati dal Garante per la privacy, Francesco Pizzetti, sulle armi di cui lo Stato si è dotato per stanare gli evasori. Bolla infatti le nuove norme volte a semplificare per l'amministrazione i controlli fiscali come «strappi forti allo Stato di diritto». La richiesta sempre più massiccia di accesso ai dati personali dei cittadini da parte degli uffici pubblici che combattono l'evasione fiscale o l'illegalità in settori come la previdenza è comprensibile, osserva, ma «è importante che si consideri questa una fase di emergenza dalla quale uscire al più presto, perché altrimenti – avverte – lo spread fra democrazia italiana e occidentali crescerebbe».

«È proprio dei sudditi – ricorda Pizzetti – essere considerati dei potenziali mariuoli. È proprio dello Stato non democratico pensare che i propri cittadini siano tutti possibili violatori delle leggi. In uno Stato democratico, il cittadino ha il diritto di essere rispettato fino a che non violi le leggi, non di essere un sospettato a priori». Definisce esplicitamente il suo come un «monito», perché è «in atto, a ogni livello dell'amministrazione, e specialmente in ambito locale, una spinta al controllo e all'acquisizione di informazioni sui comportamenti dei cittadini che cresce di giorno in giorno. Un fenomeno che, unito all'amministrazione digitale, a una concezione potenzialmente illimitata dell'open data e all'invocazione della trasparenza declinata come diritto di ogni cittadino di conoscere tutto, può condurre a fenomeni di controllo sociale di dimensioni spaventose». Sotto accusa anche ipotesi di recente formulate dal direttore dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, come quella del "bollino" per le aziende "brave" fiscalmente: «Attenzione alle liste dei buoni e dei cattivi. Attenzione ai bollini di qualunque colore siano. Le vie dell'inferno – ammonisce il Garante per la privacy – sono lastricate di buone intenzioni».

Monday, March 12, 2012

Terzi parla ma interrogativi restano

Finalmente il ministro degli Esteri Giulio Terzi abbandona la reticenza cui si è attenuto fino ad oggi sulle circostanze che hanno portato all'incarcerazione dei nostri due marò in India. Il riserbo sulla vicenda, infatti, deve riguardare i negoziati per la loro liberazione, non i fatti e le responsabilità.

Peccato però che il ministro cominci a fornire i primi chiarimenti a mezzo social media e Corriere della Sera, e non nelle aule parlamentari. Sul suo profilo Twitter fa sapere che «in nessun caso la nave» italiana «doveva entrare in acque indiane» e che «le polemiche sulle responsabilità le lascio ad altri. Io lavoro per riportarli a casa». Che stia lavorando sodo per riportarli a casa ne siamo certi, ma purtroppo non basta. Quando si è ministri contano i risultati, l'efficacia della propria azione, e le «responsabilità» non sono dettagli da «lasciare ad altri».

Una rivelazione importante però arriva, da parte del ministro Terzi, sull'ingresso della Enrica Lexie in acque territoriali indiane e sulla decisione di far sbarcare i marò:
«Ho dato parere negativo all'avvicinamento della nave in territorio indiano nonostante tale decisione non fosse di competenza del ministro degli Esteri e ho continuato a oppormi formalmente al trasferimento dei nostri marò a terra, cosa che è avvenuta solo a seguito di un'azione coercitiva della polizia indiana» (lettera al Corriere)
Per la prima volta, dunque, il ministro nega responsabilità della Farnesina su entrambe le questioni, ma gli interrogativi restano e Terzi non chiarisce fino in fondo: se non era degli Esteri, di chi era competenza la decisione di far avvicinare o meno la nave alle acque territoriali indiane? Se era dell'armatore, vorremmo che il governo lo dicesse ufficialmente. Ma soprattutto, il ministro dice di essersi opposto - «formalmente» è l'avverbio che usa - allo sbarco dei due marò. Ma allora, siccome anche la Marina militare si sarebbe opposta, e tendendo ad escludere che i marò abbiano agito di testa loro decidendo di consegnarsi, chi ha deciso quello che nelle prime ore è stato definito da fonti ufficiali come un nostro «atto di cortesia» nei confronti delle autorità indiane? E quando il ministro parla di «azione coercitiva» da parte della polizia indiana, intende che sono saliti a bordo degli agenti per prelevare i nostri militari? Se sì, perché non li hanno arrestati tutti ma solo due? E se no, se non sono saliti a bordo, chi ha deciso di farli scendere a terra?

E' un bene che il ministro abbia cominciato a rispondere, sia pure a mezzo stampa e non in Parlamento, ma sono ancora molti gli interrogativi sulla vicenda, e resta la sensazione che i due marò siano soprattutto vittime di decisioni sbagliate dello Stato per il quale operano.

Quella che si apre è una settimana fondamentale. Oltre all'esito dell'esame balistico, arriverà anche la sentenza sulla giurisdizione del caso. Se verrà confermata la giurisdizione indiana, la disfatta politica italiana sarà completa e la figuraccia irrimediabile, a prescindere dall'eventuale scagionamento dei due marò. Se entrambe le decisioni dovessero essere negative, oltre alla disfatta politica, prepariamoci all'idea che i nostri due marò dovranno affrontare il processo e quindi rimanere imprigionati in India ancora per molti mesi.

Friday, March 09, 2012

Subalterni per scelta

La morte di Franco Lamolinara è ben più tragica della situazione in cui si trovano i nostri due marò prigionieri in India, richiederebbe altrettanto riserbo, ma in questo caso le autorità italiane non hanno rinunciato ad alzare i toni della polemica con Londra, nonostante nella vicenda gli inglesi non fossero controparte ma alleati. Persino il capo dello Stato Napolitano è intervenuto severamente, bollando come «inspiegabile il comportamento del governo inglese». Ma sono giustificate le rimostranze italiane? E soprattutto, sono opportune? Sì e no. Innanzitutto, le due versioni non sono poi così contrastanti. Il ministro degli Esteri britannico Hague ha ammesso che Roma è stata avvertita «ad operazione in corso», perché la situazione venutasi a creare sul terreno imponeva una decisione in tempi troppo ristretti per poter illustrare i dettagli e aspettare il via libera italiano. Una giustificazione che si può presupporre fondata, veritiera, dal momento che è stato addirittura deciso di condurre il blitz in pieno giorno, quando è noto che in condizioni di normale pianificazione queste operazioni si conducono di notte.

Se l'Italia non è stata avvertita dell'avvio del blitz, è però ragionevole presumere - in assenza di lamentele sulla comunicazione tra i due Paesi nei giorni e mesi precedenti - che fosse al corrente degli ultimi sviluppi (l'individuazione del luogo della prigionia e il rischio di "vendita" o uccisione degli ostaggi) e, quindi, del fatto che l'esito della vicenda, a giorni, se non ad ore, sarebbe stato proprio quello del blitz, a maggior ragione considerando la politica britannica in questi casi, in generale più incline all'azione di forza che al compromesso con i terroristi. Da quanto sta emergendo da varie fonti, l'accelerazione sarebbe stata causata dall'arresto, lunedì scorso, di un capo locale e di altri quattro membri di Boko Haram, la setta terroristica islamista responsabile del sequestro, che ha sì permesso di individuare l'edificio dove erano rinchiusi gli ostaggi ma che ha inevitabilmente messo in allarme i rapitori.

Ma la polemica innescata da Roma rischia di trasformarsi in un boomerang per l'Italia. Se davvero gli inglesi hanno condiviso le informazioni fino all'ultimo da maggio scorso, cioè dall'inizio del sequestro, il ritardo di pochi minuti nella comunicazione di un blitz sul quale comunque il nostro governo non avrebbe potuto opporre alcun veto, perché uno degli ostaggi era cittadino britannico, a maggior ragione se verrà confermata la massima urgenza imposta dalla situazione, poteva tranquillamente essere sdrammatizzato. Anche per non sottolineare che la nostra posizione nella vicenda - in termini militari, di intelligence e diplomatici - è stata del tutto secondaria, se non passiva. Quali iniziative, e con quale esito, hanno intrapreso i nostri servizi per la positiva risoluzione del sequestro?

Il governo, probabilmente scottato dal caso dei marò, stavolta ha subito fatto la voce grossa, ma alla prova dei fatti la reazione potrebbe dimostrarsi sproporzionata (ancor di più se paragonata all'acquiescenza con gli indiani). A sottolineare l'irrilevanza italiana, infatti, non è tanto il ritardo con il quale ci è stato comunicato il blitz, ma il fatto che non eravamo al centro dell'azione, e che non ci saremmo stati in ogni caso, blitz o non blitz. Solo pochi giorni fa i mainstream media avevano trionfalmente celebrato il ritorno dell'Italia, per merito del governo Monti, tra i Paesi che contano. La tragica sorte di Lamolinara e quella dei due marò (per non parlare del caso Urru, dove probabilmente ci stiamo facendo taglieggiare da finti mediatori) mostrano entrambe, sia pure per aspetti molto diversi, che non è così facile. L'amara realtà è che il nostro status di media potenza, di serie B se non C, dipende non solo da fattori economici, militari e geopolitici, ma anche da una serie di scelte, di comportamenti e approcci radicatissimi e bipartisan, al dunque condivisi anche dall'opinione pubblica.

Nel primo caso, è la nostra politica sui rapimenti all'estero, che praticamente esclude il ricorso all'uso della forza ed è invece incline al pagamento del riscatto, o a qualsiasi altro tipo di compromesso con terroristi o banditi vari, a metterci in una posizione di subalternità, se non del tutto fuori gioco, soprattutto quando tra gli ostaggi c'è un cittadino americano o britannico. Dovremmo chiederci come mai nei casi di sequestro in Italia c'è una legge specifica che vieta ai famigliari di pagare il riscatto, e mi pare che abbia ben funzionato, mentre all'estero siamo pronti a presentarci valigetta in mano. E' fuor di dubbio che pagando i riscatti, o cedendo alle richieste dei terroristi, si alimenta il "business" dei rapimenti. Si salvano - forse - le vite in pericolo in quel momento, ma se ne mettono in pericolo altre centinaia.

Nel secondo caso, invece, paghiamo lo scotto di un corpaccione diplomatico annoiato, addormentato, che chiamato improvvisamente all'opera si dimostra impreparato: si attiva tardivamente e commette errori imperdonabili. La figuraccia con l'India l'abbiamo già fatta quando qualcuno ha assunto, o avallato, la decisione di consegnare i marò, assumendosi il rischio di una rinuncia di fatto alla nostra giurisdizione sul caso. Fatta la frittata, avremmo potuto rimediare, appena constatata la malafede indiana, con una missione di salvataggio, ma non l'abbiamo nemmeno preso in considerazione. E ora la nostra sovranità, e dignità, è nelle mani di un giudice a Kollam. Ma siamo vittime innanzitutto di noi stessi.

Thursday, March 08, 2012

Passata la paura, riforme a rischio

Anche su Notapolitica

Calato lo spread, passata la paura? Passata la paura, si sta chiudendo la finestra per le riforme? Per la prima volta dagli ultimi giorni di agosto, quindi sette mesi fa, lo spread tra Btp e Bund decennali è sceso sotto quota 300, e il rendimento sotto il 5%, ma da allora molta acqua è passata sotto i ponti – o meglio, molti soldi. Se si analizza il grafico dell'andamento dello spread emerge chiaramente il peso dei fattori esterni nella crisi del nostro debito. Ben più delle strette fiscali e delle riforme, e della innegabile autorevolezza che il premier Mario Monti, alla guida del nuovo governo, ha conferito all'azione di risanamento, hanno potuto le aste di liquidità della Bce (quasi 1.200 miliardi di euro di prestiti immessi nel sistema bancario), l'avvicinarsi di una soluzione per il debito greco (il default «ordinato») e, sia pure in misura minore, il fondo salva-Stati e l'accordo sul fiscal compact. L'unico evento di politica interna che in questi mesi ha fatto calare di colpo lo spread, fino a 377 punti – non impedendogli tuttavia di tornare prontamente sopra i 500 punti – è stato il varo del decreto salva-Italia il 5 dicembre.

E basti ricordare che la doppia impennata delle prime due settimane dello scorso novembre che ha portato lo spread fra i nostri titoli decennali e quelli tedeschi prima a superare la soglia dei 400 e poi quella dei 500 punti, e che ha di fatto disarcionato il governo Berlusconi, è coincisa con l'annuncio da parte dell'ex premier greco Papandreou di un referendum sul piano salva-Grecia dell'Ue e con la crisi di governo che ne è seguita ad Atene. E' innegabile tuttavia che all'epoca il nostro debito scontava anche la crisi di credibilità personale di Berlusconi, l'immobilismo e l'avvitamento politico della sua maggioranza, tanto che solo il programma di acquisti di titoli di Stato da parte della Bce sul mercato secondario ha impedito ai livelli di spread già allarmanti di schizzare verso soglie da crisi greca. Se non altro, quindi, l'arrivo di Monti ha rappresentato un cambio di marcia per l'Italia, premessa indispensabile per un cambio di marcia anche in Europa.

Ma il peggio è davvero alle nostre spalle, come molte dichiarazioni del premier Monti lascerebbero intendere? Nella conferenza stampa di ieri il governatore della Bce Mario Draghi ha definito un «successo indiscutibile» i prestiti Bce, ha sottolineato il loro «potente effetto», avvertendo però che la politica monetaria non può risolvere tutto, che «ora la palla passa ai governi», che devono andare avanti nel consolidamento fiscale e nelle riforme strutturali, e agli «altri attori, soprattutto le banche, che devono risistemare i bilanci». Premesso che uno spread intorno ai 300 punti è comunque lontano dai livelli pre-crisi, ci aspetta nei prossimi mesi e anni una temibile doppia sfida – il rientro dal debito e la crescita – e il venir meno del senso di emergenza potrebbe attenuare la determinazione del governo e dei partiti che lo sostengono, nonché la tolleranza dell'opinione pubblica verso le misure di austerity.

Insomma, c'è il rischio che ben lungi dall'aver risolto i nostri problemi, si richiuda dietro il calo dello spread la finestra politicamente propizia per fare le riforme; che nei prossimi mesi, passata la grande paura torni il business as usual della politica; che il governo Monti sia più incline al compromesso. La scadenza, entro la fine del mese di marzo, per la riforma del mercato del lavoro, che dovrà inevitabilmente passare per la cruna dell'articolo 18, ci dirà quanta spinta propulsiva è rimasta al governo.

In realtà, nonostante la grande stampa abbia continuato nella sua opera di glorificazione di Monti, già in questi mesi abbiamo registrato una progressiva perdita di incisività nell'azione di governo. Dal decreto salva-Italia, che giusto o sbagliato che fosse conteneva comunque una notevole stretta fiscale, purtroppo solo sul fronte delle entrate, e una rigorosa riforma delle pensioni, poco altro è stato fatto. In quel momento l'esecutivo sembrava in grado di far ingoiare qualsiasi boccone amaro ai partiti, ma ne ha approfittato troppo poco. Oggi ancora meno. I provvedimenti escono dal Consiglio dei ministri già non particolarmente rivoluzionari e durante il loro passaggio in Parlamento vengono ulteriormente annacquati, sotto lo sguardo troppo indulgente del governo. La separazione annunciata di Snam rete gas da Eni e l'effettiva apertura del mercato dei servizi pubblici locali sono impegni tutti da verificare nei prossimi mesi. Il giudizio sulla lenzuolata di liberalizzazioni resta controverso, tra dietrofront, rinvii e colpi di dirigismo. Il cosiddetto "dl semplificazioni", che non rivoluziona affatto il rapporto con il Fisco ma serve piuttosto a semplificare gli strumenti per la lotta all'evasione, nasconde nelle sue pieghe una mini-patrimoniale sui conti deposito e potrebbe persino essere ribattezzato di “complicazioni”, per la surreale procedura imposta agli esercenti sui pagamenti in contanti oltre i mille euro concessi ai turisti stranieri. Inutili complicazioni sono state reinserite anche nel dl semplificazione e sviluppo all'esame della Camera in questi giorni, che rischia tra l'altro di trasformarsi in un tipico provvedimento omnibus di spesa: per esempio, istituisce una nuova scuola di dottorato e apre la strada ad eventuali incrementi degli organici scolastici, da finanziare tramite risparmi di spesa e/o inasprendo il prelievo sui giochi.

Anche le promesse di Monti sulle tasse cominciano a somigliare in modo preoccupante a quelle "berlusconiane", con la differenza che la stampa non gliene chiede conto quando appaiono smentite dai fatti. Alcuni giorni fa il viceministro del Tesoro Grilli, nell'indifferenza generale, ha dato per scontato l'aumento dell'Iva al 23% dall'inizio di ottobre, già scritto nel "salva-Italia", mentre il presidente del Consiglio sembrava suggerire che il riordino delle agevolazioni fiscali e assistenziali potesse evitare di far scattare la cosiddetta "clausola di salvaguardia". Del cosiddetto spostamento della tassazione dalle persone, cioè dal lavoro e dall'impresa, alle cose, quindi possesso e consumi, finora abbiamo visto soltanto l'aumento delle imposte indirette – l'Iva, l'Imu, le accise e le mini-patrimoniali sui conti titoli e deposito – senza alcun alleggerimento di quelle dirette. Non si intravede alcun piano di dismissioni per abbattere lo stock del debito, né alcuna seria riduzione, nell'ordine di 5-6 punti di Pil, della spesa pubblica.

Il bilancio, insomma, è magro, e il calo dello spread, il venir meno del senso di emergenza, potrebbe persino impoverirlo. Un test definitivo sarà la riforma del mercato del lavoro.

Tuesday, March 06, 2012

Dalle semplificazioni al tassa-e-spendi

Il dl semplificazioni all'esame della Camera si sta lentamente ma inesorabilmente trasformando nel provvedimento omnibus della peggior specie, di quelli che servono solo ad ingrossare l'adipe della bestia statale. Con buona pace del presidente della Repubblica Napolitano, che solo pochi giorni fa, in un messaggio formale alle Camere, aveva esortato i parlamentari ad evitare emendamenti offtopic rispetto all'articolato di base. Eppure, dalle semplificazioni siamo al solito tassa-e-spendi, al carrozzone su cui i partiti cercano di far salire il favore a questa o a quella clientela.

Ecco quindi che le Commissioni Affari costituzionali e Attività produttive della Camera non solo sanciscono lo stop ai «tagli» (o presunti tali) nella scuola, ma prevedono persino l'aumento degli organici scolastici di ben 10 mila unità, da impiegare in attività di recupero e sostegno degli alunni con bisogni educativi speciali e per estendere il tempo pieno. La copertura? Nessun problema, si preleva dal bancomat del contribuente-consumatore: 100 milioni di euro in più l'anno dall'aumento delle tasse sulla «produzione e sui consumi» di «birra, prodotti alcolici intermedi e alcol etilico», e 250 milioni in più dai «giochi pubblici» e i «giochi numerici a totalizzazione nazionale».

Ma è lo stesso governo a partecipare all'assalto della sua diligenza, con un emendamento che istituisce la scuola sperimentale di dottorato internazionale "Gran Sasso Science Institute" (in inglese è più "cool"). Costo: 52 milioni in 4 anni per 130 studenti, 22 professori, tra ordinari e associati, 18 ricercatori e 6 amministrativi.

Ingrossare gli organici della scuola, l'immissione in ruolo dei presidi vincitori di concorso, o istituire nuovi corsi di dottorato non ha molto a che fare con le semplificazioni. In compenso alcune perle uscite dalle commissioni della Camera restano se non altro in tema. Potevano mancare delle "complicazioni" in un dl semplificazioni? Certamente no. Ecco, dunque, l'emendamento che esclude semplificazioni nei macchinosi controlli in materia di sicurezza sul lavoro e quello reintroduce l'obbligo di verificare i «requisiti morali» (?) di chi vende bevande nelle sagre, nelle fiere, o in occasione di altre manifestazioni o eventi pubblici.

Qualche misura di buon senso, a onor del vero, è stata inserita, ma si tratta più che altro di norme manifesto: l'incentivazione del cloud computing; la riduzione dei costi per l'accesso all'ingrosso alla rete fissa di telecomunicazioni, il cosiddetto "ultimo miglio"; dal 2014 comunicazioni della pubblica amministrazione «esclusivamente» tramite «canali e servizi telematici»; pagamento delle imposte di bollo per via telematica e cartelle cliniche elettroniche.

UPDATE 7 marzo, ore 12:45
Merita un approfondimento in più l'emendamento al dl semplificazioni in cui si prevedevano 10 mila nuovi posti nella scuola, da finanziare con nuove tasse, approvato ieri dalle Commissioni Affari costituzionali e Attività produttive della Camera. Ebbene, ieri sera in Commissione Bilancio il governo l'aveva fatto saltare. Stamattina però governo e relatori hanno trovato un accordo: in pratica, salta la tassa su birra e alcolici, inizialmente prevista a copertura delle nuove assunzioni, così come l'indicazione numerica (10 mila), ma resta la spesa. In attesa che il Ministero dell'Economia trovi il modo, entro sei mesi, di aumentare il prelievo sui giochi per reperire sufficienti risorse, «a garanzia» di eventuali aumenti di organico nella scuola, per poter ottenere l'ok della Commissione Bilancio, si mette un fondo del Miur già esistente.

Peccato che il fondo in questione sia quello sul merito, deriso quando era stato introdotto dalla Gelmini, ma che oggi scopriamo essere «corposo». Comunque vada, dunque, si tratta di una cattiva scelta politica. Si ingrossano le file del pubblico impiego o semplicemente aumentando le tasse, o sottraendo risorse agli insegnanti meritevoli, quindi contraddicendo gli sforzi per premiare il merito.

Monday, March 05, 2012

Schiaffoni da tutti, dal Brasile all'India

La situazione dei due marò prigionieri in India per il caso della Enrica Lexie sta peggiorando: la Corte di Kerala ha disposto il trasferimento in carcere per tre mesi, pur concedendo a polizia e direttore delle carceri di studiare una sistemazione diversa. Resta il fatto che a prescindere dalla comodità dell'alloggio, formalmente sono da considerarsi incarcerati. E l'unica cosa che riesce a fare la Farnesina è mandare il segretario generale Massolo a chiedere ad un anonimo incaricato d'affari indiano a Roma che «ogni sforzo venga fatto per reperire prontamente per i nostri militari strutture e condizioni di permanenza idonee». Si esprime «vivissima preoccupazione» (vivissima?), si definiscono «inaccettabili» le misure assunte dalle autorità indiane, ma invece di intimare l'immediata liberazione dei nostri militari, si auspica per loro un letto comodo, «cibo conforme alla loro dieta», ovviamente «procurato e pagato» dalle nostre «autorità consolari». Non pervenute finora dichiarazioni del premier Monti e del ministro degli Esteri Terzi.

E' ovvio che non basta chiedere l'immediata liberazione dei nostri militari, men che meno se a farlo è un oscuro burocrate della Farnesina, perché gli indiani ci accontentino. Ma è quella la richiesta che in ogni sede, pubblica e privata, va avanzata. Niente di meno. Ed è grave che fino ad oggi il governo non abbia ritenuto di compiere alcun passo formale per portare il caso presso le competenti sedi internazionali.

Fin dall'inizio della vicenda gli «atti di cortesia» della nostra diplomazia si sono trasformati in colpevoli autogol sulla pelle dei due nostri militari. Con la scusa del riserbo necessario al buon esito delle trattative con le autorità indiane, il governo non ha mai rivelato chi, e perché, abbia scavalcato la Marina militare nella decisione infausta di consegnare i nostri militari agli indiani. E' arrivato il momento di rompere il silenzio e chiedere a gran voce che chi ha sbagliato paghi, ma il Parlamento è ormai un simulacro di se stesso, solo la camera di compensazione di partiti moribondi, e la grande stampa è così ossequiosa che a prendere in mano un giornale c'è il rischio che si sciolga come un gelato.

Insomma, l'Italia è uno zerbino internazionale. Il Brasile si tiene un terrorista italiano condannato per omicidio come fosse un rifugiato politico; l'India sequestra due nostri militari in acque internazionali; la cooperante Rossella Urru passa di mano in mano, tra aguzzini e finti mediatori. E noi subiamo, mostriamo sorrisi, al più paghiamo i riscatti, nemmeno ci sfiora l'idea di riaffermare la nostra sovranità e dignità nei modi, anche estremi, che possiamo immaginare.

Europa troppo all'italiana?

Anche su Notapolitica

E se i due SuperMario italiani, il premier Monti e il governatore della Bce Draghi, avessero messo nel sacco i tedeschi? E se invece che tedesca, da oggi l’Europa fosse un po’ più italiana e mediterranea? Siamo proprio sicuri che sarebbe un bene? Il dubbio s’insinua, visto che alla fine la sensazione è che i tedeschi abbiano scambiato aiuti subito a sostegno dei debiti sovrani in difficoltà (ESM e prestiti Bce, il cui effetto sugli spread si è già fatto apprezzare) per un patto di rigore fiscale dai meccanismi tutti da verificare, quindi dall’efficacia incerta, così come ancora incerta è la capacità dei Paesi periferici di completare i "compiti a casa", ossia azzerare il deficit, tagliare il debito e attuare riforme per la crescita.

Aver imposto l’introduzione dell’"equilibrio" di bilancio negli ordinamenti di 25 Paesi Ue, preferibilmente a livello costituzionale, è senz’altro un successo della politica europea di Berlino. Il fiscal compact prevede impegni onerosi per il rientro dai deficit e dai debiti nazionali dei Paesi eurodeboli, e sanzioni più stringenti, che scattano in modo quasi automatico. Ma presenta almeno due criticità. Una di carattere giuridico, l’estraneità del nuovo patto all’ordinamento dell’Ue: dal momento che Regno Unito e Repubblica Ceca hanno scelto di restarne fuori, non ha lo stesso valore giuridico del Trattato di Lisbona o di quello di Maastricht. L’altra di natura politica: l’interpretazione delle «circostanze eccezionali», per esempio una severa recessione, in presenza delle quali è consentito deviare dagli obiettivi di bilancio pattuiti. I governi di Spagna e Olanda, le cui stime del rapporto deficit/Pil nel 2012 sono peggiori delle aspettative, già si preparano a sfidare le nuove regole, rischiando di incrinare il patto appena firmato. A fronte di tali incertezze sul piano del rigore fiscale, la Bce ha già iniettato moneta sonante nel sistema bancario, con l’immediato effetto di calmierare i rendimenti sui titoli di Stato. Un calo della tensione che rischia di allentare la determinazione degli Stati nel perseguire le politiche di austerity e nell’implementare le riforme.

E’ con una leggera diversità di accenti, infatti, che la cancelliera tedesca Merkel e il premier italiano Monti hanno commentato la firma del fiscal compact venerdì scorso. Per Angela la situazione «resta fragile», «non siamo fuori dal tunnel» ed è «sbagliato dire che il quadro non è più allarmante». La crisi, insomma, «non è finita». Mentre per Mario, gongolante per il vistoso calo dello spread tra Btp e Bund, la crisi sembra «uscita di scena, speriamo per sempre».

Insomma, sembra proprio che la Bce abbia finito con l’agire di fatto da "prestatore di ultima istanza", come molti invocavano da tempo, e che i tedeschi abbiano dovuto ingoiare amaro. In due tranche, la prima da 489 miliardi e la seconda da 529 miliardi, la Bce ha immesso quasi 1.200 miliardi di euro di liquidità nel sistema bancario sotto forma di prestiti triennali ad un tasso agevolato dell’1%, cui hanno fatto ricorso circa 800 banche europee. A dispetto degli auspici e degli appelli un po’ ipocriti della classe politica e dei tecnici affinché i prestiti Bce venissero utilizzati dalle banche per allentare il credit crunch che affligge imprese e famiglie, le banche italiane e spagnole soprattutto li hanno usati per acquistare titoli di Stato di casa propria, e il repentino calo dello spread nei giorni immediatamente successivi le due operazioni sembra confermarlo. D’altra parte, a quel tasso, e con criteri così generosi sui collaterali (cioè i titoli che le banche offrono alla Bce come garanzia per assicurarsi i prestiti triennali), titoli di Stato che rendono fino al 5% rappresentano un investimento fin troppo facile. Si calcola che in minima parte (l’8%) i prestiti della Bce si trasformeranno in crediti alle imprese e alle famiglie. In gran parte serviranno a rifinanziare prestiti in scadenza con la stessa Bce (46%), a sostituire finanziamenti in scadenza sui mercati (13%), a rifinanziare le filiali nei Paesi periferici (11%) e, per oltre il 20%, direttamente ad acquistare titoli di Stato. E’ dunque Draghi, più che Monti, il Mario giusto con il quale congratularsi se lo spread tra Btp e Bund è sceso sotto quota 310, e quindi il rendimento sui nostri titoli decennali sotto il 5%.

L’operazione della Bce non ha però mancato di sollevare pesanti critiche da parte tedesca. La Merkel si è diplomaticamente limitata ad avvertire che quei prestiti non risolvono i problemi, servono solo a guadagnare tempo, anche se correndo il rischio di una bolla di liquidità. La Bundesbank è stata più dura. Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung è comparsa una lettera indirizzata all’istituto di Francoforte nella quale il governatore della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, critica apertamente le politiche espansive della Bce, che ne mettono a rischio la credibilità, chiedendo a Draghi un ritorno a regole più rigorose sui collaterali. La stampa tedesca c’è andata giù ancor più pesante. La Sueddeutsche Zeitung ha accusato Draghi di comportarsi «da politico più che da custode della moneta unica» e con i suoi mille miliardi «a buon mercato» di rischiare una nuova «bolla finanziaria». L’ha definito l’Alan Greenspan europeo, il governatore della Fed accusato di aver contribuito con le sue politiche alla bolla immobiliare, esplosa nel 2008, da cui prese avvio la grande crisi finanziaria: si «copia» così il modello della Fed del «mago Alan Greenspan», che «pompò enormi dosi di denaro nel sistema americano», con la conseguenza del «collasso del sistema» e della perdita di milioni di posti di lavoro.

Anche il Financial Times non ha nascosto le sue perplessità: pochi giorni prima della seconda operazione ha messo in guardia dal rischio di «viziare» le banche, e subito dopo osservato che la liquidità «fornisce solo tre anni di anestesia su parti limitate dei fondi delle banche», non raggiungendo tuttavia l’obiettivo dichiarato di finanziare l’economia reale e senza una chiara "exit strategy": cosa succederà fra tre anni, quando i prestiti dovranno essere restituiti o rifinanziati? C’è il rischio concreto di aver gettato i semi per la prossima crisi. Anche perché, se Italia e Spagna dovessero fallire nei loro obiettivi di finanza pubblica e non riuscire a varare le riforme necessarie per rilanciare la crescita, l’operazione Bce non avrebbe fatto altro che aumentare il rischio sistemico, dal momento che le banche, soprattutto italiane e spagnole, si ritroverebbero nei loro bilanci stock ancora più corposi di Btp e Bonos tossici.

E’ l’immissione nel sistema di liquidità a basso costo della Bce, dunque – che ha indotto soprattutto le banche italiane e spagnole ad acquistare titoli di Stato domestici  – ad aver allentato la tensione sugli spread di Italia e Spagna, e non il ritorno della fiducia dei mercati, che restano i severi giudici di terzo grado dei debiti sovrani. Gli investitori esteri – nonostante la moral suasion di Monti alla City e a Wall Street – sembrano per ora restare alla finestra. Basta essere consapevoli che si tratta di una droga, di un anestetico, che serve a guadagnare tempo. Dire, come purtroppo sembra suggerire Monti, con la grande stampa ossequiosa al seguito, che la crisi è finita, che abbiamo fatto i "compiti a casa", e continuare con questa "bad austerity" fatta di pressione fiscale ai massimi, nessun massiccio taglio alla spesa pubblica corrente e nessun piano di dismissioni, significa scherzare col fuoco, proprio mentre il nostro sistema bancario sta incorporando ulteriore rischio sovrano.