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Tuesday, February 28, 2017

Puppet o fuffa?

No, l'annunciato aumento del budget della difesa, e dell'arsenale nucleare Usa, da parte del presidente Trump, non è piaciuto a Mosca. Non l'hanno presa affatto bene.
"Se Washington vuole veramente la superiorità in campo nucleare, il mondo tornerà alla guerra fredda, con il rischio di una catastrofe globale", ha avvertito il presidente della Commissione Affari esteri della Duma Slutsky, che ha insistito sulla necessità di mantenere "il principio della parità nucleare". Il "dominio di una sola potenza" sarebbe "inaccettabile". La Russia reagirà a un aumento della spesa militare negli Stati Uniti, ha avvertito sempre Slutsky.

O Putin ha sbagliato puppet o era tutta fuffa propagandistica...

E proprio oggi la Russia (insieme alla Cina) ha dovuto porre il veto in Consiglio di sicurezza Onu su una risoluzione Usa-Gb-Francia contro il regime di Assad per l'uso di armi chimiche. "Scelta indifendibile", ha commentato l'ambasciatore Usa Nikki Haley. La Haley ha detto anche che Washington sanzionerà persone e gruppi citati nella risoluzione e lavorerà con i partner europei per imporre sanzioni al di fuori dell'ambito Onu.

Friday, February 24, 2017

La "sveglia" di Trump alla Nato e all'Europa

Versione ridotta pubblicata su L'Intraprendente

Rassicurazioni sull'impegno Usa nella Nato e i rapporti con la Russia, ma il vice presidente Pence e il segretario alla difesa Mattis "suonano la sveglia" agli alleati. "Americans cannot care more for your children's security than you do"

La realtà ha già cominciato a smentire le previsioni apocalittiche sulla presidenza Trump e gli "esperti" non sanno ancora decidersi se criticarlo quando "attenta" all'ordine e alle istituzioni internazionali del dopoguerra, o quando adotta una linea più convenzionale, apparentemente tornando sui suoi passi e contraddicendo se stesso. Non hanno capito nulla di Trump prima, durante e dopo... E ora si arrampicano sugli specchi per spiegarci come mai le prime, ragionevoli mosse della nuova amministrazione Usa non sembrano coerenti con i loro scenari catastrofici.

I suoi critici "a prescindere" non accetteranno mai di vederla, ma c'è una logica nella politica estera dell'amministrazione Trump, che ha appena cominciato a prendere forma. Innanzitutto, l'idea secondo cui allo slogan trumpiano "America First" debba corrispondere un'America chiusa in se stessa che abbandona gli alleati al loro destino si sta sempre più scontrando con la realtà dei primi passi dell'amministrazione, come dimostrano le calorose accoglienze riservate da Trump ai premier di Regno Unito e Giappone a Washington e i recenti tour in Europa del vicepresidente Mike Pence (alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco e a Bruxelles), del segretario alla difesa Jim Mattis (al vertice Nato e alla conferenza di Monaco) e del segretario di Stato Rex Tillerson (al G20 di Bonn). E' chiaro: se si sono prese alla lettera, ma non sul serio, le parole di Trump in campagna elettorale, rivolte all'elettore medio americano, allora le parole dei suoi uomini oggi, prese altrettanto alla lettera, possono apparire distanti, persino divergenti. Ma se, con uno sforzo di onestà intellettuale, si prendono sul serio le une e le altre, si vedrà che i concetti espressi coincidono, che pur nelle diverse sensibilità prevale la sintonia, non un presidente "sotto tutela" come qualcuno insinua.

I suoi critici sono disorientati, ma un filo logico nella politica estera di Trump sta emergendo, ha scritto sul WSJ lo studioso dell'American Enterprise Institute Michael Auslin. Sulle questioni di politica estera che hanno un impatto diretto sul fronte interno, come gli accordi commerciali e la globalizzazione, persegue un cambiamento radicale; sulle questioni di pura politica estera, come i rapporti con gli alleati, la Russia o la Cina, sta adottando un approccio più tradizionale. "Almeno finora, Trump è stato molto coerente. I critici da sinistra e da destra dovrebbero accettare che i prossimi quattro anni di politica estera americana saranno definiti da un mix di tradizionalismo e di radicalismo". In una parola: pragmatismo, gli interessi dell'America al primo posto.

Il candidato Trump ha suscitato scandalo quando ha posto, in modo a volte provocatorio, il tema del giusto contributo degli alleati ai costi della difesa comune, e quando ha parlato di un'alleanza "obsoleta", perché non a sufficienza rivolta a contrastare la minaccia del terrorismo islamico, e di migliori rapporti con la Russia. Su questi tre fronti non potevano certo esprimersi come il candidato Trump, ma sia il vicepresidente Mike Pence sia il segretario alla difesa Mattis hanno "suonato la sveglia" agli alleati della Nato e all'Europa, recando il messaggio del presidente nel modo più chiaro, esplicito e ultimativo possibile (anche se, chiusi nella loro bolla e nei loro pregiudizi, gli europei fanno sapere di restare disorientati sulle reali intenzioni della Casa Bianca). Washington non intende abbandonare a se stessa la Nato - ma pretende giustamente che gli alleati contribuiscano alla sicurezza comune almeno quanto pattuito - né fare regali alla Russia, con la quale cercherà un "terreno comune" di cooperazione, ma al tempo stesso richiamandola alle sue responsabilità.

Naturalmente i media europei hanno evidenziato le rassicurazioni di Pence e Mattis sull'impegno americano, lasciando persino intendere che stessero correggendo il loro presidente o in qualche modo ridimensionando le sue dichiarazioni (nonostante entrambi abbiano esplicitamente, più volte, premesso di parlare a suo nome), mentre molto meno rilievo è stato dato alle parti dei loro discorsi in cui recavano le richieste della nuova amministrazione Usa.

Il segretario alla difesa Mattis ha assicurato che la Nato resta un "pilastro fondamentale" per gli Stati Uniti, l'impegno per l'articolo 5 dell'Alleanza atlantica resta "solido come una roccia", ma ha anche detto chiaro e tondo che se gli alleati non aumenteranno la loro spesa militare, gli Stati Uniti non potranno che "moderare" il loro impegno nella Nato. Un vero e proprio "warning". E la notizia semmai è che, almeno a parole, la Nato abbia acconsentito alla richiesta di Trump, che in fondo è la stessa dei suoi predecessori alla Casa Bianca. "Americans cannot care more for your children's security than you do". Mattis è stato franco e diretto, il suo ragionamento non fa una piega: "Devo a tutti voi chiarezza sulla realtà politica negli Stati Uniti e porre la giusta richiesta da parte della gente del mio Paese in termini concreti... L'America terrà fede alle sue responsabilità, ma se le vostre nazioni non vogliono vedere l'America moderare il suo impegno per l'alleanza, ciascuna delle vostre capitali dovrà mostrare il suo sostegno per la nostra difesa comune". "Il contribuente americano non può più sopportare una quota sproporzionata della difesa dei valori occidentali. Gli americani non possono preoccuparsi per la sicurezza dei vostri figli più di quanto facciate voi stessi. Il disprezzo per la preparazione militare dimostra una mancanza di rispetto per noi stessi, per l'Alleanza e per le libertà che abbiamo ereditato, che sono ora chiaramente minacciate". Quindi, una sorta di ultimatum: "Dobbiamo garantire che alla fine dell'anno non saremo nella stessa situazione di oggi". Gli Stati Uniti si aspettano che gli alleati adottino quest'anno dei "piani", con "date e scadenze precise", che assicurino "progressi costanti" verso il raggiungimento della quota del 2% del Pil di spesa militare, come pattuito. La ricca Germania, per esempio, spende solo l'1,19%...

Riguardo la necessità di rinnovare la "mission" dell'Alleanza, sempre Mattis ha spiegato che per rimanere credibile la Nato deve adattarsi ai nuovi scenari geopolitici. I Paesi membri "non possono più negare la realtà" del terrorismo islamico e degli altri rischi geopolitici e devono essere "unificati da queste crescenti minacce alle nostre democrazie". E' esattamente la questione posta da Trump quando ha parlato di Nato "obsoleta": modernizzare una proiezione dell'alleanza fossilizzata sull'inevitabilità della minaccia proveniente da est, dalla Russia, come ai tempi della Guerra Fredda. La correzione chiesta dal presidente Trump è ragionevole e non diversa da quella di cui già da tempo si discute e verso la quale spingono soprattutto i membri del fronte sud dell'Alleanza: riorientare la Nato verso le minacce provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Come sugli oneri della difesa, anche su questo l'iniziativa della nuova amministrazione Usa sembra aver accelerato processi già in corso: i 28 hanno dato il via libera al cosiddetto "hub per il Sud", all'interno del Joint Force Command di Napoli, e approvato un generale riorientamento strategico verso sud, per meglio affrontare le minacce che arrivano, appunto, dal Medio Oriente e dal Nord Africa (Libia compresa, essendo giunta dal governo al-Sarraj la richiesta formale di un supporto Nato).

Quanto ai rapporti con la Russia, nessuno a Washington ha intenzione di abbandonare gli alleati dell'Europa orientale, né di cedere alle ambizioni putiniane, né di tradire i valori dell'Occidente. La Russia resta tra le principali sfide alla sicurezza transatlantica, ma si tratta di guardare con realismo al ruolo che può giocare Mosca su altri fronti. Se la Nato è "essenziale", ha spiegato infatti il segretario Mattis, nel "bloccare gli sforzi russi tesi all'indebolimento delle democrazie", lo è anche nel "contrastare l'estremismo islamico e rispondere a una Cina più assertiva". Certo, ha avvertito, "bilanciare collaborazione e confronto è certamente una sgradevole equazione strategica". Se da una parte Mattis ha confermato l'apertura del presidente Trump "alle opportunità di restaurare una relazione cooperativa con Mosca, allo stesso tempo - ha aggiunto - restiamo realisti nelle nostre aspettative e raccomandiamo ai nostri diplomatici di negoziare da una posizione di forza". Ciò significa, ha assicurato, che "non siamo disposti ad abbandonare i valori di questa alleanza, né a lasciare che la Russia, attraverso le sue azioni, parli con voce più alta di chiunque in questa stanza".

E se Mosca, tramite il suo ministro alla difesa, si dice "pronta per ristabilire la cooperazione con il Pentagono", il capo del Pentagono dice che no, "in questo momento" gli Stati Uniti non sono pronti per una collaborazione militare con la Russia. Prima di una collaborazione con gli Stati Uniti e la Nato, la Russia deve "dimostrare" di voler rispettare le leggi internazionali, ha spiegato Mattis parlando a Bruxelles. "In questo momento non siamo nella posizione di collaborare a un livello militare con la Russia, ma i nostri leader politici si incontreranno e cercheranno di trovare un terreno comune o una via d'uscita".

Della ricerca di un "terreno comune" con Mosca ha parlato anche il segretario di Stato Rex Tillerson in una breve dichiarazione alla stampa dopo l'incontro con il ministro degli affari esteri russo Lavrov a margine del G20 di Bonn. Ma gli Stati Uniti si aspettano che la Russia "onori gli impegni presi con gli accordi di Minsk e lavori per una de-escalation della violenza in Ucraina". Usa e Russia devono lavorare insieme laddove i loro interessi siano coincidenti, concordano Tillerson e Lavrov. Anche se nell'esprimere lo stesso concetto il segretario Tillerson ha usato parole un po' diverse: "Come ho già detto nella mia audizione di conferma al Senato, gli Stati Uniti considereranno la possibilità di lavorare con la Russia quando sarà possibile trovare aree di cooperazione pratica che potranno portare beneficio agli americani". In ogni caso, la nuova amministrazione Trump, ha chiarito, "non prevede di andare contro gli interessi e i valori dell'America e dei suoi alleati".

Sulla Russia i vertici dell'amministrazione Trump parlano con una voce sola e "terreno comune" è l'espressione ricorrente. Mentre gli Stati Uniti, ha spiegato il vicepresidente Pence, "continueranno a ritenere la Russia responsabile e ad esigere che rispetti gli accordi di Minsk cominciando a diminuire la violenza nell'Ucraina orientale, seguendo le direttive del presidente Trump tenteremo anche in nuovi modi di trovare con la Russia un terreno comune". Fermo restando, ha aggiunto, che "alla luce dello sforzo della Russia di ridisegnare i confini dei Paesi con la forza, noi continueremo a sostenere la Polonia e gli Stati baltici attraverso la presenza avanzata rafforzata della Nato" in quei Paesi.

A conferma di tutto ciò, gli Stati Uniti stanno mobilitando unità corazzate nei Paesi baltici, in Polonia, Romania e Bulgaria, per "sostenere e integrare l'impegno Nato a favore della deterrenza" nei confronti di Mosca. Via libera dall'amministrazione Trump anche al rafforzamento della presenza navale Nato nel Mar Nero, annunciato dal segretario Stoltenberg, "per addestramento avanzato, esercitazioni e consapevolezza situazionale". Una mossa che, ha assicurato, "sarà misurata, di natura difensiva, in nessun modo volta a provocare un conflitto né ad alimentare le tensioni".

Anche del discorso del vicepresidente Mike Pence a Monaco è stato dato maggiore rilievo alle rassicurazioni, ma nei confronti degli alleati il suo monito è stato ancor più duro. "Il presidente mi ha chiesto di essere qui oggi per trasmettere il messaggio che gli Stati Uniti sostengono fortemente la Nato e che noi saremo incrollabili nel nostro impegno verso l'Alleanza atlantica", ha detto Pence. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, saranno "più forti di quanto non siano mai stati" sotto la presidenza Trump, che ha intenzione di "ripristinare l'arsenale della democrazia". Così come, a Bruxelles, Pence ha riferito, sempre a nome del presidente Trump, "il forte impegno degli Stati Uniti ad una continua cooperazione e partnership con l'Unione europea". Ma la seconda parte del messaggio è che il popolo americano potrebbe perdere la pazienza (che "non durerà per sempre") con i membri della Nato se questi non condividono i costi della difesa comune. Oggi "non pagano la loro giusta parte" e questa mancanza "corrode le fondamenta della nostra alleanza". "E' venuto il tempo di fare di più... It is time for actions, not words", ha detto prendendo in prestito uno slogan dal discorso di insediamento del suo presidente. Anche da Pence una sorta di ultimatum: il presidente Trump si aspetta "progressi reali entro la fine del 2017" da parte degli alleati che non rispettano l'impegno a investire il 2% del Pil in spesa militare.

E nel caso qualcuno ancora non avesse compreso il messaggio, Pence ha esortato i Paesi Nato che non spendono il 2% del loro Pil nella difesa ad accelerare i loro piani per arrivarci: "E se non avete un piano, datevene uno". Ad essere onesti, la realtà è che l'ingresso di Trump alla Casa Bianca ha già impresso una positiva accelerazione nel dibattito sulla e nella Nato. E nonostante mugugni, piagnistei e moti di sdegno un po' ipocriti, l'Alleanza sta facendo l'unica cosa possibile: allinearsi.

P.S.
La questione è semplice: pare che per qualcuno la difesa ce la debbano assicurare i contribuenti americani (e il debito i contribuenti tedeschi...). Troppo comodo, no? Se si crede nella Nato, si è coerenti e si contribuisce (almeno) quanto pattuito. Se si crede nell'Unione europea, si taglia il debito prima di chiederne la mutualizzazione. Altrimenti, la figura dei soliti furbastri e inaffidabili è assicurata.

Tuesday, February 21, 2017

Renzi impaludato nel Vietnam Pd... E potrebbe essere tardi per uscirne

Sull'altare di un animale mitologico, l'unità della sinistra, Renzi ha buttato via riforme istituzionali, economiche e legge elettorale. Senza nemmeno riuscire a mantenerla, l'unità... Ora una corposa scissione è la sua unica, ultima possibilità di cambiare davvero il Pd (ammesso che sia ancora possibile...) e sperare di giocarsi tutto con una campagna elettorale che guardi all'elettorato che può permettergli di superare il 30%... L'unico problema, semmai, è che potrebbe essere già troppo tardi. Il Pd così com'è, chiuso nel suo recinto ideologico, anche guidato da Renzi (quello attuale), non supera il 25%. E quando si vota, se subito o nel 2018, è ininfluente se Renzi non capisce il vento che spira dall'Atlantico e che con quel partito non supera il 25%.

Thursday, February 16, 2017

Chi ha ucciso il soldato Flynn

Pubblicato su L'Intraprendente

A Washington un gruppo di burocrati della sicurezza nazionale e di ex funzionari dell'amministrazione Obama sta passando alla stampa informazioni altamente sensibili per danneggiare il governo eletto. Non è una buona notizia per gli uomini liberi...

Tutto nasce dalla condotta senza precedenti dell'ex presidente Obama, che a pochissimi giorni dalla sua uscita dalla Casa Bianca e nell'indifferenza dei media plaudenti, piazza una serie di mine diplomatiche pronte a esplodere sul cammino della nuova amministrazione. E' tentando di disinnescare una di queste mine che il soldato Mike Flynn ha messo un piede in fallo ed è saltato in aria.

Con la scusa dell'hackeraggio del Comitato elettorale democratico durante la campagna elettorale, ad opera di hacker russi i cui collegamenti con il governo di Mosca somigliano tuttora a speculazioni, l'FBI e le agenzie di intelligence ancora controllate dal presidente Obama hanno cominciato ad indagare e a intercettare gli uomini della squadra di Trump a caccia delle prove di una presunta cospirazione per truccare le elezioni a suo vantaggio. Paranoia, o più probabilmente un'"arma di distrazione" dalle responsabilità, di Hillary Clinton e dello stesso Obama, nella bruciante sconfitta elettorale. Ma un'indagine ci poteva anche stare. Ancora oggi il New York Times, apprendendo dalle solite fonti di intelligence di "contatti" tra collaboratori di Trump e membri dell'intelligence russa, è costretto a riferire anche che in tutte le indagini non è emersa finora "alcuna prova di cooperazione" tra la campagna Trump e la Russia per influenzare le elezioni. Stop, dunque? No. Non trovando alcuna prova della combutta, si sono tenuti le trascrizioni per passarle selettivamente, e illegalmente, alla stampa ogni qual volta fosse possibile danneggiare l'amministrazione Trump, far fuori i suoi uomini e alimentare comunque il sospetto che la Russia lo abbia aiutato a "rubare" l'elezione alla Clinton.

Ed è quanto accaduto al consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn.

L'espulsione di 35 diplomatici russi decisa da Obama solo una ventina di giorni prima di lasciare la Casa Bianca, come ritorsione per l'hackeraggio del Comitato elettorale democratico, apre l'ennesimo fronte di tensione con Mosca che nei colloqui telefonici con l'ambasciatore russo a Washington Kislyak il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale tenta - con successo, pare - di raffreddare. La sua colpa infatti sarebbe di aver convinto Putin a non reagire, coprendo così di ridicolo le misure di Obama. Cos'altro avrebbe dovuto fare? Lasciare che la frustrazione del presidente uscente minasse i tentativi della nuova amministrazione di migliorare i rapporti con Mosca? Ed è credibile che nessun esponente di nessuna amministrazione entrante abbia mai parlato con funzionari stranieri prima dell'insediamento, prefigurando la politica del nuovo corso? Flynn non ha commesso nulla di illegale. Le stesse fonti citate dai giornaloni Usa ammettono che sarebbe arduo intentare una causa contro Flynn, dal momento che in oltre due secoli nessuno è stato perseguito per la violazione del "Logan Act", la legge che vieta ai normali cittadini di interferire nei rapporti diplomatici.

Avrebbe discusso delle sanzioni, ma i termini in cui ne avrebbe discusso con l'ambasciatore russo sono ancora oscuri.
Flynn potrebbe essersi limitato a far notare a Kislyak che l'amministrazione Trump si sarebbe insediata di lì a poche settimane e avrebbe riesaminato la politica nei confronti della Russia, sanzioni comprese. Il che non sarebbe nulla di illegale né improprio, e spiegherebbe perché, essendo un'affermazione così ovvia, non abbia ritenuto di parlarne al vicepresidente. Ma la sola presenza del termine "sanzioni" nella trascrizione della telefonata avrebbe fornito il pretesto per la fuga di notizie ai suoi danni.

Cosa sta succedendo quindi a Washington? Che "un gruppo di burocrati della sicurezza nazionale e di ex funzionari del governo Obama - riassume Eli Lake su Bloomberg News - sta selettivamente passando alla stampa informazioni altamente sensibili per danneggiare il governo eletto". E "divulgare selettivamente dettagli di conversazioni private intercettate da FBI o NSA dà il potere di distruggere reputazioni sotto la copertura dell'anonimato. E' ciò che fanno gli stati di polizia". Ma evidentemente uno stato di polizia sembra a molti perfettamente accettabile, se serve ad abbattere Trump.

Se si trattava di un caso di intelligence, osserva sul NYPost John Podhoretz (tutt'altro che un fan di Trump, tanto meno di Flynn), "la fuga di notizie ha rivelato qualcosa ai russi che non dovremmo voler rivelare - ovvero che li stavamo ascoltando e in modo efficace". Se invece si trattava di un'indagine dell'FBI, allora "un principio cardine dell'applicazione della legge - che le prove acquisite nel corso di un'indagine devono essere tenute segrete per tutelare i diritti dei cittadini sotto indagine - è stato passato al tritatutto". E, aggiunge Podhoretz, se queste fughe di notizie non sono motivate da questioni di principio, ma dall'intenzione dei funzionari di queste agenzie di "far fuori un potenziale avversario", si tratterebbe di "un enorme abuso di potere".

Dunque, a prescindere dalla sua imprudenza, Flynn è stato vittima di un vero e proprio assassinio politico orchestrato da anonimi burocrati della comunità di intelligence. Il che dovrebbe far tremare chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia americana. Che un'amministrazione sia oggetto di dossieraggio e fughe di notizie da parte delle sue stesse agenzie di intelligence è inquietante. Anche perché, per mero calcolo politico, non si esita a gettare benzina sul fuoco sui già difficili rapporti tra Stati Uniti (e loro alleati) e Russia.

"L'idea - osserva ancora Eli Lake - che funzionari Usa a cui sono affidati i nostri segreti più sensibili li rivelerebbero selettivamente pur di danneggiare la Casa Bianca dovrebbe allarmare tutti coloro che sono preoccupati per uno strisciante autoritarismo. Immaginate se intercettazioni di una chiamata tra il consigliere per la sicurezza nazionale entrante di Obama e il ministro degli affari esteri iraniano fossero trapelate alla stampa prima che avessero inizio i negoziati sul nucleare... Le grida di indignazione sarebbero assordanti".

Flynn ha pagato probabilmente anche le sue dure critiche alla comunità di intelligence, di cui sostiene una profonda riforma di sistema. Alla guida della Defense Intelligence Agency di Obama, rimosso perché sosteneva che non si combattesse abbastanza il terrorismo islamico, ha prodotto un rapporto che avvertiva come il caos in Siria avrebbe favorito la nascita dell'Isis, e denunciato incompetenze e fallimenti dell'intelligence. Elementi più che sufficienti per un movente... Probabile anche che più di qualcuno a Washington temesse le sue posizioni intransigenti sull'Iran e la sua totale contrarietà all'accordo con Teheran sul nucleare (che nasconde ancora non pochi lati oscuri...).

Con la sua uscita viene a mancare una delle poche figure con una visione strategica chiara. Viene scambiata per vicinanza, o addirittura complicità con Mosca l'ipotesi, tutta da verificare, dei russi come preziosi alleati nella guerra contro quelle che ritiene essere le principali minacce agli Stati Uniti e all'Occidente: il radicalismo islamico e l'Iran. Ma per Flynn, e lo ha scritto nero su bianco, la Russia di Putin resta un avversario strategico, che vede nell'Occidente, nella Nato e negli Stati Uniti bersagli da colpire o comunque da indebolire.

Wednesday, February 01, 2017

Libia, soluzione nelle mani di Trump...

Pubblicato su Ofcs Report

Prima che sia Mosca, come in Siria, a occupare il vuoto lasciato da Obama. Washington è per l'Italia l'ultima exit strategy dal vicolo cieco in cui si è cacciata

Oggi la Libia rappresenta per l'Italia il principale problema sia di politica estera che di politica interna. La crisi di migranti generata dal caos libico accresce l'insofferenza dei cittadini italiani per i comandamenti dell'"Accoglienza", fattore non trascurabile alla base della crisi di consensi del Governo Renzi, e indebolisce la nostra posizione in Europa. Solo nelle ultime settimane: sedi ministeriali occupate a Tripoli, proprio nei giorni successivi la visita del ministro dell'interno Minniti; un'autobomba esplosa nei pressi dell'ambasciata italiana da poco riaperta; golpe veri o presunti o minacciati e continue dichiarazioni dal Parlamento di Tobruk contro "l'occupazione militare italiana". Vendette dell'ex premier libico Ghwell, scalzato dal governo targato Onu di al-Serraj? Avvertimenti del generale Haftar ("con me dovete trattare")? E' comunque difficile non scorgere dietro questi eventi un disegno, o quanto meno una serie di provocazioni. In ogni caso, una spia del fatto che la nostra politica in Libia rischia di essere fondata sulla sabbia - potremmo aver puntato sul cavallo sbagliato - e che resta alto il rischio di un'escalation tra le fazioni in lotta per il controllo del Paese. Il governo di Fayez al-Sarraj sembra non aver alcun controllo del territorio, nemmeno a Tripoli, ed essere stato di fatto scaricato dalla comunità internazionale. Solo l'Italia si espone ancora a sostenerlo. Sicuri sia l'interlocutore giusto con il quale cercare un accordo per fermare il flusso di migranti che arriva sulle coste italiane?

I governi italiani hanno commesso almeno due errori. L'aver scommesso sul processo politico "onusiano" che ha portato alla legittimazione dell'impotente governo al-Sarraj e l'essersi fidati del presidente americano Obama, che oltre ai raid contro l'Isis non ha profuso che un minimo, formale impegno nel processo politico, che a suo avviso (non a torto) dovrebbe essere affare degli europei. Peccato che i nostri "amici" europei coinvolti in Libia si stiano muovendo in ordine sparso tutelando ciascuno i suoi interessi. E, come in Siria, l'impegno scarso e confuso prima, il progressivo disimpegno poi dell'amministrazione Obama ha creato anche in Libia un vuoto nel quale si sta inserendo la Russia di Putin.

Cosa fare, dunque? E' il momento di correggere la rotta, ma non c'è un minuto da perdere. Il cambio di amministrazione a Washington offre non solo al Regno Unito post-Brexit ma anche all'Italia una exit strategy dal vicolo cieco in cui si è cacciata in Libia sostenendo con eccessivo zelo il fragile tentativo onusiano di al Serraj. Convincere Washington a riprendere in mano sul serio il dossier libico per controbilanciare, finché siamo in tempo, la crescente influenza della Russia. Mosca sta infatti sempre più stringendo i suoi rapporti con il generale Haftar, che con il suo esercito, al fianco del Parlamento di Tobruk, controlla ormai saldamente l'est e il sud del paese, infrastrutture petrolifere comprese. Dopo la visita a Mosca qualche settimana fa, Haftar è salito a bordo della portaerei Kuznetsov, di passaggio nel Meditterraneo di rientro dalla Siria, per siglare un accordo di collaborazione militare (si parla di forniture di armi per due miliardi di dollari).

"A Trumpian Peace Deal in Libya?" è il titolo di un recente articolo di Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs secondo cui la nuova amministrazione Usa può giocare un ruolo decisivo nel dare soluzione al rebus libico. Da una parte, spiegano, il generale Haftar, sostenuto da Russia ed Egitto, avendo già il controllo delle infrastrutture petrolifere, avrebbe poco interesse a scivolare verso una sanguinosa battaglia per Tripoli se ci fosse la possibilità di un negoziato. Dall'altra, le fazioni occidentali, quella di Misurata inclusa, sono più incentivate a negoziare ora, prima che la loro posizione si indebolisca ulteriormente. Haftar potrebbe infatti attaccare Misurata a breve e a quel punto l'egemonia di Mosca (e del Cairo) sulla Libia sarebbe difficilmente reversibile.

Che ruolo può giocare quindi la nuova amministrazione Usa? E cosa si aspettano da essa le fazioni libiche? Almeno "per le strade libiche", secondo i due autori, il presidente Trump è "molto più popolare di quando sarebbe stata Hillary Clinton". "Gli emissari dell'ex segretario di Stato sono associati con lo status quo e con la fazione di Misurata. Inoltre, poche aree al mondo sono state più trascurate della Libia durante il secondo mandato del presidente Obama. Gli Stati Uniti sono stati decisivi per i raid aerei che hanno cacciato l'Isis da Sirte, ma non hanno esercitato la loro leadership sugli aspetti politici ed economici della transizione. Quindi, le fazioni libiche sperano in una iniziativa della nuova amministrazione Usa per superare lo stallo e dare nuova vita alle trattative", evitando così un'escalation del conflitto armato che non conviene a nessuna.

E' nell'interesse di Washington affrontare il dossier libico quanto prima per evitare che gli sviluppi del conflitto possano minacciare gli interessi americani. I paesi vicini (Tunisia, Algeria ed Egitto) potrebbero venire contagiati dal conflitto con infiltrazioni di milizie jihadiste. E la Russia potrebbe giocare d'anticipo riconoscendo il generale Haftar e il Parlamento di Tobruk come governo legittimo della Libia. Un regime filo-russo in Libia significherebbe trovarsi, dopo l'Ucraina e la Siria, con un nuovo fronte di tensione con Mosca. Proprio perché il presidente Trump sembra intenzionato a lavorare ad "un ampio accordo geostrategico con la Russia, non c'è ragione di pensare che intenda regalarle un'ulteriore leva negoziale".

Per gli autori Washington ha ancora più di una carta in mano. Solo gli Stati Uniti infatti possono offrire "pieno accesso nell'economia globale (e al mercato petrolifero) e legittimità internazionale alle varie fazioni libiche", nonché garantire aiuti per la ricostruzione. Da Russia ed Egitto riceverebbero invece solo "dipendenza e ulteriore marginalizzazione". Quindi l'amministrazione Trump "dovrebbe riconoscere che nessuna fazione, tra cui il governo di al-Serraj, ha un diritto esclusivo di legittimità politica in Libia". Il generale Haftar e le milizie di Misurata sono "i due blocchi più potenti". Anche se Haftar si sta rafforzando e Misurata si sta indebolendo, è improbabile che il primo possa prevalere a breve e una separazione de facto del Paese è l'esito più probabile.

"Una soluzione negoziata di condivisione del potere" è preferibile, secondo i due analisti, rispetto a qualsiasi altro "pseudo-governo", ma ciò "non può accadere finché Washington continua a sostenere l'impotente governo di al-Serraj come unico legittimo e ad escludere Haftar e le altre fazioni". Gli autori suggericono quindi "il diretto coinvolgimento di Haftar e dei leader moderati di Misurata", dato che in Libia "sono i leader delle milizie ad avere il potere vero, non i politici". E che "l'Occidente contribuisca a mettere a punto una proposta di decentramento politico cosicché tutte le fazioni vedano l'attuale conflitto come un gioco a somma zero". Meglio "devolvere" alle città la maggior parte dei poteri, così come gli introiti delle risorse naturali. Eventuali conflitti locali sono più gestibili di un unico conflitto nazionale o tre regionali e la governance locale è necessaria per la ripresa economica. A questo scopo, Trump dovrebbe nominare un suo "inviato presidenziale" che coordini le politiche delle agenzie federali, supervisioni il processo Onu e agisca da "primus inter pares" con gli alleati europei coinvolti in Libia (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito), delegando loro "ruoli complementari".

Finora la "leadership confusa" dell'amministrazione Obama ha portato ad una politica "mal coordinata e incoerente". Se gli Stati Uniti vogliono porre fine alla guerra civile in Libia, avvertono, devono abbandonare il concetto di "leading from behind" ed esercitare direttamente la loro leadership. "Trump, come sappiamo, è un pensatore non convenzionale - concludono i due analisti di Foreign Affairs - non vincolato ai modi di fare tipici della burocrazia. E la Libia ha bisogno di un approccio fresco e coraggioso. Fortunatamente per gli Stati Uniti, per motivi geopolitici, le principali fazioni libiche sono ansiose di lavorare con Trump. Ora è il momento per lui di dimostrare che è pronto a lavorare con loro".

Dunque, nella partita a scacchi che sta per iniziare tra Washington e Mosca - e che si gioca tra l'Europa orientale, il Medio Oriente e l'Iran - la Libia occupa una parte non così trascurabile della scacchiera. E l'Italia deve cogliere al volo l'occasione (che potrebbe essere l'ultima) di un rinnovato impegno americano sul dossier libico per correggere l'attuale corso degli eventi la cui inerzia contrasta con i nostri interessi. "Con l'Italia faremo grandi cose". "Abbiamo bisogno dell'esperienza che l'Italia possiede sulla Libia", è quanto ha detto nei giorni scorsi il neo segretario di Stato Usa Rex Tillerson all'inviato del quotidiano "La Stampa" Paolo Mastrolilli. Un'apertura che fa ben sperare sull'intenzione degli Stati Uniti di andare nella direzione auspicata da Jason Pack e Nate Mason su Foreign Affairs. Washington si aspetta dall'Italia anche un aiuto concreto nella "gestione del dialogo con Putin". Al contrario di quanto si dice e si scrive, l'amministrazione Trump non sarebbe poi così disposta a cedere a Mosca sull'Ucraina...

Insomma, il governo italiano e le forze politiche che lo sostengono, con quel che abbiamo in gioco in Libia (e con la Russia), non possono permettersi un approccio meno che rispettoso e collaborativo nei confronti della presidenza Trump, che può rappresentare l'ultima nostra exit strategy dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati in Libia.