Fanno cadere le braccia, sono insopportabili, editoriali come quello di oggi di Mario Calabresi, dove tutte le argomentazioni sono piegate in funzione del mero posizionamento politico, direi persino personale dell'autore. Solo alla fine dell'editoriale si comprende dove vuole andare a parare con le sue arrampicate sugli specchi. In breve, distorcendo di qua, enfatizzando di là, Calabresi vuole dire che se D'Alema non dovesse riuscire a diventare ministro degli Esteri dell'Ue sarà a causa della «diffidenza americana» nei confronti dell'Italia (e non, caso mai, di D'Alema, che per l'impegno in Kosovo e per l'Unifil agli occhi di Calabresi passa per affidabile filoamericano, non curandosi di tutto il resto). E chi, secondo Calabresi, ha provocato questa «diffidenza» che ora si starebbe per ritorcere contro l'innocente D'Alema? Berlusconi, ovviamente, e indirettamente anche George W. Bush, con il suo uso della extraordinary rendition, che ha "costretto" il tribunale di Milano a condannare gli agenti Cia coinvolti nel caso Abu Omar, irritando così l'amministrazione Obama. E' colpa di Bush, è il contorto ragionamento di Calabresi, se oggi alla Casa Bianca sono «delusi» dall'Italia e per punirci ostacolano la nomina di D'Alema a Bruxelles.
Pazienza se questa pratica è stata introdotta da Clinton, e se Obama ha già deciso di continuare ad avvalersene. Certo, le condanne di Milano aprono un «capitolo spinoso» per Obama, che non può permettersi di avere in giro per l'Europa e per il mondo agenti timorosi e poco motivati. Ma il problema non è forse la procura di Milano, che ha testardamente continuato la sua crociata contro la guerra al terrorismo di Bush anche quando è emerso chiaramente che gli agenti Cia operavano con la piena collaborazione, e sotto la responsabilità, delle autorità italiane ai massimi livelli? Calabresi condanna «i comportamenti illegali dell'amministrazione guidata da Bush e Cheney», mentre con grande faccia tosta celebra l'America di Obama che «si impegna a non violare più i diritti civili in nome della sicurezza», quasi sorvolando sul fatto centrale che le extraordinary rendition continueranno anche con Obama.
Il procedimento, dovuto da parte della magistratura milanese, avrà «ripercussioni nelle relazioni tra i due Paesi», secondo Calabresi, che punta l'indice sul comportamento «confuso e ingiusto» della politica italiana. La Cia si muoveva all'interno di un quadro concordato con le autorità italiane nell'ambito della lotta al terrorismo, come dimostra il segreto di Stato opposto sia dal governo Berlusconi che dal governo Prodi. Incurante di questo non piccolo particolare - poiché in Italia vige l'obbligatorietà dell'azione penale, che si trasforma in arbitrio delle procure, le quali non rispondono ad alcuno del loro operato - la Procura è andata avanti. Ma a Washington sanno bene che il governo non può nulla sul potere giudiziario e saranno grati al governo che non inoltrerà mai richieste di estradizione. Dunque, quello della sentenza di Milano non è un colpo inferto ai rapporti politico-diplomatici tra Roma e Washington, quanto semmai alla collaborazione tra intelligence e forze dell'ordine nella lotta al terrorismo, e rende sia loro che noi un po' meno sicuri, come spiega il Wall Street Journal.
Non poteva mancare, poi, un riferimento alle divergenze tra Italia e Usa sui nostri rapporti con la Russia e la Libia. Ma si dimentica da un lato che è stato proprio Obama a spingere il famoso pulsante di "reset" con Mosca, dall'altro, che i rapporti tra Usa e Libia si sono ormai normalizzati. Riguardo il sostegno italiano ai progetti di gasdotti russi (North e South Stream) anziché al Nabucco, non si dimentichi che siamo in buona compagnia in Europa. Insomma, al di là del merito delle politiche del nostro governo (comunque bipartisan, avallate a suo tempo anche da D'Alema), si tratta di divergenze a mio modo di vedere spesso enfatizzate dai media. Non so se D'Alema ce la farà o no, né se Washington eserciterà delle pressioni contro questo o quel candidato (non credo proprio), ma una cosa è certa: come ha spiegato bene l'ambasciatore polacco a Bruxelles ieri, il problema di D'Alema si chiama D'Alema, il suo passato comunista e il suo record antiamericano e anti-israeliano, filo-arabo, filo-Hezbollah e filo-Hamas.
Contributo interessante invece è quello scritto a quattro mani da Emma Bonino e Marta Dassù per il Corriere della Sera, sul futuro delle relazioni transatlantiche. Avvertendo come un pericolo «lo spostamento degli equilibri globali verso l'asse transpacifico a spese di quello transatlantico», il cosiddetto G2 Usa-Cina, la tesi di Bonino-Dassù è che «gli europei abbiano ancora delle carte da giocare per restare nel gioco - se solo volessero. Se solo volessero, insomma, guardare a un G3». In fin dei conti, «l'area economica transatlantica resta, per ora, l'area più vasta, più ricca e più integrata del mondo», l'Europa è ancora una «potenza commerciale» e l'euro è forte, quindi «un G3 economico non è impossibile da immaginare».
Eppure per gli Stati Uniti, e per Obama (il primo presidente Usa «postatlantico»), l'Europa è sempre più marginale, rischia di ridursi a potenza regionale, magari legata a un rapporto preferenziale con la Russia. E' questo il rischio da scongiurare. E qui entra in gioco un rapporto dello European Council on Foreign Relations, secondo cui agli Usa di un'Europa «in ordine sparso non gli importa granché», non sanno che farsene. Per riconquistare le attenzioni e l'interesse di Washington serve un'Europa «post-americana», «l'Europa - così sintetizzano Bonino e Dassù - riuscirà a maturare, come attore internazionale, solo emancipandosi da un rapporto ancora troppo subalterno con l'altra sponda dell'Atlantico». Dunque, «l'autonomia come condizione per la rilevanza. E la rilevanza come condizione per salvare un'alleanza occidentale che dovrà essere meno squilibrata - e quindi più utile agli Stati Uniti - o non sarà più».
«D'accordo a grandi linee e in parte», si dicono Bonino e Dassù. E' vero, come osservano, che alcuni degli assunti sono discutibili (viviamo davvero in un mondo «post-americano»?), ma soprattutto si chiedono: «Si può dare per scontato che l'Europa non abbia più bisogno, in termini di sicurezza, della protezione americana?». Ma a me pare - da quanto riportano le due autrici, perché non ho letto il rapporto dell'ECFR - che proprio questo si chieda all'Europa: è finita da tempo l'epoca della Guerra Fredda, deve mettersi in grado di proteggersi da sola, senza l'aiuto dello zio Sam. Ciò significa meno assistenzialismo, meno welfare, e più spesa militare. Si può essere d'accordo o meno con questa richiesta, ma non far finta che non sia questa la questione sul tappeto se vogliamo avere un ruolo come Europa sulla scena mondiale futura. Altrimenti, possiamo decidere che ci va bene essere una potenza regionale dipendente dagli Usa, ma in questo caso scordiamoci di evitare un futuro da ruota di scorta.
«Come invito a pensare senza troppi tabù - ammettono Bonino e Dassù - il punto di partenza che ci viene sottoposto è utile». Ma non è solo utile, è anche il punto di arrivo: sia con Bush che con Obama gli Usa si sono stufati di un'Europa che chiede protezione, delega sui temi della sicurezza, vuole sentirsi «speciale», e poi si permette anche di criticare e fare la morale agli Usa. Poteva andar bene durante la Guerra Fredda, ma ora non più. L'Europa deve assumersi le proprie responsabilità se vuole che il rapporto transatlantico abbia un futuro. E ciò significa, care Bonino e Dassù, unione politica e spesa militare.
2 comments:
calabresi è stato molto ipocrita.
le signore, invece, diciamo ininfluenti.
come l'europa che, tapine loro, vorrebbero che esistesse!!!
ma non esiste, l'europa.
esiste la buroeuropa ma è un'altra cosa rispetto all'europa-nazione che, invece, latita.
perché gli usa sono "uno" così come la cina.
questa buroeuropa, al contrario, è un ircocervo deleterio e deteriore.
io ero tzunami
bisogna rivedere il funzionamento del segreto di Stato che troppo spesso serve a proteggere le deviazioni della nostra inelligence piuttosto che operare nell'interesse della sicurezza.
Verità e misteri della vicenda Abu Omar. Il nodo irrisolto del segreto di Stato
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